Terzo settore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Terzo settore e gentrificazione: una parola di chiarezza https://www.carmillaonline.com/2025/02/23/terzo-settore-e-gentrificazione-una-parola-di-chiarezza/ Sun, 23 Feb 2025 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87019 di Giovanni Iozzoli

Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, Carocci Editore, Roma 2025, pp. 148, € 17,00

Nel corso della sua travagliatissima storia, Napoli è stata spesso laboratorio di sperimentazioni sociali – quasi sempre nefaste, spesso ardite e anticipatorie – che hanno inciso sul corso del suo sviluppo e delle sue infinite crisi. L’elemento più dirompente che ha segnato la città, in questo ultimo trentennio, è stato sicuramente l’avvento del turismo di massa, potentissimo fattore di riorganizzazione dei flussi economici e degli assetti urbanistici. Non che Napoli fosse storicamente estranea ai movimenti turistici; ma essi non [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, Carocci Editore, Roma 2025, pp. 148, € 17,00

Nel corso della sua travagliatissima storia, Napoli è stata spesso laboratorio di sperimentazioni sociali – quasi sempre nefaste, spesso ardite e anticipatorie – che hanno inciso sul corso del suo sviluppo e delle sue infinite crisi. L’elemento più dirompente che ha segnato la città, in questo ultimo trentennio, è stato sicuramente l’avvento del turismo di massa, potentissimo fattore di riorganizzazione dei flussi economici e degli assetti urbanistici. Non che Napoli fosse storicamente estranea ai movimenti turistici; ma essi non avevano influito che in minima parte sui suoi equilibri complessivi. Oggi, collocata a pieno titolo come tappa immancabile dentro la topografia turistica euromediterranea, la città subisce il ritmo crescente della valanga umana che anno dopo anno ne investe il centro storico, alterandone finanche l’antropologia, le relazioni sociali e i rapporti di potere e di classe.

Luca Rossomando, coordinatore delle attività editoriali di Napoli Monitor – laboratorio di riferimento della ricerca storiografica e sociologica sulle trasformazioni metropolitane – offre con questo suo breve e succoso saggio, una profonda occasione di riflessione. La sua analisi non si limita alla descrizione fenomenologica dei processi – turistificazione e gentrificazione – quanto all’inquadramento dei soggetti reali che guidano o cavalcano l’onda sociale delle trasformazioni. In particolare, l’indagine si concentra su tre quartieri simbolo – delle retoriche del “degrado” e della “rinascita” – studiando minuziosamente gli attori sociali che in tali territori esprimono progettualità e protagonismo: enti del Terzo settore, associazioni, imprenditori privati, ong, fondazioni, figure nuove di governance che operano “sul crinale tra sfera pubblica e mercato”.

In pratica, l’enorme scombussolamento sociale della turistificazione, sta producendo sul campo una nuova cartografia di poteri, sottopoteri, progetti, gerarchie, flussi finanziari, in cui il ruolo del pubblico risulta sempre più ancillare. E siccome questi processi – dal “particolare al generale” – possono riguardare qualsiasi tessuto urbano, le storie che Rossomando racconta in questo saggio, sono decisamente di largo interesse, al di là della babele napoletana.

Nel 1995 il centro storico di Napoli è stato dichiarato “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO. […] Qui, nell’ultimo decennio, i valori immobiliari sono aumentati costantemente e gli affitti temporanei hanno progressivamente soppiantato le locazioni residenziali. In poco tempo sono nate una miriade di piccole e piccolissime imprese, attive in particolare nei campi dell’accoglienza turistica e della ristorazione. Dopo la flessione dovuta al Covid 19, la marea dei turisti ha ricominciato a crescere, portandosi rapidamente sui livelli pre-pandemici. Nel 2023, l’aeroporto di Capodichino ha registrato 12,4 milioni di passeggeri, il numero maggiore della sua storia, con un incremento del 14% sul 2019. Nello stesso anno il traffico crocieristico ha indirizzato verso il porto di Napoli più di un milione e mezzo di persone, con una crescita del 43% rispetto al 2022. Nell’aprile 2024 il totale degli annunci disponibili sulla piattaforma Airbnb ha sfiorato per la prima volta quota 10.000. (p. 12)

Chiaro che fenomeni sociali di queste dimensioni producono impatti altamente distorsivi: quello che era il centro storico più grande d’Europa, densamente abitato e vissuto dalla popolazione residente, sta assistendo alla rapida espulsione dei soggetti socialmente deboli – poveri, anziani, studenti –, all’impennata dei valori immobiliari, alla chiusura di botteghe e servizi che lasciano il posto alla catena infinita della piccola ristorazione che, metro dopo metro, ridisegna le strade e gli odori della città. Anche il mercato del lavoro cambia rapidamente: il segmento dell’impiego precario e malpagato, in qualche modo si struttura, diventa definitivo, elemento non emancipabile, ma necessario e indispensabile per reggere l’industria dell’offerta turistica.

E il quadro politico-amministrativo – in un territorio che storicamente ha espresso una fetta importante di ceto dirigente nazionale – come approccia questi fenomeni?

Negli anni di Gaetano Manfredi, eletto sindaco nell’ottobre del 2021, la “turistificazione” della città è stata assunta dai governanti come punto di partenza in funzione del quale rimodulare ogni intervento o prospettiva di futuro. […] Nei discorsi e documenti della giunta si è affermata, nella rituale formula per cui le istituzioni lavorerebbero per il bene dei cittadini, la consuetudine di affiancare al benessere di questi ultimi anche quello dei turisti, talvolta invertendo i termini delle priorità: le istituzioni a Napoli, insomma, lavorano per il benessere dei turisti, ma anche per quello dei cittadini, con tutte le conseguenze che questa inversione comporta. (p. 13)

Quando il turismo inizia a riversarsi sul centro cittadino, una pluralità di soggetti afferenti alla categoria “omnibus” del c.d. Terzo Settore comincia a leggere le potenzialità di questa dinamica. Si possono gestire pezzi di territorio turisticamente interessanti, magari proprio in quei rioni che godono di non buona fama; si può organizzare la grande rete dell’ospitalità diffusa; si possono intercettare risorse fresche per “riorientare” la vita dei quartieri difficili e proporsi alle istituzioni come promotori di legalità; si può godere di un ampio serbatoio di mano d’opera locale, giovane, debole e disponibile. Per fare questo, si rafforzano lo stigma e gli stereotipi sul degrado dei territori da “bonificare” e ci si propone come “risanatori” dei quartieri, mettendo in rete le risorse di diversi soggetti: la Chiesa – che è un enorme proprietario immobiliare –, le fondazioni bancarie, le grandi imprese sponsor, le tipologie associative di ogni ordine e grado. Dalla retorica del degrado alla retorica della legalità, questi nuovi attori sociali conquistano campo, nella sottomessa passività del pubblico.

Questo ridisegno della mappa dei poteri e del dinamismo economico, va inquadrato dentro la più generale tendenza italiana, negli ultimi trent’anni, a esaltare il “privato sociale” e il principio di sussidiarietà. Secondo questa lettura il Terzo Settore si presenta come alternativa efficiente e democratica, rispetto allo Stato “burocratico e sprecone”. A Napoli, questo nuovo tipo di impresa – “del bene”, come suggerisce con amara ironia il titolo –, ha marciato con vigore, scoprendo spazi di valorizzazione e rafforzando giorno per giorno una sua propria narrazione: davanti al degrado, solo noi – società civile – siamo in grado di porre un argine e trasformare in oro la miseria sociale. Rossomando descrive attraverso una puntuale ricognizione dei progetti, dei soggetti e del loro rapporto con gli abitanti dei quartieri, l’azione di questi enti del Terzo settore, distinguendoli per risorse disponibili e velleità.

Le retoriche del Terzo Settore, si sono per anni sviluppate grazie ad una politica compiacente, ad un giornalismo servile, alla creazione di un clima generale che accreditava queste narrazioni. L’autore cita a mo’ di esempio un servizio televisivo di prima serata, in cui le attività di queste imprese napoletane, vengono sobriamente definite: “straordinaria esperienza di autogoverno civico”, “fabbrica del welfare sorta interamente su iniziativa e con risorse private”, “gemme di riformismo visionarie che fioriscono dove uno meno se le aspetta”.
Ma al di là del racconto entusiasta, quali sono i risultati concreti di questa ventennale discesa in campo del privato-sociale?

Questi enti operano da anni, talvolta da decenni, nei quartieri che descrivono al pubblico, agli sponsor, ai visitatori presenti e potenziali. Essi parlano di diseguaglianze, analfabetismo, disoccupazione, violenza, in modo così accalorato da far sorgere spontanee alcune domande: le loro iniziative hanno influito in qualche modo su queste criticità? Hanno prodotto miglioramenti apprezzabili? E quali? E quindi: è possibile identificare dei parametri validi per misurare l’efficacia del loro intervento? Si tratta di domande cruciali, perché poi con il passare degli anni, nuovi bandi vengono indetti da fondazioni private e amministrazioni pubbliche, nuovi sponsor decidono di scendere in campo per sostenere l’intervento sociale e culturale, e allora gli enti del terzo settore progettano nuove iniziative e, per partecipare ai bandi o attirare gli sponsor, ripropongono le narrazioni di cinque, dieci, quindici anni prima: il quartiere ghetto, il degrado, la disgregazione sociale e così via… (p. 131)

Questo piccolo saggio andrebbe adottato nelle facoltà di sociologia (almeno a Napoli!) come strumento di conoscenza e agenda di lavoro. Perché questa è proprio l’epoca in cui si vanno ridimensionando, con sempre più decisione, le risorse e gli strumenti di intervento pubblico che dovrebbero garantire i livelli minimi di tenuta dei diritti costituzionali. Rossomando mette quindi il dito dentro un nodo tutto politico, doloroso e attualissimo, del nostro presente. Più in generale, al di là del quadro napoletano, questo libro parla del potente ciclo neoliberale, delle sue egemonie, delle sue prassi, della sua ideologia sempre più incombente: l’impresa si fa “sociale”, il capitalismo si fa “green”, lo Stato si fa “leggero”. Quello che persiste è la riduzione alla misura del profitto di ogni attività, speranza e aspettativa umana.

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Le gang dei “minori stranieri”: teppisti o nuovo soggetto operaio? https://www.carmillaonline.com/2022/09/28/le-gang-dei-minori-stranieri-teppisti-o-nuovo-soggetto-operaio/ Wed, 28 Sep 2022 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73735 di Emilio Quadrelli

“La violenza è intesa così come la mediazione principale. L’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza”. (F. Fanon, I dannati della terra)

La “grana” era nell’aria da tempo, che la “questione dei minori stranieri non accompagnati” dovesse prima o poi esplodere era solo questione di giorni. Di ciò ne erano perfettamente consci almeno chi, come chi scrive, ha quotidianamente a che fare con questi mondi. Quanto accaduto a Genova di recente nel quartiere del Molo ha, pertanto, ben poco di sorprendente. I fatti sono abbastanza semplici [...]]]> di Emilio Quadrelli

“La violenza è intesa così come la mediazione principale. L’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza”. (F. Fanon, I dannati della terra)

La “grana” era nell’aria da tempo, che la “questione dei minori stranieri non accompagnati” dovesse prima o poi esplodere era solo questione di giorni. Di ciò ne erano perfettamente consci almeno chi, come chi scrive, ha quotidianamente a che fare con questi mondi. Quanto accaduto a Genova di recente nel quartiere del Molo ha, pertanto, ben poco di sorprendente. I fatti sono abbastanza semplici e li riportiamo per sommi capi.

In questo quartiere è stata aperta una struttura, con ventidue posti letto, per “minori stranieri non accompagnati”, questi ragazzi hanno dato forma a micro gang e a coeve attività di piccola criminalità; attività che, in alcuni casi, hanno preso di mira gli abitanti del quartieri i quali, in maniera abbastanza rumorosa, ne hanno chiesto l’immediato allontanamento. Essendo in piena campagna elettorale questi episodi hanno fornito un ghiotto assist per quelle forze politiche, come la Lega, che della lotta all’immigrazione ne hanno fatto un autentico brand.

In realtà, a uno sguardo un poco più attento, il dilagare di questo fenomeno non è circoscrivibile ai soli immigrati in quanto il proliferare di gang, non necessariamente etnicamente declinate, è un fenomeno che conosce una certa diffusione tanto che non è infrequente il formarsi di gang che associano nazionalità diverse, autoctoni compresi. Le denunce di alcuni autisti dell’AMT sulla difficoltà di lavorare, in seguito alla presenza molesta di queste gang, in orario seriale su alcune linee periferiche non focalizza l’attenzione su questa o quella nazionalità ma sulla presenza di bande minorili le quali, una volta salite sul bus, ne combinano un pò di ogni colore.

Di fronte a questo fenomeno, evitando tanto le retoriche xenofobe e razziste, tutte incentrate sul “sicuritarismo”, quanto quelle “buoniste”, tutte comprese all’interno dello “educazionismo in permanenza”, appare non solo utile ma opportuno provare a leggere questo fenomeno come un vero e proprio specchio di una realtà sociale la cui scomodità è tale da essere costantemente ignorata. Partiamo, pertanto, dalle condizioni di vita materiale dei “minori stranieri non accompagnati”.

Le cosiddette politiche dell’accoglienza non è che in questo paese abbiano mai brillato ma dall’aprile 2017, in seguito al Decreto Minniti – Orlando, hanno conosciuto più che un peggioramento un sostanziale azzeramento. Le risorse per i “minori stranieri” sono state pressoché dimezzate e le strutture deputate a ospitarli trasformate in un parcheggio, all’interno del quale è assente ogni progettualità, in attesa del compimento del diciottesimo anno di età.

Assai di frequente, per di più, l’inserimento dentro una di queste strutture avviene al termine di un periodo “avventuroso” nel quale il minore è alloggiato in un albergo convenzionato dove usufruisce unicamente di un bonus pasto per il mezzogiorno, da utilizzare in una qualche “mensa per poveri”, mentre per tutto il resto deve sbrigarsela da solo. Questa condizione, in non pochi casi, si protrae per mesi, mesi nei quali il minore non ha molte scelte, se non l’approdo a un qualche ambito della microcriminalità, per sopravvivere.

Da non ignorare, inoltre, il frequente attraversamento dei mondi della prostituzione. Questo non deve stupire poiché, come raccontano le statistiche, il nostro paese primeggia nell’apposita classifica del turismo sessuale. Trovarsi proprio sotto casa una non secondaria scelta di “frutti esotici” a non pochi bravi cittadini deve apparire come una vera e propria manna. Paradigmatico al proposito il “caso Don Seppia”, un parroco genovese particolarmente sensibile alle problematiche dei “minori difficili”, risultato a capo di un giro di prostituzione minorile dove, neanche a dirlo, la presenza di minori stranieri rasentava maggioranze bulgare. Il redditizio mondo della pedofilia trova nella figura del minore straniero un ambito di reclutamento quanto mai prospero e, ricordando la famosa asserzione di Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca”. Chiuso questo drammatico inciso proseguiamo.

La situazione di abbandono e indigenza non cambia di molto una volta che, i minori, approdano in una qualche struttura. Dal Decreto Minniti – Orlando in poi abbiamo assistito a un radicale mutamento degli istituti deputati a accogliere i “minori stranieri non accompagnati”. A fronte delle corpose riduzione delle rette le varie Associazioni e Consorzi del Terzo settore hanno risposto raddoppiando la capienza. Strutture pensate e progettate per dodici persone hanno repentinamente scoperto di poterne accogliere venti – ventiquattro, ma non solo.

Ciò che ha caratterizzato il Terzo settore in questi anni è stata la drastica ristrutturazione della forza lavoro. Da un lato, mentre il numero dei minori raddoppiava, il personale veniva quasi dimezzato ma non solo. Il Terzo settore cessava di assumere dipendenti e quindi personale qualificato poiché, a norma , chi lavora con i minori deve essere un “Educatore professionale” con tanto di laurea, per lavorare sopratutto con le partite IVA. In pratica, per lavorare nel Terzo settore, occorre aprirsi una partita IVA e, una volta diventati “lavoratori autonomi” è possibile “collaborare” con una Associazione, Consorzio ecc., senza dover mostrare alcun titolo. Ciò per l’industria del Terzo settore comporta vantaggi enormi. Le partite IVA sono pagate dieci Euro l’ora, dal quale ovviamente loro devono detrarre tasse e contributi, non hanno diritto a mutua, ferie e tredicesima, percepiscono la stessa retribuzione sia nei giorni feriali che festivi, per loro non vi è alcuna distinzione retributiva tra il diurno e il notturno e, in più, non hanno limiti di orario. Capita non di rado che, le partite IVA, accettino di fare turni da ventiquattro e persino da trentasei ore consecutive correndo da una struttura all’altra. Nei casi in cui non vi fossero partite IVA disponibili, il Terzo settore utilizza il “lavoro a chiamata”.

Il personale che ha a che fare con i minori vive una condizione di ipersfruttamento, precarietà e marginalizzazione sociale che, a ben vedere, lo rende non troppo dissimile dai minori stessi. Alla luce di ciò non ci vuole molto per comprendere il tratto infernale che fa da sfondo al mondo dei “minori stranieri non accompagnati”. Questa la breve disamina delle strutture deputate a prendere in carico i minori, una disamina che ha ben poco di particolare, di nicchia o che altro ma che, in tutto e per tutto, ha i tratti propri della eccezione in senso schmittiano. La veste del lavoro dipendente sotto forma di partita IVA sta diventando la moneta corrente in non pochi ambiti produttivi. Nella logistica e nell’edilizia, tanto per fare i primi esempi che vengono a mente, sono ormai una pratica abituale e ampiamente diffusa.

Ma torniamo ai nostri minori. Ciò che va compresa è la realtà degli attuali flussi migratori.
Quanto crisi, pandemia e guerra hanno comportato in contesti dove povertà e miseria erano già ampiamente presenti. non è difficile da immaginare. Siamo veramente, e fuor di metafora, di fronte ai dannati della terra; da qui occorre partire se vogliamo provare a leggere quanto, con sempre più frequenza, farà parte dell’ordinario scenario metropolitano. Solo a partire da una lettura del colonialismo e della sua attualizzazione possiamo sperare di trovare una via di uscita da ciò che, sempre più, si prospetta come una “guerra civile” dai connotati indecifrabili.

Esattamente qua nascono non pochi problemi. Per molti versi le gang giovanili hanno ben poco di nuovo tanto che, su queste, esiste una fiorente bibliografia sociologica soprattutto di stampo anglosassone ma, senza spingerci a tanto, basti pensare al proliferare, soprattutto negli anni sessanta e primi settanta, di gang giovanili nel nostro paese. Anche in quel caso, seppur in toni minori, la componente coloniale non era secondaria visto che non poche di queste gang erano formate da giovani provenienti dalla nostra colonia interna.

Le tante “coree” presenti nelle aree metropolitane che altro erano se non quartieri coloniali? Le assonanze, però, finiscono qua poiché quei territori coloniali erano anche e soprattutto quartieri operai dove veniva confinata la nuova classe operaia della grande fabbrica fordista di cui il ciclo di accumulazione capitalista aveva un vorace bisogno. In linea di massima tra l’identità del colonizzato e quella operaia finì con il prevalere la cornice operaia dove l’odio e la rabbia del colonizzato trovarono una non secondaria sistematizzazione.

Esattamente dalla sintesi operaio – colonizzato prese forma la “linea di condotta” di quella “sinistra operaia” che non pochi problemi diede al comando e alle sue articolazioni. Non solo la fabbrica, ma il carcere, la scuola, i quartieri per arrivare all’università furono scompaginate dal fare barbaro della nuova classe operaia. Il colonialismo cede solo con il coltello alla gola, ed esattamente su ciò si conformò l’agire della “sinistra operaia”. Centrale, in tutto ciò, fu il felice connubio, per quanto non protrattosi per molto, tra la nuova composizione di classe e un non secondario ceto politico – intellettuale. In altre parole è stato grazie alla saldatura tra movimento e nuova composizione di classe che, in non pochi casi, gli stessi comportamenti delle gang giovanili trovarono sia uno spazio che una sponda dentro l’orizzonte della rivoluzione.

A Genova, per rimanere nell’ambito urbano dal quale il testo ha preso le mosse, è stato grazie a Lotta Continua se in quartieri come Oregina – Lagaccio, Ravecca – Sarzano e Val Bisagno queste bande giovanili hanno trovato uno sbocco politico perché, cosa che i più sembrano dimenticare, le masse hanno soprattutto fame di politica. Questo, non per caso, è ciò che ricorda Lenin ai menscevichi mentre questi sono del tutto presi nelle battaglie per il copeco. Ma la fame di politica delle masse non la si soddisfa attraverso dotte risoluzioni, seminari affini all’erudizione o stantie liturgie prone alla gloria che fu, la fame politica delle masse trova la sua soddisfazione nella prassi.

Ben difficilmente, se Lotta Continua non fosse stata la formazione maggiormente avvezza allo scontro di piazza, alla contrapposizione violenta a padroni e polizia avrebbe avuto modo di entrare in relazione con le gang giovanile. Lotta Continua offriva una pratica e una prospettiva di lotta sul terreno del potere politico, questo il terreno che le gang giovanili fecero, almeno in parte, proprio. Quel mondo è tramontato e, sotto quelle vesti, nulla è in grado di riportarlo in vita. Le trasformazioni capitaliste hanno rimodellato per intero i mondi sociali e la classe ha connotati che ben poco ha a che vedere con ciò che ci siamo, ormai da tempo, lasciati alle spalle. Tuttavia, per quanto profondamente modificata, la classe non si è estinta ha solo cambiato pelle. Ed è esattamente su questa pelle che occorre ragionare e, con ciò, torniamo ai nostri minori stranieri.

Il loro destino ha ben poco di esotico ma sintetizza al meglio la prosaica condizione di quote di proletariato e classe operaia tendenzialmente maggioritarie anche all’interno dei nostri mondi. Sotto questa luce, allora, i minori stranieri non sono altro che una vicenda a mezzo tra una storia del presente e una storia del nostro immediato futuro. Per condizione incarnano al meglio quella tipologia operaia dequalificata e estremamente flessibile della quale l’attuale ciclo di accumulazione ha estremamente bisogno.

In una città come Genova, dove turismo, movida, edilizia e logistica sono tra le principali attività produttive, i minori stranieri sono l’esatta incarnazione di questo nuovo soggetto operaio. Sono loro che, limitando lo sguardo al turismo e alla movida, forniscono la principale mano d’opera per bar, ristoranti, alberghi, locali di intrattenimento o si occupano della pulizia di questi locali passati al vaglio della inesauribile “gioia di vivere” del cittadino. Per altro verso sono loro a occuparsi di tutti quei “bisogni illeciti”, come sesso a pagamento e droga, di cui i cittadini sono particolarmente ingordi. In altre parole turismo e mondo del divertimento poggiano per intero sul lavoro di questa classe operaia. Per cogliere questa realtà non occorre vantare particolari sensibilità sociologiche, è sufficiente non essere, volutamente, ipovedenti. Esattamente qua si coglie la distanza tra movimento e classe.

Certo questa è una classe che non ha nulla di “comunista” ed è del tutto estranea alle retoriche del movimento ma, del resto, anche la classe operaia degli anni sessanta e dell’autunno caldo aveva ben poco di “comunista” tanto che i comunisti, con tanto di partito e sindacato, bollarono a più riprese questo nuovo soggetto operaio come teppista se non addirittura fascista. Retoriche non troppo dissimili vengono utilizzate oggi verso i minori stranieri mentre, al contempo, si rincorre il mitologema della classe operaia che fu. Come si vede, per certi versi, nulla di nuovo sotto il sole!

In effetti i minori stranieri hanno ben poco di “comunista” in quanto il loro orizzonte più che essere animato dalla critica della merce è ossessivamente posseduto dalle merci e dai suoi immaginari tanto che, parafrasando Marx, si potrebbe tranquillamente asserire che: “La merce è l’oppio dei popoli” senza dimenticare che, in contemporanea, “La merce è (anche) il gemito degli oppressi”. Con ciò, però, una qualche assonanza con la vecchia “sinistra operaia” riemerge. “Più soldi e meno lavoro”, “Cosa vogliamo? Vogliamo tutto”, non erano, almeno secondo i rituali e le liturgie ortodosse, programmi molto “comunisti”.

Sullo sfondo di questi programmi più che il “sol dell’avvenire” (continuamente posticipato in un futuro imprecisato), vi era il qui e ora del bisogno operaio, vi era l’accesso alla ricchezza e la liberazione dal giogo del lavoro. Nella loro pratica i minori stranieri non sembrano differenziarsi di molto da ciò e, sulla base della semplice esperienza, hanno compreso che tutto ciò non può che darsi dentro uno scontro di potere. Tutto questo trova una qualche sponda nel movimento? Se escludiamo il Si.Cobas e pochissimo altro, non troviamo realtà che possano vantare un qualche rapporto reale con la classe.

La cesura tra movimento e classe assume tratti persino imbarazzanti ed è una cesura la quale ha ben poco di ideologico e/o politico ma affonda le sue radici interamente dentro a una condizione materiale. Per comprenderlo basta osservare una qualunque sera della movida. Sarà facile, infatti, vedere il movimento agitarsi con “fare desiderante” tra i vari locali dell’intrattenimento e del divertimento mentre i giovani stranieri sono confinati nei retrobottega a preparar loro cibi e bevande così come sarà altrettanto facile osservare gli antagonisti richiamare l’attenzione di un qualche giovane straniero al fine di rifornirsi dell’immancabile kit di sostanze che, nel rituale del fine settimana, non può mai mancare. All’alba, infine, tutti tornano a casa solo che il movimento vi torna in auto, moto o scooter i giovani stranieri in autobus o bicicletta.

In tutto ciò, come appare chiaro, non vi è nulla di ideologico ma l’emergere di una situazione materiale obiettivamente incommensurabile. Questa distanza non è altro che il frutto maturo del colonialismo il quale, nel mondo globalizzato, è stato bellamente importato dentro i confini del vecchio Primo mondo e ha ridefinito per intero i rapporti tra le classi. Dentro questo scenario è obbligatorio imparare a stare, assumendo per intero la questione della “bianchità” e tutto ciò che si porta appresso. Non farlo significa rinunciare a cogliere l’elemento di rottura che la nuova classe operaia incarna ma non solo. Non farlo significa consegnare alle sirene “fondamentaliste” la richiesta e il bisogno di politica che queste masse portano in seno della quale il “teppismo” ne è semplice incarnazione fenomenica. Un aspetto che, chi scrive, ha potuto osservare in presa diretta.

Ragazzi del tutto estranei a qualunque retorica religiosa e per molti versi iper-occidentalizzati (la completa adesione alle mode giovanili occidentali non è un aspetto trascurabile poiché indica l’adesione e il desiderio di appartenere a un determinato “stile di vita” e ai consumi che questo si porta appresso), nel momento in cui si sono resi conto che la servitù è l’unico destino che l’occidente ha in serbo per loro, hanno ri/scoperto la religione non tanto come ambito di preghiera, bensì di lotta. Per questo motivo, la questione dei “minori stranieri”, ha ben poco a che vedere con la devianza, la criminologia, l’antropologia cultura e amenità simili ma è interamente una questione politica anzi, con ogni probabilità, racchiude il cuore del “politico” contemporaneo.

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Luca Rastello e le parole https://www.carmillaonline.com/2015/09/05/luca-rastello-e-le-parole/ Sat, 05 Sep 2015 21:17:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24960 di Franco Pezzini 

---_00006bisQualche settimana fa il vecchio amico Cino spediva copia di un mazzetto di foto in bianco e nero: vi appaiono un gruppo di ragazzi in Val Soana nel Canavese, una casa di montagna (un triangolone con un piccolo patio, sedie, chitarre) e qualche scorcio della zona. Foto – mi dice – risalenti al ‘79, e che forse un tempo avevo visto, considerato che figuro tra i soggetti; e che ora, ad aprirne i file, mi strozzano qualcosa in gola.

Quando un personaggio di pubblica notorietà scompare, è sempre forte il rischio e magari la tentazione protagonistica dell’ “Io [...]]]> di Franco Pezzini 

---_00006bisQualche settimana fa il vecchio amico Cino spediva copia di un mazzetto di foto in bianco e nero: vi appaiono un gruppo di ragazzi in Val Soana nel Canavese, una casa di montagna (un triangolone con un piccolo patio, sedie, chitarre) e qualche scorcio della zona. Foto – mi dice – risalenti al ‘79, e che forse un tempo avevo visto, considerato che figuro tra i soggetti; e che ora, ad aprirne i file, mi strozzano qualcosa in gola.

Quando un personaggio di pubblica notorietà scompare, è sempre forte il rischio e magari la tentazione protagonistica dell’ “Io lo conoscevo bene”. E d’altra parte quanto più una vita è stata ricca, quanti più fronti ha incalzato, tante più voci possono testimoniarne senza pretendere di esaurire (o lottizzare) il ritratto: una precisazione e un’urgenza di understatement che, sia pure dopo una confidenza di quarant’anni, mi paiono necessarie nel parlare di Luca. La cui morte all’inizio di luglio ha fatto moltiplicare articoli sui giornali e sul web a memoria della sua statura di giornalista, scrittore e militante di un sociale su cui non ha mai smesso di ragionare con rigore e libertà: e rinvio per esempio, senza pretese di completezza, a quanto scritto da Lorenzo Fazio, Goffredo Fofi, Carlo Greppi, Nicole Janigro e Claudio Mercandino. Ma per quanti di noi hanno goduto la fortuna di un’amicizia con lui (anche se poi per lunghi periodi non riuscivamo a vederci) era chiaro come il Luca Rastello “pubblico” sorgesse dall’eccezionale latitudine di interessi e curiosità nutrite fin da ragazzo, e che conoscevamo bene. Da un senso di giustizia e un rigore intellettuale accompagnati a un’esplosiva fantasia; da un senso della bellezza, una gioia di condivisione anche conviviale – mangiare e bene insieme, mentre detestava la mondanità delle feste; e da tutta quella passione per la vita che ha contribuito a fargli tenere testa per dieci anni a un tumore spaventoso, al di là di qualunque previsione medica.

 

“Invano negheremmo che fin d’ora sentiamo quella stretta al cuore, quella dolce inquietudine, quel sacro timore che precede i momenti estremi. Ben presto ci mancheranno nella tavolozza i colori e nell’animo la luce per apporre i più alti accenti, sottolineare i più luminosi e ormai trascendentali contorni di questo quadro.

Che è mai quest’epoca geniale e quando fu?

Qui siamo costretti a divenire per un istante totalmente esoterici, come il signor Bosco di Milano, e a ridurre la voce a un penetrante bisbiglio. Dobbiamo punteggiare i nostri argomenti con sorrisi ambigui e, come una presa di sale, frantumare sulla punta delle dita la delicata materia delle cose imponderabili. Non è colpa nostra se a volte avremo l’aspetto di quei venditori di tessuti invisibili che mostrano con gesti ricercati la loro merce fasulla”.

Bruno Schulz, Il libro, in: Le botteghe colori cannella, Einaudi 1970, pagg. 98-99.

 

Nell’esistenza di ciascuno di noi si possono forse distinguere un’età del mito in cui forgiamo le nostre categorie e parole-chiave – le scoperte presentano qualcosa di magico e irripetibile, le giornate hanno lunghezza mitologica tanto da ricordarle a distanza d’anni – e un’età della storia che vede il tempo farsi breve e i giorni incalzare d’incombenze: e chi abbia la fortuna di condividere la prima, non solo (banalmente) cresce insieme, ma può meticciare idee e fantasie con un’intensità in prosieguo sconosciuta. Una persona come Luca – di cui rifiuto di dipingere un santino, perché gli voglio bene anche proprio nei suoi umanissimi limiti e difetti – e che in qualche misura ha davvero cambiato la vita di chiunque venisse a contatto con lui, tanto più ha segnato noi in quella nostra età del mito: fino a individuare nell’incontro con lui (lo dico senza sbavature retoriche, e anzi nella messa a fuoco più lucida di questi due mesi dalla morte) uno dei momenti-chiave della nostra esistenza. Con il pudore del caso, e tra la messe dei ricordi mi limito qui a qualche spigolatura, forse utile ad arricchire la conoscenza del Luca “pubblico”.

La nostra amicizia risale al ’76, tra le aule del liceo classico D’Azeglio di Torino. Siamo in quinta ginnasio, e la terribile insegnante di lettere ritiene di contenere il pericoloso sovversivo dell’MLS (Movimento lavoratori per il socialismo, lì pochi esponenti in una variegatissima galassia di sinistra) piazzandogli accanto un allievo tranquillo, appunto il sottoscritto. La simpatia nei confronti del compagno di banco tanto diverso da me, che frequenta uno strano mondo, il martedì (giorno di lezione più pesante) sparisce a dormire in aula delegati ed è un vulcano di sogni, mi garantisce un abbassamento del voto di condotta e un anno magnifico di risate e fantasie condivise (mi trasmette anche la rosolia, convinto trattarsi del postumi cutanei di panini alle acciughe – e passo malato tutte le vacanze di Pasqua); anche se poi l’insegnante ritiene di fargli un favore rimandandolo a settembre e, nonostante sia preparato, bocciandolo in quella sede. Ma nella classe dove va a finire – e con cui condividiamo parecchio anche fuori scuola – Luca incontra una ragazzina con le stelline negli occhi, la futura moglie Monica, avviando un sodalizio d’affetti e intellettuale di tutta la vita, persino oltre i limiti della separazione degli ultimissimi anni.

Come proprio Monica racconta, i compagni assistono basiti alle performance di questo vivacissimo alieno che legge Urania sotto il banco e, chiamato dall’insegnante (per fortuna più mite della precedente) a tradurre qualche passo di greco, sa improvvisare efficace e spedito. L’arrivo al triennio e al ben diverso clima di soddisfazione che ciò comporta, con un gruppo di professori grandissimi sul piano intellettuale come umano, in classi dove il clima è vivace, e in una scuola in cui anche fuori orario può sempre incontrarsi qualche gruppo riunito a discutere di politica o di letteratura, segna il fiorire anche di Luca. La fascinazione (poi divenuta continuo ritorno) nei confronti dei classici e del mito/parola importante, che in futuro offriranno respiro alla sua stessa opera, trovano in quel clima la loro radice.

Certo, sono anche gli anni di piombo, con tutto ciò di tormentato e drammatico che l’epoca comporta: e di un po’ tutto il quadro di quell’adolescenza e delle ricadute (personali e sociali) in prospettiva, attraverso pagine terribili o buffe, strazianti o avventurose, Luca stesso restituirà un efficace affresco tanto tempo dopo nel grande romanzo di formazione Piove all’insù, Bollati Boringhieri 2006. A partire dal licenziamento della donna amata il narratore recupera i fili del proprio passato, di un rapporto con lavoro e libertà che corre tra i sogni degli anni Settanta e gli incubi del nuovo millennio. In un tessuto di dolorosa compattezza, rivede il rapporto coi genitori fino ai tumori che li colpiscono – al tempo della scrittura lui stesso lo sta incubando a sua insaputa – e alla morte; rivede l’impegno politico, l’amore e il sesso. E l’uscita del libro dopo una lunga gestazione, quando la chemioterapia gli ha già spelato il viso, farà trovare un’impressionante consonanza con le meditazioni lì espresse.

La versione finale di Piove all’insù ha comprensibilmente tagliato molto del materiale via via raccolto per la stesura e presente nelle prime bozze: ma proprio nella capillare opera di ricostruzione di un’epoca appare qualcosa d’interessante a proposito del modo di lavorare di Luca. Che non si limita a uno scavo nella memoria, ma interpella decine di testimoni, a volte attraverso complesse ricerche di conoscenti di un tempo (gente sparita, da recuperare nei modi più sghembi) che lo aiutino a ricostruire il quadro: ed ecco il giornalista. Ma offrendo il tutto – ecco il romanziere – entro una struttura narrativa forte, con un linguaggio visionario e vertiginoso di echi. Certo Luca distingue con nettezza professionale i due ruoli (sul tema occorrerà tornare a proposito del suo incandescente I buoni); ma, sulla base di tale chiarezza fondamentale, con la libertà del romanzo può attingere a tutte le potenzialità della cronaca. Un rigore di verità che non si consuma mai nella provocazione facile (tengo a dirlo, proprio dopo le polemiche sul suo testo più discusso), ma cerca il nocciolo critico iniziando da ambiguità ed errori di chi parla, anzi dello stesso narratore. Qualcosa che suggerisce l’importanza di rileggere le sue opere a coglierne come in progressive ondate le implicazioni: non certo esoteriche visto che il tenore è limpidissimo, ma tanto fertili di spunti.

Chi sia poi interessato a studiare sul piano filologico il lessico da lui utilizzato in Piove all’insù avrà qualche sorpresa, ravvisando per esempio una serie di echi dalle antiche fonti alchimistiche. Da lui studiate con lo sguardo dello studioso di filosofia, a coglierne gli echi di una chimica personale e sociale nel matraccio di un mondo in ebollizione.

Luca e Monica 1988Le caratteristiche magmatiche della sua scrittura echeggiano in effetti quelle della sua lettura: Luca è, fin dagli anni verdi, un lettore voracissimo ed eclettico. Sicuramente non per onanismi culturaloidi che non gli appartengono, ma per puro, gioioso e inesauribile piacere e curiosità. Terminato il liceo, per alcuni anni gli ex-compagni si trovano per esempio, una sera alla settimana, a leggere ciascuno per gli altri (spesso in base a una sfida tematica) l’assaggio di un libro: una condivisione non certo seriosa ma che muove fantasie, contamina i linguaggi e suscita discussioni. E le scelte/“scoperte” di Luca (vero animatore e fondatore dell’iniziativa), i suoi libri-base con passi che anche ora mi echeggiano dentro mentre scrivo, resteranno sullo sfondo delle sue opere.

Penso in particolare agli autori dell’est, a partire da un fronte boemo che l’affascina e di cui studia la lingua. A metà degli anni Ottanta, sull’onda di una passione nutrita di letture de Il buon soldato Švejk e di Ripellino, Luca parte da solo per un’immersione in Praga; e L’indice, su cui ha già pubblicato qualcosa, ospita in seguito il resoconto di una sua avventura in una bettola locale. La penna del vecchietto seduto al tavolo accanto ha smesso di funzionare: Luca gli presta la sua e riesce così a conoscere l’inavvicinabile Hrabal. Una decina d’anni più tardi, quando con un coordinamento di operatori umanitari parteciperà a una serie di pericolose azioni di salvataggio di nuclei familiari bosniaci dall’inferno della guerra nella ex-Iugoslavia, i profughi restano stupiti che la lingua italiana sia tanto somigliante alla loro: il fatto è che Luca li avvicina con il linguaggio più simile che conosca, appunto parlando in ceco.

Anche se, via via, studia altre lingue di quell’orizzonte. E dalle (varie) letterature si allarga da un lato alle dinamiche storiche e geopolitiche dell’est, fino a diventare un riconosciuto esperto di cose balcaniche; dall’altro a un dialogo diretto e concretissimo con i figli di quelle culture. Provvedendo alle necessità dei profughi e alla loro durevole ospitalità, sia attraverso l’azione nel coordinamento torinese che ha contribuito robustamente a tirar su (una realtà autonoma da opacità istituzionali, e sostenuta da una rete di amici), sia con la concreta messa a disposizione di tempo e beni, ospitandoli per anni nella casa di montagna. E affrontando perciò in zona sospetti, ostilità e veleni.

Per capire La guerra in casa, il suo primo libro edito da Einaudi nel 1998, occorre tenere presente tutto questo. Un libro – è stato osservato – dove Luca usa una struttura originalissima, alternando lucide schede storico-politiche sugli eventi della guerra nell’ex-Iugoslavia a testi tra cronaca e narrativa, racconti di profughi in Italia, brutte storie di missioni umanitarie, leggende e strumentalizzazioni del rapporto tra il Bel Paese e terre tanto vicine ma tanto drammaticamente distanti. Con l’urgenza per il narratore, idealmente proprio alla scuola degli autori dell’est, di mantenere alle parole il loro peso specifico al di là del logorio mercificato dell’utilizzo occidentale – all’epoca dell’uscita del libro, e tanto più nel teatrino dell’oggi. Sul tema dei profughi Luca tornerà ancora a distanza di anni con La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza 2010.

Luca 1990 presentazione OARNel corso degli anni il giornalista Luca scriverà per varie testate – Diario, D-Donna (per cui compone memorabili reportage, che andrebbero riproposti) e Repubblica – oltre a dirigere Narcomafie e L’indice. Ma mi piace ricordare che a una prima rivista lavora – e anzi la fonda – già a metà degli anni Ottanta: proprio a partire dalle serate di lettura, e sulla base del fatto che nel nostro piccolissimo un po’ tutti produciamo (scrittura, disegni), emerge la sfida di un magazine – uso volutamente il termine in assonanza a magazzino – a nostro uso. Ha un titolo alchemico puramente augurale, L’Opera al Rosso; e in effetti dopo un paio di numeri, sempre grazie soprattutto a Luca, cambia natura riuscendo a entrare nel bel catalogo di riviste edite al tempo dalla genovese Marietti. Anche la struttura è in gran parte frutto della fantasia di Luca. All’interno di percorsi monografici, gli articoli saggistici, i racconti e la grafica sono collegati tramite un sistema di schede che fungono da connettivo: i redattori – cioè noi – garantiscono queste ultime e le traduzioni, mentre i materiali principali sono forniti da autori noti (da Pietro Barcellona a Luperini, da Adonis ad Abdelfattah Kilito, Etienne Balibar e molti altri), che si prestano gratis al sogno di un gruppo di giovani. Escono in realtà due soli numeri, veri e propri volumi (Gerarchie tassonomie classificazioni, 1990; Fra senso comune e consenso, 1992) e un terzo è pronto quando la Marietti decide di fare piazza pulita di gran parte delle proprie riviste, compresa ovviamente la nostra. Il modello principale di Luca era in realtà il vecchio, leggendario Carte segrete degli anni Sessanta: e solo poco prima di morire riuscirà ad acquistarne sul mercato antiquario alcuni numeri. Un doppione me lo regalerà in uno dei nostri ultimi incontri, e lo conservo con gelosia.

 

“[…] disse Švejk: – Quando sarà finita la guerra, vieni a farmi visita. Mi troverai ogni sera dalle sei in poi alla bettola ‘Al Calice’ a via Na Bojišti.

– Certo che verrò, – rispose Vodička, – ci sarà baldoria?

– Ogni giorno vi si scatena qualcosa, – promise Švejk, – e se ci fosse troppa calma, ci penseremo noi a far chiasso.

Si separarono e, quando furono ormai distanti di parecchi passi l’uno dall’altro, il vecchio zappatore Vodička gridò a Švejk: – Allora cerca davvero di metter su qualche spasso, quando verrò.

E Švejk a sua volta: – Vieni però sul serio, quando sarà finita questa guerra.

Poi si allontanarono e di nuovo si udì, dopo una lunga pausa, di dietro l’angolo della seconda fila di baracche, la voce di Vodička: – Švejk, Švejk, che birra hanno al ‘Calice’?

E come un’eco risonò la risposta di Švejk:

– Di Velké Popovice.

– Pensavo che avessero quella di Smíchov, – urlò da lontano lo zappatore Vodička.

– Ci sono anche donnine, gridò Švejk.

– Allora a dopo la guerra, alle sei di sera, – gridò Vodička dal basso.

– Meglio se vieni alle sei e mezzo, per il caso io dovessi tardare, – rispose Švejk.

Poi echeggiò ancora, ormai da grande distanza, Vodička: – Alle sei non puoi venire?

– Va bene, verrò alle sei, – fu la risposta del camerata che si allontanava […]”.

Jaroslav Hašek, Osudy dobrého vojaka Švejka za světové války (Il buon soldato Sc’vèik), Praha 1968, I-II, pagg. 355-356, cit. in Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi 1973 e 1991, pag. 317.

 

Mentre studia filosofia (in realtà con molta calma, si laureerà tardi nell’indirizzo matematico) Luca lavora, scrive, collabora a iniziative di vario tipo; passa i sabati mattina con Monica e alcuni amici ad accudire e lavare vecchietti in un ospizio; poi nasce la primogenita Elena, arrivano le avventure bosniache – la seconda figlia Olga arriverà solo parecchi anni dopo.

Sul Luca “pubblico” si sa molto e procedo veloce. Nel ’98 esce il citato La guerra in casa, che gli attira le critiche dei devoti di Međugorje per la sua lettura politica dell’evento e delle relative ambiguità, e l’antipatia dell’associazione Beati i costruttori di pace per la ricostruzione (peraltro documentatissima) sulla morte di Moreno Locatelli in seguito a un’azione su un ponte di Sarajevo. Nel frattempo viaggia moltissimo come giornalista: conosce ormai a fondo il Caucaso e varie zone dell’Asia e dell’Africa, e visita anche siti infestati da contaminazioni di vario tipo, che forse contribuiranno a far riproporre nel suo corpo gli antichi mali dei genitori. Tra varie vicende di lavoro e personali – lavora in redazione a Repubblica a Milano, torna ogni notte a Torino dove nel frattempo è nata Olga – durante una vacanza perde i sensi. È l’emorragia legata a un tumore diramato già in vari organi. Viene operato da un genio della chirurgia e curato con dedizione e professionalità assoluta (se queste pagine hanno calore di memoria, tengo a rimarcarlo con gratitudine) da alcuni oncologi della pubblica sanità torinese. La sala di ricevimento del reparto dove è ricoverato è sempre piena di amici. Tanti anni dopo, nella sua lettera-testamento alle figlie Luca scriverà:

“[…] gli amici non posso nominarli tutti, sarebbe una lettura di ore, ricordo – ma se lo ricordano tutti – banalmente un motivo della mia lunga e sorprendente sopravvivenza, così come lo chiarì Dina Grisenti [la nostra professoressa di filosofia del liceo, e ormai cara amica]: «Non puoi morire: quando sei caduto, intorno a te si sono alzati così tanti e tanto fitti cerchi di lance che la morte farà fatica a passare». Io dico che erano anche cannoni, mica solo lance: grazie artiglieri!”.

D’altra parte combatte la malattia seguendo con scrupolo ogni minimo protocollo; dopo la rimozione dello stomaco riprende poco per volta a mangiare, e se non tornerà la forchetta di un tempo riacquisterà col tempo un buon controllo del corpo – al punto che, al di là di periodiche fasi critiche, tra successivi interventi e infiniti cicli di chemio si concede ancora lunghi viaggi.

Oltre naturalmente a poter scrivere, e paradossalmente questi saranno gli anni più fertili della sua produzione di libri. Varato nel 2006 Piove all’insù, pubblica nel 2009 Undici buone ragioni per una pausa, nuovamente per Bollati Boringhieri, dove torna sul tema della malattia e della morte ma divagando – spiega – in argomenti penultimi, e Io sono il mercato, Chiarelettere, sulle ambiguità della lotta a un narcotraffico che ha studiato per anni. Nel 2010 pubblica con Laterza il citato La frontiera addosso, partecipa alla raccolta di contro-narrazioni Dieci in paura sull’ossessione per la sicurezza edito da Epoché, e coordina come primo autore il lavoro di cinque giovani nel bel Dizionario per un lavoro da matti sul tema del disagio psichico per L’Ancora del Mediterraneo. Nel 2011 in Democrazia: cosa può fare uno scrittore?, per Codice, dialoga con Antonio Pascale.

Ma i temi più esplosivi sono quelli degli ultimi anni. Nel 2013, in una piccola piola (osteria, per i non torinesi) che conosce vicino a dove lavoro, mi racconta davanti a etile e salamini che sta per partire con Andrea De Benedetti e un sacchetto di caffè – una trovata un po’ buffonesca (come la definirà in un’intervista) per far viaggiare almeno una merce sulla poi certamente inutilizzata linea Lisbona-Kiev che giustificherebbe il TAV. Il risultato del viaggio sarà il loro straordinario Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è, ancora per Chiarelettere, dove con rigore giornalistico ed eleganza letteraria di narrazione si dimostra l’assoluta inconsistenza di ogni bubbola governativa/affaristica sul tema TAV. Non casualmente un simile siluro è stato ignorato con imbarazzato silenzio da amministrazioni, politici e fonti di regime, ma ci resta e sta a noi farne buon uso. E per esempio Binario morto sarà dichiaratamente – fin dai titoli di coda – uno dei riferimenti per Qui, il film sul TAV di Daniele Gaglianone.

Luca_Rastello1Altrettanto silenzio sarebbe stato però impossibile su I buoni, ancora per Chiarelettere, 2014 (cfr. qui e qui), frutto di conoscenze molto dirette dell’autore sul mondo del Terzo Settore, su un certo “sociale” assurto a lobby di potere con delega a intoccabili eroi, e su abusi e brutture legati a una precisa trasformazione di modelli nel tempo (rinvio ai cenni molto chiari offerti da Luca in alcune interviste, per esempio qui). Un libro su cui ha lavorato anni per far capire (con il libero linguaggio del romanzo, e l’ascolto informato del cronista) l’entità dei problemi in gioco; e che ciononostante una lettura superficiale continua ancor oggi a banalizzare in giochino a chiave su questo o quel personaggio. Un libro, ancora, che già prima di uscire suscita reazioni scomposte, e che in seguito inanella una serie di critiche livorose. Certe cose nel sociale possono accadere – pontifica un esperto – ma non sta bene metterle in piazza, non sono faccende di cui parlare, pena l’indebolimento del fronte anti-Male; si può tracciare un quadro – brontola un altro – restando maggiormente nel generico e senza ispirarsi in modo tanto calzante a situazioni reali, o che paiano tali. Facile rispondere al primo che il mancar di rilevare fatti gravi si chiama omertà; e per costituire un reale alternativa a logiche di sfruttamento occorre non riproporle sotto altra forma. Come è agevole rispondere al secondo che la genericità finisce con l’essere una cortina fumogena, in cui deprecare il male con l’utilità dei discorsi da bar.

Luca sa bene che I buoni sarà attaccato da ogni parte (qui una sua risposta), e non è per pura prudenza che insiste trattarsi di un romanzo: non prende di mira un gruppo, non riguarda una esperienza, e il vilain don Silvano rifrange anzitutto lui stesso come narratore – tanto più che lui stesso, impegnandosi nel sociale, si è trovato talora ad avallare i rapporti di sfruttamento che lì stigmatizza. Ma per quanto Luca sia cosciente del vespaio che il libro suscita non può che restare colpito dal tipo di reazioni, di volta in volta pubbliche o invece coperte, come alcune repentine, timorose disdette di presentazioni… Ancora nei ricordi tributatigli a luglio non è mancato chi abbia preso con prudenza le distanze dal contenuto de I buoni.

Va detto che in contemporanea con il fiorire di polemiche sul libro Luca combatte un altro e più drammatico fronte, contro un nemico che sta dentro di lui. La malattia ha conosciuto una nuova impennata, è ormai chiaro che i margini di resistenza si stanno consumando. A dicembre, quando una sera andiamo a trovarlo nella casa-rifugio di pian Rastello – la frazione sopra Pont Canavese delle antiche foto di Cino – ci racconta che dall’amico oncologo Francesco Leone si è fatto spiegare tutto su quanto sta per accadergli. E intanto sta lavorando con accanimento a un nuovo romanzo.

Con i mesi successivi ecco gli ultimi viaggi, la scrittura che procede (più appassionata che frettolosa), il dilagare del male, le cure palliative. In un torrido sabato di luglio ho ancora la possibilità di una lunga chiacchierata con lui – prima da soli, poi ci raggiungono due amici che hanno partecipato ad alcune delle sue avventure in Bosnia. Luca racconta anzi un episodio buffo che li coinvolge tutti e tre. Devono portare in salvo una coppia di vecchietti, per fortuna hanno un minimo di tempo, e in una fattoria si fanno indicare dove sia la casa; ma da quelle parti l’ospitalità conosce ancora la sacertà del mondo antico, e così gli interpellati li fermano per un bicchiere. O meglio più d’uno, perché nel cortile è in funzione una “macchina allegra”, cioè un grosso furgone per distillare che somiglia (spiega Luca) alle macchine del Professor Balthazar di un cartone animato della nostra infanzia: ci rovesci dentro la frutta (mele, pere), c’è tutto un rimescolio, e come per incanto fiotta fuori l’alcoolico. Insomma, la gente della fattoria continua a offrire loro bicchieri e insieme piatti di accompagnamento, carni arrosto… Alla fine i tre escono dal portone facendo le bolle per il cibo e l’etile, montano come riescono sul mezzo e raggiungono i vecchietti. Questi sono poverissimi: e tuttavia hanno ammazzato l’unico animale e organizzato un vero e proprio banchetto di festa ai tre salvatori. Che si sentono esplodere ma è impossibile rifiutare, farebbero loro un torto terribile: insomma nuova cena e nuovo alcool, gli italiani escono ciondolando. A sera tarda raggiungono infine il posto dove dormire: ma lì gli ospitanti (ci sono persino dei soldati bosniaci, che hanno smontato per accoglierli) hanno preparato loro anche la cena – e dovranno mangiare pure quella… Un racconto che però la dice lunga su Luca: capace di rischiare la pelle per prendersi cura di esseri umani, ma di saperlo fare con l’allegria del bicchiere in mano e magari del piatto pieno.

Il pomeriggio incalza e penso di tornare a casa; sono tranquillo perché non lo lascio da solo, e tanto – mi dico – lo vedrò nei giorni successivi a Pont dove sta per trasferirsi. Ma ogni volta che mi alzo per andarmene riprendiamo a parlare e finisco col tornare a sedermi. Solo a posteriori mi verrà in mente come quella scena ricordi un passo struggente dello Švejk che proprio Luca mi ha fatto conoscere, dove il “buon soldato” e il commilitone Vodička si congedano uscendo di prigione però faticano a staccarsi, parlando dell’osteria dove si ritroveranno a guerra finita. Ma anche per Luca la guerra sta finendo: e due giorni dopo, alle quattro del mattino, il lunedì stesso in cui dovrebbe partire per Pont, perde coscienza. La riacquisterà forse per un attimo mentre muore, a fine giornata, circondato dalle persone care: l’attentissima compagna degli ultimi mesi, Serena, naturalmente Monica e la figlia Elena, amici di un po’ tutte le fasi della vita. L’ultimo romanzo resta interrotto, ed è ora oggetto di studio.

Nel corso degli anni l’attività di Luca, come giornalista ma anche come scrittore, ha visto un lungo e appassionato approccio alla parola. Raccontando le viscere di un’epoca ha lavorato a smascherare strutture linguistiche di sopraffazione (I buoni era per lui anzitutto un libro sul linguaggio) e a fornire parole atte a decrittare un non-detto che spesso è un non-dicibile; ha incalzato luoghi comuni per smontarli contro la volontà di agenzie potenti e una disinformazione organizzata; ha saputo penetrare con la parola entro ambiguità d’epoca di cui si sentiva lui stesso dolorosamente partecipe, ma insieme – visto che non era un moralista imbronciato – ha raccontato le dimensioni di bellezza per cui questo mondo merita d’essere curato. Un lavoro enorme: e solo col tempo, dissodando a poco a poco il materiale da lui offerto, ci renderemo conto di quanto le sue intuizioni siano preziose. E offrano concreti spunti per costruire.

Ciò sul Luca “pubblico”: quanto a quello “privato” cui in tanti vogliamo bene, è irriducibile a qualche pagina di ricordo.

viso Luca 2

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente https://www.carmillaonline.com/2014/12/29/19771/ Mon, 29 Dec 2014 22:50:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19771 di Alexik

Kuczynski-PawelL’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….

Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.

Disastro e collasso non [...]]]> di Alexik

Kuczynski-PawelL’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….

Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.

Disastro e collasso non derivano dunque da quelle scelte politiche che per decenni hanno nutrito deliberatamente la speculazione privata  con tonnellate di denaro pubblico, a prescindere dall’esistenza o meno di mazzette e dal ricorso del potere economico a pratiche formalmente illegali.

La retorica della legalità è la narrazione necessaria affinché, una volta eliminate le “mele marce”, tutto ritorni come prima, o meglio, perché la speculazione si dia forme più moderne, più efficaci, meno grossolane. È una retorica che non entra nel merito del fatto che la devastazione sociale e quella dei territori possano avvenire anche a norma di legge.

Tutta questa enfasi sulle tangenti è riduttiva e fuorviante, perché c’è qualcosa di ancora più grave dell’aspetto corruttivo: un prezzo molto più alto da pagare ai detentori del potere economico. Lo pagano i territori in termini ambientali, lo paga il lavoro in termini di diritti, lo pagano le fasce corruptionpiù deboli di questo paese in termini di emarginazione sociale. E proprio sul business dell’emarginazione sociale, oggi al centro dell’inchiesta romana, che sarebbe ora di soffermarsi, facendo un bilancio di quelle politiche di sussidiarietà che nell’ultimo quarto di secolo hanno trasformato l’assistenza pubblica in un mercato, rendendola un settore vulnerabile alle scorrerie dei predoni.

Dalla fine degli anni ’80, il privato sociale ci è stato spacciato come l’alternativa vincente alla gestione pubblica del welfare, in nome di una presunta superiorità etica, economica e qualitativa del terzo settore. In realtà l’espansione della cooperazione sociale rappresentava un attacco frontale alle condizioni di lavoro nei servizi, in quanto le tutele dei soci lavoratori erano molto più basse della media del settore in termini di salario, diritti, stabilità occupazionale.

Rappresentava inoltre un modalità per costruire interesse privato anche sulla miseria, un interesse che, a differenza di quello pubblico, non trae convenienza dalla soluzione dei problemi sociali, perché è proprio il loro perdurare che gli reca vantaggio. Questa dinamica si è resa più evidente con lo sviluppo dei processi di concentrazione di impresa, con l’affermarsi cioè delle grandi centrali cooperative, organizzate in consorzi ed alleate in cartelli, ai danni delle piccole strutture di idealisti. Una trasformazione “industriale”  che necessita di grandi numeri di assistiti. Non è un caso che questa tipologia del così detto no-profit abbia prosperato, e continui a prosperare, grazie a logiche di tipo emergenziale: l’emergenza immigrazione, l’emergenza nomadi, l’emergenza casa… l’emergenza infinita. L’emergenza è infatti il contesto che permette l’assegnazione diretta degli appalti e lo stanziamento di fiumi di denaro senza tante discussioni. Permette di operare su grandi numeri e non deve MAI risolversi o concludersi, perché altrimenti finisce il gioco.

Nell’ambito dell’emergenza sociale permanente, il business della sussidiarietà si è dimostrato nel tempo non solo pienamente compatibile, ma anche intimamente interrelato con le politiche securitarie, le derive xenofobe, la trasformazione dei bisogni umani in problemi di ordine pubblico. Non risulta dunque strano che, nella specificità romana, esso abbia raggiunto il suo punto di massimo sviluppo sotto la giunta Alemanno, che proprio della “lotta al degrado” e della “zero tolerance” aveva fatto la sua bandiera.

Kuczynski- dynamiteL’emergenza infatti, è benvenuta qualunque ne sia l’origine. A volte capita per eventi esogeni, come l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalle molteplici guerre che, in concorso con i nostri tradizionali alleati, ci dilettiamo a fomentare in giro per il mondo.

A volte è l’effetto collaterale di lungo periodo di leggi antisociali, come quella che ha abolito l’equo canone (un regalo del governo D’Alema), lasciando milioni di inquilini alla mercé della rendita immobiliare, e migliaia di loro nell’impossibilità di pagare un affitto a prezzi di mercato.

A volte invece è il prodotto immediato dell’attività repressiva, come gli sgomberi di grandi occupazioni abitative, che creano folle di senza casa da un momento all’altro. Oppure delle “politiche della razza” (scusate se uso di proposito la terminologia fascista, so bene che le razze non esistono), come la deportazione di rom e sinti dentro fetidi recinti nelle estreme periferie.

In tutti questi casi la cooperazione sociale c’è, pronta a correre verso l’aggiudicazione degli appalti e a chiamarla solidarietà. Vano sostenere che la vera solidarietà sarebbe opporsi agli sfratti, agli sgomberi e alle deportazioni … ma non sottilizziamo !

E piuttosto entriamo nel merito, perché più che queste valutazioni di ordine generale, sono eloquenti le storie concrete. Come punto di osservazione privilegiato prenderemo la situazione romana, perché è lì che le contraddizioni sono esplose in maniera più emblematica, e lo faremo a partire dalle storie dei due grandi contraenti di quel cartello che fino ad ora ha gestito gli appalti dei welfare della capitale in regime di sostanziale oligopolio. L’operazione è tanto più interessante perché, mentre uno dei due è alla gogna per illegalità manifesta, l’altro è invece rimasto nel regno dell’economia rispettabile. Eppure, tranne qualche particolare, hanno fatto più o meno le stesse cose.

Per cominciare, partiamo dall’antica Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone.  E si, perché è proprio l’Arciconfraternita, con le sue cooperative di pertinenza, uno dei soci del trust. O forse pensavate che a due passi dal soglio di Pietro l’accoppiata Buzzi/Carminati potesse avventarsi sugli appalti di servizi senza previa santissima benedizione e – soprattutto – senza condividere cristianamente la torta ?

images (6)I termini del sodalizio sono noti: “Va be’, a Salvato’, noi l’accordo… l’accordo è quello al cinquanta, no?eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?”. Così come è noto il siluramento congiunto di una dirigente del Comune di Roma poco disponibile alle loro pressioni: “ ma no, ma questa è una cretina, ma non è possibile, no? Che non te riceve, non te parla, non parla con nessuno, ma è una deficiente vera, ma ‘ndo cazzo vive? Cioè, ma… ma veramente tocca mandarla a sbatte, eh!”. Queste le conversazioni che coinvolgono Tiziano Zuccolo, ai tempi camerlengo dell’Arciconfraternita, Francesco Ferrara, che ne era presidente, e Salvatore Buzzi, presidente del Consorzio Eriches/Coop 29 giugno nonché braccio economico di Carminati.

Ma qual è la novità ? Che le cooperative di Comunione e Liberazione e quelle di Legacoop si spartiscono gli appalti? Che insieme determinano la nomina dei funzionari comunali? Se è per quello determinano pure la nomina dei ministri della Repubblica, non solo Poletti in quota Lega, ma anche Lupi, come mandatario della Compagnia delle Opere.

Quello stesso Lupi che con il Piano Casa dichiara guerra alle occupazione abitative e prelude alla vendita massiva degli alloggi popolari.  Vale a dire: nuove folle senza dimora, nuova benzina sul fuoco dell’emergenza casa, nuovi introiti per le cooperative chiamate a gestirla e per i palazzinari loro alleati. In nome, ovviamente, della legalità. (Continua)

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Em/pietà https://www.carmillaonline.com/2014/04/15/empieta/ Mon, 14 Apr 2014 22:15:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14090 di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?” “Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta. In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e [...]]]> di Sandro Moiso IBuoni1-660x969

Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere 2014, pp. 204, € 14,00

Sì, ma com’è che la vuoi chiamare, ‘sta campagna?
Il bene a regola d’arte.

Là dove ogni ottica classista è stata rimossa, là dove il concetto di lotta di classe è stato abolito, là dove ormai regnano soltanto carità cristiana, legalitarismo e denuncia dell’ingiustizia senza ricorso all’unità e alla rivolta degli oppressi… là può serenamente regnare l’empietà. Nella sua forma peggiore e nell’ipocrisia più assoluta.
In questa piaga purulenta Luca Rastello ficca il dito. E lo gira. E fa male.

Lo scandalo per lui è reale e doloroso.
Il peccato e il male esistono.
Il Male assoluto travestito da Bene assoluto.
Lo Spirito che si fa carne. Corrotta.
E come un antico cataro urla la sua denuncia.

E’ un urlo assordante e allo stesso tempo pacato quello di Luca.
La rivolta che sgorga dal cuore di chi non vuole levarsi al di sopra, ma che, umanamente si accolla la sua parte di responsabilità.
Ma rigira il dito nella piaga, Luca.
E fa urlare. I potenti.

Giornalisti dal nome altisonante.
Inquisitori incanutiti e irranciditi nella caccia di colpe là dove, spesso, non ci sono.
Critici che non vogliono la critica dell’esistente.
Uomini che vogliono soltanto i “nomi”.
Che nei fatti narrati sanno riconoscere i nomi, ma non la sostanza.

Perché la sostanza fa paura, soprattutto quando attraverso la letteratura si avvicina alla verità.
Anche quando la verità dovrebbe rimanere inconfessabile.
Oppure rimanere custodita dallo sguardo dei servitori del dis/ordine.
Sempre, “c’è un poliziotto che guarda”.
E’ il refrain del libro.

Luca, però, si tiene, almeno nella parte iniziale e in quella finale del suo romanzo, più vicino a “I misteri di Parigi” di Eugène Sue o a “I miserabili” di Victor Hugo, piuttosto che al “1984” di Orwell. Attualizzandoli e immergendoli nelle fogne vere e nel dolore degli ultimi delle metropoli dell’Est.
D’altra parte non può esistere nemmeno l’anti-utopia, là dove non è più possibile alcun tipo di utopia.
Soprattutto quando questa è sostituita dalla “corresponsabilizzazione”, dall’associazionismo, dalla retorica del “bene” e dalla solidarietà pelosa di chi vuol fare di ogni aiuto soltanto un “progetto”.

Soprattutto in quelle città del “fu” triangolo industriale dell’Italia settentrionale che, insieme agli stabilimenti e all’occupazione, sembrano aver perso qualsiasi speranza e qualsiasi tipo di solidarietà di classe.
Là dove l’elemosina di facciata si accompagna al peggiore localismo e al calcolo più cinico spacciato, però, per rinnovamento politico ed economico. E dove la “lotta alla Mafia” è diventata la parola d’ordine destinata a sostituire quelle ben più pericolose dell’antagonismo di classe.

I raffinati custodi della cultura odierna non vogliono sentire parlare di contratti di lavoro. Non vogliono sentire parlare di lavoro precario.
Il volontariato deve bastare e il terzo settore deve trionfare come modello.
Dalle Coop rosse e cattocomuniste alle associazioni, fino a diventare modello unico per il lavoro a venire attraverso il job act.
Dove anche il lavoro offerto nelle condizioni più miserevoli diventa atto di “carità”.

Il “raffinato” intellettuale e il moralista legnoso si danno la mano nel fare la carità.
Sì, ma poi basta…eh!?
Cosa vogliono di più questi disgraziati raccolti in mezzo alla strada?
Non gli basta vivere all’ombra dei loro datori di lavoro?
Non gli basta respirare la stessa aria che respirano loro?
Non gli basta respirare le parole dei Santi?

Il vero “raffinato”, un raffinato ufficiale, avrebbe detto Céline, nel suo libro più proibito, deve: “ frenetizzare l’insignificante, cicalecciare, darsi delle arie, gracidare nei microfoni delle radio… rivelare i miei «dischi preferiti»… i miei progetti di conferenze…
Deve evitare la critica dei potenti. Evitare la critica dell’esistente, per poterne cantare le lodi.
Raffinato sì, come lo zucchero.

Privato di ogni asprezza, di ogni sostanza nutritiva.
Destinato soltanto alla bulimia oratoria televisiva .
Produttore di diabete da troppa dolcezza, elargita con troppa facilità.
E guai se trova in qualcuno lo spirito di Alfieri che si rifiutava di respirare anche solo l’aria respirata dai tiranni.

Luca non ha più voluto respirare la stessa aria dei tiranni, anche se profumava di incenso. Anche se per lui deve essere stato doloroso, oltre che necessario, narrare le vicende di Aza, Adrian, Alberto, Mauro, don Silvano, Delfino, Isabella, Delia e del giudice grasso. E di molti altri ancora.
Perché l’elemento autobiografico preme con urgenza nella scrittura di Rastello.
Torna alla mente Dante:” Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’rodo, / parlar e lagrimar vedrai insieme1 .

Anche se il traditore non è soltanto uno e non è il nome famoso che tutti vogliono individuare.
No, il tradimento è di tutta una società, di tutto un ambiente fasullo e perbenista.
Fatto di riviste patinate e di giornali ben informati.
Costruito sul nulla delle buone intenzioni.
Che come sempre lastricano la strada per l’inferno.

Abbiamo bisogno di rimandare la lotta, Adrian, ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta. Abbiamo bisogno di concedere a noi stessi ancora un brandello di questa vita che in fondo non ci impegna, di tenere un francobollo di orizzonte al fondo delle nostre giornate senza cuore. Ed è don Silvano che ce lo permette: lui garantisce che farà il lavoro al posto nostro. Tutti lo amano, i potenti, i belli, i celebri, e la suora che trema sotto il suo sguardo. Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene. […] E’ l’eroe di questo tempo, è la consolazione. Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali. Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso. […] Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio: lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette tra noi e il mondo. Lascialo stare, don Silvano. Lui si nutre del disperato bisogno di conciliazione che nasce dalle nostre vite in cattività. Lui è la forma del mondo com’è.

Tu, perché lo servi?” “Perché io sono come loro. Mi credi migliore?” (pag. 191)

Perché gli oppressi sono utili e devono essere visibili soltanto quando sono vittime. Non importa se del lavoro, dell’AIDS o della “Mafia”.
L’importante è che rimangano tali e che si possano compiangere.
Guai a loro però se parlano di diritti sindacali o di rivolta.
Perché, allora, devono essere “accompagnati”, essere messi alla porta.
O in prigione.

La parte più crudele della non fiction novel di Rastello, infatti, non sta né all’inizio, nella miseria e nella vita grama delle fogne, né, tanto meno, alla fine, nelle pagine della vendetta.
Ma sta proprio al centro, in quei rapporti ipocriti di potere e sottomissione, in quell’odore di soldi e di partite di giro truccate, in quella misoginia e in quel sessismo diffusi e troppo spesso accettati come norma dalle donne “in carriera” insieme al fascino esercitato da chi detiene anche solo un frammento di potere, di cui tutto il dolore del mondo non costituisce altro che l’ovvia periferia.

La parte centrale del libro, che ne costituisce anche la parte più lunga, metaforicamente rappresenta la centralità della corruzione morale ed economica nella società del dominio capitalistico dell’esistente e dell’ipocrisia che la nasconde e giustifica.
Il denaro, lo sterco del demonio dei patarini e degli eretici medioevali, ha trionfato . Non solo nella pretesa casa di Dio, questo si sapeva, ma anche in quegli ambienti che avrebbero dovuto rappresentarne il rinnovamento.

Invece del Re ad essere nudo, nel romanzo, è il “bene”.
Il buonismo trionfante e ipocrita.
Soprattutto nella sua variante associazionistica, là dove si dovrebbe lavorare solo per il bene di tutti e disinteressatamente. E dove, a farlo disinteressatamente, dovrebbero essere possibilmente gli ultimi.
Grati, come servi o come schiavi.

Già…chissà quanto si saranno commossi coloro che hanno furiosamente criticato Luca e il suo libro guardando il patinatissimo “12 anni schiavo” !
Tutti uniti nel sentirsi buoni…tutti uniti nel criminalizzare gli altri.
Tutti uniti dal “noi” di chi pensa le cose giuste. Legali. Caritatevoli.
Pietismo contro barbarie estremista…che come si sa deve essere estirpata
Gli basterà poi chiedere scusa se vi prenderanno a calci in mezzo alla strada, come a Roma il 12 aprile, oppure dopo avervi sterminati, come in Argentina o durante un pogrom.

Non preoccupatevi.
Leggete questo libro tutto d’un fiato, com’è capitato al sottoscritto, e poi, se li incontrerete per strada o li sentirete predicare in pubblico o sul piccolo schermo, ridetegli pure in faccia.
Il loro Dies Irae sarà sicuramente peggiore del nostro.


  1. Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Canto XXXIII, vv. 7 – 9  

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Errata corrige: Democrazia https://www.carmillaonline.com/2013/10/29/errata-corrige-democrazia/ Tue, 29 Oct 2013 00:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10444 di Sandro Moiso 19 ottobre

Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletariato a livello dell’idiozia borghese” (Gustave Flaubert)

Non è stata la manifestazione più grande, non ci ha lasciato immagini epiche da tramandare ai posteri e, nemmeno, slogan che passeranno alla storia…eppure, eppure…il corteo del 19 ottobre a Roma ha segnato il passaggio ad una fase nuova. Una massa che non si fa rappresentare, ma che si rappresenta. Una massa che non ascolta dichiarazioni e promesse, ma che si dichiara.Una massa combattiva e pacifica, determinata e multietnica. Una massa consapevolmente in guerra contro l’esistente e più pericolosa per le istituzioni [...]]]> di Sandro Moiso
19 ottobre

Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletariato a livello dell’idiozia borghese” (Gustave Flaubert)

Non è stata la manifestazione più grande, non ci ha lasciato immagini epiche da tramandare ai posteri e, nemmeno, slogan che passeranno alla storia…eppure, eppure…il corteo del 19 ottobre a Roma ha segnato il passaggio ad una fase nuova. Una massa che non si fa rappresentare, ma che si rappresenta. Una massa che non ascolta dichiarazioni e promesse, ma che si dichiara.Una massa combattiva e pacifica, determinata e multietnica. Una massa consapevolmente in guerra contro l’esistente e più pericolosa per le istituzioni di qualsiasi pubblica ed imbelle dichiarazione di guerra.

Perché la democrazia non sta nelle costituzioni, se queste non prevedono il conflitto e il diritto alla rivolta. E non sta nelle leggi elettorali se non esistono partiti in grado di difendere e diffondere il conflitto sociale. E non sta nei partiti e partitini se questi si arrogano, comunque e soltanto, la rappresentazione del conflitto. La democrazia è conflitto e vive soltanto nel conflitto.

Là dove il conflitto è negato, la democrazia non c’è. Che sia un governo liberista a negarlo, oppure un governo ancor più marcatamente autoritario oppure, ancora, un governo socialista come quello sovietico dagli anni venti del ‘900 in avanti, ci si trova davanti ad una dittatura. Non è questione di forme, ma di sostanza. Prendendo a prestito una frase di Mark Rotko a proposito dell’arte e della pittura, si può affermare che “La democrazia non è qualcosa che riguarda l’esperienza , ma è l’esperienza”.

Democrazia è esperienza diretta della politica. Per chi non è rappresentato dagli ingombranti catafalchi della politica racket, è la politica. E, in quanto tale, non può che essere conflittuale.
Non vi è democrazia nel compromesso. Il compromesso si preoccupa delle forme e non dei risultati. Reali. La democrazia borghese è formale, dichiarativa, rappresentativa e a-conflittuale. Deve superare, castrare, negare, regolarizzare e rappresentare, appunto, il conflitto. Relegandolo alle stanze della politica, ai palazzi, agli ambiti parlamentari. Agli angoli oscuri delle trattative riservate oppure, per uguale e opposta formalità, alla rappresentazione mediatica giornalistica e televisiva.

Là dove quotidianamente viene rappresentata una delle più celebri opere di Shakespeare: “Molto rumore per nulla”. Sempre uguale nella sostanza, ma sempre diversa soltanto per gli attori, sempre più scadenti, che la portano in scena. Inutile, noiosa, imbelle ripetizione di schemi, parole, proposte sempre uguali, vuote e volgari. Slogan che non servono nemmeno più a lenire il malessere causato dalla crisi o a consolare chi continua a pagare per debiti, colpe e responsabilità che non ha mai avuto e non ha mai contribuito a creare.

La democrazia è per forza di cose conflittuale poiché si realizza, anche solo parzialmente, soltanto là dove esistono forze reali contrapposte (Lavoro Vs. Capitale), in cui gli attori abbiano tutti un’eguale peso politico nella società. La rappresentazione parlamentare che ne conseguirà non sarà dunque la causa, ma l’effetto del conflitto. In barba, val la pena di ripeterlo, a tutte le leggi elettorali e alle, sempre aleatorie, garanzie istituzionali.

Negli anni settanta uno slogan recitava: “Democrazia è il fucile in spalla agli operai”. Alcuni lo vollero attuare clandestinamente anche là dove non ne esistevano le condizioni, senza capire che il vero fucile sulla spalla degli operai, dei giovani e dei lavoratori era quello delle lotte, delle occupazioni delle fabbriche, della scuole e delle case e che solo a partire da queste era possibile rivendicare un diritto all’autodifesa che fu riconosciuto, a metà degli anni settanta, anche dal Tribunale chiamato a processare un nucleo di operai di Sesto San Giovanni colti in possesso di armi.

Tutto ciò diventa particolarmente vero nell’attuale situazione italiana. Dove, nonostante i balletti, le dichiarazioni, le fantasmagoriche ricette o leggi di “stabilità”, tutto traballa, tutto scivola lungo un piano inclinato sempre più ripido. E l’accelerazione della crisi sociale, politica ed economica diventa ogni giorno più rapida e violenta.

Monti è definitivamente cotto, bollito o fritto che sia. Letta è agli sgoccioli e Napolitano pure, mentre si abbarbica ad un formalismo autoritario con la disperazione di un cercatore di funghi scivolato lungo un pendio che lo porterà a volare in un dirupo. Mentre le lotte intestine al PdL porteranno ben presto allo sfascio quella che è sembrata, ma soltanto sembrata, essere l’unica forza politica di governo degli ultimi venti anni.
Allo stesso tempo, però, anche il sogno di una nuova, grande DC, che dalle ceneri del PdL avrebbe dovuto rinascere come l’Araba Fenice, è già morto.

Abortito nonostante i voti della Chiesa e di Papa Bergoglio. Perché la DC non ha mai potuto esistere o governare senza il supporto di un’abbondante spesa pubblica. E’ stato il segreto di Pulcinella per i suoi quasi cinquant’anni di governo, dal 1948 al 1993. E Mani Pulite non servì a combattere la corruttela politica ed economica dei suoi leader e rappresentanti, ma, sostanzialmente, a eliminare un sistema di governo che ripartiva anche socialmente una parte della ricchezza prodotta collettivamente pur di mantenere il proprio potere politico.

Insomma Mani Pulite mise fine all’era Giolitti iniziata novant’anni prima per riportare tutto a un immaginario ordine liberale in cui tutti i profitti dell’economia reale, irreale e mafiosa dovevano tornare esclusivamente nelle tasche dei parùn da le bele braghe bianche senza che questi dovessero tirar fuori o tralasciare altre palanche per compensare il resto della società . Stop! Fine della DC e anche del sogno neo-DC, ucciso dai colpi di coda di Berlusconi e di Monti e dal trionfo della finanza su qualsiasi altra attività economica.

A ben pensare però, nel corso degli ultimi vent’anni, l’unica forza che ha davvero governato l’Italia sulla via della restaurazione capitalistico-finanziaria non è stata però Forza Italia con i suoi orrendi alleati leghisti e fascisti, ma, nell’ombra solo per chi non vuol vedere la realtà, il PCI – PDS – PD. Dalla mortadella Prodi al salame Bersani, quell’aggregato politico ha rappresentato la vera continuità e garanzia istituzionale sulla strada della riforma liberista e finanziaria del sistema Italia. E’ dunque per questo motivo che si può dire che Reagan e la Thatcher hanno avuto, qui da noi, la maschera di “severi” politici come D’Alema e i suoi accoliti, seppure in salsa catto-comunista emiliana.

La cui unica proposta alternativa è stata per anni quella dell’economia del “Terzo Settore”, cooperative e associazionismo, che, dopo aver contribuito a smantellare lo stato sociale appellandosi alla solidarietà, hanno finito con il rappresentare il modello principale per le attività sottopagate, aprendo la via alla riforma al ribasso del lavoro di cui sente quotidianamente parlare oggi. Così, mentre da un lato la CGIL si ostinava, apparentemente, a difendere i lavoratori delle grandi fabbriche (in realtà garantendo soltanto ai grandi complessi industriali la possibilità di usufruire di milioni e milioni di ore di cassa integrazione), dall’altra si creavano tutte le condizioni per un drastico abbassamento dei costi del lavoro, giovanile e non.

Solo così si può comprendere la funzione di quella sinistra istituzionale che ha rivendicato negli ultimi vent’anni la sua funzione ( anche se verrebbe da scrivere finzione) liberale, scambiando liberalismo con liberismo…but Love me, love me, love me, I’m a liberal! (come cantava quasi cinquant’anni fa il buon Phil Ochs). E il cui risultato attuale è il mostruoso, gigionesco e pericolosissimo Matteo Renzi. Colui che ha già gettato l’ultimo residuo di maschera sinistrese di quel partito e che, onesto almeno in questo, ha rivolto apertamente la sua richiesta di voto all’elettorato di destra! Completando e portando a termine la parabola di un partito iniziata, come minimo, settanta anni fa con la svolta togliattiana di Salerno.

Unico candidato possibile per un Partito destinato ormai a ricoprire il ruolo di centro che nessun altro ( né Berlusconi, né Monti, né tanto meno Casini) può oggi cercare di ricoprire. Soltanto a questo si possono ricollegare le speranze di vittoria elettorale del PD, che fanno oggi fibrillare il governo Letta quanto le altalenanti tattiche berlusconiane e che alimentano le ultime speranze di governabilità della marcia e decomposta borghesia italiana.

Ma proprio questa speranza centrista sarà ciò che affosserà definitivamente il PD, che finirà sì col guadagnare voti a destra, ma anche col perdere gran parte del poco elettorato attivo di sinistra che ancora gli rimaneva. E che non vedeva ancora come il ruolo democratico rappresentativo del Partito fosse dipeso più dalle lotte sociali reali degli anni sessanta e settanta che gli imponevano determinate tattiche più che dai suoi intenti reali.

Così, mentre i sondaggi danno ormai per le prossime elezioni un 50% di astensioni (tra astensione reale e schede bianche), i movimenti del 19 ottobre (No-Tav, per la casa e per il lavoro) diventano l’unico possibile polo di aggregazione per la stragrande maggioranza dei cittadini italiani, volenti o nolenti che siano. Le parole d’ordine concrete diventano infatti la base di pratiche antagonistiche e delle uniche riforme possibili. Riforme che, come si è già detto più volte su Carmilla, non possono che essere conseguenza di una pratica conflittuale e, quindi, rivoluzionaria.

La Rivoluzione futura sarà anonima e tremenda” affermava molti decenni or sono il vecchio dinosauro Amadeo Bordiga. Tanto anonima da non aver bisogno di un partito fondato su dichiarazioni di stampo ideologico, tanto tremenda da non aver bisogno di racket politici e parlamentari per far parlare di sé. Tanto pericolosa da far tremare i suoi avversari anche senza l’uso immediato della violenza. Cosa di cui i rappresentanti più scaltri dell’ordine esistente (dai giornalisti come Santoro agli imprenditori della piccola e media industria ) si sono già accorti, mentre il Potere delle istituzioni si sbriciola e sfarina ogni giorno di più sotto gli occhi di tutti e anche Grillo deve fare i conti con un vertiginoso calo di popolarità.

Ieri un importante quotidiano, infatti, ha potuto così affermare : ”Di ottimisti, cioè di entusiasti pronti a pronosticare lunga vita per Letta e i suoi ministri, in giro se ne trovano sempre meno.[…] Il quadro della situazione, del resto, è sufficientemente noto: non uno dei tre partiti che sostengono il governo delle larghe intese gode di buona salute […] E se è fondata la «rivelazione» di Simona Vicari, senatrice PdL,secondo la quale le «elezioni le vogliono i renziani, i falchi PdL e tutto il Movimento 5 Stelle», ecco, se questa è la polveriera sulla quale siede Enrico Letta, chi darà fuoco alla miccia? […] Con buona pace, naturalmente, delle riforme da fare, delle preoccupazioni del Capo dello Stato e della situazione in cui versa il paese*
A cui va aggiunto ciò che affermava l’editorialista di un altro importante quotidiano nei giorni scorsi; “Se [questo] servirà a scaricare di nuovo sull’Italia e sulle sue istituzioni l’impotenza dei partiti, si apriranno scenari dei quali ognuno si dovrà assumere le proprie responsabilità**

In questo contesto sarà, sempre più probabilmente, costituito da tutto ciò che è stato fin qui elencato il motivo reale del successo dei movimenti, in cui i giovani e i lavoratori, le donne e gli immigrati (ovvero i grandi e indiscussi protagonisti della manifestazione ottobrina), scopriranno sempre di più la bellezza, l’utilità immediata e la gioia connesse a una lotta di liberazione in cui l’individuo riscoprirà tutte le sue potenzialità creative, all’interno di una nuova comunità umana. In cui la ripartizione sociale delle ricchezze e del lavoro non sarà più solo frutto dei capricci del capitale finanziario e delle banche centrali. Libera dallo sfruttamento, dal consumo inutile e distruttivo e dallo spreco delle risorse umane ed ambientali.
Ovvero, finalmente, la vera democrazia realizzata e non quella fittizia, stigmatizzata da Flaubert già nel XIX secolo!

 

* Federico Geremicca, Da sinistra a destra cresce la tentazione di tornare alle urne, La Stampa, 28 ottobre 2013.
** Massimo Franco, Giravolte pericolose, Il Corriere della Sera, 26 ottobre 2013.

 

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