territori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sulle piste delle canaglie https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/sulle-piste-delle-canaglie/ Mon, 27 Nov 2023 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80155 di Jack Orlando

Atanasio Bugliari Goggia; La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue; Ombre Corte, Verona 2023, 345 pp. 25€

Approcciare il tema della militanza politica nelle banlieue del XXI secolo significa entrare a contatto con uno dei fronti caldi delle fratture sociali che agitano l’Europa in crisi, ed è fondamentale che a guidare l’operazione sia una volontà politica più che un’intenzione accademica. Già nel 2022 Bugliari Goggia aveva aperto la questione con il volume Rosso Banlieue1, il cui sottotitolo era quanto mai esplicito: Etnografia della nuova composizione di classe [...]]]> di Jack Orlando

Atanasio Bugliari Goggia; La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue; Ombre Corte, Verona 2023, 345 pp. 25€

Approcciare il tema della militanza politica nelle banlieue del XXI secolo significa entrare a contatto con uno dei fronti caldi delle fratture sociali che agitano l’Europa in crisi, ed è fondamentale che a guidare l’operazione sia una volontà politica più che un’intenzione accademica.
Già nel 2022 Bugliari Goggia aveva aperto la questione con il volume Rosso Banlieue1, il cui sottotitolo era quanto mai esplicito: Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi.

Nel primo volume si era indagata la forma che aveva preso nel tempo la composizione subalterna: dalla fine degli operai bianchi nelle cittadelle rosse con le loro rappresentazioni politiche ed estetiche, ad un ibrido sociale a prima vista più simile al lumpenproletariat, dove la rappresentanza non c’è e la linea del colore innerva la comunità.

Un’evoluzione che ha il suo perché nella linea liberista che, dopo aver sconfitto l’ultima insorgenza operaia (se proprio operaia vogliamo chiamarla), ha seguitato a far la sua guerra agli umani senza sosta, nell’obbiettivo di costruirsi un mondo a sua dimensione e disposizione.
Dismesse tutte le architetture di forza costruite dal basso, la banlieue si è avviata a diventare terreno della crisi dove la geografia urbana, il lavoro precario, lo stato sociale smantellato, il controllo poliziesco, tutto concorre a costruire le precondizioni per lo sviluppo di una forza lavoro che langue ai limiti della sopravvivenza ed è perennemente disposta ad entrare, in numeri esigui e a qualunque condizione nei meccanismi della produzione.

Ma se questo è il disegno liberista, altrettanto è vero che la banlieue ha anche un altro volto. Quello del territorio dove la solidarietà comunitaria e di classe tiene insieme le possibilità di una vita comune, dove le condizioni di subalternità sono stemperate e combattute grazie all’azione diffusa e poliforme di una costellazione di gruppi e associazioni che si muovono dal basso, dove ci si ritaglia un senso di appartenenza e di identità e, soprattutto, dove si è in grado di rivoltarsi in massa contro la violenza dello stato di cose presenti.
È qualità umana, d’altronde, saper abitare l’inabitabile.

Delineato lo scenario complessivo con il primo volume, La Santa Canaglia si propone come un approfondimento ulteriore che si incastra e dialoga alla perfezione con il lavoro precedente: identificato il soggetto osserviamo le forme e le istanze della sua resistenza; quali sono le forze in grado di dare una struttura al sentimento di parte e ai bisogni dal basso, quali i processi di attivazione e politicizzazione possibili nella cornice delle banlieue.

Il filo conduttore della ricerca, ciò che tiene insieme il tutto è il posizionamento del ricercatore: non uno scienziato che osserva dall’esterno ma un militante che agisce dall’interno, che opera un lavoro politico. Questo rende possibile l’intreccio di sapere “scientifico” e volontà politica: si mette in movimento una ricchissima mole di riferimenti teorici, analisi e griglie di interpretazione, ma li si piega alle necessità di una inchiesta militante, il cui obbiettivo è essenzialmente quello di porsi a disposizione della lotta, di mettere in condivisione un sapere di modo che sia strumento di emancipazione e battaglia. Nello specifico, identificando e restituendo i contorni del processo di resistenza che porta gli abitanti delle periferie francesi a rifiutare il ruolo imposto di carne da macello per il mercato e farsi soggetto collettivo autonomo.
Non è casuale né accidentale che gli stessi titoli richiamino il lavoro di Danilo Montaldi, Militanti politici di base.

Costituendosi come il campo dei “senza voce”, la gioventù banlieusard trova una propria lingua e si impone al mondo tramite le emeutes, i riot o le rivolte. Attraverso il fuoco e la battaglia di strada riescono ad attirare su di sé gli occhi della società, a (ri)vendicare la propria esistenza.
Ed è ovvio che una narrazione egemone che li vuole docili e muti spinga immediatamente per dipingerli come bande di criminali, di delinquenti da punire; che insinui il dubbio di una regia mafiosa o jihadista, che punti il dito contro le stesse famiglie dei giovani che si mobilitano.
D’altronde non è molto diverso nei momenti di quiete, solo i toni sono più subdoli e pacati, ma la sostanza è quella. Criminalizzare la protesta e mistificare le sue istanze è il processo base per togliere spazio e legittimità politica ai subalterni.
Il politico che firma decreti drastici, il commentatore televisivo che sparge veleno e lo sbirro che ammazza in strada non sono che miseri pezzetti di un ingranaggio vorace votato al dominio e al profitto.

Eppure le rivolte, che sembrano venire dal nulla e andare nel nulla, non sono fuochi fatui. Niente avviene per caso o si genera dal nulla. La possibilità stessa delle emeutes poggia sulla sostanziale solidarietà di classe che innerva tutto il tessuto sociale dei quartieri.
Una istintiva coscienza politica, che non necessita di seminari di formazione, permette di riconoscersi tra eguali, di serrare i ranghi e muoversi nella stessa direzione.
E difatti le banlieue partecipano delle rivolte. La complicità permette il suo replicarsi e perdurare: se i petits sono in strada a scontrarsi con la polizia, il resto del quartiere è lì per proteggerli e offrirgli riparo, le formazioni militanti sono lì per fornire il supporto logistico e politico.

Non vi è una regia occulta, non vi sono generali e fanti in questi balzi in avanti, un sogno che accomuna grottescamente politicanti dell’antagonismo d’accatto e questurini di carriera.
Vi è una dialettica costante che vive dentro i rapporti del quartiere in cui le rivolte non fungono che da acceleratore. È in quelle fasi che l’istinto, la coscienza politica, è propedeutica alla consapevolezza politica, ovvero la sua messa a sistema ed il suo incanalamento dentro una pratica organizzata. Classe in sé e classe per sé, per riprendere la terminologia marxiana evocata nel volume non procedono secondo una traiettoria lineare e teleologica, ma sono in costante relazione, soggette a frettolose ritirate e bruschi avanzamenti. L’una è base costante e minima, l’altra è il suo zenit contingente e messo in forma.

Ne consegue che la rivolta non è l’unica lingua che parla la banlieue. La solidarietà di classe è alimentata ed alimenta realtà collettive che tessono una fitta trama di relazioni e possibilità dentro il quartiere, che incanalano le energie cercando di dargli ossigeno e forza.
E quest’indagine nel darne conto non si limita a ripercorrere la storia delle formazioni e delle modalità della politica dal basso dei quartieri, perennemente strette tra ipotesi di rappresentanza e autonomia, tra repressione e cooptazione; ma la lascia che a parlare siano gli stessi militanti politici di banlieue.
Attraverso stralci di interventi ad assemblee pubbliche, o con lunghe interviste, è la voce diretta di chi organizza il conflitto che restituisce la ricchezza dell’impegno e della militanza, le differenti traiettorie, lo scontro e la convergenza delle ipotesi.

Ne emerge una galassia frastagliata e multiforme, contraddittoria, a volte in competizione, altre in collisione, altre ancora in convergenza, ma dove torna costantemente il tentativo di costruire una potenza comune. L’attività sociale e mutualistica convive con le battaglie vertenziali e l’azione diretta; associazioni di quartiere e collettivi autonomi si muovono indipendentemente sul locale ma si collocano strategicamente su di una dimensione di reti o piattaforme nazionali.
Ciò che tiene insieme il tutto, nella prassi, è l’aderenza al bisogno: ci si muove ed organizza sulle necessità materiali che emergono dalle strade, siano esse quelle della casa, della salute o della socialità. Su queste verte l’intervento principale delle formazioni, per portare i territori sul piano della lotta.

Ma, ed è un “ma” che pesa come il monte Tai, la prospettiva non si limita all’immediato. Perimetrare l’azione sul bisogno permette l’osmosi col proprio tessuto sociale ma diventa assistenzialismo fine a se stesso laddove non trovi corrispondenza con un piano di sviluppo della forza, che sappia trasformare le piccole mobilitazioni in processi di cambiamento radicale. Ed ecco perché vi è il continuo sforzo nel tessere una rete che sia sempre più ampia, più fitta e determinata, come ecco perché della presenza militante nelle emeutes.
Questo rapporto tra spontaneità ed organizzazione è ciò che permette il perdurare di un humus collettivo in grado di sfidare le curve della crisi, del restringimento degli spazi di legittimità ed il ritornare continuo delle rivolte, sempre più larghe e approfondite.
Ultima quella che questa estate ha infiammato l’intera Francia a seguito dell’omicidio di un diciassettenne per mano di un poliziotto e che ha segnato un picco di radicalità finora inedito, sia nelle pratiche di piazza che nella risposta militare dello stato.

Sono schegge di un presente avanzato, o di un futuro già superato, quelle che vengono ricomposte nella banlieue. Qui sta il compimento dell’intenzione politica alla base dell’inchiesta.
Quello che viene disegnato non è un quadro da osservare per il piacere di un orientalismo militante.
La banlieue è scandagliata nel profondo perché è uno dei laboratori avanzati su cui si sperimenta un modello di dominio sociale da applicare poi serialmente. Alla stessa maniera l’osservazione delle sue forme di lotta getta luce sulle resistenze a venire.
Non è un caso che la storica separazione francese tra movimenti delle città, tendenzialmente bianchi e di classe media, e movimenti di periferia si sia andata assottigliando negli ultimi anni. Più la ristrutturazione liberista procede a investire i punti più fragili della ville e trascinarne gli abitanti nel pantano, più condizioni materiali e forme di opposizione vanno accomunandosi.

La citè in fiamme, la citè che si organizza non è che un frammento della realtà. Ma è nei frammenti che si può osservare riflesso un intero universo.
Va da sé che la specificità delle periferie francesi non può essere fotocopiata bell’e buona in altre realtà. Il retaggio coloniale, la rigidità identitaria della république, la storia del declino operaio e delle comunità black e beur, le politiche sociali e quelle repressive, non sono elementi che si possono aggirare; sono anzi gli elementi che vanno analizzati per comprendere il fenomeno.
Parigi non è Milano, che non è Los Angeles né Berlino.
Eppure nessuno può negare come colonia, carcere, sfruttamento, dominio siano gli assi portanti di una architettura generalizzata che, questa si, non conosce confini.

Un’analisi che tenga conto degli elementi concreti e specifici della situazione è essenziale per orientare l’azione, ma ancor di più per cogliere il generale nel particolare, gettare ponti che superino il limite del locale. Se un pezzo di Parigi può essere pescato a Milano, allora possono incontrarsi anche le loro lotte. Dialogare, stringersi, accumulare potenza.

La Santa Canaglia è un’osservazione completa, che unisce metodo e intenzione, realtà quotidiana e profondità teorica, restituendo un lavoro che può essere punto di partenza per ulteriori ed affini tentativi di studio, ma che può anche essere letta come una guida al lavoro della sovversione dell’esistente.
D’altronde di canaglie son piene le strade, quel che occorre che si dotino di un linguaggio comune che ne “santifichi” la forza.


  1. ne avevamo scritto qui  

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Estrattivismo, conflitti, resistenze https://www.carmillaonline.com/2021/02/19/estrattivismo-conflitti-resistenze/ Fri, 19 Feb 2021 09:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65034 [Il 20 febbraio verrà inaugurato il portale ECOR.network – Extractivism, COnflicts, Resistances. Di seguito ne anticipiamo l’articolo di apertura. Alexik]

ECOR.network  nasce come spazio di dibattito e approfondimento sull’aggressione del profitto contro i territori, e di informazione sui movimenti di resistenza. Si occuperà di tutte le forme di espropriazione attuate, in contesti rurali e urbani, in funzione dell’accumulazione del capitale, con tutti i loro annessi in termini di devastazione ambientale e sociale. Quella devastazione che avanza con la continua espansione dell’estrazione mineraria e dei combustibili fossili, con l’estendersi della frontiera agroindustriale, col proliferare della speculazione urbana, o [...]]]> [Il 20 febbraio verrà inaugurato il portale ECOR.network – Extractivism, COnflicts, Resistances. Di seguito ne anticipiamo l’articolo di apertura. Alexik]

ECOR.network  nasce come spazio di dibattito e approfondimento sull’aggressione del profitto contro i territori, e di informazione sui movimenti di resistenza.
Si occuperà di tutte le forme di espropriazione attuate, in contesti rurali e urbani, in funzione dell’accumulazione del capitale, con tutti i loro annessi in termini di devastazione ambientale e sociale.
Quella devastazione che avanza con la continua espansione dell’estrazione mineraria e dei combustibili fossili, con l’estendersi della frontiera agroindustriale, col proliferare della speculazione urbana, o con la costruzione di grandi reti infrastrutturali, funzionali alla spoliazione sia di comunità locali che di interi continenti.

Una rapina crescente delle risorse di tutto il mondo, che è necessità strutturale e condizione di esistenza di questo sistema di produzione. Lo accompagna fin dalla sua nascita – più o meno cinque secoli fa –  dai tempi in cui è iniziata l’espropriazione delle popolazioni rurali nella vecchia Europa e la depredazione di ogni terra che si trovasse malauguratamente sulle rotte delle aggressioni coloniali.
Procede oggi attraverso gli interventi militari o il ricatto del debito, i programmi di aggiustamento strutturale, gli accordi di libero scambio, le ondate speculative guidate dagli hedge funds. Ultimamente, anche seguendo le strade – solo apparentemente armoniose – della nuova via della seta.

La  profondità di questa rapina trova una parziale espressione nei dati dell’UN International Resource Panel sull’estrazione delle risorse del pianeta che ha raggiunto nel 2017 il livello insostenibile di 90 miliardi di tonnellate all’anno.

Il grafico rende evidenti le fasi di crescita dell’estrazione globale nell’ultimo mezzo secolo: quella degli anni ’80 e ’90 del novecento, indotta dalle politiche neoliberiste dettate dal ‘Washington Consensus’, che va a sommarsi, alla vigilia del nuovo millennio, all’enorme processo di accumulazione che ha proiettato la Cina sulla strada dell’egemonia nell’economia mondiale.
Un cambiamento epocale, quest’ultimo, che ha prodotto nel paese asiatico sconvolgimenti sociali ed ecosistemici inimmaginabili in un arco di tempo così limitato, e che ha richiesto, e continua a richiedere, quantità smisurate di materie prime, attraverso la crescita esponenziale sia dell’estrazione interna che delle importazioni.

Per dare un’idea della grandezza del fenomeno, nel 2018 il 79 % della lignite immessa sul mercato mondiale era destinata in Cina, così come il 94% del torio, il 71% dell’antimonio, il 64 % del cobalto, il 53% dello stagno, il 57% dell’alluminio, il 56 % della soia (e potremmo continuare).

Una pressione gigantesca sulle materie prime, che si addiziona a quella esercitata sia dai paesi emergenti che di vecchia industrializzazione, e che complessivamente va a gravare sui territori vittime di estrazione, sulla loro natura e sulle comunità umane che li popolano.
Sullo sfondo, foreste che bruciano, specie viventi che si estinguono, la temperatura del pianeta che sale.
Eppure l’inversione di tendenza non è all’ordine del giorno nemmeno a fronte dell’imminente catastrofe climatica, che diventa, al contrario, nuovo pretesto per il rilancio dell’accumulazione.

E’ di pochi giorni fa, infatti, la predizione di Goldman Sachs dell’inizio a breve di un nuovo “superciclo” delle commodities, cioè un forte aumento strutturale della domanda (e dei prezzi) delle materie prime, trainato dalla transizione energetica.
La green economy ha infatti un immenso bisogno di rame per “elettrificare il mondo”, di “critical raw materials” (dal litio, nichel e cobalto per le batterie, al silicio per il fotovoltaico), ma anche dei classici ferro, cromo, nichel per l’acciaio delle pale eoliche, del cemento per i plinti che le sostengono e di altro cemento per la costruzione delle grandi dighe, oltre a tutte le materie prime necessarie alla sostituzione dell’intero parco degli autoveicoli, e tanto altro. Tutta questa estrazione necessita a sua volta di energia.
Non è un caso che Goldman Sachs preveda un aumento della domanda e del prezzo del petrolio a breve e medio termine.

In pratica, proprio nel momento in cui dovremmo porre freno alle pressioni sul pianeta, la gestione capitalistica della transizione energetica spinge sull’acceleratore.
Genera una nuova fase di sviluppo dell’estrazione mineraria, del fracking, della costruzione di gasdotti (visto che il gas viene considerato come “combustibile di transizione”), che si accompagna all’estendersi del gigantismo idroelettrico, dei grandi campi di eolico e fotovoltaico, gestiti dalle multinazionali dell’energia.

Impianti anche a fortissimo impatto ambientale, costruiti per la produzione di un’ “energia rinnovabile” che, a giudicare dalle previsioni dell’OPEC fino al 2040, andrà ad aggiungersi, e non a sostituirsi, a quella prodotta coi combustibili fossili, all’interno di una tendenza complessiva di forte crescita per entrambe.

Parallelamente la retorica green non serve a fermare la produzione di normative a favore dell’agroindustria, adottate in gran parte del mondo in questi mesi di pandemia, dall’Unione Europea all’America Latina, nonostante l’impatto sul clima dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi sia universalmente riconosciuta. Il sospetto è che anche questo sviluppo possa essere soggetto a operazioni di greenwashing, visto che potenzialmente apre nuovi spazi per un aumento della produzione di biocombustibili e di biomasse, entrambi classificati fra le energie rinnovabili.
Vale a dire: nuova pressione sui suoli, sottratti alla produzione di cibo, nuova distruzione di biodiversità, nuova deforestazione.

Lungi dal condurci fuori dalla crisi climatica, la transizione energetica sembra studiata apposta per aggravarla, oltretutto in nome degli obbiettivi degli Accordi di Parigi (perché la via dell’inferno, si sa, è sempre lastricata di buone intenzioni).

Questa breve analisi tratteggia solo alcune caratteristiche del nostro futuro prossimo, prefigurando l’estensione dello sfruttamento dei territori e la violenza con cui verranno imposte nuove devastazioni.
Violenza che sta crescendo, sia nelle forme ‘ufficiose’, con l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali e ambientalisti di Asia, Africa e America Latina, sia nelle forme ufficiali della repressione di piazza, della criminalizzazione giudiziaria e del carcere per chi si oppone.
Questo rimanda al ruolo degli Stati come guardiani e garanti dell’accumulazione e come artefici delle strategie di pacificazione dei conflitti che ne derivano, dove per pacificazione si intende una funzione complessa, che alterna violenza e politica, al fine di ridurre le popolazioni conflittuali ad uno stato di ‘sottomissione pacifica’.

Su tutto questo occorre soffermarsi, per comprendere la portata mondiale dei fenomeni, conoscerli per contrastarli.
Occorre amplificare le voci di chi si oppone, creare legami internazionali, sostenere le lotte.
Lo faremo sulle pagine di ECOR, mettendo a disposizione  un catalogo virtuale che si arricchisce quotidianamente per facilitare l’accesso ad articoli, notizie aggiornate, saggi, documentari e dossier, prodotti a livello internazionale da movimenti e centri di ricerca, oltre ad analisi e materiali multimediali nostri.
Lo faremo promuovendo occasioni di dibattito. Vi aspettiamo il 24 febbraio per il nostro primo webinar:

Il dibattito, in lingua spagnola, si potrà seguire in diretta sulla pagina FB  di ECOR.Network,  e in differita all’indirizzo del portale.

 

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Territorio, sfruttamento, migrazione e conflitto: la lezione siciliana https://www.carmillaonline.com/2020/09/22/territorio-sfruttamento-migrazione-e-conflitto-la-lezione-siciliana/ Tue, 22 Sep 2020 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62608 di Jack Orlando

Antudo Info (a cura di), Si resti arrinesci, Deriveapprodi 2020, 9,00€

È da quando l’Italia è fatta che la famigerata Questione meridionale torna ciclicamente ad agitare il dibattito politico, con la sua coda di narrazioni vittimistiche e di paternali da vecchia borghesia, di scrollate di spalle e promesse solenni; un nodo mai sciolto perché in fondo non si può sciogliere uno dei pilastri dell’edificio del paese Italia, costruito sul sottosviluppo consapevole e strutturale del Sud a vantaggio del motore capitalistico collocato al Nord.

Un Sud buono per essere [...]]]> di Jack Orlando

Antudo Info (a cura di), Si resti arrinesci, Deriveapprodi 2020, 9,00€

È da quando l’Italia è fatta che la famigerata Questione meridionale torna ciclicamente ad agitare il dibattito politico, con la sua coda di narrazioni vittimistiche e di paternali da vecchia borghesia, di scrollate di spalle e promesse solenni; un nodo mai sciolto perché in fondo non si può sciogliere uno dei pilastri dell’edificio del paese Italia, costruito sul sottosviluppo consapevole e strutturale del Sud a vantaggio del motore capitalistico collocato al Nord.

Un Sud buono per essere usato come bacino di forza lavoro da trapiantare altrove, alle catene di montaggio della fabbrica, tra gli scaffali del terziario precarizzato o tra i banchi delle università-aziende delle metropoli, usato come discarica dove buttare gli scarti tossici di produzione e le colpe ataviche e primigenie del popolo italico pigro, truffatore e violento, la culla mitopoietica di un discorso dal sapore semirazziale, sempre buono per la legittimazione di politiche di sfruttamento sociale e avanzamento capitalistico da riversare poi su tutto il Belpaese.

Il Sud Italia come colonia interna, conquistato e assorbito a colpi di cannone e baionetta, normalizzato attraverso l’emorragia sociale delle migrazioni, desertificato attraverso la politica predatoria: è da questo assunto che parte il lavoro politico che la piattaforma siciliana Antudo ha sintetizzato nelle cento pagine del libro Si resti arrinesci (“se rimani riesci”), slogan che ribalta il vecchio e triste adagio cu nesci arrinesci (“chi parte riesce”), nel tentativo di dare corpo materiale e discorsivo alla battaglia contro l’emigrazione (soprattutto giovanile) dall’isola.

Più che tratteggiare i contorni essenziali di questa esperienza politica, quello che si rivela di importanza strategica nella riflessione proposta è l’assunzione di un punto focale per una prassi politica radicale (radicale nel senso originario, di andare alla radice delle cose) che sappia assumere attorno e dentro di sé tutto un caleidoscopio di contraddizioni e frizioni che vivono dentro lo schema del presente.

Assumere l’emigrazione come terreno di scontro vuol dire quindi andare a riscoprire quella storia, rimossa dalla storiografia ufficiale, che fa da trampolino alla riscoperta di un’identità culturale e collettiva sepolta sotto cumuli di giudizi inferiorizzanti. Insegnava Fanon che la scoperta di una propria identità e dignità costituisce una delle basi per il dischiudersi di una soggettività in grado di reclamare la propria emancipazione ed esercitare la propria coscienza. Non solo: significa ragionare sui meccanismi che si celano sotto quell’identità spezzata e sulle logiche politiche che hanno dato la forma alla realtà del meridione – quale posto assegnare alla sua gioventù, quali funzioni produttive (o improduttive) consegnare ai territori, quale tributo di sangue e denaro collocare sulla bilancia di disoccupazione e tassazione, quali nodi devono stringere più dolorosamente il corpo sociale per mantenerlo nella sua condizione subordinata.

Oppure, ancora, significa agire su una condizione oggettiva, materiale, che informa però soggettivamente tutto il tessuto sociale, ne crea le condizioni psicologiche ed emotive: dalle amicizie perse ai tornelli del porto, agli abbracci di congedo nelle famiglie, fino al senso di impotenza che aleggia su chi rimane e guarda gli altri andare altrove e quello di ineluttabilità che contorna gli emigranti. La dimensione strutturale si fa qui fatto intimo, di un personale che è immediatamente collettivo perché accomuna tutta una popolazione; il fattore particolare sgrana il rosario delle contraddizioni per disegnare tutto lo spettro del sistema di dominio e sfruttamento.
La battaglia per fermare l’emigrazione è allora battaglia per costruire le condizioni per rimanere, rimanere è il presupposto per la ricostruzione di una forza collettiva in grado di incidere e scardinare le strutture del nemico e costruire delle ipotesi concrete di cambiamento reale.

Se quello di Antudo è un lavoro pensato, costruito e agito particolarmente sulla dimensione locale della Sicilia è anche vero che, come vuole il luogo comune per cui ogni Nord ha il suo Sud, non è una dimensione esclusivamente siciliana quella dell’emigrazione come problema sociale, che, anzi, accomuna non solo tutto il meridione italiano, ma anche buona parte delle sue province, in cui il futuro ha i contorni stretti e grigi del cemento. Un minimo comune denominatore quindi, su cui ritorna quella possibilità di andare alla radice delle cose e dare corpo a focolai di resistenza e costruzione del dissenso e del contropotere.

Azzardando l’ipotesi di salire ancora di più nella catena della violenza sistemica, il marchio a fuoco impresso a suo tempo da casa Savoia alle terre del fu regno borbonico, non ricorda molto da vicino la collocazione che l’Italia ha assunto giocoforza nello scacchiere europeo? Fornitore di manodopera specializzata e rassegnata, discarica di colpe e rifiuti, peones cui dare pacche (o randellate) sulla testa; assunta con una punta di sarcasmo e saccenza padronale nel novero dei Pigs, i paesi scarsi d’Europa, i maiali che stanno nel primo mondo giusto a patto di stare nel fango del porcile.

Seguendo il filo del dominio coloniale non si tratta più (o non solo) di una faccenda localistica, di una Questione meridionale, ma di una questione dei territori, del loro uso capitalistico ma anche del loro contro-utilizzo all’interno di un disegno di antagonismo radicale di ampio respiro. Non si sta parlando qui della vetusta e mai chiarita parola d’ordine “ritornare nei territori”, ma di impugnare quei punti focali, quale è ad esempio l’emigrazione, che assumono su di sé la carica delle emozioni proprie del soggettivo e la dimensione delle contraddizioni oggettive che il capitale mette in bella mostra sui marciapiedi, di coniugare un’azione capillare e localizzata con una strategia di costruzione organizzativa e politica il più ampia e articolata possibile, sulla base di elementi centrali e riproducibili. Tale è la scommessa ambiziosa che, in controluce, le pagine di Antudo sembrano suggerire all’occhio militante, levandosi di torno quelle sfumature morali da sinistra pretesca che nessun interesse suscitano nel soggetto reale, per affrontare invece battaglie che sono prima di tutto materiali e che, proprio in quanto materiali, vanno a mutare l’orizzonte dei peones convertendoli in guerrilleros, e a ridisegnare i territori da luoghi d’accumulazione di capitale ad avamposti di conflitto.

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