Talia Shire – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 58)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 49 https://www.carmillaonline.com/2013/06/12/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-49/ Tue, 11 Jun 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6378 di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967 Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non [...]]]> di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967
Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non appena il colpo è compiuto (uno dei tanti, la trama non sceglie la consequenzialità come requisito) si va a far bisboccia trombando in mezzo a un mare di banconote, felici come un Paperon de’ Paperoni ingrifato. Tutto il film è attraversato da questa frenesia erotica e irriverente, in un montaggio schizzatissimo, tra scenografie psichedeliche e dai colori violenti e al suono di Morricone, che insaporisce con spezie indiane. Una gemma dove il lavoro onirico di Bava dei precedenti horror (quelli che conosco, perlomeno) trova naturalissima collocazione anche in un’opera artigianale che risulta tutt’altro che un fumettone. Bravo Bava e ottima La7 che con Alberto Crespi ha scelto il film per una prima serata, con un antipasto di mezz’ora con rivisitazione critica, interviste ai protagonisti e conservazione della memoria dei luoghi. Si tratta de La valigia dei sogni, uno dei pochi bei programmi (di cinema) in onda in tivù. (Vhs da La7; 1/9/04)

ddv4902482 – L’onanistico G3: Live in Concert di un cane, USA 1997
Ve lo dico prima: anno difficile. Vedrò una marea di titoli musicali per miei lavori recensorii. Parto con questo dvd prestato da Max che sa quanto mi piacciano le chitarre cafone. Trattasi di ottusa trasposizione su supporto digitale della prima tournée dei “Guitar 3”: in quell’occasione i tre chitarristi erano Joe Satriani, Steve Vai e Eric Johnson. La regia del concerto (di tal Jerry Bryant) è pedestre, poco aiutata da un lavoro di luci abbastanza casuale. Insomma: tecnicamente il prodotto fa cagare tipo aerosol. E la musica? Joe Satriani, pelato e con occhiali da mosquito, propone tre brani abbastanza melodici, anche se ricchi di svisate e tipici nitriti chitarristici. Divertente. Il timidone e pulitissimo Eric Johnson è il più raffinato del lotto: tre composizioni dove confluiscono jazz, blues e una puntarella di noia. E poi arriva Steve Vai, il supertamarro già protagonista di Mississippi Adventure. E anche qui il funambolo fa il pagliaccio: non metto in dubbio che sappia suonare cose turche e che diteggiare le partiture di Frank Zappa sia faccenda per pochi eletti, ma ascoltandolo sembra di essere a un saggio di chitarrismo ginnico degli anni Ottanta. Tapping frenetico, note iperacute e scale supersoniche su una chitarra a 7 corde, perché con 6 sarebbe troppo facile, ma musica quasi mai. Mah! Così sia: il pubblico, composto unicamente da caucasici nerd segaioli fanatici della sei corde, apprezza. Il Cacace, noto caprone allo strumento, soffre di invidia del pene, sì, ma rimane attonito di fronte a tanta esibita masturbazione. La jam finale vede i tre alle prese con brani storici: qui le canzoni ci sono e le svisate sembrano meno campate per aria. (Dvd; 1 e 2/9/04)

ddv4903483 – Rude Boy di Jack Hazan e David Mingay, Gran Bretagna 1980
Visione dovuta a urgenza professionale: beccatevi tosto il pezzo redatto per i tipi di Rodeo. A seguire ulteriori spigolature degno di cotesto contesto. “Coerente coi tempi, un guerrilla-movie che segue le gesta di Ray, sfaccendato, nichilista, amante della musica. Rude Boy è prodotto di pregio perché fotografa un’epoca e ci restituisce i Clash nel momento di maggiore impatto sonoro e mediatico, in un’Inghilterra scossa dall’esplosione punk, percorsa da sintomi fascisti e dall’insorgenza di quella gran sagoma della Thatcher. Inerti spettatori la già pagliaccesca monarchia e la vecchia sinistra parruccona. Film dalla gestazione travagliata, è per nulla agiografico e documenta la crescita della band, concerto dopo concerto, tra furbizie e ingenuità e grandissima carica agonistica, rossi come il sangue: strumentazione scarna, concerti da mezz’ora e Joe Strummer che si lava la maglietta con la scritta “Brigade rosse” in albergo, in proprio. Il plot è però noioso ed è sporco e sconnesso come le dentature dei primi veri four horseman. Film poco riuscito, ma maestoso proprio nel mettere in scena questo clima fragile, sull’orlo del precipizio, Rude Boy vive della musica straordinaria e i produttori del dvd, consapevoli della menata narrativa, hanno ideato un menu parallelo che permette di vedere soltanto le esibizione musicali, tralasciando il resto. Attenzione perché circola anche un’infame versione full-frame senza gli extra, qui tantissimi e gustosi. Un’ultima avvertenza dalla voce e dalla chitarra di Mick Jones: Stay Free”. Cosa posso aggiungere? Il film è quello che è, del resto Don Letts, i Clash l’avrebbero incontrato solo più tardi, e la band stessa contestò il risultato finale. Essenziale solo per chi ama la musica e la mitologia del quartetto, è un film-verità come se ne facevano un tempo, senza liberatorie, permessi e consensi alla privacy, armandosi di cinepresa a spalla e faccia tosta. Le immagini live sono straordinarie, senza stacchi, con la band sempre ripresa di spalle. Nel disordinato plot emergono alcune tragiche verità politiche ancora attuali (i fascisti che rialzano la testa, la disoccupazione che uccide, l’inutilità del Labour e l’inadeguatezza della sinistra militante) e si presagiscono i germi dell’allora futuro (da questo calderone politico/esistenziale nascerà il capolavoro assoluto London Calling). Comunque immensi Clash. Ah: da ieri Barbara e io aspettiamo un bambino. Se non è un teaser questo, eh? (Dvd; 4/9/04)

ddv4904484 – Caruccio, Below di David Twohy, USA 2002
Dal regista di Pitch Black, un soddisfacente thriller sottomarino parapsicologico, a discreta tenuta stagna. Ottima fotografia, buoni attori (tra cui l’intrigante Olivia Williams) e tensione sostenuta, ma se volete la trama ve l’andate a cercare in Rete, ché ora non ho tempo. Per affittarlo da Blockbusters ho fatto mezz’ora di coda, dopo averne persa un’altra a capire cosa si potesse vedere. Così imparo. A visione ultimata, scanalando pigramente tra i canali televisivi, becco dieci minuti di Anche gli angeli mangiano fagioli, monumentale gangster-spaghetti-movie con Bud Spencer e Giuliano Gemma. Non lo vedevo da 25 anni (primo film visto al parrocchiale di Champoluc, assieme a Pier Paolo e a tutta la fratellanza) e prima o poi me lo scoppio tutto intero, magari col bimbo in arrivo. E comunque ho riso come un fesso. E ne vado fiero, altroché. (Dvd; 6/9/04)

ddv4905485 – Gli occhi del testimone di Anthony Waller, USA 1995 e gli occhi pallati del Cacace
Billie è a Mosca, come truccatrice (muta) sul set di un film horror recitato da attori tremendi (la prima scena vede una morire peggio di Peter Sellers in Hollywood Party). A fine riprese tutti lasciano il set, ma lei ha dimenticato qualcosa. Torna indietro e assiste – non vista – alla realizzazione di uno snuff movie. Ma non può dirlo a nessuno, anche se gli assassini capiscono che c’è qualcuno che sa troppo. Prima mezz’ora da spaghetto vero, poi il film tiene bene e conclude con prevedibili colpi di scena a ripetizione, molto godibili. Da horror puro si trasforma in pastiche (anche con parti di commedia) e funziona meno. Però niente male: film di genere essenziale, ben teso, ricco di ideuzze, carico di letture triple incrociate con omaggi, plagi, citazioni (ce n’è per Carpenter, De Palma e pure Soavi), ammiccamenti e ribaltamenti arguti (che non so bene cosa significhi, ma avevo preso questo preciso appunto). Attori discreti, montaggio intelligente e una certa coerenza formale, anche se cinematograficamente dimostra più dei suoi dieci anni. Poi, complice una Vhs di Pier Paolo, ho visto con gli occhi gonfi come due uova sode le parti hot di Gocce d’acqua su pietre roventi di François Ozon, giovin regista che dopo l’insulso Otto donne e un mistero ho sempre evitato di recuperare. Ma ragazzi, qui si tratta di una pièce di Fassbinder, mica cazzi, e infatti eccovi la splendida ninfetta Ludivine Sagnier che regala dieci minuti d’antologia (o da infarto, dipende). Se una cosa così la becchi su Internet rischi l’arresto per pedofilia, ma questo è Cinema, signori, e Ozon è un Autore, per cui bando alle ciance e godetevi questa ventenne nuda con le grosse tette di marmo e il pelo irsuto, messa così in scena sicuramente per motivi artistici, eh. (Vhs da Retequattro; 8/9/04)

ddv4906486 – E beh, Reservoir Dogs di Quentin Tarantino, USA 1991
Becco Barbara dell’umore giusto e, dopo breve corteggiamento da vero marpione, la gravida cede e accetta di rivedere in versione originale il film che ha lanciato Tarantino. La violenza, i dialoghi, la musica e il montaggio diventano stile: Quentin rimescola tutto in perfetta accezione postmoderna e dà valore a elementi e tecniche che, per definizione (errata), sarebbero propri del cinema di serie B. Succede così che vecchie hit sconosciute (e un po’ zarre) diventino in colonna sonora clamorose perché perfettamente abbinate. Lo smontaggio della trama e il rimontaggio con anticipazioni, misteri e accostamenti incongrui ridefiniscono il concetto di editing e i dialoghi oziosi di tutti i giorni assumono epicità nella loro leggerezza e tremenda importanza: perché Madonna si sente come una vergine, “come se fosse veramente la prima volta”? Rivisto, Le iene, soffre anche di qualche lentezza e non sempre i dialoghi sono eccezionali, ma qui c’è già tutto il geniale regista che verrà e che, per fortuna, non imparerà la sintesi, concedendosi quella magnifica indolenza che rende grande il cinema (e che molti hanno contestato nel secondo episodio di Kill Bill). E al di là di tutto è eccezionale la capacità di Tarantino di dirigere un cast scelto perfettamente. È clamorosa la prova di Tim Roth e struggente il rapporto filiale che instaura col duro dal cuore tenero Harvey Keitel. Non da meno sono Steve Buscemi, Chris Penn e lo schizzato Michael Madsen. Breve, ma molto significativa, la comparsata di Ed Bunker. Purtroppo il dvd in edizione speciale della Cecchi Gori sembra che l’abbia fatto proprio lui con le sue manotte grasse: soffre di un riversamento mediocre (fotografia troppo chiara, definizione non ottimale, qualche scattino); in compenso tantissimi gustosi extra. Affari di famiglia: prima ecografia e il bimbo è un fagiolino di 14 millimetri, e si sente il cuore che batte già. E batte rock, oh yeah. (Dvd; 19/9/04)

ddv4907487 – Splendida, La donna della domenica, di Luigi Comencini, Italia 1975
In una Torino assolata, Mastroianni è il commissario Santamaria, un sornione ispettore romano alle prese con la proverbiale falsità cortese dei gianduia: un viscido geometra è stato ucciso a colpi di un curioso oggetto (un elegante cazzo di pietra) e ci son molti sospettati. Tra di loro la bella e annoiata signora Dosio (Jacqueline Bisset): col poliziotto sarà amore, e con quegli occhi vorrei vedere come no. Tra oziosi dubbi linguistici e intrighi sotterranei, Comencini, assieme ad Age e Scarpelli sceneggiatori, restituisce l’ottimo giallo di Fruttero e Lucentini e lo vena di commedia e sensualità, con feroce ironia nei confronti della dormiente borghesia torinese. La fotografia è ingiudicabile (qui dominata da un verde bottiglia, in full frame), il montaggio nervoso (sgraziato, anni Settanta: non saprei come definirlo, ma è subito individuabile se appena conoscete un po’ di film di quel periodo) e la regia economica e puntuale: la si apprezza soprattutto nell’eccezionale direzione del cast. Grandissime le interpretazioni di Jean-Louis Trintignant, Lina Volonghi, Claudio Gora, Omero Antonutti e Gigi Ballista. La Bisset non viene sfigurata neanche da un’atroce acconciatura e non importa se e quanto sia brava, è splendida e basta. Per gli appassionati delle minutaglie statistiche assolutamente inutili, noto l’incredibile incrocio attoriale con diversi film coevi di Paolo Villaggio. Qui ci sono: Pino Caruso (futuro Ovidio Camorra ne Il belpaese), Mauro Vestri (il dirigente cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli ne Il secondo tragico Fantozzi), Giuseppe Anatrelli (lo storico Calboni dei primi tre Fantozzi), Antonino Faa Di Bruno (patrigno in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno e Duca Conte Semenzara in Fantozzi) e soprattutto l’assoluto Ennio Antonelli (“Zio Antunello”, panettiere in Fantozzi contro tutti, cameriere nella trattoria “Gli incivili” in Fracchia la belva umana e qui nella parte del marmista che esclama: “mi hanno rotto diciotto cazzi!”). (Vhs da La7; 28/9/04)

ddv4908488/489 – The Godfather e The Godfather Part II di Francis Ford Coppola, USA 1972 e 1974
Ah, beh: masterpiece! Nello splendore del Dvd in lingua originale ci dedichiamo alla visione completa del mafia movie per eccellenza, secondo solo alla saga (e che gran saga!) di Concetta Licata. I fatti sono noti e noi, pubblico medio, rimaniamo irretiti dalla logica mafiosa che fa da motore alle vicende: la logica del legame familiare che è al di sopra della legge, il vincolo affettivo o puramente carnale che prevale su tutto. Coppola ci cattura con Michael (Pacino), il classico bravo ragazzo che esce dalla legalità per vendicare il padre e diventa il “buono” per cui tenere, contro mafiosi peggiori o poliziotti corrotti. Ed esattamente come certi protagonisti del film, anche noi perdiamo fiducia in Michael quando la legge degli affari prevale su quella degli affetti, al punto che fa uccidere il genero e il fratello Vito. È troppo e lo è esattamente nella logica mafiosa: i familiari non si toccano! Sublime ambiguità di Coppola che gode nel dipingere questo controverso affresco, ricco di personaggi memorabili, a partire dal carismatico Padrino (Marlon Brando con gote rimpinzate di cotone) fino al fisicissimo Sonny (James Caan). Splendidi anche i personaggi dell’avvocato fedele (Robert Duvall), di Kay moglie incredula (Diane Keaton) o della sorella viscerale e sottomessa (Talia Shire, non ancora Adrianaaaaa). Nel secondo episodio la saga viene approfondita: parallelamente alla scalata al potere di Michael – un potere che divora, annebbia e annichilisce –, Coppola ci fa vedere anche le radici della fortuna dei Corleone (in una sorta di prequel mixato al sequel). Il racconto ha la stessa atmosfera che puoi ritrovare nei capolavori epici di Leone, Bertolucci o Scorsese (giù giù, fino a De Palma). Non ricordo più chi lo avesse definito il “cinema italo-americano”, ma aveva perfettamente ragione. P.s. inutile, ma doveroso, se no finisce che son sempre troppo buono: il mio amato Bob De Niro è sinceramente legnoso e parla un tremendo finto siculo con accento americano. Ma con tutti i soldi spesi, un buon coach non potevate pigliarvelo?! Mah! (Dvd; 5 e 7/10/04)

ddv4909490 – Estenuante, La fuga di Delmer Daves, USA 1947
Una gran bella rottura di coglioni. Intendiamoci: fare un film che per una buona metà è in soggettiva è invenzione coraggiosa e meritevole. Ma il flirt con l’assurdo, tipo Detour (ma senza quel fascino malato) e la risoluzione eufemisticamente statica nonché ancor meno credibile del resto della vicenda, rendono l’esperienza piacevole come un istrice nei boxer. Il titolo cinetico, oltre tutto, è una menzogna perché trattasi di noir raccontato, tipo La squadra di RaiTre: azione poca e interpreti scultorei. In montaggio c’era l’abitudine di movimentare insertando primissimi piani assolutamente non in continuità, ma la pratica, al posto di dare vivacità, è oggi grottesca. Cacchio: per una volta che ho convinto Barbara a vedere un glorioso black and white di Fuori Orario, è uno smacco orrendo che pagherò caro. Humphrey Bogart è un capacchione enorme su corpo segaligno e non si capisce quale fascino potesse emanare, sia nella vita che nella finzione: fatto sta che Laureen Bacall si innamora di questo acromegalico addirittura prima di vederlo (e sapete perché? Perché era finito in carcere ingiustamente come suo padre… ma dove siamo? All’asilo?). Del resto lui è stato incastrato da una megera che gode a far del male al prossimo… così, alla cazzo. I critici seri vi diranno che film come questi restituiscono l’angoscia e l’indeterminatezza del primissimo dopoguerra, del crollo delle certezze e – siccome il protagonista è bendato dopo una plastica facciale – anche della mancanza d’identità. Però, credetemi, è un film storto come Cuccia e se faceva impressione vederlo in sala nel 1947, perché totalmente squinternato, oggi fa solo prudere le mani. La Bacall era molto elegante e non da meno gli interni art decò o gli esterni della solatìa San Francisco. Ma per queste cose c’è anche la rivista Architectural Digest, vi assicuro, ed è troppo poco per farmi appassionare a un film che gode di storica e immeritata fama, dovuta all’entusiasmo cinefilo di critici che mai rivedono i propri giudizi (e soprattutto i film). (Vhs da RaiTre; 6/10/04)

ddv4910491 – Bello!, Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, Italia 2004
Finalmente riesco ad andare al cinema. E son contento, perché Lavorare con lentezza è un buon film che prende il Mito (Radio Alice) e ci costruisce intorno, lavorando ai fianchi, con intelligenza, humour e profondità, parlandoci degli anni Venti, del ’77 e del 2001, con Lo Russo morto come Carlo Giuliani, per prepotenza connaturata allo Stato. Belle facce, ottimo montaggio, musiche scelte benissimo (a parte gli Afterhours che – scusate – fanno ridicolo scempio degli Area. Sono già in parentesi aperta per cui proseguo: ma gli Afterhours… quale melodia, verso, assolo o arrangiamento ci lasceranno quando smetteranno di suonare e il Mucchio Selvaggio di sponsorizzarli? Io ci ho provato, con i dischi, più volte, ma proprio non capisco, non ci arrivo. Per me sono come le regole del baseball: incomprensibili). Film felicemente contraddittorio, veloce e poi lento, in magnifica armonia, con protagoniste tutte le anime (bianche e nere) degli anni Settanta, mai didascalico, mai agiografico, mai ideologico. Ma con le idee ben chiare: no ai capetti e ai professori, sì alla leggerezza e alla libido organizzata. A tratti divertito, in altri momenti tragico, Lavorare con lentezza mescola la Storia con le storie (come insegnano i Wu Ming, qui co-sceneggiatori) e l’alto con il basso, ma senza alcuna spocchia critica. Si sente il piacere di narrare, perché la vita è così, non è una sega intellettuale e può capitare che vicino a Bifo ci sia Pippo Santanastaso. E del resto, dei due protagonisti, Sgualo fa l’urlo di Chen mentre Pelo sente i Led Zeppelin. Purtroppo eravamo in pochi, in sala. (Cinema Ducale, Milano; 11/10/04)

ddv4911492 – L’epocale Dont Look Back di D.A. Pennebaker, USA 1967 e, già che ci siamo, Sono incinta di Fabiana Sargentini
“Hai 24 anni e sei in tour in Gran Bretagna, con la certezza che tutto quello che ti circonda è vecchio e non ti può capire. Sei solo con pochi amici e un manager, Grossman, dalla faccia bonaria e dai modi prepotenti, che sa pretendere i tuoi soldi. E c’è pure Joan Baez che ti accompagna, fedele come un usignolo; c’è Donovan che prova a piacerti (e non ci riesce); ci sono i fan che ti chiedono The Times They Are A-Changin’ e storcono il naso di fronte alle canzoni più recenti, troppo visionarie e già impregnate di profumo d’erba. E il pubblico che ti ascolta mai potrebbe tollerare il fatto che presto proverai altro. E che non ti consideri un attivista politico e le tue canzoni non portano alcun messaggio. Non vuoi essere considerato un musicista folk, tanto meno pop e dirti “rock” è ancora troppo presto. Ma non importa: a chi interessano le definizioni, se non ai critici? Tu sei già superiore, già cinico, già oltre. Il documentarista Pennebaker segue Bob Dylan nella sua tournée britannica del 1965 e ci regala un incredibile ritratto dell’artista da giovane, fatto con una sola cinepresa e tanto cervello. Incontri, scontri, blues improvvisati, fumo denso, una macchina da scrivere, Ginsberg sullo sfondo: più parlato che musicale, è un film lontanissimo dall’odierna grammatica del rockumentary, ma che dice molto, molto di più. In un B&N coloratissimo, Dont Look Back è difficile, ma remunerativo. Ottimi gli extra, ma mancano i sottotitoli: si astengano i non anglomuniti”. Poche aggiunte alla recensione per Rodeo: Pennebaker inventa con questo film un nuovo atteggiamento produttivo. La troupe è ridotta a due persone indipendenti (l’audio è sincronizzato con una maneggevole e leggerissima cinepresa a 16mm, ma senza cavi a legare i movimenti) e il regista si mescola agli artisti fino a diventare invisibile, la classica fly on the wall, che respira l’odore del mito mentre si va facendo. Del giovane Dylan tabagista senti tutta la puzza, l’insicurezza e la sublime tracotanza, come quando tritura con un flusso di coscienza inarrestabile lo sprovveduto (e fuori dal tempo) Horace Judson, giornalista di Time, dicendogli che lui sa cantare bene come Caruso. Ed è vero. In testa alla pellicola c’è la famosa sequenza di Subterranean Homesick Blues, con Bob che sfoglia i cartelli con le parole chiave della canzone mentre Allen Ginsberg parlotta sullo sfondo. Distribuito nel circuito pornografico di San Francisco, arrivò poi nelle sale mainstream, col suo titolo programmaticamente sbagliato (Dont al posto di Don’t). Bello, decisamente. Aggiungo che in serata ho visto – sentendomi tirato in causa – anche Sono incinta di Fabiana Sargentini (Italia 2004, visto in diretta su RaiTre), documentario intelligente e gradevole: 69 uomini raccontano la loro reazione alle fatidiche parole pronunciate dalla partner come da titolo. Si va dallo stordimento ottuso alla fuga codarda, sino alla gioia più solare: nessun giudizio, nessuna visione preconcetta, ma una comprensiva e calorosa visione “femminile”. Non so chi tu sia, ma brava Fabiana! (Dvd; 21/10/04)

ddv4912493 – The Godfather Part III di Francis Ford Coppola, USA 1990
Terza parte, realizzata a distanza di 16 anni dalla seconda. La finezza psicologica, la costruzione per piccole addizioni, la visione d’insieme del grande affresco, sono però qui perse, in un roboante racconto molto eighties. Michael cerca una nuova rispettabilità: ha mollato tutti gli affari sporchi ma viene immancabilmente risucchiato nel gorgo delle vendette incrociate e stavolta è molto più vulnerabile, con una figlia (Sofia Coppola, paffutissima) che non vuole credere a quello che sa di lui e un figlio che preferisce cantare piuttosto che immischiarsi negli affari di famiglia. C’è poi il nipote birichino e incestuoso: Vinnie (Andy Garcia), irruento come il padre Sonny. Il film è godibilissimo, ma Coppola va dritto al cash e la tragedia gli prende la mano, in un crescendo inarrestabile: quando arrivano un simil Marcinkus, un simil Andreotti e un simil Gelli, assieme a un vero Papa Luciani, immancabilmente buono e avvelenato, beh, il terzo atto diventa un ricamino sul tessuto della leggenda. Peccato. Peccato che ci sia un cannolo assassino e un finale sulle arie della Cavalleria rusticana dove ogni luogo comune sulla mafia e sulla tragedia operistica procedono a braccetto, con colpo in mezzo al cuore della figlia del boss. Peccato per quel finto Calvi appeso sotto un ponte a Londra, apoteosi del kitsch. Peccato che il sosia di Andreotti venga ammazzato dicendogli (sublime vaccata!) “il potere logora chi non ce l’ha”. E peccato che tutto ciò sia avvenuto solo nella finzione. Ad ogni buon conto ci sarebbe materiale per ulteriori sviluppi: Vinnie è il logico futuro Padrino e chissà che… Nel frattempo, come attore, Garcia è pressoché scomparso e lo si sente quando sbraita contro la Cuba castrista, mentre la Coppola è invece diventata regista, immagino dovendo lottare contro i tantissimi pregiudizi e le malevole accuse di essere una figlia di papà. Ma perché, dài! (Dvd; 24/10/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 49)

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