T. Rex – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:00:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 7: David Johansen (1950-2025) and the New York Dolls https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/elogio-delleccesso-7-david-johansen-1950-2025-e-i-new-york-dolls/ Tue, 04 Mar 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87178 di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan Who can expound all the children this time? (Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo [...]]]> di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan
Who can expound all the children this time?

(Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo in cui ancora la provocazione si accompagna alla rabbia e alla disillusione con esiti tutt’altro che scontati.

Oggi è facile, troppo facile, presentarsi sui palchi finti-rock con atteggiamenti ambigui, reggicalze indossati da uomini truccati e bassiste a seno scoperto, per fingere di rappresentare una “novità” o, peggio ancora, una “provocazione”, ma, che dio ce ne scampi, non sono altro che rifritture di quanto avvenuto sulla scena musicale anglo-americana ad inizio anni Settanta con l’esplodere del fenomeno glam-rock, di cui l’esponente di maggior spicco fu certamente Marc Bolan (1947-1977) e che per David Bowie (1947-2016) avrebbe rappresentato soltanto uno dei momenti di passaggio di una più che camaleontica carriera,

Le date di nascita dei protagonisti sembrano parlare, per i giovani d’oggi, di un’età lontana e di dinosauri e non a caso, forse ancora, lo stesso Marc Bolan, dopo una breve esistenza del suo primo gruppo di ispirazione psichedelica, i John’s Children1 avrebbe raggiunto il successo con un gruppo denominato nella sua prima formazione acustica Tyrannosaurus Rex e successivamente, nella fase elettrica, più semplicemente T.Rex.

Sì, ma che dinosauri e tirannosauri! Come impararono rapidamente gli adolescenti dell’epoca che, per la prima volta, colsero in quelle espressioni, a metà strada tra provocazione e vena intimistica proiettata con forza fuori dal misero sé, con un nuovo e semplificato stile musicale e di abbigliamento transgender, un ulteriore passo verso la liberazione individuale e di genere. Come ha affermato Dick Hebdige, non solo il glam, dai Roxy Music a Bolan, passando per David Bowie:

era apertamente disinteressato sia alle questioni politiche e sociali dell’epoca sia alla vita della working class in genere, ma tutta la sua estetica veniva affermata evitando deliberatamente il mondo “reale” e il linguaggio prosaico in cui quel mondo veniva abitualmente descritto, vissuto e riprodotto. […] Quando si affrontava la “crisi” contemporanea”, ciò accadeva in maniera così indiretta che veniva rappresentata in forma metaforica come un mondo morto di umanoidi, ambiguamente piacevoli e oltraggiosi. […] cionondimeno si dovette [al glam] se furono sollevati per la prima volta problemi di identità sessuale che erano stati precedentemente repressi, ignorati o appena ccennati nel rock e nella cultura giovanile. Nel glam rock, almeno fra quegli artisti che si collocavano, come Bowie e i Roxy Music, all’estremità più sofisticata di quello scintillante spettro, l’enfasi sovversiva si spostò dalla classe e dai giovani sulla sessualità e sulla tipologia sessuale. Benché Bowie fosse ben lontano dalla liberazione intesa nel senso radicale corrente, dando la preferenza al dandysmo e al travestimento – a ciò che Angela Carter ha descritto come “l’ambivalente trionfo dell’oppresso”2 – più che un”autentico” superamento dei ruoli sessuali, egli e per estensione quelli che copiavano il suo stile “misero” effettivamente “in discussione il valore e il significatondell’adolescenza e il passaggio al mondo adulto del lavoro”. E lo fecero in un modo singolare, per mezzo di una confusione arificiosa delle immagini maschili e femminili, tramite le quali si compiva tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità3.

In quel contesto e in quegli anni, però, continuando con la metafora preistorica, i New York Dolls formatisi e cresciuti nella Grande Mela, rappresentarono i velociraptor della scena musicale. Poco romantici e retrò, ma autentici assassini di chitarre e note, con un sound ispirato ai Rolling Stones più selvaggi e ai Velvet Undergroundi, autentici santi patroni dei bassifondi della città4, i Dolls ebbero all’inizio vita difficile.

La facile sistematizzazione “rockettara” li ha spesso inseriti nel genere glam, quello di Bolan, dei T.Rex, Gary Glitter, Roxy Music e, per un periodo come si è detto, anche di Bowie, ma si tratta soltanto di una forzatura. Basta infatti ascoltare anche una sola nota uscente da una delle loro canzono più famose, come Personality Crisis, Vietnamese Baby oppure Frankenstein, per capire che siamo già da un’altra parte, su un altro pianeta: quello del punk.

David Johansen (voce e armonica a bocca, 1950-2025), Johnny Thunders (chitarra e voce, 1952-1991), Sylvain Sylvain ( chitarra, tastiere e voce, 1951-2021), Arthur Harold “Killer Kane” (basso elettrico, 1949-2004) e Jerry Nolan (batteria, 1946-1992), dalla meravigliosa copertina del loro primo album, intitolato semplicemente New York Dolls, già promettevano sfracelli. Cinque potenziali juvenile delinquent travestiti e truccati, con scarpe dai tacchi a spillo, rivolgono uno sguardo minaccioso all’intero ordine macho e perbenista del mondo.

In realtà abiti e trucchi provenivano, almeno per alcuni di loro, dai guardaroba e dalle toilette delle madri, come avrebbero poi confessato in alcune interviste5, ma l’ispirazione e la postura, oltre che dai già citati Rolling Stones, discendeva direttamente da quelle di Iggy Pop e dei suoi scelleratissimi, almeno per i benpensanti e i “brown shoes” di cui già aveva cantato Frank Zappa6, Stooges della Detroit ancora fiammeggiante di rivolte e musica heavy metal7.

Come ci spiega Steven Blush:

Nel 1970 New York era caduta in rovina. Il dissesto economico aveva catapultato ls capitale americana del business e della cultura in un inferno criminale popolato di rapinatori, prostitute, senzatetto, ladri e truffatori. Il braccio violento della Legge e Kojak ne coglievano la ferocia e il degrado, ma non il sovraccarico olfattivo causato da spazzatura, gas di scarico ed escrementi di origine ignota. […] Mentre l’America attraversava lo sfinimento post-Vietnam, il rock dopo la morte di Jimi, Jim e Janis, risentiva dello stress post-Woodstock. Il rock era diventato autentico e introspettivo [e] raggiunse il suo punto più basso con il Concert for Bangladesh di George Harrison che si tenne nell’agosto del 1971 al Garden (il primo evento di beneficenza di una rock star), una faccenda autoreferenziale e mal gestita che intimidì il pubblico e i cui proventi non arrivarono praticamente mai ai bambini affamati. Il “flower power” sembrava già una storia di secoli prima. Erba e acidi cedettero il posto a cocaina, speed ed eroina8.

In quel contesto anche l’adolescenza doveva perdere la sua innocenza, vera o presunta che fosse mai stata. Lo stesso David Johansen avrebbe ricordato in un’intervista rilasciata nel 1997:

Quando si sono formati i Dolls, era il tempo in cui tutti, almeno nell’East Village, prendevano un sacco di acido, ed erano in fissa con questa utopia dell’androgino. E’ stato allora che si è formato il femminismo radicale e il collettivo “Up Against the Wall Motherfuckers” – anche io me la facevo con quella gente. Ci vestivamo sempre in quel modo. Non è che ci siamo riuniti e abbiamo deciso: “Vestiamoci in modo provocatorio” – è stata la cosa che ci ha accomunati tutti fin dall’inizio. […] Certa gente ci molestava, ma finiva inevitabilmente per pentirsene9.

Come i Fugs e i Velvet Underground prima di loro, rappresentavano una nuova specie di rocker newyorkesi. Uno dei primi gruppi a esibirsi nei locali come Max’s Kansas City, Mercer Arts Center, l’Hotel Diplomat, i drag bar dell’East Village e il Mother’ in prossimità del Chelsea Hotel. I cinque mettevano in scena un rock fatto di Off Off Broadway, Rhythm and Blues della vecchia scuola, nichilismo tossico e l’estremizzazione del bad boy travestito da donna. Per l’epoca una miscela potenzialmente esplosiva. E’ ancora una volta Johansen a descrivere quella scena:

Eravamo decisi ad annientare quella sensazione di “gabbia dorata” da rock star. Quando suonavamo la Mercer, il pubblico saltava sul palco e ballava. Volevamo essere diversi perché odiavamo tutti quei fottuti tizi che pensavano di essere migliori di chiunque altro. Per quanto ci riguardava erano solo un branco di idioti10.

Mentre sulle origini effettive della band ci rammenta poi ancora che

St. Marks Place, da ragazzino quella strada era tutta mia. Conoscevo un mucchio di gente, ed erano tutti artisti alternativi. Quello era il vero underground; non era tutto omologato. Quando avevo circa diciassette anni lavoravo in un negozio di cianfrusaglie chiamato Matchless a St. Mars Place: facevano orecchini con lattine di birra. Il proprietario era anche un costumista e scenografo che lavorava con il Ridiculous Theatre. Ho iniziato a lavorare per lui e la paga faceva schifo, ma grazie a lui ho conosciuto tutta qquesta gente del Ridiculous Theatre che frequentava il negozio. All’inizio era una specie di tuttofare del Riculous. Luci, suono […] ho anche scritto delle canzoni per loro. A volte suonavo – male- la chitarra. […] La sera andavamo al Max’s. Nessuno aveva un soldo e lì si potevano mangiare gratis panini e insalata. E’ stato più o meno in quel periodo che ho conosciuto Thunders e gli altri. Un tizio nel mio palazzo conosceva BillyMurcia. Mi aveva detto che c’era una band a cui serviva un cantante. Un giorno qualcuno ha bussato alla mia porta, erano Arthur e Billy. Sono andato a casa di Johnny e ci siamo messi a suonare. La band è nata il giorno stesso11.

Il primo album ufficiale, nonostante esistano un gran quantità di demo session, registrazioni dal vivo e in studio precedenti quella data, uscì nel 1973 con una produzione suddivisa tra Marty Thau, Paul Nelson, Steve Leber e Todd Rundgren, che risulterà essere nelle note di copertina il produttore ufficiale. Ma nonostante questo la vita del gruppo non divenne più facile, come ricordava Sylvain Sylvain, in realtà Sylvain Mizrahi, in un’intervista del 1998.

La gente crede che la cerchia di Warhol abbia accolto i Dolls. In realtà i Velvet Underground erano la vecchia generazione, mentre noi eravamo le nuove leve dei club, e stavamo invadendo il loro territorio. Non erano esattamente accoglienti. Ci sono state delle volte in cui abbiamo suonato al piano superiore del Max’s perché eravamo banditi dal bar al piano terra. Non eravamo ammessi al piano di sotto. Ecco a che punto eravamo arrivati12.

Il secondo album, ed ultimo per la formazione originale, intitolato profeticamente Too Much Too Soon, sarebbe uscito nel 1974 e sarebbe stato necessario attendere trent’anni prima di quello successivo, apparso nel 2004 con una formazione rivisitata a causa dei malumori sorti tra i componenti e la morte sopraggiunta nel frattempo per alcuni di loro. Il produttore del secondo album, George “Shadow” Morton avrebbe spinto ancora di più l’acceleratore su temi e composizioni blues e Rhythm and blues, senza però alterare le linee musicali essenziali del gruppo, anzi finendo col rafforzarle. Certo la cosa strana a dirsi è che questi precursori di ogni efferatezza punk ebbero come produttori, prima, un raffinato ricercatore di suoni perfetti come Todd Rundgren e, successivamente, un ottimo produttore di gruppi degli anni Sessanta come le Shangri-Las o i Vanilla Fudge

Tre anni dopo il loro secondo disco, i Sex Pistols non riuscirono a inventare nulla di musicalmente altrettanto viscerale e pericoloso. Forse è per questo che i Dolls non hanno mai trovato il loro pubblico nei primi anni ’70: non solo erano punk rock prima che il punk rock fosse di moda, ma sono rimasti più indigesti e idiosincratici di qualsiasi altra band che è seguita. Oltre ad avere anche suonato più forte, molto più forte.

Sex Pistols che, spacciati come fondatori del genere punk, altro non fecero che rubare, grazie alla “creatività” del loro produttore Malcom McLaren, ogni riff di chitarra a brani come Looking for a Kiss, Frankenstein, Chatterbox, Jet Boy e il profetico, per tutti quelli che sarebbero arrivati dopo, compresi i Ramones. It’s Too Late, è troppo tardi. Nei fatti, mentre si trovava a New York per una fiera dell’abbigliamento, McLaren incontrò i membri del gruppo e alla fine del 1974 ne assunse la gestione, vestendoli di pelle rossa e usando il simbolo della falce e martello dell’Unione Sovietica nelle loro scenografie e nelle fotografie pubblicitarie. Il concetto non si adattava certo bene all’America, dove il comunismo rimaneva un anatema, ma non ebbe un grande impatto sulla carriera dei Dolls, che erano comunque agli sgoccioli.

Così Malcom tornò al business dell’abbigliamento londinese nel maggio 1975 e usò ciò che aveva imparato con loro per aiutare a mettere insieme i Sex Pistols: ovvero The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del rock’n’roll, come sarebbe stato intitolato il film sugli stessi diretto dal regista Julian Temple e prodotto da Don Boyd e Jeremy Thomas nel 1980.

Ma i Dolls erano già finiti da un pezzo, vuoi per gli abusi di sostanze, vuoi per le inevitabili rivalità sorte all’interno di un gruppo nato senza troppo cura per i ricami artistici e diplomatici. Ancora Johansen ricordava:

Non ho idea di quante copie abbiamo venduto all’epoca, non moltissime. Se eravamo fortunati ci piazzavamo al centoventesimo posto in classifica. Decisamente non eravamo una band per tutti i gusti, non il tipo di cosa da impatto sulle masse. Ci andava bene dove c’era un sacco di ragazzini alienati13.

Ma, oltre allo scarso successo commerciale, ci furono anche altre cause per lo scioglimento del gruppo, come avrebbero raccontato in successione Jerry Nolan, Sylvain Sylvain e lo stesso David Johansen.

Jerry (1977): «David aveva il brutto vizio di dettar legge su cose di cui non sapeva niente. Sceglieva il produttore e si accontentava di un missaggio scadente. Tutte le mosse sbagliate sono imputabili a lui che ha mandato tutto a puttane. I primi due album sono stati massacrati. C’erano delle gran belle canzoni, e avremmo potuto interpretarle alla grande, ma David era un tipo di persona che in studio non voleva rifare due volte lo stesso pezzo. Bastava che lui cantasse bene, non gliene importava un cazzo che gli altri facessero una buona performance.»

Sylvain (1998): «Stavamo a casa della madre di Jerry Nolan e Johansen si sbronzava di brutto. Era un alcolizzato violento. Diceva che non contavamo niente, che lui era il cantante e che poteva andare avanti senza noi a creargli impedimenti e altre stronzate. Praticamente ce l’ha detto una sera dopo cena, e Johnny e Jerry, dopo aver sentito per l’ennesima volta che potevamo essere rimpiazzati, se ne sono andati. Li ho portati io all’aeroporto.»

David (1997): «Non ricordo esattamente la sequenza degli eventi, ma eravamo giù in Florida, in un posto tipo Bates Motel gestito dalla madre di Jerry. C’erano delle vecchie roulotte che fungevano da stanze d’albergo e avremmo dovuto stabilirci lì, per poi andare a suonare dappertutto. La band si è sciolta perché alcuni ragazzi non ce la facevano senza la roba, quindi la situazione era diventata ingestibile. Sai, le grandi rockstar hanno infermieri e galoppini, ma noi non li avevamo. Quei ragazzi volevano essere come Bela Lugosi.»14.

Effettivamente, dopo lo scioglimento dei Dolls, David avrebbe continuato una discreta carriera solista, sospesa tra rock, rhythm’n’blues e blues strapazzato, con qualche cover di gruppi degli anni Sessanta, sia a nome proprio che con quello di Bruce Pointdexter (pseudonimo con il quale rivelerà insospettate doti da crooner e con cui aveva già firmato alcune canzoni dei New York Dolls) oppure in anni più recenti come David Johansen and the Harry Smith, gruppo ispirato al nome di uno dei più importanti musicologi e collezionisti americani che contribuì fin dagli anni Sessanta al rilancio del blues e del country blues degli anni ‘20, ‘30 e ‘40.

Ma dopo la reunion con Arthur Kane e Sylvain Sylvain per The Return of the New York Dolls: Live from Royal Festival Hall, 2004, prodotto da Morrissey, l’esperienza sarebbe ancora continuata con numerosi concerti e almeno altri tre album in studio. One Day It Will Please Us to Remember Even This (2006), soltanto più con Sylvain Sylvain vista la scomparsa di Kane nel 2004, ma con ospiti quali Iggy Popo e Michael Stipe dei REM; ‘Cause I Sez So (2009), ancora una volta con Todd Rundgren alla produzione dopo trentasei anni, e Dancing Backward in High Heels (2011), arricchito da inaspettati arrangiamenti per archi e fiati.

Oggi, con la dipartita di David, si è definitivamente chiusa l’era dei dinosauri androgini, di cui rimarranno solo pallide e insignificanti copie riprodotte in un universo pop privo di storie da raccontare e di genio vero. So long David, so long Dolls…so long rock’n’roll.


  1. Di cui va almeno ricordato l’album Orgasm, registrato nel 1967 prima che Bolan si unisse alla band, ma pubblicato soltanto nel 1970, che aveva anticipato e dilatato all’infinito i sospiri e i gemiti di piacere di Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, pubblicato nel 1969.  

  2. A. Carter, The Message in the Spiked Heel, «Spare Rib» 16 settembre 1976.  

  3. D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa &Nolan, Ancona 2000.  

  4. Si veda in proposito, e a solo titolo di esempio, S. Blush, New York Rock. Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB, Goodfellas Srl, Firenze 2016 (ed. originale 2016).  

  5. Si veda il fondamentale: L. McNeil, G. McCain, Plese Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006 (ed. originale 1996)  

  6. Brown Shoes Don’t Make It è il titolo di un brano di Zappa e delle sue Mothers of Invention inciso per la prima volta nell’album Absolutely Free, pubblicato nel 1967, e in cui le infami scarpe allacciate di colore marrone erano indicate come il modo migliore per riconoscere i tutori dell’ordine che cercavano di infiltrarsi nelle manifestazioni e nei movimenti; un po’ come da noi il famigerato “borsello” che avrebbe caratterizzato e fatto riconoscere immediatamente gli agenti della Digos negli anni Settanta.  

  7. La definizione heavy metal era stata utilizzata già molto tempo prima della comparsa delle band che si sarebbero definite come appartenenti allo stesso canone, poiché per la critica musicale statunitense potevano già essere heavy metal sia Jimi Hendrix che i Blue Oyster Cult e le band di Detroit come Stooges, Grand Funk Railroad e molte altre ancora.  

  8. S. Blush, op. cit., pp. 99-101.  

  9. Cit. in S. Blush, op. cit., pp. 100-102.  

  10. D. Johansen in S. Blush, op. cit., p. 119.  

  11. Ivi, pp. 119-122.  

  12. S. Sylvain in S. Blush, op. cit., p. 122.  

  13. D. Johansen, cit. in S. Blush, op. cit. p. 133.  

  14. Tutte e tre le dichiarazioni sono contenute in S. Blush, op. cit., pp. 134-135.  

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 74 https://www.carmillaonline.com/2015/12/17/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-74/ Thu, 17 Dec 2015 21:03:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27148 di Dziga Cacace

Nella voglia più totale nel discorso trasparente

ddv7401826 – Il labirintico e irritante Inception di Christopher Nolan, USA/Gran Bretagna 2010 Esce il film e tanta critica pavida e prezzolata ne esalta le qualità tecniche e il gioco di scatole cinesi. Amici fidati, però, son tutti bestemmie e stridore di denti e mi chiedono di fare giustizia di siffatta creazione cinematografica. Allora vado alla guerra, mi metto l’elmetto e scendo in trincea per una visione che quanto a trituramento di palle m’è sembrato seconda a poche. Attenzione: non una cagata tout court, ci [...]]]> di Dziga Cacace

Nella voglia più totale nel discorso trasparente

ddv7401826 – Il labirintico e irritante Inception di Christopher Nolan, USA/Gran Bretagna 2010
Esce il film e tanta critica pavida e prezzolata ne esalta le qualità tecniche e il gioco di scatole cinesi. Amici fidati, però, son tutti bestemmie e stridore di denti e mi chiedono di fare giustizia di siffatta creazione cinematografica. Allora vado alla guerra, mi metto l’elmetto e scendo in trincea per una visione che quanto a trituramento di palle m’è sembrato seconda a poche. Attenzione: non una cagata tout court, ci mancherebbe, ma questo Inception m’è parso un assembramento laocoontico di suggestioni senza un’anima, un calore, un’emozione. È un film freddo, dal coinvolgimento nullo, affascinante come una tavola logaritmica e divertente tale e quale. In due parole è un film rompicapo e rompicoglioni, dove sei trascinato nel sogno del sogno nel sogno del protagonista e siccome quello che vedi potrebbe essere qualunque cosa, compreso il subcosciente di DiCaprio stesso (intendo l’attore, tanto vale tutto), all’ennesima discesa nel regno di Morfeo ti scappa un rotondo e sveglissimo vaffanculo. Certo: grandi effetti speciali e al tecnologico Nolan verrebbe da dirgli anche “bravo”, sennonché alla terza invenzione realizzata col computer chi se ne strabatte il cazzo, eh. Avrai una bella RAM ma sto vedendo un film, mica un numero di bravura del tuo processore, eddài. Il thriller onirico (di cui mi rifiuto categoricamente di ricostruire la trama, arrangiatevi) è impreziosito dallo struggimento d’amore del protagonista, ma siccome han tutti facce da fessi il dramma non mi tocca manco per niente, zero empatia, anzi, quasi penso che gli stia bene a Leo sempre a frignare col suo faccione gonfio, tanto l’Oscar te lo scordi. E poi ‘sto crucipuzzle dura quasi 2 ore e mezza, una cosa che dovrebbe essere resa illegale. Carina Marion Cotillard, il resto non m’interessa. Ed è questa è la cosa grave: questo cinema che crea – giocoforza, visti gli incassi – immaginario, è sterile, ci abitua all’indifferenza se non al mero apprezzamento del dato tecnico, a quella soddisfazione un po’ ottusa che prelude al non-pensiero. Non avendone uno neanche io non so dire molto di più. Amen. (Dvd; 17/2/11)

DDV7402825 – Leccato e convincente: Valentino: The Last Emperor di Matt Tyrnauer, USA 2008
Valentino: un ometto dall’incarnato bronzeo e con una testa che pare l’abbiano pucciato in una pozza di pece. Tutto azzimato, la boccuccia a culo di gallina e l’espressione corrugata di chi è costretto a vivere in un mondo che non è mai all’altezza dei suoi ideali di eleganza. Ecco, questa è l’idea che ho di uno dei più stimati e famosi haute couturier di sempre. Idea che il film conferma in parte, regalandoci però diverse sorprese in un ritratto brioso e intelligente. Sì, c’è tutto quello che ti aspetti e che di solito passa per luogo comune: modelle stragnocche esilissime trattate come cerbiatte decerebrate, jet set con gentaglia perennemente abbronzata vestita da pagliaccio e accompagnata a fighe di plastiche, tutti fatti e rifatti, specchio di un’ineleganza morale che è il nulla infiocchettato e tirato a lucido. Ma il ritratto riesce comunque a essere affettuoso, intrigante, pure indiscreto, e qui risiede il suo vero valore documentario. La troupe è impicciona al limite del fastidioso e chi è spiato talvolta se ne rende conto e ce lo ricorda e sembra miracoloso che un ritratto così dall’interno del mondo della moda sia arrivato sullo schermo. Lode al regista (che conosce benissimo questo ambiente, è un inviato speciale di Vanity Fair) che non si è mai fermato e ha sguinzagliato i suoi operatori anche quando educazione e opportunità lo avrebbero sconsigliato. Valentino ha le prevedibili – e anche giustificate – scheccate isteriche, i collaboratori sembrano tutti dei gran cialtroni, impegnati a cinguettare i complimenti al capo, ma si distinguono lo staff di artigiane, autentiche operaie della sartoria, sempre a rammendare l’orlo di una crisi di nervi, e soprattutto il grandissimo Giancarlo Giammetti, già compagno di Valentino e – da quarant’anni – mente imprenditoriale del gruppo. Fasti, ville faraoniche, sci a Gstaad, cagnolini carlini insopportabili, un lusso incomprensibile che diventa contraddittoria opera d’arte proprio per la sua unicità folle, irraggiungibile dai comuni mortali. Gran bel film, divertente e curioso, se non avete preclusioni ideologiche. (Dvd; 12/2/11)

DDV7403827/828 – Cineforum Cacace: Il monello di Charlie Chaplin, USA 1921 e Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio di Andrew Adamson, USA 2005
Il dilemma del sabato pomeriggio: Elena dorme – finalmente – e bisogna occupare Sofia che invece è carica come una sveglia. Però siccome dopo pranzo abbiamo tutti l’abbiocco e finché la belvetta non si risveglia è meglio recuperare energie… allora cineforum Cacace, alé! Scelgo io il primo film (son papà mica per niente, eh) e Il monello è sempre felicemente patetico, liberatorio e tenerissimo. Ha la sua bella età, ma mi piace senza condizioni e alla fine Sofia si è molto commossa, quasi come me. A margine le vicende reali di Jackie Coogan che ho ovviamente raccontato alla piccina per metterla in guardia: il bambino clamoroso diventerà miliardario, la mamma fedifraga gli fotterà tutto, andranno per vie legali e lui se la caverà con l’aiuto di Chaplin, tra gli altri, per trovare infine pace da adulto facendo lo zio Fester nella famiglia Addams. Sì, è proprio lui, quel simil-Galliani in black and white che schioccando le dita ha resistito nei palinsesti tivù fino DDV7404agli anni Novanta. E vabbeh. Poi il secondo film lo sceglie la primogenita e mi tocca Le cronache di Narnia, pellicola che mi ha straziato l’apparato genitale, con l’apice dell’apparizione della mia nemesi, Tilda Swinton, qui conciata da nefasta principessa del ghiaccio, diafana e bruttissima e sicuramente voce in attivo della produzione non necessitando imbellettamento alcuno per risultare così mostruosa (per la cronaca, con questo tranello si è vinto pure l’Oscar per il miglior trucco). Ad ogni modo siamo durante la Seconda Guerra Mondiale (si scriverà così, in maiuscolo? Cos’ha fatto per meritarselo?) e quattro fratelli scoprono un passaggio verso un mondo parallelo, la cui porta è dentro un armadio. Per cui fanno avanti e indietro tra qui e là e la cosa piace molto a Sofia. A me no – anche perché la visione di un armadio significa: “Metti in ordine il caos stocastico creato dalle tue figlie” – e infatti ho visto il film sonnecchiando un po’ e non so di chi sia la colpa, se della mia stanchezza o della fiacchezza di ‘ste Cronache pallose. (Dvd; 19/2/11)

DDV7405829 – La classe non è acqua: Il circo di Charlie Chaplin, USA 1928
Esattamente come sabato scorso, doppio film e stesso copione: non potendo portare Sofia al circo, porto Il circo a casa. Film meno conosciuto di Chaplin eppure splendido e di una sensibilità rara. Si ride (parecchio), si ammirano l’abilità mimica clamorosa, le gag oliate alla perfezione e il consueto patetismo di fondo che lascia un sentimento struggente. Il Vagabondo rinuncia all’amore, per amore e con amore, una generosità che è stato complicato spiegare a Sofia, comunque conquistata. Ricordavo affascinante e prepotentemente erotica Merna, l’acrobata di cui s’innamora Chaplin e sulla cui inquadratura si apre il film. Avevo ragione: lei oscilla verso la cinepresa, a gambe larghe infilate negli anelli del trapezio, e la sua bellezza anni Trenta, in camicia da uomo, con quel taglio di capelli e quello sguardo, continua a essere un mio feticcio erotico, spia precisa di certe turbe sessuali ampiamente psicanalizzabili. Ma non è questa la sede. (Dvd; 26/2/11)

DDV7406830 – Mah: Le cronache di Narnia: il principe Caspian di Andrew Adamson, USA/Gran Bretagna 2008
Nel primo pomeriggio pretendo il dovere, un Chaplin, e verso sera concedo il piacere di un blockbuster recente. Che trovo più divertente del primo episodio: c’è un’epica battaglia finale, un duello con Sergio Castellitto che si piglia a pattoni con il maggior dei quattro fratelli, e c’è pure Pierfrancesco Favino, nero e fosco, ma meno stronzo di Castellitto (peraltro bravissimo in un ruolo decisamente cartoonesco). Tanta animazione digitale – molto riconoscibile – scene grandiose ma non così grandiose… insomma, è come se mancasse il manico. Voglio dire: Peter Jackson è un geniaccio e nel Signore degli anelli è tutto al top della creatività e della realizzazione, qui manca sempre qualcosa. Poi passa, okay, e per Sofia funziona, ma mi sembra che le lasci poco, a livello d’immaginario. Fa due salti, insomma, ma finito il film, stop. A me – confesso se non si fosse ancora capito – ‘sta saga non piace. (Dvd; 26/2/11)

DDV7407831 – Il volgarmente allusivo Quattro bassotti per un danese di Norman Tokar, USA 1966
È un classico della mia infanzia che – durante l’infanzia, appunto – ho sempre saggiamente evitato. Ma nella vita arriva sempre il momento giusto e me lo vedo a 41 anni suonati. Commedia familiare con cane danese combinaguai perché cresciuto assieme a dei bassotti in realtà più pestiferi di lui: grandi baraonde, case sfasciate, catastrofismo consumistico esibito con compiacimento. Diverte per modo di dire, ma ovviamente le mie figlie apprezzano (ma neanche tantissimo: visto due volte e poi basta, per fortuna), pregustando di ripetere le imprese canine in casa mia. È un ritratto dell’american way of life anni Sessanta, con casa dal doppio garage, giardinetto per barbecue, letti separati, arredamento tra prairie style e Movimento Moderno. Il poliziotto mantiene la quiete, la città è pulita e l’unico problema lo danno, appunto, dei cani. Visione dolciastra e reazionarissima della società: ecco perché gli innocenti hippie facevano tanto paura a gente così. Messo da parte che il titolo è già un’allusione pesante a una scatenata gang bang cinofila, il grosso danese è ovviamente metafora di un pisello enorme e la coppia umana protagonista litiga e non tromba proprio per la fallofobia della moglie. Quando questa accetterà di farsi devastare la vulva-casa dai cinque quadrupedi come da titolo, la pace familiare sarà ricomposta e al posto di avere figli simulacro (come evidenziato dalla prima scena, dove regna l’equivoco che la donna sia incinta) ne faranno uno vero. Però questo me lo sto raccontando io perché il film rimane ‘na gran rottura de cazzo. (Dvd; 5/3/11)

ddv7408832 – Approvo L’armata delle tenebre di Sam Raimi, USA 1992 e combatto i Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, Italia 2006
Visto almeno 18 anni fa al cinema Odeon di Genova, assieme a Barbara in una sala pressoché deserta (ricordo solo un’altra coppia di disadattati come noi): c’eravamo divertiti molto e rivedendo stasera il film con la cugina Ale è facile capire il perché. L’armata delle tenebre è uno spasso sfrenato, infantile, una moltitudine di gag senza tregua. Grana grossa e grande ironia, talvolta un po’ di noia (la seconda parte, dopo l’inizio folgorante e prima del finale epico), ma tutto sommato rimane la piacevole sensazione di vedere un film che il regista si è divertito a fare, pensando ogni volta come stupire lo spettatore con una vaccata più esagerata di quella precedente. Non riesco a fare paragoni con La casa e La casa II che non vedo da troppo tempo, ma qui il gore è diventato commedia slapstick ed è tutto, ma tutto tutto proprio, buttato in caciara comica. Bruce Campbell ha una faccia straordinaria, squadrata e ottusa; la bellona di turno è insignificante; la messa in scena stupisce, con grandangoli estremi e montaggio sincopato, con accelerazioni e parti più classiche. Poi, posso dir tutto, ma Raimi rimane un magnifico discolo, senza aspirazioni “alte” un po’ segaiole alla Coen ma con una più sincera adesione al sense of wonder che il cinema un tempo sapeva dare, senza aver paura di usare trucchi magari riconoscibili ma più veri ddv7409di quelli in CGI. Poi ho visto anche venti minuti di Fascisti su Marte, prima di cedere, schiantato dal peso improponibile del film di Guzzanti. Che è un genio e lo ha dimostrato molte volte in tivù e a teatro, ma che qui toppa clamorosamente, perché uno sketch televisivo che durava (e valeva) a malapena tre minuti non può diventare un film da novanta. L’uso ricercato del linguaggio da Istituto Luce, l’ambientazione folle, i personaggi stralunati e tutto quello che vuoi… ma già al quinto del primo tempo ne hai le palle pienissime, come al terzo cucchiaino di caviale: ottimo, ma stucca e presto subentra la nausea. E poi, a Venezia nel 2003, la sera precedente la prima di Fame chimica c’era la ricca festa di presentazione di Fascisti su Marte, non ancora completato (sarebbe uscito tre anni dopo! Tre!). Ovviamente il bel mondo dello spettacolo italiano e della critica era lì a scofanarsi salatini e cocktail e il mattino dopo alla proiezione di Fame chimica non c’era un giornalista (o presunto tale) a pagarlo. E la faccenda mi ha lasciato un po’ d’amarezza, ecco. Però il problema di Fascisti su Marte è che non c’è un film, ma solo un’idea (e neanche di cinema). E allora se non c’è il film non c’è neanche lo spettatore, mi dispiace. (Dvd; 11/3/11)

ddv7410835 – L’epocale La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau di Blake Edwards, Gran Bretagna/USA 1976
Eeeh, questa è storia patria. Liceo e università son stati scanditi da questo film, spesso accompagnando la visione con dosi generose di erba simpatica. Con immutata stima e fiducia propongo il film a Sofietta che, vista l’età, non ha bisogno di coadiuvanti naturali o chimici al riso e si diverte molto a seguire l’impossibile rivincita dell’ex ispettore capo Dreyfus contro Clouseau, l’uomo che l’ha fatto uscire pazzo. Si parte col ritorno a casa dell’imbranato ispettore; segue un epico duello col domestico Cato in agguato e da lì è un dipanarsi di situazioni farsesche assolutamente spassose. Su tutte spiccano l’interrogatorio tenuto in una casa di campagna (con mazza ferrata in faccia a una possibile testimone) e l’epico confronto finale con Dreyfus, tutti in preda al gas esilarante. In mezzo un po’ di fuffa e qualche gag sorniona ma anche un passo diverso che forse bisognerebbe apprezzare di nuovo, dove il ritmo è dato anche dalle pause e dalle attese, accumulando sapiente tensione comica. Herbert Lom – che interpreta Dreyfus – è eccezionale, isterizzato dalla stolida ma caparbia capacità di Clouseau/Sellers di distruggere tutto, dovunque arrivi, esattamente come Hrundi Bakshi in Hollywood Party o tanto Jerry Lewis. Culto assoluto della mia gioventù, sorvolo su alcune stupidaggini per proclamarlo anche della mia vecchiaia. (Dvd; 26/3/11)

ddv7411840 – Altro che locura: A Single Man di Tom Ford, USA 2009
Una giornata nella vita di un prof di letteratura inglese, gay, che elabora il lutto dell’amante pensando al suicidio. Ma incontra un lolito che sembra Tom Cruise con un lampo d’intelligenza negli occhi e ci ripensa. E poi il resto ve lo scoprite da soli, vedendovi il film, che se no che ci sto a fare qui, io, il cantastorie? Realizzato da un noto stilista americano di cui il mio ricercato guardaroba non conosce testimonianza, A Single Man è ovviamente film raggelato di superba eleganza, composto ai limiti dell’affettazione ed evita la fiera della gaytudine ozpetekiana o di tanto cinema corrente, dove sembri obbligato a fare il pazzeriello se no non rispetti i luoghi comuni etero che vogliono tutti gli omosessuali sfrenatamente affetti da locura. Alla fin fine, è bello da vedere, A Single Man, un po’ meno seguire… ma è un problema mio che mi annoio coi drammoni. E per una bella messa in scena, i dialoghi mi sembrano invece artefatti, ma non giova la traduzione italica tutta impostata e declamata. Vecchio problema, sempre attuale, di solito risolto con l’inverificabile affermazione che “abbiamo i migliori doppiatori del mondo”, un po’ come i portieri per il calcio. Coppa Volpi a Venezia 2009 a Colin Firth, bell’ometto anzichenò. (Dvd; 17/4/11)

ddv7412841 – La mediocrità commerciale de La rapina perfetta di Roger Donaldson, Gran Bretagna 2008
Questa solenne cacata è il classico film che si proclama “basato su una storia vera” e che capisci subito che è inventato di sana pianta: la vicenda è ispirata a una rapina avvenuta nel 1971 (l’11 settembre, tanto per cambiare), di cui mai si son trovati i colpevoli della banda del buco né recuperata la refurtiva, per cui… Comunque furono coinvolti servizi segreti e Scotland Yard, tra verità inconfessabili di politici, rivoluzionari di contorno e della principessa Margret. Mah. Il fatto è che io sono a Genova per la santissima Pasqua, senza il consueto gineceo del Cacace di contorno, e papà ha deciso che si vuol vedere questo crime movie di cui ha ben letto. A torto. Tra l’altro, per non so quale vaccata feng shui il salotto dei miei ospita un’assurda trovata di mia madre: una sorta di fontanella in moto perpetuo che istiga la pisciata compulsiva. Con questa sgradita colonna sonora supplementare vedo mediamente annoiato il prodotto di un regista appassito eppure capace secoli fa di un grandissimo film, Senza via di scampo (erede e remake del bellissimo The Big Clock). Qui, Donaldson ci mette solo arida professionalità e la pellicola è anonima, sicuramente ritmata ma senza cuore né simpatia. Gli attori han facce da cazzo, la ricostruzione storica è di maniera e non ha una briciola del fascino che, per esempio, trovavi nel televisivo Life On Mars. Colonna sonora originale fuori luogo (pomposa e ritmicamente pompata, ‘nammerda) e qualche recupero ovviamente godibile (T.Rex, Kinks), ma mi pare tutto artificiale, “commerciale” nel senso deteriore del termine e le inquadrature inclinate insensatamente mi confermano la natura paracula del prodotto. Mettiamoci poi un doppiaggio dove tutti declamano manco si trattasse di Shakespeare e ho detto tutto. L’apice pestilenziale è dato dalla scena in cui il boss dei rapinatori (l’insipido Jason Statham) va dalla moglie a mollare il malloppo: questi sono braccati dal MI5, dai mafiosi, c’è già scappato il morto e lei gli fa la scenata di gelosia perché paventa il tradimento con una complice… Ma per piacere, vergognatevi: voi che l’avete scritto e tu, proprio tu che l’hai girato. (Diretta Sky HD; 23/4/11)

ddv7413842 – Pure il terzo episodio: Le cronache di Narnia – Il viaggio del veliero di Michael Apted, USA/Gran Bretagna 2010
Ennesimo episodio di queste Cronache, un po’ Signore degli anelli, un po’ stracciamento di coglioni. Al terzo episodio ci si concentra sui fratellini più piccoli, anche perché i maggiori hanno facce grottescamente cambiate (va detto che tutti e quattro i protagonisti son diventati vieppiù orrendi, crescendo). Grandi avventure, tradimenti, conversioni e lieto fine di prammatica. Se hai 6 anni, è azzeccato, e siccome io ormai non ne ho di più, mentalmente, lo vedo con Sofia senza patemi. È il migliore film del terzetto di Narnia: ritmato, colorato, combattuto, senza troppe divagazioni e doppi, tripli, quadrupli finali. Comunque il regista Michael Apted (Incident at Oglala, Gorilla nella nebbia… e un sacco di altre cose) è uno strano: un incrocio incredibile di umanità e arido professionismo, boh. (Dvd; 1/5/11)

ddv7414843 – Inaspettato Fantastic Mr.Fox di Wes Anderson, USA 2009
I Tenenbaum era una stronzata graziata da un innegabile fascino visivo, trucchetto sensoriale che ha guadagnato a Wes Anderson immeritati e superficiali fan. Stavolta il regista ha però una storia di Roald Dahl su cui lavorare, non delle suggestioni scoordinate, e vi applica il suo gusto per il bizzarro, con calligrafismo compiaciuto e – lo concedo – anche qualche svisa intelligente. Ne viene fuori un bel film, una novella per bambini (o quasi) estremamente felice anche per adulti. Musiche intelligenti di Alexandre Desplat, colori intensi, ottime ambientazioni e caratterizzazione dei personaggi riuscita; i dialoghi e alcune situazioni evitano la banalità dei film infantili e – non so se per merito del regista o dell’autore originale – il risultato c’è, nonostante una certa frenata nello sviluppo narrativo a metà film. Molto carino, rivisto più volte grazie all’entusiasmo di Sofia ed Elena. (Dvd; 6/5/11)

ddv7415845 – Io non capisco Guerre stellari – L’impero colpisce ancora di Irvin Kershner, USA 1980
Fiabona bellica, stavolta, che parte subito con una battaglia sulla neve, tipo resistenti finlandesi contro la prepotenza sovietica. Ma forse sono io un po’ fissato. Comunque, a neanche quattro anni dal primo episodio della saga (in realtà quarto: quando all’epoca lo dicevo, nessuno mi credeva), a Luke è cascata la faccia e sembra un vecchio bolso. Yoda (praticamente un pupazzo dei Muppet) lo addestra come Jedi facendogli fare ridicoli esercizi di equilibrismo. Intanto Han Solo ha continue schermaglie d’amore litigarello con la principessa Leila, diventata anche lei un cesso spaziale (e se ripenso poi all’autobiografia di Carrie Fisher intitolata Non c’è come non darla… boh, mi dico: il problema è chi se la prende). Film considerato a posteriori molto riuscito, ha avuto incassi stratosferici: a me pare un po’ una palla al cazzo e neanche un anno dopo arrivava Blade Runner e quella lì sì che era fantascienza adulta, mica questa pappa che potrebbe essere un bignamino di mitologia greca per gli yankee, tanto è ancorata a miti annacquati, a figure retoriche, a prove e ricompense. Mah. Sono evidentemente io sbagliato che non capisco la mistica di Guerre stellari. E giuro che mi farebbe piacere far parte del club, ma non c’è verso, non ci riesco. Comunque al momento del confronto edipico con Darth Fener, dopo la ferale rivelazione, Sofia subito si volta verso di me e mi dice convintissima che non crede che Luke sia suo figlio, che deve essere un tranello. Li educhi al dubbio e questo è il risultato. (Dvd, 19/5/11)

(Continua – 74)

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