Swift – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 3: Joe Doppelberg https://www.carmillaonline.com/2023/03/31/esperienze-estetiche-fondamentali-3-joe-doppelberg/ Fri, 31 Mar 2023 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76533 di Diego Gabutti

Mezzo sdraiato sul divano, una coperta sulle spalle, spiluccando quel che restava d’un panettone, fu a Natale del 1963, e più precisamente la notte dopo Natale, tra Natale e Santo Stefano, quando tutti dormivano da un pezzo, che cominciai a sfogliarlo. Era un Omnibus Mondadori. Anche se lì in un angolo c’era un albero di Natale con le lucine rosse, bianche e blu intermittenti, il libro che presi a leggere verso mezzanotte, e via così fino alle ore piccole, non era un regalo di Natale.

A nessuno, in famiglia, [...]]]> di Diego Gabutti

Mezzo sdraiato sul divano, una coperta sulle spalle, spiluccando quel che restava d’un panettone, fu a Natale del 1963, e più precisamente la notte dopo Natale, tra Natale e Santo Stefano, quando tutti dormivano da un pezzo, che cominciai a sfogliarlo. Era un Omnibus Mondadori. Anche se lì in un angolo c’era un albero di Natale con le lucine rosse, bianche e blu intermittenti, il libro che presi a leggere verso mezzanotte, e via così fino alle ore piccole, non era un regalo di Natale.

A nessuno, in famiglia, sarebbe mai venuto in mente di regalarmi un libro intitolato Universo a sette incognite. Quindi me lo ero regalato da solo, come faccio spesso. Mi stavo trasformando in un lettore forsennato (all’epoca soprattutto di fantascienza, o «science-fiction», come mi piaceva chiamarla per farmi bello, dunque in una specie di Joe Doppelberg, a pensarci ora). Ma all’epoca questa particolare ossessione per il fantastico (e tutto lo è, dice Borges, la storia, le religioni, la filosofia) non era evidente neppure a me; figurarsi cosa ne sapevano in casa. A Torino, sul controviale di Corso Vittorio Emanuele, tra via Accademia Albertina e Via San Francesco da Paola, ogni anno prima e durante le feste sparivano le automobili posteggiate e al loro posto s’apriva una specie di fiera del libro. Fu probabilmente lì che comprai anche questo libro, tra i tanti.

Dimenticato sul treno, in autobus, prestato, oppure perduto in un trasloco, di Universo a sette incognite, un libro di cui negli anni mi sono ricordato spesso e che talvolta mi è anche capitato di citare (direttamente o indirettamente) in qualche articolo, non c’era più traccia, fino a tempi recenti, nella mia biblioteca. Questa consiste di ere geologiche sovrapposte e, qua e là, di territori inesplorati e terre incognite, tipo le città perdute di Tarzan o le età future che Brick Bradford, nei fumetti di William Ritt e Clarence Gray, oggi dimenticati, esplora con la sua singolare macchina del tempo: un ordigno volante e piroettante a forma di mongolfiera. Ma di Universo a sette incognite restava soltanto un’immagine residua nella mia memoria, sempre meno affidabile. Finché, tre o quattro anni fa, durante la pandemia, chiuso in casa e alla mercè delle tentazioni quasi irresistibili da shopping digitale, ne ho trovata una copia su eBay («buone condizioni, lievi segni d’uso e del tempo»).

È ancora un gran bel libro. Solido, maneggevole, ottima rilegatura, il disegno sulla sovraccoperta è di Karel Thole: un enorme occhio a palla sospeso a mezz’aria che fissa due tizi che, visto l’occhio incombente, sono a giusto titolo spaventati. Era curato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini, che nel titolo dichiaravano sette incognite, tra cui un classico romanzo di Robert A. Heinlein, The Puppet Masters, da noi Il terrore della sesta luna, e nientemeno che The Shadow Over Innsmouth, o La maschera di Innsmouth, di H.P. Lovecraft, qui tradotto per la prima volta. C’era dentro anche Il giorno dei trifidi di John Wyndham: una variazione particolarmente claustrofobica e spaventevole sul tema della Guerra dei mondi di H.G. Wells. C’era il tecnohorror Killdozer! di Theodore Sturgeon: la storia d’una scavatrice infestata dai fantasmi uscita nel 1944, con largo anticipo sull’autocisterna indemoniata di Duel (Steven Spielberg, 1973) e sulla Plymouth Fury spiritata di Stephen King (Christine. La macchina infernale, 1983). C’erano William Hope Hodgson con La casa sull’abisso e Arthur Machen con La storia del sigillo nero. Erano tutti classici dell’horror e della «science-fiction». Roba robusta. Ma io quasi non ci badai. Una sola delle sette incognite mi lasciò a bocca aperta lì seduto nel salotto di casa, la notte dopo Natale, una coperta sulle spalle, il panettone, un bicchiere di latte freddo, le luci intermittenti dell’albero di Natale, mentre tutti dormivano, i miei genitori, mio fratello, e persino il gatto dei vicini, che di notte miagolava sempre un po’. Ero caduto sotto l’incantesimo di Joe Doppelberg e di Doppelle, il suo doppio. Assurdo universo di Fredric Brown (in originale What Mad Universe, uscito nel settembre del 1948 su “Startling Stories”, pulp di scarso lignaggio) era l’incognita delle incognite, l’incognita suprema. Ogni altra incognita impallidiva al confronto.

Siamo da qualche parte intorno a New York. Una villa fastosa, tardo pomeriggio, primavera. Keith Winton, che nel nostro mondo dirige una rivista di fantascienza, Amazing Stories, storie sorprendenti, siede ai bordi d’una piscina con una penna stilografica e un taccuino dalle pagine gialle. Ospite per il weekend del suo editore, con un Martini posato sul tavolino lì accanto, sta scrivendo le risposte alle lettere dei lettori che escono in appendice alla rivista. Tra un momento lo chiameranno per la cena. Si sta facendo buio. In cielo brilla qualche stella. La luna, se non ricordo male, è piena. Winton scrive, si firma «l’uomo dei razzi», ma è distratto. Sta pensando a Betty Hadley, di cui è innamorato, e che dirige Romantic Stories, o Perfette storie d’amore, un’altra testata del suo gruppo editoriale. Anche Betty è ospite dell’editore. Forse le chiederà un appuntamento. Forse lei dirà «okay, facciamo mercoledì sera», o forse dirà grazie, uscirei volentieri, ma sono molto impegnata. È quasi buio, scrivere è complicato. Winton posa taccuino e penna stilografica, sorseggia assorto il Martini. Sta pensando anche a un particolare lettore d’Amazing Stories, il più irritante di tutti, quello che commenta ogni numero della rivista, uno smargiasso, mai contento: il giovanissimo Joe Doppelberg, l’antenato di tutti i nerd.

Betty, le lettere, Joe Doppelberg, i razzi. Poi l’evento.
C’è un sibilo e, per uno di quei casi della vita prima o poi ci siamo augurati tutti, ecco che gli cade dritto sulla testa un «razzo lunare» uscito dall’orbita. Bang, e Keith Winton, l’«uomo dei razzi», viene sbalzato, per l’impatto, in una Terra parallela, modellata a immagine delle riviste di fantascienza. È l’incipit di What Mad Universe.

Cresciuto negli anni, passo dopo passo, a classico della fantascienza, Assurdo universo è un romanzo di Fredric Brown, fantascientista (e giallista) di grande fama e bravura. Federico Fellini, come si diceva in chiusura del capitolo precedente, verso la fine degli anni cinquanta, tra Le notti di Cabiria e La dolce vita, meditò di ricavarne un film. Sembra, ma non è sicuro, che avesse anche già firmato un contratto con Dino De Laurentis. Questo progetto, si racconta, ebbe col tempo un’evoluzione e si trasformò in un film fantasma felliniano: Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, il più cult dei film inesistenti. Se è così, e sarebbe bello se lo fosse, allora G. Mastorna sarebbe diventato una sorta di creatura chimerica, da bestiario medievale, per metà Keith Winston e per metà Fellini: un eroe dei pulp con un Borsalino sformato e una lunga sciarpa bianca.

Fellini aveva letto il romanzo di Fredric Brown molto prima di me. Assurdo universo era stato infatti tradotto in italiano sul n. 25 di “Urania” nel maggio del 1953. In copertina c’era un’illustrazione di Kurt Caesar, non soltanto brutta ma anche fuori tema: nessuno gli aveva evidentemente detto niente del libro e lui pertanto disegnò astronavi e anelli planetari che c’entravano un pero con la storia. All’interno, in compenso, c’erano tre o quattro bellissime illustrazioni di Carlo Jacono. Fellini, che aveva probabilmente letto l’Urania n. 25 quando uscì, dieci anni prima che lo leggessi anch’io, aveva appena diretto I vitelloni, con una Rimini da piangere per la tristezza e la nostalgia e un Alberto Sordi in grandissimo spolvero nella sua seconda parte drammatica dopo Lo sceicco bianco, sempre roba di Fellini, che dopo I vitelloni d’accingeva a girare La strada, con Anthony Quinn e Giulietta Masina. Io stavo per compiere tre anni.

Romanzo satirico, à la Swift, ma anche d’avventura, sempre à la Swift, Assurdo universo è a suo modo una sorta di Gulliver’s Travels ambientato nei bassifondi delle riviste di fantascienza (o come si diceva un tempo, quando Umberto Eco studiava Les mystères de Paris e Il caso Bond, nelle loro «strutture narrative», se non peggio: nei loro «topos»). Lemuel Gulliver, medico e gentiluomo, esplorava le storture della comunità inglese del suo tempo (ma anche, con l’occasione, le spine perenni della condizione umana) viaggiando nei mondi utopici e distopici in cui ogni singolo ingiustizia sociale, come pure ogni singola bêtise culturale, politica e religiosa, cresceva a metafora dell’«intero sotto sortilegio» (così Adorno, filosofo fantasy, cioè hegeliano). Keith Winton, Gulliver dei pulp, perlustra al suo turno l’universo dei clichés fantascientifici: i fucili disintegratori, le eroine discinte, gli alieni ridicoli, le automobili volanti, i robot autocoscienti, le guerre spaziali, le astronavi «superluce», i superuomini per metà Einstein e per metà Doc Savage o Batman, ma in primis le fantasie da sfigati dei suoi lettori adolescenti, foruncolosi e tapini ma spavaldi.

È proprio lì, all’interno dei mondi iperbolici di Storie sorprendenti, la rivista di cui lui è il direttore e Joe Doppelberg il fan più sfegatato, che Winton viene sbalzato dalla botta del razzo lunare. Un attimo prima siede ai bordi d’una piscina nella villa nababba del suo editore e un attimo eccolo al centro d’una guerra mortale contro gli «arturiani», ultracorpi extrasolari decisi a conquistare la Terra senza fare prigionieri.

Nella Terra parallela della fantascienza pienamente dispiegata – una specie di socialismo reale, ma senza un filo di realtà, con i fumetti al posto del socialismo, e niente Stalin – ci sono abitanti della Luna «coperti completamente di vello d’un brillante color porpora». Alti «due metri e venti», i seleniti non hanno naso ma «denti, molti denti», e fortunatamente sono alleati dei terrestri. Si combatte nello spazio, al largo di Nettuno e di Plutone, e nelle grandi città, come New York, dove Winton s’avventura a proprio rischio e pericolo. Si consumano droghe che procurano allucinazioni vivide come film felliniani e ogni notte vige l’assoluto coprifuoco della «totalnebbia»: una tenebra da buco nero nella quale si muovono tossici, poliziotti spietati e bande d’assassini. Questo mondo è difeso da un eroe da fumetto: il giovane superscienziato Dopelle. Biondo e bellissimo, tra Luke Skywalker di Star Wars e Katzone della Città delle donne, Dopelle è «il più grande, il più forte, il più valoroso, il più romantico uomo della Terra». Non basta: la sua ragazza, in questo universo, è Betty Hadley, che anche qui dirige Perfette storie d’amore e che, al pari d’ogni altra donna di questa Terra alternata, segue un look particolare: abiti succinti, color argento, che la lasciano mezza nuda, come le ragazze sulle copertine dei pulp di fantascienza.

Winton ci mette un po’ a capire cos’è capitato, ma alla fine ci arriva: sulla nostra Terra, prima della dislocazione spaziotemporale e bang, un altro mondo, stava rispondendo a una lettera di Joe Doppelberg, che in prosa bamboccia lamentava che gli aliens delle illustrazioni di Storie sorprendenti non erano «abbastanza terrificanti», diavolo, e che le ragazze dei racconti scelti da Winton erano troppo timide, via. Siamo uomini o seminaristi? Doppelberg voleva ragazze meno caste e più intraprendenti e «demoni mercuriani» disegnati da Salvador Dalí («scommetto che Dalí ce la farebbe a tirar fuori un mostro dagli occhi di pulce come dico io»). Winton, che al momento del botto stava pensando alla cara Betty Hadley e a quel babbione di Joe Doppelberg, e che per deformazione professionale ha sempre le insulsaggini della fantascienza per la testa, ha fornito le coordinate metafisiche del balzo quantico (qualunque cosa significhi) ed è finito nel mondo sognato da Doppelberg, qui diventato Dopelle.

Era una storia perfetta per una perfetta notte natalizia. Mi sarebbe piaciuto, intanto che la leggevo, parlarne con qualcuno, ma ai tempi non conoscevo ancora nessuno che avrebbe apprezzato il soggetto della conversazione. Poche settimane più tardi, entrato nel club di fantascienza torinese, avrei potuto parlarne con Riccardo Valla, che a fine decennio si sarebbe trasformato nel Keith Winston delle Edizioni Nord, ma tra affiliati al club di fantascienza si parlava poco di fantascienza (la questione all’epoca più discussa, quando ci s’incontrava per un caffè o un gelato, era come procurare alla ghenga qualche copia di “Playboy”). Non parlavamo di Joe Doppelberg. Eravamo Joe Doppelberg.

Vent’anni dopo, quando ogni tanto mi capitava d’incontrare Carlo Fruttero alla stazione di Porta Susa, entrambi diretti a Milano, lui atteso a Segrate, io per una puntata al “Giornale”, avrei potuto parlare con lui di Assurdo universo. Dopotutto era lui, con Franco Lucentini, il curatore di Universo a sette incognite, Fruttero, d’inverno, indossava una sorta di mantello a ruota da vecchio anarchico, o da notaio delle romanze («al mio paese nevica / e il campanile della chiesa è bianco / tutta la legna è diventata cenere / io ho sempre freddo e sono triste e stanco»). Be’, di Fredric Brown non parlammo mai. Ma una volta, tra Chivasso e Leinì, gli chiesi perché Urania, all’epoca diretta da lui e Lucentini, non avesse mai pubblicato i romanzi di Philip Josè Farmer e lui mi rispose che valevano poco. Poco? Mi sembrò, senza offesa, una risposta assurda. Non gli chiesi perché invece uscissero su “Urania” tutti quegli orribili romanzetti di Ron Goulart. Se c’era una ragione sensata, me la persi.

Quanto a What mad Universe, di cui a lungo (così pensavo, esagerandomi) ero stato il solo estimatore, adesso è un cult, universalmente apprezzato. Tutti tifano per la doppia personalità di Joe Doppelberg, lo sfigato redento dall’«interpretazione a molti mondi della fisica quantistica». Chi non vorrebbe essere bello, biondo, intelligente, atletico e salvare un pianeta abitato da ragazze desnude? Qui ci tocca la sfiga per destino, ma ci consola pensare che altrove, in qualche dimensione irraggiungibile, un nostro omologo si sta godendo una vita intensa, hollywoodiana: imprese eroiche, stravizi. Doppelle, l’Io ideale del lettore medio di fantascienza, era insieme il fotocolor delle ridicolaggini della fantascienza e un monumento alla sua grandezza. Parlava di noi, dei consumatori di pulp e del nostro «diritto all’alienazione» (per citare sempre Adorno). Brown prendeva la fantascienza per il cecio e contemporaneamente la esaltava facendone una divertita e inquietante allegoria trompe-l’oeil della condizione umana.

C’erano naturalmente anche altri invitati alla festa di cui Assurdo universo era l’anima. Doveva essere qualcosa nell’aria in quell’America degli anni cinquanta. Come Joe Doppelberg, per dire, anche Walter Mitty (il personaggio di James Thurber che Danny Kaye interpretò in Sogni proibiti, 1947, un film di Norman Z. McLeod, già regista dei Marx Brothers) stava ai pulp come Don Chisciotte ai romanzi cavallereschi. Tutti, in America, cominciavano a sognare un’altra vita, e il resto del mondo, fiutata l’aria delle nuove culture pop, cominciava a sognare quel che si sognava in America. Era un fenomeno, a quanto pare, socialmente pericoloso, almeno agli occhi perplessi del bacchettonesino da Bible Belt, visto che in qualche Stato americano i fumetti, specie horror e fantascientifici, finirono fuori legge dopo la condanna pronunciata dallo psichiatra Fredric Wertham della Hopkins University, autore di Seduction of the Innocent, un libro che chiamava i fumetti a rispondere dell’aumento della criminalità giovanile, degli aborti, del crescente consumo di droghe e d’ogni possibile attentato alla morale. Eppure Whertam, che oggi passa per reazionario, era in realtà «un irriducibile progressista liberale, molto impegnato nel processo di integrazione dei neri in America», come racconta Abraham Riesman nella sua biografia di Stan Lee (Stan Lee, Rizzoli 2023). Morale: c’era qualcosa nell’idea di passare da questo a un altro universo che metteva mezz’America (e anche l’altra mezza) in ansia. Ma intanto la via per accedere a nuove dimensioni era stata aperta dalle culture pop.

In Assurdo universo, è il cervello elettronico Mekky, una sfera galleggiante nell’aria, braccio destro di Doppelle, a spiegare tecnicamente la faccenda dei mondi paralleli. «Tutti gli universi concepibili esistono», spiega Mekky a Winton. «Per esempio un universo in cui in questo momento si svolge questa stessa scena, con la sola eccezione che tu, o il tuo omologo, porti scarpe nere invece di scarpe marrone. C’è un numero infinito di permutazioni dei caratteri variabili, per cui in un altro caso avrai una graffiatura in un dito, e in un altro corna purpuree. Nessuno di questi sei tu. Prendiamo il Keith Winton di questo universo. In questa particolare variante c’è una sensibile differenza fisica, anzi non c’è nessuna rassomiglianza, ma tu e il tuo prototipo in questo universo avete grosso modo la stessa storia. Ci sono inoltre delle somiglianze fra il mio padrone, Dopelle in questo mondo, e il fan di fantascienza chiamato Doppelberg nel tuo universo».

Questa la giostra sulla quale, nel frattempo, sono saliti scienziati, romanzieri mainstream, filosofi, registi, poeti, rock band (come per esempio i Red Hot Chili Peppers che, in un track di Californication, un album del 1990, cantano che «nel profondo di un universo parallelo / sta diventando sempre più difficile / dire che cosa viene prima». Ci sono state quattro stagioni di Sliders, da noi I viaggiatori: un gruppo di naufraghi sperduti nel bosco dei mondi paralleli cerca la strada di casa senza mai trovarla e senza mai smettere di lamentarsi (dopo un po’, persino io non ne potevo più). Ci sono state le ucronie hitleriane, anche troppe (da Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello, a Philip Roth, Il complotto contro l’America, quasi che per scrivere un’ucronia hitleriana tocchi chiamarsi per forza Filippo): mondi in cui il Terzo Reich vince la guerra mondiale e sono cavoli per tutti.

Ultimo a saltare con un volteggio da ginnasta sulla giostra degli universi paralleli è stato il giallista Lawrence Block con Il ladro che leggeva Fredric Brown, tredicesima (un po’ deludente) avventura di Bernie Rhodenbarr, topo d’appartamenti e rivenditore di libri usati con bottega nel West Village, a Manhattan. Nel nostro mondo non ci sono più le serrature d’una volta, da aprire maneggiando con destrezza forcine per capelli, carte di credito, limette per le unghie, cacciavite e grimaldelli. Da noi questa è l’età delle serrature elettroniche, e per i ladri in guanti gialli i tempi si sono fatti cupi. Idem per chi possiede una bottega di libri usati: i clienti entrano, chiedono il prezzo d’un libro, poi cercano un’offerta più vantaggiosa su eBay e l’affare sfuma. Scoraggiato, perché ormai rubare è diventato impossibile e perché la bottega è deserta, Bernie Rhodenbarr siede dietro il banco della libreria in compagnia del suo gatto, Raffles, e comincia a leggere un libro. È What Mad Universe.

E così, senza che si capisca come, il mattino dopo, quando si sveglia, scopre d’essere finito in un universo parallelo in cui c’è Internet e l’elettronica fa meraviglia come da noi, ma dove nessuno ha mai pensato d’usarla per le serrature, e dove non esiste eBay né un qualunque altro mercato digitale di libri usati. Bernie può continuare a rubare e a tener bottega. Tra tutti «gli universi concepibili», e perciò esistenti, come Mekky ha spiegato all’«uomo dei razzi», Rhodenbarr è finito (proprio come Keith Winton alla fine d’Assurdo universo, quando ha potuto scegliere in quale mondo, tra tutti gl’infiniti mondi del multiverso, prendere residenza) proprio nell’universo a sua misura, «corna purpuree» (diciamo così) e tutto. Purtroppo, a differenza di Winton, Rhodenbarr torna indietro, giù e poi su, come lo yo-yo (uno dei regali di Natale della mia infanzia). Ma intanto è stato per un po’ in vacanza in un altro universo. È per questa ragione, per dare respiro alle proprie alienazioni, e per visitare altri mondi, che si leggono i libri.

Passato il Natale del 1963, mi restò la fissa, sempre per autoregalo, degli universi paralleli e delle ucronie. Su in solaio ne devo avere a centinaia. Pile su pile di libri, ciascuno dei quali potrebbe rivelarsi una via d’accesso, soltanto ne avessi la password, ad altri universi, dove ogni giorno è una festa, un’avventura. Ho compulsivamente e ossessivamente schedato più libri sugli universi paralleli di quanti ne abbia letti o mi proponga di leggere. Ho anche scritto, in forma dada, una specie di catalogo di questi libri, e da esperto potrei testimoniare in qualsiasi tribunale, se mai Perry Mason mi citasse come testimone, che nessuno è all’altezza dell’eccezionale romanzo di Fredric Brown. Ancora non mi è riuscito, però, di schizzare anch’io, con un oplà extradimensionale stile Storie sorprendenti, nel mio universo su misura. Ma continuo a provarci.

Un tentativo al solito rovinoso, eppure a suo modo mezzo riuscito, fu la mia stagione da fan di Theodor W. Adorno. Adorno era la rock star della filosofia radicale: Mick Jagger e G.W.F Hegel in una persona sola. Primo contatto: il Centro addestramento reclute di Avellino, dove capitai quando c’era ancora il servizio di leva, e lo Stato autoritario, per dirla nell’«argot» della Scuola di Francoforte, voleva fare di me un bersagliere, niente meno. Grazie, ma grazie no, decisi io. Per scansare le fatiche e l’umiliazione dell’addestramento finsi di dover preparare un esame sulla Dialettica negativa, appena tradotta da Einaudi. Ne ebbi licenza. Cominciai a leggere. Non si capiva una parola.

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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