Suspiria – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Oct 2025 20:04:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Suspiria e il chiodo di Cechov https://www.carmillaonline.com/2019/01/19/suspiria-e-il-chiodo-di-cechov/ Fri, 18 Jan 2019 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50638 di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, [...]]]> di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, è un po’ come voler riscrivere Casablanca o Mary Poppins: non si tratta necessariamente d’intoccabili capolavori, ma di film che hanno saputo fondare e definire un immaginario. Confrontarsi con simili opere è un’intenzione che richiede cautela, specialmente se si accarezza la velleità di trasformare Casablanca in La passione di Giovanna D’Arco e Mary Poppins in Il Settimo sigillo.

Argento, da onesto artiere senza velleità intellettuali, poteva ampiamente permettersi – almeno prima del suo precoce rincoglionimento, ci si perdoni l’irriverenza – di ignorare le lezioni del grande scrittore russo: il suo Suspiria non è niente di più e niente di meno di una psichedelica icona pop-gotica che ha turbato i sonni di generazioni intere. Qui la visione scavalca la scrittura, lo spasmo viscerale calpesta il guizzo cognitivo, la fantasmagoria sommerge la citazione erudita. Argento non ha affatto bisogno di Čechov, cioè della cultura, della costruzione rigorosa e razionale, della drammaturgia coerente. Invece l’iconoclasta incauto che osi infrangere il feticcio, che voglia coltivarne l’ambiziosa metamorfosi da puro incubo, miasma dell’inconscio, ad allegoria esistenziale, da trance de viande a trance de vie, allora sì che ne ha un bisogno assoluto: il passaggio da lodevole intenzione a compiuta realizzazione si bilancia come un fachiro sui chiodi di Čechov.

Guadagnino, palesemente più a suo agio con Melissa P. o con fanciulli gay altoborghesi che con le streghe, crede che l’efficacia dell’indigesto minestrone di Macbeth sia data non dalla qualità e dal dosaggio ma dall’accumulo degli ingredienti da rimestare nel calderone, e per la court-bouillon – non esattamente corta dal momento che impiega ben 2 ore e 32 minuti per riapparecchiare un film di 1 ora e 40 minuti – del classico argentiano, pensa bene di ammannire l’immaginario visuale di almeno tre tipologie filmiche diverse: il docu-drama fassbinderiano alla Deutschland im Herbst, con autentici ma posticci spezzoni televisivi sulla cronaca della lotta armata nella Germania degli anni ’70 culminanti nell’eccidio di Stammheim; il dance film, pieno di efebiche fanciulle piroettanti, in equilibrio fra Scarpette rosse e Flashdance; e ovviamente l’horror, indeciso fra il visionario-surrealista (gli incubi della protagonista), lo splatter-gore e il kitsch incondizionato (la ridicola tregenda da pretesa Walpurgisnacht finale). Tre film in uno: nessuno dei tre compiuto, nessuno dei tre omogeneo, nessuno in sintonia con gli altri due.

La bomboniera barocca e pop della Friburgo immaginata da Argento cede il passo alla Welthauptstadt degli slavati scenari berlinesi in stile Checkpoint Charlie, perfettamente in linea con la fotografia noir di Netflix (o Amazon, che è lo stesso), sempre uguale di film in film; i tanto criticati flat characters argentiani, piatti sì ma anche archetipici come nelle fiabe – dove bastano le streghe, per l’appunto, e le vittime delle streghe – prendono corpo nella forzata intellettualizzazione pseudo-realistica di Guadagnino, come vecchi psicanalisti post-Shoah, enigmatiche insegnanti di danza (incarnati entrambi dalla bravissima Tilda Swinton, nel primo caso en travesti, unica perla nell’ostrica avariata di questo film) o giovani danzatrici ribelli divenute fiancheggiatrici della Rote Armee Fraktion: non più archetipi ma stereotipi, ugualmente flat e soprattutto pretestuosi, irrisolti e scontati.

La cosa che più irrita di questo film è la pretenziosità e l’inconsistenza: il cinema italiano che si fa notare all’estero deve essere, evidentemente, pretenzioso e inconsistente. Luca Guadagnino ricorda fin troppo, nella perizia tecnica che non significa necessariamente stile come nel manierismo autoreferenziale, un altro recente premio Oscar italico: Paolo Sorrentino. Le tematiche scelte e il modo di narrarle da parte di entrambi i pluripremiati cineasti, sembrano dovere molto di più ai Big Data dell’algoritmo con cui Netflix e le grandi compagnie di produzione e distribuzione audiovisiva costruiscono a tavolino i loro show, che all’antiquata teoria romantica del Genio. Ma Stranger Things, con tutti i suoi limiti, è un prodotto quasi universalmente efficace perché esplicitamente dichiarato e venduto come tale: non siamo sicuri di poter dire altrettanto delle opere stucchevolmente “artistiche” dei succitati autori (con tutta la buona volontà di applicare alla lettera il masochistico “volontarismo dell’amore” della baziniana Politique des Auteurs).

Meno conformisti di noi però – che mai diremmo male di un artista di moda – gli americani hanno invece saputo trattare il nuovo Suspiria come merita: inserito nella classifica dei 10 peggiori film del 2018 da The Hollywood Reporter, è stato così commentato dal New York Magazine: «Due ore e mezza di streghe così logorroiche che Hänsel e Gretel si sarebbero gettati loro nel forno, pur di non starle più a sentire», mentre il New Yorker lo ha definito : «Un debole e sordido “holocaust kitsch” con un’eleganza da fanatico e la consistenza politica di una maglietta del Che». Nessun italiano ha osato tanto.

Per quanto riguarda chi scrive, che non partiva affatto prevenuto ma anzi incuriosito e addirittura ben disposto, la delusione, la noia e l’irritazione sono state forti. In un Suspiria che sia Suspiria (un possibile Suspiria degli infiniti presenti nella Cineteca di Babele), le streghe dovrebbero fare paura e non ciabattare di qua e di là come perpetue affollando la loro congrega come una riunione di condominio (e comunque alle riunioni condominiali di solito nessuno si taglia la gola all’improvviso come inesplicabilmente vediamo fare ad una delle signore presenti: l’evento non è perturbante, semplicemente incongruo); se oltre alle streghe ci si permette di tirare di mezzo il terrorismo, la Banda Baader Meinhof, il bleierne Zeit, e la strage di Stammheim, allora si presume che il testo vada letto in relazione al contesto (diventi anche politico, quindi) e che questo non sia solo pretesto: streghe e terroristi dovrebbero quindi entrare in contiguità metaforica e non solo circostanziale; se poi si insiste sulla provenienza della protagonista, la giovane ballerina americana interpretata da Dakota Johnson, da una famiglia Amish – e non Davidiana o Avventista del settimo giorno, o cattolica o ebrea – si ha ragione di cercare il motivo della scelta in qualcosa di più del possibile omaggio a Witness e a Peter Weir; infine che relazione si dovrebbe cercare fra danza e stregoneria e quale fra allieva e maestra: i saltelli faticosi dell’apprendista la cui elevazione è aumentata dall’insegnante Madame Blanc vampirizzando a vantaggio della giovane pupilla l’energia di un’altra danzatrice che collassa poco dopo, sono un segno ambiguo entro un sistema il cui contenuto ci sfugge; se il fondamento della vicenda è il passaggio di poteri cruento fra le Madri (Suspiriorum, pare, ma c’è una certa confusione), perché questo rinnovamento si snoda proprio intorno a un ballet e perché questo s’intitola proprio Volk ? Infine, se si vuole conferire centralità al personaggio dello psicanalista (che era poco più di una comparsa in Argento), perché il suo rapporto con quasi tutti gli altri protagonisti resta periferico fino alla fine del film, tanto da rendere ancora più immotivata l’apparizione, fittizia e indotta dalle streghe, della di lui moglie, dispersa nei campi di concentramento: un occasionale pretesto per evocare l’Olocausto (che fa sempre engagement) e per fornire un ruolo cameo a Jessica Harper, protagonista del vecchio Suspiria ? Troppi chiodi, nessun impiccato – direbbe Čechov.

Già la scena d’esordio stona: l’improbabile seduta analitica della ballerina “ribelle” che vorrebbe denunciare le streghe all’anziano terapeuta, il dott. Klemperer (Tilda Swinton irriconoscibile: anche questa scelta opinabile; tre ruoli di cui uno maschile a Tilda – per quale necessità a parte lusingare la giusta vanità dell’attrice ?), sembra una corsa a ostacoli, la ragazza si muove continuamente, si alza, si siede, passa da una stanza all’altra, raccoglie e depone oggetti (tra cui un testo junghiano, tanto per gradire), e intanto parla delle streghe (senza che ci si capisca nulla). L’analista, invece di sbatterla fuori a calci nel sederino, la sta a sentire pazientemente e, a quanto si evince dal seguito, qualcosa capisce (beato lui), mentre continua a tallonarla con fatica nelle sue deambulazioni, finchè lei non imbuca la porta d’uscita e se ne va. Un inizio più farraginoso non si poteva trovare.

Altre scene in verità sono efficaci, almeno se prese singolarmente. Una in particolare funziona davvero, quella in cui ogni movimento brusco della danza che la nuova venuta americana, sta provando in palestra produce una frattura sul corpo della collega cui ha sottratto il ruolo principale e che, in lacrime per la delusione, cerca di abbandonare la congrega: rinchiusa in una sala a specchi mentre le ossa le si frantumano pezzo a pezzo, la poveretta sbava e si orina addosso ridotta ad un tronco adunco e contorto. Meglio di Argento, ma è finita lì. Non ci sarà più niente di splatter (a parte l’immotivato autosgozzamento di cui si è già detto), non ci sarà alcuna atmosfera terrorizzante o misteriosa dal momento che le streghe sono spiattellate come tali fin dall’inizio (la prima riunione condominiale) – lo straniamento dato dall’accostare arcano e quotidiano, come ad esempio Polansky fece magistralmente in Rosemary’s Baby, è del tutto fuori dalle corde di Guadagnino. Invano si attenderanno sviluppi che mettano in relazione stregoneria e terrorismo giustificando finalmente la ridondanza dell’ambientazione, invano si cercheranno chiarificazioni sulle motivazioni e le relazioni tra i personaggi.

Si arriva così, dopo una masturbazione lunga due ore e mezza e scandita in sei inutili atti con tanto di titolo, al deludente e goffo finale: l’apparizione di Madame Marcos (ancora Tilda coperta di protesi in lattice): una scena che era il climax del film di Argento, e che qui non ha alcuna rilevanza perché in realtà di Helena Marcos quasi non si è mai parlato nel corso del film ed è perfettamente inutile tirarla fuori dell’armadio proprio ora. Ecco che Marcos decolla o quasi la rivale Blanc; poi Susie Bannon, l’allieva americana – in realtà, ma che sorpresa, è lei la legittima Mater Suspiriorum – trucida la Marcos mentre una sarabanda di ballerine nude saltella in giro e Susie si apre un buco sanguinolento fra le costole; poi una specie di Mostro della Laguna Nera, che dovrebbe rappresentare la Morte o il Diavolo o chissà cosa, compare sulla scena come il Commendatore nel Don Giovanni: alcuni muoiono, altri resuscitano, mentre le ballerine si accasciano, sempre dimenando tettine e chiappette in bella vista; lo psicanalista Klemperer, rapito presumibilmente per essere sacrificato, viene invece risparmiato (perché ?). Game over. Qualche giorno dopo Susie appare in camera dello psicanalista e gli spiega prolissamente le circostanze della morte della moglie in un lager nazista, poi gli dona l’oblio di tutto quanto (i lager bisognerebbe ricordarli per sempre invece, non dimenticarli: definire la morale di Guadagnino pericolosamente ambigua è dir poco…). Nella casetta di campagna dei Klemperer frattanto si trasferisce una giovane famiglia. Dettaglio su un cuore inciso sulla traversa della porta all’interno del quale forse – la mia attenzione da tempo è un po’ caduta e non sono del tutto sicuro – si leggono le iniziali presumibilmente dello psicanalista e della moglie. Dissolvenza. Fine.

All’ingiustificata gratuità della sceneggiatura corrisponde pienamente l’insussistenza della tanto decantata colonna sonora di Thom Yorke, leader del sopravvalutato gruppo rock dei Radiohead. Il film ha un soundtrack, o così dovrebbe essere, ma non ce ne accorgiamo, è come se non ci fosse. Se l’intenzione era fare il contrario dei Goblin ci si è riusciti perfettamente, ma i Goblin però si sentivano eccome ! Anche la musica dunque delude quanto tutto il resto e alla fine, se vogliamo proprio salvare qualcosa, restano solo le prove attoriali, della Swinton in particolare, perché tutti gli altri non spiccano particolarmente. L’algoritmo di Netflix evidentemente ha fallito; ha indicato ad autore e produttori una serie di parametri per aggiornare un vecchio film come un architetto scalcagnato rimodernerebbe un loft: Berlino (città di moda); Anni di piombo e Olocausto (riferimenti fighi); Radiohead (gruppo di moda); Tilda Swinton (attrice di moda meglio se multiruolo come Peter Sellers, altro riferimento figo); ballerine (meglio se nude); splatter (non troppo); e così via. Ma sembrare fighetti non basta. Il vero problema era tenere tutto insieme. Un chiodo dopo l’altro.

Se c’è un chiodo, a quel chiodo qualcuno si deve impiccare” – ecco prorompere minaccioso come Nemesi il povero Čechov, sovrapponendosi ai titoli di coda. Così ai troppi chiodi del Suspiria di Guadagnino chi finisce per impiccarsi è lo spettatore.

 

 

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 57 https://www.carmillaonline.com/2014/03/13/divine-divane-visioni-cinema-de-papa-0506-57/ Thu, 13 Mar 2014 22:40:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13380 di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005 Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta [...]]]> di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005
Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta distrutti sul pouf di casa (non abbiamo ancora un divano!) e al cinema mai, giusto alcuni Dvd musicali oggetto di recensioni per le mie scorribande editoriali e poco altro. E quando guardavo lo scarno elenco di titoli (il mio computer è pieno di elenchi – nomi, dischi, libri, film, diete, amici, nemici etc. – e, lo so, un Lexotan aiuterebbe) aggiungevo un commento qui, un parere là, una curiosità, e voilà, eccoci daccapo. Come sempre senza ordine, intelligenza e competenza, ma francamente non ci sono mai state e quelle potete cercarle – buona fortuna – in tutti i recensori ufficiali che infestano qualunque pubblicazione. Perché criticare non costa nulla e nessuno vi dice mai cos’ha visto prima e soprattutto cos’ha mangiato quel giorno lì. Ma niente polemiche oziose: come diceva Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue.
Qui c’è posto e, se vi accontentate: prego, dopo di lei.
Dunque: la piccina dormicchia e, dopo un’ottimo primo mese, con le classiche 5 o 6 sveglie notturne, abilmente gestite in decrescita, Barbara e io abbiamo poi aspettato la cosiddetta svolta del 70° giorno, evento mitologico che secondo alcuni pediatri dovrebbe sancire la fine dei pasti della notte. Invano. No. Da noi non è arrivato, ‘sto cazzo di miracolo del 70° giorno. Però, pian pianino siamo venuti a capo della faccenda. Certo, abbiamo le facce come due zombie, specialmente da quando Sofia ha deciso che svegliarsi all’alba e non addormentarsi più sia cosa salutare. Ma finalmente adesso, a 5 mesi di vita, cominciamo a ragionare, con una o due sveglie al buio. E adesso ci guardiamo un film, che va bene le gioie della paternità e tutto il resto, ma c’è vita anche nel cinema. La scelta cade su un prestito che, guarda il caso, è un film per bambini. A visione ultimata, che dire? Come sempre, grande Pixar. Ottimo l’apparato scenografico, divertente la storia, azzeccato il disegno dal tratto spigoloso. Diverse ideuzze che rendono scoppiettante le vicende di una famiglia di super eroi a riposo. Buono, con la scena finale col bimbetto rovente superlativa. Carini gli extra. Sì, lo so: sembra il rapporto di un carabiniere, ma il mio cervelletto, oggi, non può elaborare diversamente e se non vi va potete non firmare il verbale, ok? (Dvd; 18/9/05)

556 – Born to Boogie, e chi no?, di Ringo Starr, UK 1972
1972. I figli della rivoluzione non aspettano altro: un folletto che sappia riprendere in mano la tradizione del rock n’roll di vent’anni prima, quando con Little Richard trionfavano una sensuale ambiguità e un’animalesca glossolalia. Marc Bolan, il ragazzo del ventesimo secolo, aggiunge alla formula un po’ di britishness, potenziando il look con lustrini e trucco. E il rock – dopo anni di troppo impegno che hanno distanziato la mente dal corpo – diventa glam e torna a liberare da lavoro, genitori e morale corrente. Born to Boogie è un rockumentary d’ingenuità commovente: mette in fila diverse esibizioni di Bolan e dei suoi T.Rex e le raccorda con surreali intermezzi felliniani (indovinate un po’: nani e suore). Ma nella sua semplicità, racconta un’epoca attraverso musiche, colori e facce: quelle estasiate del pubblico, quella sognante di Bolan, quella non ancora calcolatrice di Elton John (coi capelli veri) e infine quella del regista: il Beatle minoritario, ma non meno intelligente, Ringo Starr. Ricchissimo di extra (due documentari, due concerti e altri bonus), Born to Boogie è il modo perfetto di riproporre un vecchio film su Dvd: con amore. (Dvd; 1/10/05)

DDV5702 Suspiria557 – L’ansimante Suspiria di Dario Argento, Italia 1977
‘Anvedi! Storia che va subitissimo in vacca (perlomeno ai miei occhi, che sono dei piccolo Rudolph Giuliani a tolleranza zero), attori ultracani, ambientazione in una scenografia scintillante, coloratissima, folle e completamente falsa. Argento ha rivendicato l’ambientazione fiabesca e il film andrebbe visto così: una favola horror, onirica e straniante. Barbara rantolava dopo pochi minuti, a me invece Suspiria ha tutto sommato divertito, perché è un film pazzoide e senza senso alcuno se non il piacere ludico del racconto e della folgorazione visiva (e non è poco) e sto vivendo ancora una sorta di euforia post partum che mi rende imprevedibile anche nei giudizi. Chissà, in altri momenti, davanti a un film così, avrei potuto sparare al televisore. Magari a Miguel Bosé (è nel cast, assieme a Jessica Harper e Stefania Casini, la grande che in Novecento ha stretto contemporaneamente i membri di De Niro e Depardieu). Ah: due settimane fa è morto Franco Scoglio, allenatore cosmico del Genoa, poeta, professore e santone. L’ho intervistato nel 2002 e prima mi ha fatto venire un infarto per telefono, facendomi credere di essersi dimenticato l’appuntamento e di essere all’estero, poi mi ha preso per il culo durante e dopo l’intervista chiamandomi affettuosamente tutto il tempo “testa di cazzo”. “Quanti modi esistono per battere un calcio di rigore, mister?”, gli ho chiesto: “Ventuno… e sono tutti sbagliati”. Era un grandissimo e – come diceva lui – non parlava mai ad minchiam. (Dvd; 17/10/05)

558 – 1-2-3-4! End of the Century: the Story of the Ramones di Michael Gramaglia e Jim Fields, USA 2004
Certe volte il miglior rock nasce da grandi antagonismi: è il caso dei Ramones, quattro misfits affratellati dalla comune refrattarietà a tutto ciò che li circondava. È il 1974 quando, reietti di quel Queens troppo lontano da Manhattan, i Ramones spazzano via i fratelli maggiori capelloni e manierati e gettano i semi di tutto il rock a venire, ispirandosi alle sonorità di Stooges e New York Dolls. Le canzoni tornano a durare un paio di minuti e a colpire duro. Le canta Joey, il nerd per eccellenza, ipersensibile e naif, e le suona su una Mosrite scrostata il dittatoriale e cinico Johnny, mentre l’eroinomane bruciato Dee Dee percuote un basso. Oggi i Ramones originali sono tutti morti, eccetto il batterista Tommy che se n’è tirato fuori per primo garantendosi la vita, ma il suono, quella ruvida attitudine filtrata da un ampli scassato, è destinato ad accompagnarci per sempre, dalle cantine ai palchi di tutto il mondo. End of the Century racconta in maniera spietata e toccante di come dal letame (magari al CBGB) nascano i fiori e quattro asociali, brutti, sporchi e (talvolta) cattivi abbiano saputo scuotere dalle fondamenta e rifondare il rock. Gran film e gran gruppo, perché la musica non è solo musica. Gabba gabba hey! (Dvd; 23/10/05)

DDV5703 Emerson Lake559 – Welcome my friends to Beyond the Beginning di Nick Ryle, UK 2005
Visione divertentissima della storia di uno dei gruppi più tamarri e sboroni della storia del rock, gli Emerson Lake & Palmer. Dovendo intervistare a breve due terzi della band per Rolling Stone ho unito lavoro e colpevoli passioni e faccio un preambolo per chi ignora chi siano questi signori: se sei un perverso o se ami il prog più avventuroso (le due cose non si escludono) gli ELP sono la morte tua: tecnica micidiale e sfrenata teatralità, con in repertorio – tra le altre cose – un congegno che permetteva ad Emerson di performare per aria, legato a uno Steinway rotante, tipo il Corsair del lunapark. Dopo l’uscita della programmatica autobiografia del tastierista, Pictures of an Exhibitionist, dove trovate con autoironia e franchezza sesso, droga e liti della band più fastosa dei Settanta, è arrivato, per l’evidenza visiva, anche il monumentale dvd Beyond the Beginning, con assortite melodie dolcissime, cavalcate strumentali e diversi momenti esilaranti. Come il batterista Palmer che, in un assolo che lo impegna come un polipo, riesce anche a suonare una campana tirandone la corda coi denti. O come il circense Emerson che accoltella il suo organo, lo prende a calci, gomitate e ceffoni e infine lo monta, nel senso che se lo fotte allegramente pur di tirarne fuori suoni inediti. Visto il simpatico prodottino digitale, che mette in fila la biografia della band con interviste abbastanza prevedibili e immagini invece decisamente interessanti, vi relaziono sugli incontri coi suddetti musicisti. Keith Emerson, l’uomo che quando eravamo piccini suonava il pianoforte sulla spiaggia nella sigla di Variety, è al Live Club di Trezzo. Mi presento offrendogli una bottiglia di Fernet Branca, di cui lo so ghiotto. Imbarazzo: lo hanno da poco operato al cuore e rifiuta con fermezza. Cerca di mettermi a mio agio definendosi ipocondriaco ma quest’uomo s’è rotto (suonando il piano) dita, naso e costole e, cadendo dalla moto, s’è pure aperto la testa (“Il mio teschio è bianco!”). Oggi s’è dato una calmata ed è un amabile sessantenne in forma, che compone ancora al piano ma ha l’iPod col quale ascolta jazz dei fifties. Negli ultimi vent’anni l’amore per la musica è andato di pari passo alla disattenzione per gli affari e un recente divorzio lo ha steso finanziariamente. Per cui ha venduto i coltelli della gioventù hitleriana (dono di Lemmy dei Motorhead, allora suo roadie) con cui massacrava il suo Hammond e nei vari traslochi ha perso di vista la mitica giacca d’armadillo o certi costumini sbarluccicanti che lo facevano sembrare un cioccolatino Quality Street. Il punk diede una spallata al prog, e mi fa notare che oggi vive a cinque minuti da Johnny Rotten. Lui in un condominio, Rotten in un villone. Ma i rovesci della vita non gli hanno tolto il piacere dell’improvvisazione e, in un concerto dove ci delizia con un repertorio che spazia dai Nice al ragtime, si toglie lo sfizio di eseguire la Toccata e fuga di Bach al contrario (cioè suonando l’Hammond da dietro). Una settimana dopo, vicino a Como, incontro Carl Palmer. Ha fama di precisino e lo conferma dicendomi tutti i titoli esatti degli album che tiene nel suo iPod (anche lui jazz). Carl non ha mai smesso di suonare e ha cavalcato la nascente MTV con gli Asia. Oggi ammette che per quelli della sua generazione è più difficile di un tempo, ma il passato è passato ed è nella dimensione live che trova ancora la sua realizzazione (“Suonando sono una persona migliore”). È conciliante con chi scarica la musica da Internet, confessa di guardare golosamente un programma tivù domenicale con cori di chiesa e riesce a indignarsi sinceramente per la guerra in Iraq. Poi il concerto: può un batterista fare uno show per appassionati delle pelli e divertire anche gli altri? Può, altroché. Il pub Black Horse ospita buona musica rock mentre ti servono fantastici burritos e altre ghiottonerie da vecchio West. È stipato di fanatici che studiano religiosamente la batteria ancora silente di Carl o le chitarre in parata dell’axeman italiano per eccellenza, Andrea Braido (c’è chi sostiene che abbia un dito scarnificato, per ottenere sonorità inedite toccando le corde; non verifico). Quando lo show comincia è un’epifania di tecnica: ci sono i classici degli ELP e assortite acrobazie chitarristiche ma anche un appassionante assolo di batteria, cosa che mai avrei detto. E che fine ha fatto il saccarinoso Greg Lake? Prima o poi becco anche lui, promesso. (Dvd; 7/11/05)

DDV5704 Grateful Dead560 – The Grateful Dead Movie, uno sballo di Jerry Garcia, USA 1977
Utopia hippy, ritorno alla natura, recupero delle forme musicali tradizionali, l’idea di una famiglia che non sia vincolata dal sangue, uso liberale di sostanze per permettere alla mente e al corpo (e alla musica) di spaziare… Questo e altro erano i Grateful Dead, band e concetto che potevano nascere solo nella California degli anni Sessanta e prosperare nell’America prima illusa e poi presa per il naso, dagli anni Settanta fino ai Novanta. Prevedendo uno iato nell’attività concertistica, nel 1974 Garcia decise: giriamo un film. Una troupe in acido agli ordini di Leon Gast (il genio di Quando eravamo re, documentario sullo storico match in Zaire tra Muhammed Ali e Gorge Foreman), riprese i concerti tenuti al Winterland di San Francisco e, dopo tre anni di lavoro per il montaggio, nelle sale arrivò The Grateful Dead Movie. Oggi, recuperato dagli archivi, è il Graal dei Deadhead, il colorato pubblico dei fan dei Grateful che hanno continuato a seguire religiosamente i concerti del gruppo fino alla morte del buon Jerry, nel 1995. Lungo come solo certe jam chitarristiche del leader, piacevolmente datato, è la messa in scena dell’ultimo sballo collettivo, già nostalgico e fuori tempo. All’epoca se lo filarono in pochi, oggi è la dimostrazione che quando uno è un’artista, può creare un universo immaginifico con una chitarra ma anche montando una pellicola. Cosa sono 5 ore di tempo di fronte alla vostra vita? Vi aspettano film, musica celestiale e bonus in abbondanza, da vedersi magari con un’innocente paglia in mano: Garcia vi benedirà col suo sorriso bonario dall’alto dei cieli. (Dvd; 21/11/05)

561 – L’emozione fredda di Mad Dog and Glory di John McNaughton, USA 1993
Commedia strana, algida e inaspettata, conosciuta in Italia col titolo da strapazzo Lo sbirro, il boss e la bionda (complimenti vivissimi ai distributori nostrani), è frutto del regista dell’osannato Henry pioggia di sangue, film che anni addietro mi ha fatto cagare a sifone. Un boss mafioso (De Niro, prigioniero della parte) vuole sdebitarsi con un fotografo della polizia (Bill Murray) e gli regala una settimana con Glory, cameriera in debito (Uma Thurman). I due si innamorano, complicazioni. Ne esce una storia carina a tratti, però trattenuta, ed è più l’incertezza del piacere, come se non decollasse mai e dove molte volte mi chiedo: ma dovevo ridere, qui? Boh: gode di statura di film di culto, ma praticamente tutti i film dove ha recitato Bill Murray lo sono e io non faccio parte del fandom. Per cui, niente, non lo consiglio granché. (Dvd; 6/12/05)

DDV5705 Weather Underground562 – The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel, USA 2003
Anche gli americani hanno avuto i loro “terroristi”. Il ritratto è impietoso e per fortuna poco corretto politicamente: una banda di sfigati in fuga perenne, idealisti fino all’autolesionismo, ignoranti come delle capre, cui però, in qualche maniera, non puoi che voler bene. Il racconto è chiosato da storici destrorsi che non risparmiano stilettate e noi europei rimaniamo interdetti: una cosa grave come la lotta armata non può essere gestita da degli hippie frustrati. Però questi sapevano bene chi e cosa colpire: non gli uomini ma i simulacri del potere, i palazzi e le banche. Una lotta velleitaria, confusa, ma sincera. La fine ingloriosa e l’infinitesimale incidenza sull’opinione pubblica sono riscattati dall’umanità di questi non tanto beautiful losers e dalla compassione che suscitano per una scelta apparentemente suicida ma in realtà altissima perché veramente ideale e non calcolata. Il film è molto stimolante (anche se sinceramente sopravvalutato) e io e Barbara abbiamo avuto un tuffo al cuore quando abbiamo visto dove sono nati i Weathermen: al motel Capri di San Francisco dove eravamo finiti tra le bestemmie una notte dell’agosto 2002, dopo aver cercato per una giornata intera una camera nella Napa Valley. (Dvd; 9/12/05)

DDV5706 Festival Express563 – Si parteeee! Festival Express di Bob Smeaton, USA 1994
Chi era particolarmente ricco, un tempo, il tour se lo faceva in aereo (vedi il faraonico Starship One usato da Led Zepp e compagnia cantante). Se no c’era il buon vecchio pullman, con centinaia di musicisti dimenticati in aree di servizio mentre pisciavano o indulgevano in altre attività ricreative. Finché a qualcuno non venne un’idea folle: la tournée, stavolta, facciamola in treno! Siamo nel 1970 e a bordo zompano Janis Joplin, Grateful Dead, the Band, Buddy Guy e altri hobos affamati di avventure. Le fermate sono ai festival di Toronto, Winnipeg e Calgary, in Canada. Ovviamente il pubblico hippie vuole assistere gratis ai concerti: casini a non finire, discussioni tra artisti e management e poi, ogni sera, il miracolo di performance elettrizzanti. Janis strapazza il blues, i Dead sono nel periodo campestre, la Band sprigiona insospettabile energia, Buddy Guy sembra connesso all’amplificatore… Dal treno era difficile scendere e i musicisti si dedicarono anima e corpo ad alcol, droghe assortite e jam straordinarie. E i pochi che dormivano, si persero decisamente qualcosa. Nessuno sperava che esistessero immagini di questa allegrissima follia, finché dagli archivi, nel 1994, non son saltate fuori delle bobine sospette. Bob Smeaton (già compilatore del monumentale ed essenziale The Beatles Anthology) s’è messo al lavoro e oggi possiamo staccare anche noi il biglietto del Festival Express per viaggiare a fianco della compagnia di sballoni. Rigorosamente in inglese, con tante bonus tracks: una pacchia per chi ama le buone vibrazioni, una scoperta per chi non sa da dove veniamo. E quando Janis si scortica la gola, io ho pianto, giuro. All aboard! (Dvd; 10/12/05)

DDV5707 Parenti serpenti564 – Parenti serpenti di Mario Monicelli, Italia 1992
Visto a Natale, giustamente in famiglia, a Genova. Buona partenza che promette tantissimo, ma poi il film non mantiene e diventa presto una rottura di palle. Sarà pure cattivo (e lo è fino in fondo, senza assoluzioni di comodo, ed è il grande pregio del film), ma serve ritmo, cari. Monicelli dispensa il consueto cinismo, ma ne risente anche il film, piagato da sciattezza visiva e con troppe vignette che sfociano nella macchietta (il cast non è eccezionale, purtroppo). Una riunione di famiglia vede diversi nuclei riunirsi a Sulmona intorno agli anziani genitori, che annunciano che poi qualcuno se li dovrà prendere a carico. Finale col botto, coerentemente maligno, dopo aver descritto un’Italietta meschina attaccata a denaro, ignoranza e tornaconto. Mah. Rivisto, mi ha deluso molto: si affloscia nella seconda parte, senza verve, al risparmio. Oh, lo vedi, perché Monicelli è mica un fesso, però è più il dispiacere per lo spreco che la felicità per quel che vale. (Diretta La7; 26/12/05)

565 – Un soffio al cuore di natura elettrica di Pietro Maria Tirabassi e Riccardo Sgalambro, Italia 2005
Il titolo riesce a dire tutto: trattasi di dvd-concerto allegato all’ultimo live di Franco Battiato, notevole sia per la qualità della performance (rarefatta ma molto rock) che per la soluzione produttiva, con l’alta definizione che permette una regia minimale e inventiva e una troupe ridotta all’osso. E Francuzzo beddo nostro è sempre grandissimo. (Dvd; 28/12/05)

DDV5708 Five Easy Pieces566 – Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, USA 1970
Storico titolo che racconta dell’insofferenza di Bobby (Jack Nicholson) verso la famiglia e la società. Un inno alla libertà (anche se quando è così “individuale” vedo anche dell’egoismo, ma non sto a sottilizzare), un po’ datato ma ancora valido, con almeno una scena stracult, quando Nicholson parla col padre malato che però ormai non capisce più una mazza. Vedendolo non posso non pensare alla parodia di Riccardo Pangallo (Lo spezzone) in onda su RaiTre a Va Pensiero quasi vent’anni fa. Film pensoso-anni Settanta, Cinque pezzi facili non è facile per niente, ma è libero e sincero e comunque godibile, forse più per i significati che gli attribuiamo che per quello che realmente dice. Ma sto anche diventando cinico, per cui poco attendibile. Il finale con Jack Nicholson che abbandona in una stazione di servizio l’insopportabile (e mostruosa) Karen Black è impagabile. Bello. (Diretta Sky; 29/12/05)

567 – L’inaspettato Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Italia 2005
Beh, non male. Figlio dodicenne di ricconi bresciani in crociera viene recuperato e portato a terra da dei migranti. Tornato a vivere coi suoi, decide di dare una possibilità a chi lo ha salvato, con conseguenze non pienamente prevedibili. Ovviamente – siccome si parla di immigrazione clandestina – il film non se l’è cagato quasi nessuno perché al posto della meglio gioventù qui si parla della peggio adultità e ci sono molte facce scure. Però m’è sembrato un film civile senza essere edificante, schematico com’è sempre Giordana, ma coraggioso, non facilmente consolatorio e con un elemento fantastico, fiabesco, che illude e (forse) affranca dalle sofferenze terrene. (Dvd; 30/12/05)

DDV5709 Viva Zapatero568 – Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, Italia 2004
Film decisamente interessante, anche se non so fino a che punto riuscito, per un argomento molto difficile da toccare senza essere frainteso. Servirebbero più pagine per un’opera che è volutamente provocatoria, scostante, ambigua, personalistica, maligna e paracula al tempo stesso, e affronta il caso di censura subito dall’autrice col suo programma televisivo Raiot, occasione per allargare il discorso anche allo stato della libertà dell’informazione nel nostro paese. Ma non ho né competenza dialettica né voglia: la Guzzanti – autenticamente geniale sinché l’ormone non le oscura il lobo frontale – non mi merita, neanche se avessi cose intelligenti da dire. (Dvd; 2/1/06)

569 – Il pippatissimo Scarface di Brian De Palma, USA 1983
Drogato, urlato ed esageratamente divertente, gli anni Ottanta su pellicola, con godibile ambiguità. (Dvd; 6/1/06)

570 – L’ubriacante Mondovino di Joseph Nossiter, Francia 2004
Il business del vino, tra produzione industriale, standardizzazione del gusto e resistenze locali. Cinematograficamente non vale molto: ripetitivo, girato veramente col culo e organizzato male. Ma il tema è spumeggiante e la galleria di personaggi molto curiosa (e in taluni casi inquietante). Per cui alla fine me lo sono scaraffato e ingollato con soddisfazione. Sa un po’ di tappo, con sentori di sottobosco e letame, ma il retrogusto è singolare e – oh, siamo tutti antiamericani o sono loro un po’ birichini? – alla fine hai la conferma che il Capitale distrugge tutto, anche una bevanda antica come il vino. (Dvd; 17/1/06)

DDV5710 negrita571 – Viaggio Stereo di Gianni Russo, Italia 2003
I miei amati Negrita, in un live in qualche modo amaro (di lì a poco il batterista originale avrebbe mollato il colpo) e con un repertorio che pesca nell’ultimo album (Radio Zombie), interlocutorio. I concerti hanno perso progressivamente l’improvvisazione e l’estensione dei pezzi, cosa che negli anni passati mi faceva godere di bestia, ma c’è sempre un bell’approccio ruvido. In un’intervista che gli feci a fine 1998 mi ero fatto promettere solennemente che non avrebbero mai abbandonato il funky rock degli esordi. Evidentemente si cresce e si cambia. E la colpa, è chiaro, è mia che voglio tornare ai miei vent’anni (quando però avevo ragione quasi su tutto). Siccome i cinque della band non fanno proclami politici di bassa lega, non pubblicano inascoltabili dischi finto-impegnati e non offrono golosi spunti per il gossip, non sono i beniamini della stampa specializzata e/o militante né hanno mai raggiunto un successo di massa da stadio. Meglio così: lascio gli altri a ubriacarsi di Negramaro novello o a calarsi qualche merda afterhours: io preferisco sempre il mio Chianti dei colli aretini, ormai vecchio di dieci anni e sempre gagliardo. (Dvd; 17/1/06)

572 – Il folgorante Che idea nascere di marzo di Osvaldo Verri, Italia 2005
Un collega adorabile, uno che qualunque cosa sia accaduta negli anni Settanta, lui c’era (ed era probabilmente colpevole!), ha girato questo straordinario corto sulla morte di Fausto e Iaio – diciottenni del Leoncavallo assassinati nel marzo 1978 –, difficile ma, nella pur breve durata, pieno di tuffi al cuore e di speranza. Come Ma chi ha detto chi non c’è sui titoli di coda. E bravo Osvi! (Dvd; 22/1/06)

573 – Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, Giappone 1953
Come certi vini: fermo, completamente. Ma invecchiato benissimo e di pronta beva. Viaggio a Tokyo è splendido: un’emozione antica che ho delibato con commozione. (Oh, dopo aver visto Mondovino non riesco più a evitare paragoni enologici!). (Vhs da RaiTre; 28/1/06)

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(Continua – 57)

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