Stuart Hall – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Politica e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2023/01/12/politica-e-videogiochi/ Thu, 12 Jan 2023 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75375 di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza di una relazione causale tra la fruizione di videogiochi e i comportamenti sociopatici nel mondo reale», scrive Bittanti, è «importante ricordare che il videogioco non è che un elemento di un complesso ecosistema formato da spazi di consumo, discussione e condivisione che spesso presentano un’elevata tossicità: misoginia, razzismo, omofobia e violenza verbale» (pp. 30-31). Dunque, qualsiasi discussione sui videogiochi non può prescindere dal contesto in cui si vanno ad inserire e da cui sono pensati, prodotti e fruiti.

Se Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe (La fine della fine della storia, Tlon, 2022) sostengono che all’apatia che aveva contraddistinto i decenni precedenti si è ultimamente sostituito un sentimento di rabbia strutturatosi di pari passo alla crescente delegittimazione delle istituzioni tradizionali su cui hanno prosperato diverse forme di populismo, Martin Gurri (The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, 2014) sostiene invece che, con riferimento a un’attualità che ritiene palesarsi come capolinea della democrazia liberale, complice anche la trasformazione mediale digitale, si debba piuttosto parlare di nichilismo.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto nichilista tratteggiato da Gurri è piuttosto un individuo disilluso e cinico, non di rado inserito socialmente, che non trova felicità nella sua quotidianità, nella way of life imperante, pur non mettendola realmente in discussione, e nel sistema politico che la governa. Un individuo che tende a trovare la propria dimensione all’interno di una comunità strutturatasi, spesso nell’universo online,  su una specifica questione che diventa frequentemente l’unica questione esistenziale. Insomma, nota Bittanti, il nichilista descritto da Gurri ricorda molto da vicino la figura del gamer tanto che diversi giovani gamer statunitensi potrebbero aver guardato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come a un’occasione spettacolare per estendere il gioco fuori dagli schermi.

«Detto altrimenti, una generazione cresciuta di fronte allo schermo combattendo contro terroristi arabi e draghi sputafuoco, zombie e vampiri nonché social justice warrior sui social media ha temporaneamente lasciato la cameretta illuminata al LED per assediare il Congresso, vandalizzando i simboli della democrazia» (p. 18). Per quanto sbiaditi, si tratta pur sempre di simboli da colpire con lil medesimo odio promosso da tanti videogiochi mainstream che celebrano principi, valori e immaginari indubbiamente di destra.

Attraverso il videogioco, per quanto in forma illusoria, il giocatore – nella stragrande maggioranza dei casi orgogliosamente maschio e bianco – acquisisce “poteri straordinari” «con i quali ritiene legittimo imporre la propria visione di mondo alla realtà in quanto tale, anche (soprattutto) quando tale weltanschauung è barbarica. Il concetto mcluhaniano del medium come estensione delle facoltà umane trova in quella macchina dei desideri e delle gratificazioni dopaminiche altrimenti nota come videogioco la massima espressione. Ergo, per migliaia di gamer, l’arrembaggio al Campidoglio il 6 gennaio 2021 è paragonabile a una partita di Call of Duty IRL» (p. 21).

Risultano evidenti i punti di contatto tra la figura del nichilista tratteggiata da Gurri e quella del gamer di giochi mainstream delineata da Bittanti, tra immaginario videoludico – infarcito di supremazia bianca, patriarcato e violenza – e l’esperienza concreta fuori schermo. Le fondamenta razziste e schiaviste del capitalismo e del consumismo che strutturano tanto le opzioni fasciste quanto quelle neoliberiste, sostiene lo studioso, sono le stesse che informano e alimentano l’immaginario videoludico mainstream.

Bittanti si sofferma anche sulla ludicizzazione delle cosiddette “sparatorie di massa”, fenomeno cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Tra gli elementi che accomunano molti degli artefici di questi massacri vi è la giovane età, l’essere maschi e bianchi, l’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici non appena l’età lo ha consentito, la propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari, «l’appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e] la diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer» (p. 28).

Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato cinquantuno vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka1 hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo “sparatutto in soggettiva” e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno “sparatutto in prima persona” concretizzando uno stile di videogioco proprio, ad esempio, di Call of Duty e Doom, nonché abbia trovato gratificazione nell’esbire una macabra classifica che lo metteva a confronto, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma, segnalano Lakhani e Wiedlitzka, ricorrono anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui l’attentatore aveva annunciato l’intenzione di compiere un massacro.

Se, con riferimento agli Stati Uniti plasmati dalla logica televisiva, Neil Postman (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021) ritiene che il divertimento imposto dal medium è divenuto il parametro fondamentale di ogni esperienza sociale, dunque anche della politica, Bittanti invita a chiedersi come cambi quest’ultima nell’era videoludica.

Il rapporto tra la politica e l’universo videoludico non si risolve di certo nell’acquisizione di spazi pubblicitari all’interno dei videogiochi, come aveva fatto pionieristicamente Barack Obama nella campagna presidenziale del 2008; la stretta attualità, scrive Bittanti, palesa piuttosto un fenomeno di ludicizzazione del dibattito sulle piatteforme digitali in cui la discussione politica tende a ridursi a una “partita” «in cui “ottenere punti” e “vincere” la conversazione, sulla base di performance retoriche fondate sull’attrito e sull’effetto, sull’argumentum ad captandum e sull’attacco ad hominem. Questa dinamica puramente antagonistica nella quale un “pubblico” di seguaci “fa il tifo” sta diventando standard: la logica vigente è quella del “noi contro di loro”, del “ti ho fregato” e del “ti ho distrutto”» (p. 55). Si pensi al ricorso insistito dei media italiani più reazionari al termine “asfaltare” per certificare “l’annientamento della controparte” ottenuto dai loro politici di riferimento attraverso qualche espediente retorico, non di rado compiaciutamente politically incorrect.

La congruenza tra la politica e l’intrattenimento su piattaforme informate da una logica iper-capitalistica come Twitch e YouTube, dominate da streamer di destra e di estrema destra, ci spinge ancora una volta a interrogarci sullo specifico del medium. Come hanno spiegato in modo convincente Mark R. Johnson, Mark Carrigan e Tom Brock, l’ecosistema del live streaming è “l’espressione di un’economia morale emergente del capitalismo digitale” che privilegia l’incessante presentazione del sé, l’auto-promozione compulsiva e l’attività auto-imprenditoriale, fondati sulla narrazione del mito Americano e della meritocrazia, dove il trolling è una delle strategie dominanti di comunicazione […] e dove il disturbo di deficit di attenzione è una feature anziché un bug di sistema (pp. 57-58)

Pur evitando di scivolare nel determinismo tecnologico, occorre però, sostiene Bittanti, prendere atto di come e quanto i media abbiano inciso e incidano nel definire il ruolo, la funzione e l’identità del politico.

A partire dalla convinzione che, lungi dall’essere neutrale, “il ludico è politico”, in linea con quanto espresso dal precedente volume, i diversi contributi che strutturano questo nuovo, corposo e prezioso lavoro curato da Bittanti evidenziano come i videogiochi mainstream e l’immaginario gamer che ruota attorno a essi siano intrisi di neoliberismo, criptofascismo e di quella dottrina libertarista anarcocapitalista egemone nell’universo della Silicon Valley statunitense. Di seguito ci si limiterà a tratteggiare sommariamente le questioni dibattute dai diversi interventi con l’intenzione di tornare su alcuni di questi in scritti successivi.

È proprio sulla “non neutralità” dei videogiochi che, in apertura di volume, intervengono tanto Alexander LambrowPrendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica – che Lars Kristensen e Ulf WilhelmssonRoger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies – riperdendo rispettivamente le teorie espresse da pionieri dei game studies come Johan Huizinga (Homo ludens, orig. 1939), la cui incondivisibile enfasi sull’autonomia del gioco viene comunque riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui viene espressa, e Roger Caillois (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, orig. 1958), la cui ferrea convinzione di come il gioco e i giochi debbano essere improduttivi per potersi distinguere dal lavoro viene messa in relazione con le tesi di Marx circa la funzione e le conseguenze del lavoro nellambito di una società capitalistica.

Della “non neutralità” della tecnologia si occupa invece Luke MunnIl processo di radicalizzazione dell’alt-right – chiarendo come la logica algoritmica di una piattaforma come YouTube, con la sua rete di collegamenti (Cfr. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, settembre 2018), favorisca la radicalizzazione ideologica. L’autore si sofferma in particolare sullascesa della alt-right (alternative-right) evidenziando come la sua diffusione online si fondi su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività» (p. 137). Nella retorica dellalt-right, sostiene Munn, “scegliere la pillola rossa” – riprendendo Matrix – indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo» (p. 138, nota 15).

L’ingresso nellalt-right, sostiene Munn, è graduale, è il punto di arrivo di un processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (che sfrutta la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dellalterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi» (p. 154). Non a caso vengono impiegati i videogiochi nelladdestramento dell’esercito statunitense (Cfr.: Matthew Thomas Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11,‎ NYU Press, New York, 2016; Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla”, 22 aprile 2022).

Riprendendo le teorie di Mikhail Bachtin sul carnevalesco, Hans-Joachim BackeCrapa Redneck su torso nazi. Come Wolfenstein II: The New Colossus sovverte la ludonarrazione – indaga la logica con cui è strutturato l’ultimo capitolo, uscito nel 2017, della saga di successo Wolfenstein imperniata attorno alla guerra contro i soldati nazisti. Secondo lo studioso diverse critiche rivolte al videogioco derivano dall’incomprensione di come l’ostentato ricorso al filtro camp e grottesco sia stato delibertamente scelto dai progettisti per portare «in primo piano la natura idiosincratica e contraddittoria delle norme e dell’implicito sistema valoriale dell’FPS [First Person Shooter] in quanto genere, senza tuttavia scardinarle» (p. 210) per sfidare i gamer destabilizzando le loro aspettative.

Il contributo di Soraya MurrayL’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone – delinea le tensioni che attraversano l’America contemporanea a un passo dalla guerra civile a partire dall’analisi del videogame Days Gone, mentre, alla luce delle teorie formulate da Henri Lefebvre, Jack Denham e Matthew SpokesIl diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world – approfondiscono la percepita antinomia classista tra gli spazi urbani e rurali nei giocatori di Red Dead Redemption 2, mentre Óliver Pérez-Latorre e Mercè OlivaVideogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso – evidenziano il messaggio neoliberista che si cela dietro la facciata progressista del videogioco esaminato.

L’apparente antinomia tra gioco e lavoro è invece al centro dell’intervento di Matthew KellyGiocare alla politica. Lavoro, gioco e soggettivazione in Papers, Pleas – focalizzato su uno specifico caso di studio, mentre Stephanie Betz Le vite degli elfi contano? Le dinamiche razziali della politica partecipativa nel fandom prevalentemente Bianco – si cimenta in un’analisi etnografica dei fan del fantasy game Dragon Age illustrando le modalità con cui questi guardano alle nozioni di razza ed etnia.

Riprendendo Stuart Hall e James Gibson, Kristian A. Bjørkelo“Gli elfi sono ebrei con le orecchie a punta e la magia gay”: Come i Nazionalisti Bianchi interpretano The Elder Scrolls V: Skyrim – ricostruisce l’interpretazione di uno specifico videogioco che aleggia nel sito nazista Stormfront, mentre Benjamin AbrahamCos’è un videogioco ecologico? Le politiche ambientali nel genere survival-crafting – critica l’ideologia sottesa a diversi videogame ecologici evidenziandone una matrice concettuale neoliberista.

La progressiva mercificazione dell’esperienza ludica è invece al centro della riflessione di Daniel James JosephCapitalismo Battle Pass – che si sofferma sui videogiochi che ricorrono al meccanismo delle microtransazioni e alla formula del battle pass/event pass introdotta a inizio degli anni Dieci del nuovo millennio in ambito multiplayer online sotto forma di “progressione a pagamento”. Il cosiddetto “capitalismo battle pass”, una variante della platformizzazione della produzione culturale contemporanea, attesta la trasformazione dei videogiochi in “centri commerciali” e, specularmente, la sempre più evidente ludicizzazione dei negozi e del commercio, tanto che non mancano casi in cui si accede alle promozioni soltanto cimentandosi in esperienze videoludiche competitive. Il sistema battle pass impatta pesantemente anche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, costretti al forsennato aggiornamento dei contenuti. Il modello dei videogame free-to-play, o free-to-start, che permette ai giocatori di fruire gratuitamente dei prodotti base con la possibilità di accedere successivamente a pagamento a contenuti e funzionalità extra, soprattutto nella versione battle royale, si presenta, secondo Joseph, come «un mediatore che mostra come la cultura, i consumatori e i lavoratori siano bloccati in un ciclo “divertente” definito dal circuito digitale dell’accumulazione e del capitale» (p. 484).

A partire dal concetto di countergaming elaborato da Alexander Galloway (Gaming. Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, 2006), Matteo Bittanti e Theo Triantafyllidis – Countergaming tra arte e politica – discutono sulla possibilità dell’arte videoludica di costruire contro-narrazioni efficaci, mentre, in chiusura di volume, Nadine SmithChiamata di servizio –, prendendo spunto da come negli Stati Uniti si possa essere etichettati come “potenziali terroristi” semplicemente per aver dato la caccia in un videogame a un personaggio con il nome di un’importante carica politica2, riflette su come certi tipi di videogiochi tendano a strutturare immaginari violenti sugli utilizzatori. Il fatto che si finisca per essere annoverati tra i “potenziali terroristi” per aver dato la caccia su un videogioco a un personaggio che prende il nome di un politico reale ha pertanto una sua, per quanto perversa, logica.

Diverse ricerche accademiche dimostrano come i videogame “sparatutto in soggettiva” svolgano tanto una funzione propedeutica quanto di supporto alle pratiche militari «legittimandole e inscrivendole in un discorso ideologico multimediale» (p. 519) [su Carmilla]. Call of Duty: Warzone, ad esempio, è strutturato per incoraggiare tanto la cooperazione quanto la competizione tra gruppi e se, al pari di altri multiplayer non per forza di cose di carattere bellico, si è rivelato un ottimo aggregatore sociale, soprattutto durante il distanziamento pandemico, resta il fatto che questo videogioco crea forme di dipendenza gratificando e facendo sentire potente il giocatore. Videogame come questi, sostiene Smith, tendono a manipolare in modo sottile ma efficace persino i giocatori più consapevoli dei meccanismi perversi su cui sono costruiti.

Il genere battle royale ha innestato le marche di riconoscimento dello sparatutto in prima persona sull’open world – un genere che ha trovato in The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Grand Theft Auto due esempi paradigmatici – esplicitandone la sottesa ideologia colonialista. […] Si tratta di aggiornare il mito della frontiera per l’era digitale. Gli ambienti di gioco – anche quelli non violenti e apparentemente benigni – impongono una modalità di socializzazione che si fonda sulla sistematica estrazione delle risorse e una competizione brutale per cui “la mia vittoria presuppone la tua sconfitta” (p. 525).

Smith fa poi riferimento a giochi come Animal Crossing strutturati su una logica di competizione e di accumulo tipicamente capitalista da cui il giocatore non può sottrarsi. «Nel caso dei giochi multiplayer free-to-play così come delle piattaforme di social media free-to-post, le regole di ingaggio sono stabilite ex ante da potenti corporation. Non si scappa» (p. 525).

Attraverso Reset. Politica e videogiochi e il precedente Game over. Critica della ragione videoludica, Matteo Bittanti ha indubbiamente fornito al dibattito italiano sull’universo videoludico un contributo di assoluto valore aggiornandolo e indirizzandolo verso alcune tra le questioni più rilevanti affrontate dai game studies magiormente critici nei confornti di ciò che avviene dentro e fuori gli schermi. Inosomma, la produzione di Bittanti merita assolutamente di essere presa in considerazione da parte di chi si occupa di immaginario e cultura d’opposizione.


  1. Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka, “Press F to Pay Respects”: An Empirical Exploration of the Mechanics of Gamification in Relation to the Christchurch Attack, in “Terrorism and Political Violence”, 31 maggio 2022. 

  2. Nadine Smith è finita tra le persone “attenzionate” dalla Polizia del Campidoglio degli Stati Uniti sul finire del 2020 per aver postato su Twitter uno screenshot contenente il messaggio “BOUNTY: NancyPelosi” “La tua missione, se l’accetti, consiste nell’uccidere Nancy Pelosi” derivato dalla partecipazione insieme ad alcuni amici al celebre videogioco Call of Duty: Warzone, uno spin off multiplayer di una saga di “sparatutto in soggettiva”.  “NancyPelosi” era semplicemente un giocatore-personaggio che doveva essere eliminato da altri concorrenti, ma la pubblicazione di uno screenshot del videogioco su Twitter è bastata a far catalogare chi l’ha inviato tra i potenziali terroristi. 

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Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora https://www.carmillaonline.com/2021/06/25/black-noise-tecnologie-della-diaspora-sonora/ Fri, 25 Jun 2021 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66875 di Francesco Festa

Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie, I feel like me heart gwine burs Jamaica people colonizin Englan in reverse.

What a islan! What a people! Man an woman, old an young Jus a pack dem bag an baggage An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie,
I feel like me heart gwine burs
Jamaica people colonizin
Englan in reverse.

What a islan! What a people!
Man an woman, old an young
Jus a pack dem bag an baggage
An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse 1. O precisamente, di una profezia avveratasi. Fra le righe, con sarcasmo, Bennett denuda l’ipocrisia della cultura borghese inglese, infarcita di identità cristallizzata e tradizioni inventate2. Chiediamoci con lei: colonizzazione inversa? Hic Rhodus, hic salta! Così è stato.

Il 22 giugno 1948, nella SS Empire Windrush, un tempo nave militare tedesca, stipati l’uno sull’altro, vi sono quattrocentonovantadue giamaicani. Attraccando al porto di Tilbury in Inghilterra, quella nave funge da punto d’innesto di un processo inarrestabile. Dopo pochi anni si stimano attorno ai centosessantamila i giamaicani i residenti in Gran Bretagna.

Londra diviene il primo approdo della diaspora umana, dalle terre del disfatto Impero coloniale. I giamaicani s’insediano a Brixton, Finsbury Park e Notting Hill, portandosi dietro i costumi dominanti della piccola isola caraibica, come la cultura dei Sound System, che ha fatto la sua apparizione nei primissimi anni Cinquanta nei ghetti di Kingston. Camion sui cui cassoni sono caricati un generatore di corrente, dei giradischi ed enormi altoparlanti, per organizzare degli street party. Il primo Sound System anglo-caraibico viene allestito nel 1955 da Duke Vin, il “Duke Vin the Tickler’s” attivo a Ladbroke Grove nell’area di Notting Hill. Negli stessi anni, “inna Kingston style”, si diffondono anche i blues party illegali, in cui si ascolta e balla musica diffusa dalle casse di un grammofono casalingo e si consumano alcol, cannabis e curry di capra. Dei numerosi Sound System, germogliati dall’esempio di Duke Vin, negli anni Sessanta, si diffonde un altro genere giamaicano, lo ska, poi il rocksteady, l’early reggae, e via via in una lunga eterogenesi di stili e generi.

Ormai Londra – e con essa il Vecchio continente, dell’ammuffita borghesia capitalista – diviene teatro di incontenibile trasformazione, a partire dalle culture della diaspora. È un processo di rinnovamento dello spazio metropolitano e di ridefinizione delle identità sociali, destinato a scardinare tanto la tradizione quanto i paradigmi della modernità capitalistica. Dopotutto, il capitalismo di per sé non inventa nulla, né tanto meno la sua cultura, che parassitariamente cattura talenti ed estorce valore dai rapporti sociali. Parimenti accade nello spazio metropolitano, che è vissuto, attraversato, striato e raccontato, secondo Homi Bhabha, da coloro che si muovono verso il centro dalla periferia. È la marginalità a essere centrale negli spazi e nei territori del capitalismo.

Il punto di vista della marginalità è il metodo di lavoro che in controluce si coglie fra le pagine di Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora di Brian D’Aquino. Corredato di un’ampia bibliografia anglofona, questo libro è un osservatorio straordinario della condizione moderna degli spazi metropolitani occidentali, cioè – per dirla con Iain Chambers – di quella composizione sociale “multiforme, eterotopica, diasporica”, che è materia umana di periferia, eppure è il cuore pulsante della modernità capitalistica.

Questo volume è l’esito di ricerche condotte fra i ghetti di Kingston e i quartieri popolari londinesi. Come una danza oscillante fra periferia e centro, esso si muove all’interno di un insieme di miti della società moderna; fra cui vi sono i rumori e/o i suoni. Apparentemente arcaici, essi fungono invece da matrice delle sonorità riprodotte nelle società occidentali. Metodologicamente, D’Aquino cammina con destrezza lungo il confine fra studi sociologici, antropologici e semiologici. Un confine, in realtà, già battuto dallo stesso Chambers, nella prima metà degli Ottanta, con Ritmi urbani. Pop musica e cultura di massa: un testo avanguardia degli studi culturali e musicali. Sia in questo che in Black Noise si coglie l’eco della critica di Barthes ai comportamenti e ai linguaggi di massa nella società moderna, in cui vengono decostruiti miti e significati, ricostruendo invece il senso del rapporto di forza che li sostiene.

Le ricerche di D’Aquino così dischiudono un ventaglio di osservazioni e di linguaggi, colti in presa diretta (come un “ricercatore scalzo” o un “osservatore partecipante”), tipico metodo di chi anziché osservare, ascoltare e annotare, preferisce sporcarsi le mani, indossare i panni, adoperare gli stessi strumenti. Difatti, egli è un attivista dei movimenti di resistenza sonora legati ai Sound System.

La ricerca si muove, dunque, nella diaspora fra le due sponde dell’“Atlantico nero”, focalizzandosi su un determinato registro musicale, mentre si situa in un luogo di predilezione, i ghetti giamaicani che, secondo l’autore, rappresentano “uno dei più influenti laboratori sonori della modernità”. Ecco l’ambivalenza della modernità disvelata attraverso il black noise ed è questo, uno fra i tanti pregi del suo lavoro, ossia l’aver tradotto il suono in parole.

A Kingston la musica non si spegne mai. Complici le alte temperature, le basse frequenze fuoriescono dalle finestre senza vetri di bar, case e barber shops; risuonano dai minibus che viaggiano a porte aperte, facendo sfoggio di impianti hi-fi autoassemblati e fuori misura. In questo costante rumore di fondo spazio e territorio, identità locale e globale, tecnologie del suono e corpi in movimento, economia formale e sotterranea trovano una sintesi dinamica. Tuttavia, il black noise della dancehall non produce necessariamente pace sociale. Al contrario, come rumore in lontananza, funge spesso da catalizzatore per le tensioni materiali che strutturano lo spazio sociale della città. Nonostante la risonanza globale, a Kingston quello della dancehall rimane ancora il suono della vita nel ghetto; il motore di un’economia costantemente in bilico tra legale e illegale; la colonna sonora per le dance moves ipersessualizzate e scandalose.

Davvero potente questo passo, e la sua scrittura. Le pagine di Black Noise hanno infatti una scrittura a tratti colloquiali e a tratti adoperante un linguaggio proprio delle dance hall (“equalizzazione, bilanciamento, preamplificazione”). La cifra di questa scrittura versatile è la capacità di trascinare il lettore nella materialità delle contraddizioni sociali, a suon di dub e reggae, mantenendo sullo sfondo una polifonia di spunti. Ad esempio: la storia del suono nella stagione futuristica della prima metà del Novecento; la nascita del reggae nei ghetti di Kingston, con i richiami alle radici diasporiche africane, incarnate nell’imperatore etiope Haile Selassie (noto come Jah); la moltiplicazione dei generi, a partire dal reggae alla mercificazione degli stessi, così come la lotta per un’ecologia acustica (eco al “progetto ecologico” teorizzato da Felix Guattari); la produzione, in una tensione costituente fra potere e sapere, di soggettività radicali che rivendichino la Diasporic citizenship; i conflitti urbani come processi di liberazione dai dispositivi di cattura e dalle politiche di sorveglianza, soprattutto nelle forme dei controlli del rumore e del suono.

C’è poi un concetto assai prensile della modernità nella gestione dello spazio e del territorio, vale a dire il concetto della tecnologia. Come scrive Tiziana Terranova, sulla scorta di alcune riflessioni di Paul Gilroy, “il black noise è il prodotto o emanazione di un’arte nera del suono, ingegneria della frequenza e della vibrazione, laboratorio tecnologico e performativo, archivio sonoro sotterraneo, strategia di fuga dal ghetto-prigione, resistenza elettropolitica che si propaga dalla Giamaica al resto del mondo.” D’altronde, cadrebbe in un grosso inganno chi pensa che il black noise e la musica caraibica siano un retaggio passato, una tradizione primitivistica, prodotto di una cultura bassa e popolare delle rotte afro-americane. Invece questi suoni sono i “rumori del futuro”, ci avverte l’autore. Effettivamente, nell’ascoltare le musiche delle società occidentali, se ne percepisce propriamente la radice in quelle rotte atlantiche; così come la finanza della city londinese ha le proprie radici nell’estrazione di risorse, manodopera e terre nel Sud del mondo. “È il capitalismo, bellezza”, com’ebbe a dire Michael Moore.

D’Aquino opera un intreccio fra il concetto di tecnologia (“futuristica visione”) e quello di tradizione. Detto altrimenti, compie un’analisi della differenza culturale come scarto tra cultura alta e cultura bassa o popolare. Qui, si sente il debito verso Stuart Hall e, indirettamente, verso Gramsci. Entrambi autori che hanno indagato il campo dell’ideologia e della cultura, abbandonando le semplificazioni tanto del marxismo classico quanto del riduzionismo e dell’economicismo, andando oltre cioè quel preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante, e leggendo invece gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata. Hall rileggendo Althusser si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato “la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” e “anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle tradizioni”; seccamente risponde: “ne conosco uno solo: Gramsci”. Dunque, è l’approccio gramsciano che consente di inquadrare i movimenti diasporici e la cultura che portano dietro, in grado di plasmare gli spazi metropolitani quanto le condotte collettive delle società capitalistiche. In altre parole, di dar vita a quella colonizzazione inversa.

Black Noise è un lavoro prezioso all’interno dell’archivio dei cultural studies e dei postcolonial studies. Prezioso perché è un’eccellente sintesi dei lavori decennali curati dal “Centro Studi Postcoloniali e di Genere” e dal “Technoculture Research Unit” dell’Orientale di Napoli, cui siamo ampiamente debitori per gli studi sull’intersezione fra razza, genere, sesso. E D’Aquino, lungo quest’intersezione, innesta lo studio del legame fra “suono, tecnologia, razza e potere”.
È un volume da ascoltare, Black Noise. Il che potrebbe sembrare un ossimoro. Ma, leggendo le pagine più evocative, sembra di ascoltarne i suoni e i rumori neri che riecheggiano interpellando la nostra identità e minando le nostre certezze.

Non in ultimo, Black Noise appare come un bellissimo ricordo di Lidia Curti (fondatrice del “Centro Studi Postcoloniali e di Genere”), del suo sguardo molteplice, eretico, appassionato verso le differenze, nel ricercarne i chiaroscuri e le ricchezze. Un’opera che, per dirla con Deleuze, ha agito da “effetto ottico” per illuminare il “gioco più profondo di differenza e ripetizione alla base delle identità”, per scegliere su quale due termini puntare e per scegliere da che parte stare.


  1. Che notizia gioiosa, signorina Mattie / Sento che il mio cuore sta per scoppiare / Il popolo giamaicano colonizza / l’Inghilterra al contrario. / Che isola! Che popolo! / Uomini e donne, vecchi e giovani / Basta fare le valigie e i bagagli / e mettete la storia a testa in giù! 

  2. Che diavoleria l’Inghilterra! /Affrontano la guerra e affrontano il peggio, /ma mi chiedo come faranno a resistere / Colonizzazione al contrario. 

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