Striscia di Gaza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Oct 2025 06:43:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio https://www.carmillaonline.com/2025/09/11/global-sumud-flotilla-eterotopie-di-contestazione-nello-spazio-liscio/ Thu, 11 Sep 2025 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90487 di Paolo Lago

Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, [...]]]> di Paolo Lago

Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, i teatri, le prigioni, le colonie, le fiere, le biblioteche. Alla fine della conferenza, Foucault definisce però la nave come “eterotopia per eccellenza”: la nave è un “frammento di spazio fluttuante, un luogo senza luogo, che vive per sé, che è chiuso su se stesso e che, nello stesso tempo, è abbandonato all’infinito del mare”2; è “anche la più grande riserva di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza barche i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”3.

L’immagine della nave come “contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, come “riserva di immaginazione”, come una specie di scrigno di sogni scaturiti da un immaginario libero e liberato prende corpo in questi giorni nella Global Sumud Flotilla, partita carica di aiuti umanitari pochi giorni fa alla volta della Striscia di Gaza con l’intento di rompere il blocco israeliano. Sono tante imbarcazioni a vela che assumono una dimensione quasi mitica nel loro movimento sulla superficie del mare alla volta della Striscia. Esse si muovono in quello che, secondo una definizione di Deleuze e Guattari, è lo “spazio liscio” per eccellenza, il mare, che l’apparato degli stati ha sempre cercato di rendere “striato”, cioè sottoposto al controllo4. Ma, andando per mare – proseguono i due studiosi – “anziché striare lo spazio lo si occupa con un vettore di deterritorializzazione in movimento perpetuo”5.

Il movimento delle navi, quegli scrigni di sogni e di immaginazione, libera lo spazio marino dal sistema del controllo restituendolo alla deterritorializzazione tipica degli spazi lisci abitati dai nomadi. Le navi della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi antichi creatrici di storie: le navi dell’Odissea, la nave Argo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, come scrive Bertrand Westphal, “inanellano i luoghi come perle sulla collana di parole del poeta”6. È lo spostamento del viaggio per mare a creare il racconto, a farlo scaturire dall’immaginazione del poeta: gli esseri mitici e fantastici incontrati, i luoghi strani e meravigliosi visitati sono creati dal movimento delle navi sulla distesa marina. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico dell’Occidente capitalista, irreggimentato dalle pratiche di controllo digitale e mediatico dell’epoca post-Covid. Il viaggio della Flotilla è anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario, apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del pensiero.

Foucault, nella sua conferenza, mette in opposizione la “polizia” e i “corsari”: se la prima rappresenta il controllo, ciò che secondo l’analisi di Deleuze e Guattari possiamo definire come “spazio striato”, i secondi sono invece l’immagine dello “spazio liscio” abitato dai nomadi, vettori di deterritorializzazione. Nella prima versione radiofonica della sua conferenza, lo studioso accentuava in modo poetico la dimensione del sogno e dell’immaginazione che si scontra con le dinamiche del controllo: “le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”7. Naturalmente, si tratta di una visione essa stessa per certi aspetti ‘mitica’ e fantastica dei corsari e dei pirati, venata di connotazioni romantiche: come ha scritto Valerio Evangelisti, autore di una Trilogia dei pirati, la figura storica dei pirati e dei corsari è ben lontana dalla “favola del pirata romantico e vendicatore”8. Il corsaro della fantasia romantica è simbolo di sogno e di libertà, di pensiero liberato da qualsiasi orpello incasellante; la “polizia”, invece, è la macchina burocratica del controllo, l’apparato statale e militare che blocca, controlla, incasella, deporta e arresta. È quello stato che afferma che gli attivisti di Flotilla “saranno trattati come terroristi”, che conferisce un senso unico e vuoto alle parole, manipolandole fino al loro contrario e utilizzando quindi una parola come “terrorista” applicata a degli attivisti non violenti e pacifici. Gli stati e le loro macchine del controllo, irreggimentati nella ripetitività perennemente uguale dei loro gesti di divieto e ostruzione, non conoscono l’assolata bellezza dei corsari, niente sanno di quel “poema del mare” cantato da Rimbaud in Le bateau ivre.

Le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla sono anche una contestazione reale dello spazio in cui viviamo: alcune di esse procedono infatti a vela, rifiutando una velocità che nell’universo contemporaneo si associa spesso alla produzione capitalistica anche violenta e alla manipolazione silenziosa degli individui: la costruzione dell’alta velocità che sventra montagne e vallate, la velocità come efficienza e iperproduzione, la flessibilità lavorativa, la competitività e la necessità di formazione continua, una sempre più pervasiva digitalizzazione della vita quotidiana. Gli attivisti vanno per mare lentamente, ponendosi contro l’idea di dominio del capitalismo contemporaneo che “supera i limiti degli apparati di Stato e passa in complessi energetici, militari-industriali, multinazionali”9 in una struttura che oggi assume l’aspetto di una guerra globale non dichiarata, fatta con qualsiasi mezzo. La Flotilla conosce l’idea di distanza, annientata oggi da un pervasivo processo di velocizzazione10: la sua navigazione viene incalzata da droni che la sorvegliano e la controllano, droni che altro non sono se non appendici violente della distruttiva velocità contemporanea.

Oltre che di immaginazione, le eterotopie della Flotilla sono una riserva anche di umanità perché rappresentano una possibilità importante, per l’Occidente, di restare umano, lontano dall’indifferenza e dal vuoto che circondano la società contemporanea. In un clima di disumanità diffusa sono capaci di restare umani, infatti, non soltanto coloro che sono a bordo delle imbarcazioni ma anche i loro sostenitori e i manifestanti pro Palestina che invadono le strade nonché quei lavoratori portuali pronti a scendere in piazza e a bloccare tutto se succederà qualcosa alle imbarcazioni umanitarie: insieme sfidano, ancora una volta, quel potere striato e reticolare che vorrebbe intorno a sé soltanto una squallida indifferenza. Il senso di umanità che si trova nelle stive delle imbarcazioni rappresenta anche una resistenza contro qualsiasi forma di fascismo, perché l’indifferenza, l’irrisione e ogni becera ironia mediatica di fronte al viaggio della Flotilla, altro non rappresentano se non una insidiosa e pericolosa ‘fascistizzazione’ della società.


  1. M. Foucault, Eterotopie in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, Milano, 2020, p. 311. 

  2. Ivi, p. 316. 

  3. Ibid

  4. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma, 2010, p. 458. 

  5. Ibid

  6. B. Westphal, Geocritica. Reale, Finzione, Spazio, Armando, Roma, 2009, p. 115. 

  7. M. Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. 

  8. V. Evangelisti, Un mondo di canaglie, in “Carmilla online”, 12 luglio 2008. 

  9. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani, cit., p. 458. 

  10. cfr. P. Virilio, La velocità di liberazione, a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000, p. 151. 

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La sindrome di Gaza https://www.carmillaonline.com/2025/09/01/la-sindrome-di-gaza/ Mon, 01 Sep 2025 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=90280 di Gabriella Bianco

Maria Grazia Gagliardi, La sindrome di Gaza, Astarte Edizioni, Pisa, 2025, pp.165, euro 14,00.

“Dal confine di Erez all’albergo sono poche miglia, il traffico rado, qualche carretto tirato da asini trotterella di lato incredibilmente veloce. Polvere e vento. Poi si sente l’odore del mare, i campi verdeggiano, le strade si popolano. Appaiono palazzi alti e non finiti, miriadi di costruzioni povere, tra le quali ne affiorano di più lussuose. Molte le case danneggiate: campeggia l’incuria, la miseria, la guerra. Il taxi imbocca una strada a quattro corsie. Un ospedale, un’università dagli eleganti archi islamici dipinti di un fresco azzurro-verde. Sul balcone [...]]]> di Gabriella Bianco

Maria Grazia Gagliardi, La sindrome di Gaza, Astarte Edizioni, Pisa, 2025, pp.165, euro 14,00.

“Dal confine di Erez all’albergo sono poche miglia, il traffico rado, qualche carretto tirato da asini trotterella di lato incredibilmente veloce. Polvere e vento. Poi si sente l’odore del mare, i campi verdeggiano, le strade si popolano. Appaiono palazzi alti e non finiti, miriadi di costruzioni povere, tra le quali ne affiorano di più lussuose. Molte le case danneggiate: campeggia l’incuria, la miseria, la guerra. Il taxi imbocca una strada a quattro corsie. Un ospedale, un’università dagli eleganti archi islamici dipinti di un fresco azzurro-verde. Sul balcone di una palazzina la bandiera ONU, più avanti al semaforo la targa UNRWA e una moschea. ‘Sono entrata nella più grande prigione del mondo’ aveva pensato Elena” (pag.91).

Nel leggere il romanzo di Maria Grazia Gagliardi “La sindrome di Gaza” – Astarte edizioni – appena pubblicato, ci si interroga sul senso delle storie che questo libro racconta: che cosa le collega? qual è l’affinità che crea un’unità, una coerenza sotto l’esplicitezza delle trame? Perché narrare non è semplicemente raccontare storie, e le storie non sono né buone né cattive per il loro pathos, ma per come sono raccontate, cioè per l’individuazione di una voce che le connette. È certo che la scrittura sa più del suo autore ed anche del lettore. Questi ultimi come i personaggi sono in cammino verso una verità che non conoscono e che forse si delineerà alla fine della storia. Il troppo vicino scompare, più pensiamo di avvicinarci, più la verità si allontana da noi.

Il protagonista del romanzo, Amelio, si presenta subito come un “uomo senza qualità”, un superficiale cui preme portarsi a letto più donne possibili, eppure capiamo che nasconde un tormento rimosso perché Amelio digrigna i denti (soffre di bruxismo) ed è denominato il “digrignatore”.

L’altro doloroso protagonista di questa storia è il popolo palestinese.
Il giorno della morte di sua madre, Amelio bambino vede alla televisione un filmato sulla strage nel campo profughi di Sabra e Shatila. “Una mamma morta. Tante mamme morte. Quante mamme morte? Quanti bambini soli? Uomini cattivi col fucile avevano sparato senza pietà. Bombe e granate erano state lanciate. L’incontro con il dolore si fa in tenera età”. (pag. 20)

Da quel momento la storia personale di Amelio si intreccia giorno dopo giorno con la storia del popolo palestinese, anche se da cinico adulto “ ha accettato che la miseria è scontata e l’ingiustizia solo una coperta trasparente che avvolge l’umanità intera. Come abbia appreso queste regole, se glielo chiedete, non ve lo saprà spiegare; tuttavia, il dolore del mondo arriva a levigare gli animi quanto l’acqua torbida di un fiume arrotola i suoi ciottoli”. (pag.33)

Questo è un passaggio che dobbiamo tenere presente se vogliamo mettere insieme la trama e, come un puzzle, tornare indietro e ricomporla, facendo attenzione all’immagine che Amelio proietta di se stesso, perché la sua storia, anche se è una versione personale dei fatti e può sembrare secondaria rispetto alla grande Storia, la Storia dei popoli oppressi e perseguitati, ha una sua ragion d’essere. Siamo ciò che raccontiamo degli altri, ma anche ciò che raccontiamo di noi stessi.

In missione in Medio Oriente per svolgere un’indagine statistica, il digrignatore, incontra la collega Elena, anche “Elena digrigna i denti e come lui può azzannare” (pag. 30) e ne nasce una relazione amorosa. La loro storia d’amore e di sesso si svolge in contemporanea all’operazione Piombo Fuso dal 28 dicembre 2008 al 19 gennaio 2009, quando Israele bombarda Gaza uccidendo 1385 palestinesi e ferendone 5300. L’autrice ci presenta con cadenza inesorabile i bollettini di guerra di quel primo attacco sulla Striscia: i morti, i feriti, i bombardamenti.
Gagliardi lascia aperto il finale per la coppia – forse ormai coppia – Elena e Amelio, figli di un occidente scettico e indifferente. Anche la fine di Gaza non è stata ancora scritta, ci sorreggono la speranza, la pietà e l’indignazione, mentre “La vergogna continua”. (pag. 165)

In conclusione, come in ogni storia, bisogna imparare ad ascoltare il silenzio dell’opera. In questo romanzo il personale si mescola con il dramma di un popolo; il conteggio delle aggressioni sistematiche sulla popolazione di Gaza scandisce il ritmo della narrazione evitando che le vicende individuali prendano il sopravvento.

Gagliardi parla dei gazawi attraverso la storia e le statistiche, ma grazie a quei dati ci obbliga a ricordare il dramma di un popolo. Assediati dentro la Striscia di Gaza, molti dei suoi abitanti scendono al mare solo per provare a se stessi che esiste il tramonto, e lontano, oltre la riva, si stendono altre terre e altri destini. Questa angoscia viene condivisa chiaramente da Elena, quando si accorge che il suo visto è per un solo ingresso, non si contemplano uscite e ritorni. Se sopravvivi alle bombe ed ai fucili, sai che passerai tutta la vita in questa striscia assediata. Eppure, lontano dalla loro terra gli abitanti sentirebbero subito la mancanza delle fragole, dei limoni e delle arance di Gaza, dei suoi profumi. Niente può uguagliare camminare lungo il mare di Gaza e godere dei suoi tramonti, contemplando quell’immensità che ci rende consapevoli della nostra piccolezza, e al tempo stesso della quotidianità grandezza di un popolo. Anche loro, Elena e Amelio, come i gazawi, consapevoli dello scorrere del tempo e della vacuità di guerre feroci, in quel transito vorrebbero andare oltre l’orizzonte e aprire i confini, affinché tutti possano finalmente sentirsi ed essere liberi.

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Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2021/09/02/su-alcuni-aspetti-militari-della-disfatta-occidentale-in-afghanistan/ Thu, 02 Sep 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67937 di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un [...]]]> di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e capitalistico.

Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui, complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche, una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione, ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità, pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi. Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.

Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del 31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti (e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza internazionale.

La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina – per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.

Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità media abitativa di un quarto circa di quella italiana.

Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.

Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.

Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush, che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne, costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG (Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.

Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua assurdità dal documentario Restrepo, realizzato nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger, in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di David Finkel, I bravi soldati (Mondadori 2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).

La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata, soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane, abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja, insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra cecena5.

Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al combattimento urbano (qui), mentre gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali condizioni (ancora qui), non può esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane, fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della “difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime “collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai voluto portare la democrazia in Afghanistan8.

Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si tratta di mettere the boots on the ground.

Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha svolto più turni in quell’area.

Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo. Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Nelle task force per operazioni speciali. Ho imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo. Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il 2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo12.

Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.

Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre 2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di battaglia iracheno15.

Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra in Vietnam.

Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista geo-politico e giornalista di rilievo:

Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America17.

Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le banche, fin dal primo macello imperialista.

Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il motto we play, you pay che sembra averne sempre caratterizzato la politica militare.

La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è appena iniziata e il politically correct non servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.


  1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018  

  2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31  

  3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)  

  4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021  

  5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²  

  6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)  

  8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021  

  9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea  

  10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga  

  11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47  

  12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA  

  13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”  

  14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”  

  15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006  

  16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001  

  17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021  

  18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006  

  19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui  

  20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021  

  21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?  

  22. Adriano Sofri, per non smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a sventolare ancora idee simili. Complimenti!  

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Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

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Gerusalemme ovvero come abbiamo perso la memoria https://www.carmillaonline.com/2017/03/30/gerusalemme-ovvero-perso-la-memoria/ Wed, 29 Mar 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37211 di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa. Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea [...]]]> di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa.
Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea di demarcazione costituita dall’esistenza, o meno, di una documentazione scritta continua a differenziare la Storia dalla Preistoria.

Eric H. Cline, docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e Direttore del Capitol Archaelogical Institute presso la George Washington University, ha al suo attivo 30 campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti. La sua professione di studioso e di archeologo lo pone pertanto nella posizione più vicina a quella di una possibile “paleontologia storica” destinata a superare anche i confini di quella storia di “lunga durata” di cui sono stati maestri, in Francia, la cosiddetta Scuola delle Annales, Marc Bloch, Lucien Febvre (entrambi suoi fondatori), Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Mentre la scuola francese, infatti, esercitò i suoi studi soprattutto sulla storia del Medio Evo e sulla transizione dall’Età Moderna all’attuale società contemporanea (o capitalistica), studiando le trasformazioni lente avvenute all’interno delle società nell’ambito dell’economia, delle pratiche quotidiane e dell’immaginario politico e/o religioso, da diversi anni l’archeologo e ricercatore americano si dedica alla ricostruzione di fatti complessi e drammatici, e talvolta decisivi per la sopravvivenza o meno delle antiche civiltà, che coinvolsero società e ambiente nell’Antichità.

Prova ne sia il suo testo più famoso, e più recente, 1177 BC. The Year Civilization Collapsed 1 in cui sono individuate e descritte le molteplici cause di uno dei più impressionanti punti di svolta della Storia. Quando forse il primo “mercato mondiale” formatosi attorno alle civiltà del Vicino Oriente e della Mezzaluna fertile fu travolto dall’arrivo dei cosiddetti “Popoli del mare” e dagli sconvolgimenti di ordine climatico e naturale che si manifestarono in quel periodo.

Anche nei suoi testi precedenti, The Battles of Armageddon. Megiddo and the Jezreel Valley from the Bronze Age to the Nuclear Age (2000)2 e Jerusalem Besieged. From Ancient Canaan to Modern Israel (2004),3 Cline si era spinto molto indietro nel tempo per ricostruire i percorsi storici e mitici che hanno determinato, soprattutto, la complessità, la contraddittorietà e la violenza (ancora attuale) dei conflitti sviluppatisi intono alla “nascita” e alla “storia” dello Stato di Israele.

Nel primo dei due testi si ricostruisce la storia della valle di Jezreel, Esdraelon per la Bibbia, integrata nell’attuale Israele, che ha forse visto il maggior numero di battaglie al mondo. A partire dall’antica città-stato di Megiddo, in una regione abitata fin dal 7000 a.C., ha visto infatti gli imperi scontrarsi per il suo possesso e dominio, almeno dal 2350 a.C., considerata la sua importante posizione strategica posta proprio al crocevia tra i sentieri, più che le strade, che collegavano tra di loro le antiche potenze economiche e militari: Mesopotamia ad Oriente, Egitto verso Sud , Anatolia verso il Settentrione, lasciando lo spazio mediterraneo ad Occidente.

gerusalemme 1 Un territorio, considerate soltanto le testimonianze riportate, teatro di guerre da almeno 4500 anni e di cui Gerusalemme fa parte. Da qui il testo in questione, interamente dedicato alla ricostruzione e alle motivazioni dei 118 conflitti che hanno interessato il suo territorio negli ultimi quattro millenni.
La lotta per il controllo di Gerusalemme e di tutto Israele continua senza tregua ai nostri giorni, perpetuando quattromila anni di scontri nel cuore della terra un tempo chiamata Canaan. Là dove anticamente le armi erano spade di bronzo, lance e asce da guerra, oggi sono diventate granate stordenti, elicotteri da combattimento, autobombe innescate a distanza e giovani uomini e donne suicidi imbottiti di esplosivo. Se da un lato sono cambiati gli individui e i loro armamenti, dall’altro le tensioni e le ambizioni sottostanti sono rimaste immutate. Per Meron Benvenisti, ex-vicesindaco di Gerusalemme, le opposte rivendicazioni ebraiche e musulmane sul Monte del Tempio sono «una bomba a orologeria di proporzioni apocalittiche»4

Il famoso geografo Strabone, vissuto nei secoli a cavallo dell’inizio dell’era cristiana, aveva scritto che Gerusalemme era sorta in un luogo che nessuno poteva invidiare e per il quale “nessuno avrebbe voluto pigliar guerra seriamente […] Infatti il terreno di Gerusalemme è tutto pietroso; e benché nella città si trovi abbondanza d’acqua, il paese all’intorno peraltro è sterile, arido e […] tutto roccioso”.5 Eppure, eppure…quanto si sbagliava!

Dove oggi volano droni israeliani e carri armati Merkava presidiano il territorio circostante, intorno al 1350 a.C. un piccolo monarca di una località che gli Egizi chiamavano Urushalim chiese aiuto al faraone , implorandolo: “Sono una nave in mezzo al mare!”, probabilmente circondato da qualche popolo cananeo. Manifestando così per la prima volta nella Storia conosciuta l’angoscia da accerchiamento di chi di volta in volta si è trovato a rivendicare o difendere la città o, più in generale, il territorio che corrisponde oggi all’attuale Israele.

Il moderno Stato di Israele– che si accinge a festeggiare il suo settantesimo compleanno – è stato definito un’isola circondata e assediata da un mare di forze arabe ostili. Riuscirà a durare quanto il Regno crociato di Gerusalemme? Il futuro del nuovo Stato palestinese, la cui nascita6 fa ancora sentire i suoi postumi dolorosi, è ancora più incerto; i suoi due avamposti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania possono essere dipinti a loro volta come isole circondate da un mare di forze israeliane sempre più ostili.7

Il primo a conquistare la città, narra la ricostruzione biblica, fu il re Davide, poi sarà la volta di Hazael, re di Aram, seguito da Sennacherib l’assiro, Nabucodonosor il babilonese, Tolomeo, Antioco, i maccabei, Ircano, i parti, Erode, Tito e Adriano. Dopo si aggiungeranno il califfo Umar, gli abbasidi, i fatimidi, i selgiuchidi, i crociati, Saladino, Federico II, gli ottomani e poi gli inglesi del generale Allenby che porteranno in Palestina i primi carri armati. Fino ai conflitti degli ultimi decenni.

Cline ci tiene a ribadire che “per nessun’altra città del pianeta si è combattuto tanto aspramente nel corso della storia. La denominazione di «città della pace» che spesso le viene attribuita è con buona probabilità un errore di traduzione e senza alcun dubbio un termine fuorviante”,8 considerato che “la città è stata completamente distrutta due volte, assediata ventitre volte, attaccata altre cinquanta volte e riconquistata quarantaquattro volte. E’ stata teatro di venti rivolte e innumerevoli tafferugli9

E torna anche a sottolineare, come già aveva fatto Strabone, che “anche ai nostri giorni, il paesaggio che si offre agli occhi di chi guarda a oriente da qualsiasi punto elevato della moderna città di Gerusalemme è quello riarso del deserto di Giudea, con le sue rocce scintillanti di calore. Le vestigia di fauna e flora sepolte nei suoi strati antichi testimoniano che l’ambiente non era molto diverso intorno al 1000 a.C. […] La presenza della sorgente di Gihon e la protezione garantita proprio dalle gole circostanti furono con buona probabilità tra le ragioni principali che, nel corso del III millenio a.C., spinsero i cananei a insediarsi per primi in questo luogo relativamente abbandonato. Di primo acchito, i suoi vantaggi sembrano finire qui. Il sito si trovava a notevole distanza dalle principali rotte commerciali che dall’Egitto a sud conducevano alle regioni dell’Anatolia e della Mesopotamia a nord e a est. Era immerso in un’area per lo più priva di risorse naturali e lontano dai porti marittimi che punteggiavano le coste del Mediterraneo.10

gerusalemme Quindi apparentemente nulla sembrerebbe giustificare l’utilità o le ragioni materiali dei drammatici eventi che l’autore ricostruisce nelle più di quattrocento pagine del testo.
Resta soltanto la presenza austera del Monte del tempio, un’altura chiamata in arabo Haram al-Sharif (Nobile Santuario) che domina sull’abitato circostante. “Su questa altura alberga una grande roccia che […]un tempo si trovava entro le mura del Tempio di re Salomone e più tardi in quello di Erode. Ancora oggi questa enorme pietra ha una presenza imponente sul Monte del Tempio. Riposa infatti sotto il tetto dorato della Cupola della Roccia e costituisce in elemento vitale del terzo sito più sacro del mondo islamico. In base alla tradizione musulmana, il profeta Maometto ascese al cielo proprio da questa roccia. Secondo la tradizione ebraica, invece, si tratta della pietra su cui Abramo offrì il figlio Isacco in sacrificio a Dio, E fu sempre qui che Davide fece collocare la sacra Arca dell’Alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.11

Intorno e su quell’altura hanno finito col depositarsi le rivendicazioni identitarie e nazionali sia della parte ebraica, che rivendica Gerusalemme e tutto il territorio della Palestina in quanto facente parte dell’antica Israele biblica, sia di quella araba e palestinese che, troppo spesso ha separato le rivendicazioni di classe e antimperialiste da una rivendicazione di carattere storico e nazionalistico che affonda anch’essa le sue ragioni nei millenni e nei conflitti trascorsi. Risalendo fino ai popoli che l’avevano abitata e fondata prima dell’avvento di Re Davide.

«I nostri antenati, i cananei e i gebusei», ha dichiarato Yasser Arafat, […] «hanno costruito le città e seminato la terra; hanno edificato la monumentale città di Bir Salim (Gerusalemme)». Il suo fidato consigliere Faysal al-Husaynī non la pensava diversamente. «Innanzitutto», affermò, «sono palestinese. Sono discendente dei gebusei, coloro che vennero prima di re Davide. Questa [Gerusalemme] era una delle più importanti città gebusee nella regione. […] Sì, è la verità. Noi siamo i discendenti dei gebusei»12

Oppure agli imperi che avevano sottomesso e tradotto in schiavitù gli ebrei. Come fece Saddam Hussein che “celebrò la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a.C. nonché la sua riconquista da parte del Saladino dalle mani crociate nel 1187 d.C. in quanto precedenti delle sue azioni e intenzioni personali. In Iraq, spettacoli di luci laser, tabelloni e statue raffiguravano Hussein come il moderno successore di quegli antichi guerrieri13
Mentre, dall’altra parte “Theodor Herzl, Max Nordau, Vladimir Žabotinskij e altri sionisti impegnati a fondare l’attuale Stato di Israele evocarono nell’immaginario collettivo le gesta eroiche dei guerrieri maccabei nel 167 a.C. e la rivolta di Bar Kokhba contro le legioni romane del 135 a.C.14

Eppure nel testo curato da Telmo Pievani per una recente mostra tenutasi al MUDEC di Milano,15 intitolata “HOMO SAPIENS. Le nuove storie dell’evoluzione umana”, si afferma chiaramente che “E’ la storia del popolamento umano della Terra: una giovane specie africana si è irradiata ovunque, dando origine a migliaia di popoli diversi. Il nostro passato sembra lontano e dimenticato, sepolto una volta per tutte nel tempo profondo dell’evoluzione, ma in realtà si manifesta ogni giorno nei teatri dei conflitti mondiali più sanguinosi. Il Medio Oriente, il Caucaso, il Sudan, l’Afghanistan, il Corno d’Africa; la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta”.16

Ecco allora che ci si accorge di come la Storia con la S maiuscola, non abbia fatto altro che rivestire di incrostazioni ideologiche, religiose, in fin dei conti mitiche, un percorso complesso, in cui, probabilmente, una stessa pietra poteva servire ad indicare una fonte d’acqua perenne e un luogo, quindi, sacro per coloro, singoli individui o gruppi più consistenti, che transitavano da lì, stretti tra il mare salato e i deserti orientali. Un luogo che le religioni animistiche potevano condividere, ma che le grandi religioni rivelate e del Libro avrebbero finito col rendere luogo di infiniti massacri ed infinite tragedie in nome di un’unica, mitica verità.17

Il libro di Cline è quindi interessante, utile e, soprattutto, di forte stimolo a superare non solo le barriere del tempo per comprendere il presente, ma anche, e forse involontariamente, a fare opera di disincrostazione di un immaginario talvolta troppo segnato dall’imperativo nazionalista o imperiale, frutto di una società divisa in classi recente, sconosciuta ai nostri antenati, ma che pretende di allungare i propri tentacoli sulle decine di migliaia di anni durante i quali la specie ha potuto farne tranquillamente a meno.

Purtroppo con la fasulla divisione tra Storia e Preistoria, tra natura e storia dell’uomo, abbiamo finito col perdere la memoria profonda della specie. Quella più importante e più vera di quella affidata ai re, agli imperatori, agli stati, ai loro scrivani e ai loro libri portatori di verità “certificate”.
Sotto questo punto di vista, Gerusalemme diventa allora, grazie anche alle pagine di quest’opera, il simbolo del passaggio della società umana dal nomadismo all’agricoltura, dalla condivisone dei beni alla proprietà privata.18 Anche di quell’acqua così sacra un tempo e posta al centro oggi di conflitti sempre più sanguinosi per il suo controllo, soprattutto nei territori che si trovano sotto il controllo sionista.

Passaggi che hanno richiesto la formazione di stati, imperi, ideologie e religioni rivelate che hanno contribuito ad affogare le popolazioni nel sangue e a cancellare la memoria comune dell’animale uomo. In nome di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare “progresso”.


  1. Pubblicato anche qui in Italia, dove è giunto già ad una sesta edizione: Eric H. Cline, 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri 2014  

  2. Anch’esso tradotto in Italia come Armageddon. La valle di tutte le battaglie, Bollati Boringhieri 2016  

  3. Il testo qui recensito  

  4. pag. 17  

  5. Strabone, XVI.2.36, Della geografia di Strabone. Libri XVII, volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Paolo Andrea Molina, Milano 1835 cit. in Cline, pag. 20  

  6. L’indipendenza dello Stato di Palestina fu proclamata nel 1988 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, poi sancita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012, mentre Israele non ne riconosce l’esistenza. Lo Stato di Palestina proclama Gerusalemme Est sua capitale anche se Israele controlla tutta la città, ma le Nazioni Unite e tutti gli Stati del mondo non riconoscono l’annessione di Gerusalemme Est a Israele proclamata con la legge israeliana del 1980. Il Parlamento europeo con la Risoluzione 2014/2964 del 17 dicembre 2014 ha votato a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina “in linea di principio”  

  7. pag. 23  

  8. pag. 17  

  9. pag. 18  

  10. pp. 18-19  

  11. pp. 20-21  

  12. pag. 29  

  13. pp. 22-23  

  14. pag. 23  

  15. dal 30 settembre 2016 al 26 febbraio 2017  

  16. Telmo Pievani (Testi e consulenza scientifica di), HOMO SAPIENS, Libreria Geografica, Novara 2016 (Prima edizione 2012), pag. 220  

  17. Si consulti sul tema della differenza politica e culturale tra religioni inclusive, politeistiche e orientate al mondo, e religioni esclusive, monoteistiche e negaatrici del mondo, l’ormai classico Jan Assman, La distinzione mosaica, Adelphi 2011  

  18. Prova ne sia la provocatoria affermazione che il Monte del Tempio possa rappresentare “la proprietà immobiliare più contestata sulla faccia della Terra“. Gershom Gorenberg, The End of Days. Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount, Free Press, New York 2000 (cit. pag. 20)  

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Che cosa resta dei diritti umani? https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/cosa-resta-dei-diritti-umani/ Wed, 14 Dec 2016 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35239 di Sandro Moiso

il-diritto-umano-di-dominare-d498 Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 240, € 16,50

Poco dopo che nel 2012 Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, alle fermate degli autobus del centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, [...]]]> di Sandro Moiso

il-diritto-umano-di-dominare-d498 Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, pp. 240, € 16,50

Poco dopo che nel 2012 Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, alle fermate degli autobus del centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.

Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso.
Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.

Prende inizio da questo episodio la dettagliata e approfondita riflessione che Nicola Perugini e Neve Gordon conducono sull’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo e soprattutto là dove intercorre ancora una chiara ed inequivocabile distinzione tra occupanti e colonizzati.

Il case study di riferimento è quello dato dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ma non vi è dubbio che le osservazioni e le conclusioni cui giungono i due autori costituiscono motivo di meditazione per ogni caso in cui la violenza e il dominio statuale, coloniale o meno, sia esercitato in nome di un asettico diritto al rispetto di valori universalmente condivisi. Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati a riconoscere ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei fin troppo asimmetrici rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale.

I due ricercatori, che nei ringraziamenti finali si assumono pienamente e a pari merito la responsabilità dell’intero contenuto del libro e delle conclusioni cui giungono, sottolineano infatti che l’uso che oggi viene fatto dalle ONG conservatrici o dagli apparati militari del concetto di “diritti umani” non sia dovuto ad un radicale travisamento degli stessi, ma sia implicito proprio nelle formulazioni, anche in quelle apparentemente progressiste, che hanno accompagnato tale concetto fina dalle sue origini.

Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano.” (pp. 29-32)

Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative.

Il testo porta a sostegno di ciò una miriade di esempi tratti dalla drammatica situazione creatasi nei Territori Occupati dagli Israeliani e dalle loro forze armate in Palestina, ma un esempio può sinteticamente valere a dimostrazione di ciò per il recente passato: “Benché il nostro presupposto è che tutte le forme di dominazione siano violente, è importante notare che la violenza non è sempre o necessariamente una manifestazione di dominazione. La storia anti-coloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale.” Però ”paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid” (pag. 13)

Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani sia costituito dalle forze armate americane.
A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (pag. 25)

Non solo, ma si stima anche “che ogni anno, oltre ad addestrare i propri soldati con metodi tradizionali, il governo USA addestra in circa 275 siti – tra accademie militari e strutture simili – approssimativamente 100.000 poliziotti e soldati stranieri, provenienti da quasi 150 paesi, offrendo più di 4100 corsi sui diritti umani[…] L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum” (pp. 25-26)

Salta immediatamente agli occhi come tale scelta, che non a caso forse può essere fatta risalire alla prima guerra del Golfo, possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, applicare.
In fin dei conti il processo di disumanizzazione del nemico o dell’avversario ha sempre accompagnato la dominazione coloniale, dai tempi della discussione cinquecentesca e cattolica sull’anima degli indios fino all’accusa di terrorismo usata oggi contro qualsiasi movimento che si opponga alle varie forme di dominazione del capitale e dell’imperialismo sulla società. Dalla Val di Susa alla Palestina, tanto per intenderci.

Accanto a questo, in un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico è un movimento che si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”.

In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene, secondo i due ricercatori dell’Università di Princeton, fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario.

Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani, israeliani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi dovrà operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti. Seguendo questa logica, nell’esempio più rilevante e chiaro portato a dimostrazione di ciò dai due autori, che hanno potuto condurre lezioni e ricerche presso college e università israeliane, nel caso delle ultima campagne condotte da Israele contro la striscia di Gaza o gli hezbollah libanesi, i bombardamenti israeliani avrebbero sempre e solo colpito obiettivi militari (case private, ospedali, scuole, moschee) in cui si nascondevano armi, mentre i razzi sparati dal Libano e da Gaza in risposta a ciò avrebbero sempre e soltanto risposto a logiche di tipo terroristico perché destinati a colpire le abitazioni e le comunità ebraiche.

Numerosi potrebbero ancora essere gli esempi che Perugini e Gordon adducono per sostanziare la loro critica dell’attuale concezione ed uso dei “diritti umani”, ad esempio quello del diritto dei coloni ebraici ad occupare spazi e territori destinati all’Autorità nazionale palestinese, ma forse l’elemento più forte che viene portato alla luce dalla loro ricerca è come la specializzazione di ONG ed “esperti” dei diritti umani abbia portato questi, indipendentemente dal fatto che facciano parte di organizzazioni progressiste o conservatrici, ad escludere dal discorso politico quelli che dovrebbero essere i principali protagonisti della lotta per l’emancipazione umana dalle logiche del dominio e dello sfruttamento per trasformarli in semplici testimoni per le inchieste che altri devono condurre e poi valutare in ambiti istituzionali (tribunali civili, militari e internazionali).

Le istanze delle vittime reali o dei resistenti diventano così soltanto una questione di verità, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed assoluta dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. Spazzando via così dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale o alla lotta di classe. Non a caso “Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali” (pag. 198)

La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: “L’essenza della nostra metodologia nonè la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza, o di intentare cause legali, o di chiedere la realizzazione di grandi progetti nazionali, o di fornire assistenza tecnica. Il nucleo centrale della nostra metodologia è piuttosto la nostra capacità di investigare. Mettere a nudo e smascherare”. Cui va poi aggiunto che “l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani” (pag. 199)

In questo modo: “La legge che permette al dominante di uccidere è salvaguardata e perfino rafforzata da coloro che sostengono di lottare per i diritti umani […] L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale” (pag. 202)

Così “l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce” (pag. 203)

Il legalismo è senza dubbio uno dei principali fattori che producono le gerarchie professionali nel settore. Gli esperti di diritto e gli avvocati sono alcune delle figure chiave del mondo dei diritti umani che rivendicano un sapere specialistico esclusivo. Ma quando parliamo di professionalizzazione, facciamo anche riferimento a […] consulenti per la comunicazione, medici legali, archeologi, antropologi, assistenti sociali, psicologi, esperti di munizioni, geografi, medici e personale sanitario specializzato, […] una classe di esperti in diritti umani che sono spesso alienati dalle persone che dovrebbero rappresentare” (pag. 205)

Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere” (pp. 207-208)
Così nel richiedere la liberazione dei diritti umani dal circo legalistico- mediatico che li circonda i due autori finiscono con il concludere che: “Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità. Ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge (invece che la sua critica) riproduce i meccanismi della dominazione” (pp. 209-210)

Un libro forte, bello, intelligente e assolutamente utile, anche qui da noi dove il confronto con il dominio e con l’abuso sembra suggerire sempre di più la necessaria vicinanza tra la resistenza sociale nel cuore dell’Europa e dell’impero e le forme assunte dalle lotte contro il dominio coloniale in altre parti del mondo. Grazie, quindi, non solo ai due coraggiosi e lucidissimi autori, ma anche alle edizioni Nottetempo per averlo reso disponibile per i lettori italiani nella collana Cronache.

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Quante volte dovrà ancora essere ucciso Giulio Regeni? https://www.carmillaonline.com/2016/02/09/quante-volte-dovra-ancora-essere-ucciso-giulio-regeni/ Mon, 08 Feb 2016 23:01:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28531 di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine. Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia [...]]]> di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine.
Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia è il primo partner commerciale europeo.1 Giulio è morto per le sue idee e per la sua volontà di capire ed informare sulla realtà di quelle “primavere arabe” di cui si è parlato molto a vanvera, ma senza mai distinguere tra area e area, paese e paese, economia ed economia. Giulio è morto così come muore la ricerca, quella vera. Quella che il capitale ed il potere, a ogni latitudine, cercano di soffocare e vietare. Quella in cui il concetto di “classe” esiste ancora e non è stato rimosso con artifici mediatici ed ideologici.

Giulio è morto per la scienza, quella sociale, e per la passione, quella per la giustizia. Che stanno alla base di ogni ricerca della verità. Che è tipica dell’entusiasmo giovanile e che non appartiene ai gazzettieri che declamano che Giulio potrebbe essere stato arrestato “per sbaglio” oppure perché ritenuto “una spia”. E che non appartiene a tutti coloro che trovano stupido ed insulso occuparsi degli “affari altrui” a meno che questi ultimi non siano rigidamente relegati a livello di gossip.

Giulio è morto con le centinaia di attivisti egiziani scomparsi, di cui cinquecento soltanto nello scorso anno,2 e di cui non è più stato ritrovato né corpo né traccia. E sui quali è stato mantenuto il silenzio della stampa occidentale, fino ad oggi, in nome di una sacra alleanza che è servita non a combattere l’Isis e i suoi mandanti, ma soltanto ad impedire la formazione e lo sviluppo di una reale alternativa di classe.

Giulio ha cominciato a morire ancora prima di nascere, nell’Argentina della tripla A e dei generali golpisti che hanno fatto sparire un’intera generazione nel disinteresse nazionale ed internazionale e di quel PCI che, dopo aver liquidato le stragi cilene con la bella trovata del “compromesso storico”, ignorò quegli avvenimenti in nome della lotta al terrorismo; così come il PD di oggi vorrebbe poter fare per mandare avanti i propri affari interni ed internazionali. E poi è morto in Messico con gli studenti, le donne e i giornalisti massacrati dai narcos e dal governo.

Giulio è morto a Genova a fianco di Carlo Giuliani. Giulio è stato torturato nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, i cui responsabili sono ancora impuniti perché in Italia non esiste il reato di tortura. Il corpo di Giulio ha riportato lividi, contusioni, fratture, sevizie come quelli di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e molti, troppi altri, vittime della violenza di Stato e dell’indifferenza. Vittime di un conformismo generalizzato che, fidandosi per viltà delle parole di leader tutti altrettanto corrotti, differenzia la democrazia dai regimi tirannici soltanto sul presupposto, mai dimostrato, che i governi occidentali siano i migliori.

Giulio è morto al Bataclan e nelle banlieue parigine dove i giovani della stessa età finiscono con l’imboccare strade diverse ed assassine nel vuoto di una proposta politica e morale che lascia spazio soltanto all’estremismo reazionario, all’integralismo religioso in ogni sua variante, giudaico-cristiana o islamica, oppure all’indifferenza esistenziale. Giulio è morto nella recente proposta fatta alle Nazioni Unite dal segretario Ban Ki Moon per un piano globale di azione contro il terrorismo e l’estremismo;3 il cui vero obiettivo sembra essere quello di rafforzare e rendere più efficaci le istituzioni nella loro azione di repressione nei confronti di qualsiasi dissenso che potrebbe essere, da ora in poi e come spesso in passato, equiparato al terrorismo.

Giulio è morto sotto le manganellate in Val di Susa e nella repressione di ogni lotta in difesa della specie e dell’ambiente. Giulio è morto nelle parole e sulla bocca di tutti i politici italiani ipocriti e corrotti che oggi fingono dolore per la sua morte e per la sorte di milioni di giovani disoccupati. Giulio è morto al family day e nelle parole di odio e disprezzo pronunciate contro ogni tipo di diversità . Giulio ha subito le ingiurie subite dagli omosessuali aggrediti per strada e nelle aggressioni subite dalle donne ovunque.

Giulio è morto con i bambini affogati nel Mar Egeo e in tutto il Mediterraneo. Giulio è crollato insieme ai migranti fermati ai confini d’Europa o rinchiusi nei campi profughi turchi. E’ morto con i Palestinesi condannati ad un inverno di freddo nella striscia di Gaza e con i Curdi aggrediti dai Turchi e dall’Isis nel Rojava e nel sud-est della Turchia. Giulio è morto con i finanziamenti e la fiducia rinnovati ad un presidente-dittatore come Erdogan e nell’alleanza con gli stati più retrivi ed oppressivi del Golfo.

E’ morto per una materia prima, il petrolio, che non vale più un cazzo 4 e il cui modello di sviluppo è stato sempre e soltanto motivo di guerre, di inquinamento e di morte. Giulio è morto ammazzato.
Ma quante volte dovrà ancora morire? Quanti, giovani e no, saranno ancora uccisi per difendere, con la violenza giustificata dalla ragione di Stato, un modo di produzione fallimentare e distruttivo al quale cercano ancora coraggiosamente di opporsi?


  1. http://www.infomercatiesteri.it/bilancia_commerciale.php?id_paesi=101  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/06/news/egitto_desaparecidos-132828753/?ref=HRER1-1  

  3. Ban Ki Moon, Un piano globale contro il terrorismo e l’estremismo violento, Corriere della sera , 3 febbraio 2016  

  4. http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/06/news/arabia_saudita_crolla_petrolio_costretta_a_chiedere_un_prestito-132809487/  

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Una cronaca dei tempi dell’ISIS https://www.carmillaonline.com/2015/01/29/una-cronaca-dei-tempi-dellisis/ Wed, 28 Jan 2015 23:01:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20219 di Sandro Moiso

isis Da più di trent’anni i miei destini sono legati a quelli degli ISIS, Istituti Statali di Istruzione Superiore. La vicinanza della sigla a quella dell’attuale Islamic State of Irak and Syria è casuale e devo dire che se anche la seconda sigla è sbandierata come simbolo di terrore universale, la prima ha visto scorrere una gran parte della mia vita. Non sempre la peggiore.

Anzi, devo dire che se ancora non ho fatto la scelta nomade di andare a vivere sotto i ponti di Parigi, che mi attirano più delle grandi piazze adibite ad oceaniche manifestazioni [...]]]> di Sandro Moiso

isis Da più di trent’anni i miei destini sono legati a quelli degli ISIS, Istituti Statali di Istruzione Superiore. La vicinanza della sigla a quella dell’attuale Islamic State of Irak and Syria è casuale e devo dire che se anche la seconda sigla è sbandierata come simbolo di terrore universale, la prima ha visto scorrere una gran parte della mia vita. Non sempre la peggiore.

Anzi, devo dire che se ancora non ho fatto la scelta nomade di andare a vivere sotto i ponti di Parigi, che mi attirano più delle grandi piazze adibite ad oceaniche manifestazioni patriottarde, o di qualsiasi altra città, ciò è dovuto in gran parte agli allievi ed allieve degli Istituti Tecnici e Professionali in cui ho insegnato e tuttora insegno.

Allievi ed allieve che sempre più spesso non sono di origine italiana e che praticano la religione islamica: palestinesi, nord- africani, pakistani o arabi più in generale.
Allievi che spesso sono tra quelli più svegli, più attenti, più bravi e più incazzati.
Allievi ed allieve che sono ben lontani dall’ISIS, che criticano e che ritengono, soprattutto i palestinesi, un autentico nemico del popolo dell’Islam.

Sono anche, spesso, gli allievi che rifiutano di rispettare i minuti di silenzio in occasione della giornata della memoria. Giornata che molti di loro vorrebbero vedere dedicata anche ad altre vittime oltre che a quelle della Shoa. Per esempio alle migliaia di vittime civili palestinesi dei bombardamenti e delle rappresaglie israeliane.

D’altra parte Primo Levi, che temeva il gran mercato che si sarebbe poi fatto della memoria e della testimonianza, nella prefazione “ai giovani” dell’edizione scolastica Einaudi del 1972 del suo “Se questo è un uomo”, aveva scritto: “E’ passato un quarto di secolo (dall’anno, il 1946, in cui Levi scrisse il suo diario di prigionia), e oggi ci guardiamo intorno e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo (per la fine della guerra e la sconfitta del nazi-fascismo) era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto”.

In seguito sarebbero venuti il Cile, l’Argentina, Long Kesh, Abu Ghraib, Guantanamo, la scuola Diaz e quel grande carcere a cielo aperto che è diventata oggi la striscia di Gaza. Di cui a scuola si parla molto meno o, meglio, non si parla per nulla.
Io racconto loro delle mie possibili e lontane origini ebraiche. Di come il mio cognome sia reperibile soltanto in Piemonte e sia originario del Monferrato e della zona di Asti, che fu in età moderna un’area in cui gli ebrei poterono fin ad un certo punto vivere in pace. Proprio per quello a cavallo tra ‘500 e ‘600 una grossa comunità ebraica polacca, i Moise, si era lì tasferita per sfuggire ai locali pogrom cattolicissimi e cristiani.1

Poi con l’istituzione dei ghetti nel corso del ’700 per volontà della dinastia Savoia, la stessa che precedentemente aveva favorito per motivi economici l’afflusso di ebrei nei suoi domini piemontesi, molti preferirono modificare il patronimico e convertirsi per usufruire di maggiore libertà, anche di iniziativa economica. Da lì, molto probabilmente, il mio cognome attuale. Anche se mio padre non ne sapeva nulla e i miei nonni nemmeno. Semplicemente un caso di identità rimossa. Per paura, per necessità, per convenienza: chi lo saprà mai.

Un bell’esempio però di come la violenza razzista e statale operi sulle comunità e sulle identità. E sulla memoria. Perché va ricordato soltanto ciò che conviene.
Il resto deve essere cancellato e annullato.
La memoria di classe, il ricordo delle lotte, ma anche il nome e la religione e la cultura degli antenati. Una violenza culturale e psicologica, allo stesso tempo, che, privando gli individui e i gruppi di una propria identità li vuole sottomessi al potere e alla disciplina di classe o di razza.

Una bella schifezza insomma. Che si manifestava ieri con l’obbligo per gli ebrei di convertirsi per salvaguardare vita, diritti e proprietà, ma che oggi si spinge, non solo con le baggianate leghiste ma anche con le più subdole premesse “democratiche e progressiste”, a privare lo straniero della sua lingua (“Devono imparare l’italiano!”), della sua cultura2 e religione. Senza per altro donargliene una nuova (la cittadinanza per tutti o l’integrazione nel mondo del lavoro attraverso un contratto stabile).

Alla Renault di Flins, negli anni sessanta e settanta, gli operai non erano musulmani o cristiani, arabi o francesi, erano classe operaia in lotta. Quella era un’identità più forte. Che oggi non c’è. Così come non esiste più una sinistra internazionalista che sappia proporre altre prospettive alla rabbia delle periferie urbane. Mentre gli effetti dell’esclusione si fanno sempre più spesso sentire anche nell’istituzione che dovrebbe, almeno formalmente, contribuire più di ogni altra all’integrazione culturale: la scuola.

Ho avuto un’allieva palestinese che si è diplomata con ottimi voti. Accanita lettrice, apprezza Proust e molti altri autori del ‘900 europeo. La sua famiglia, originaria della Cisgiordania, è laica, ma lei, invece, porta il velo sulla testa e rivendica con quello ed una piccola spilla con la bandiera palestinese la sua identità, anche se il padre le ha consigliato di leggere la “Storia della rivoluzione russa “ di Lev Trockij.

Chiamiamola per comodità Rula. Ogni tanto mi scrive ancora delle mail per commentare i tragici fatti della storia attuale. Ad agosto, durante l’offensiva di terra su Gaza: “Sa che le dico? La Palestina è sola, anche al suo interno è divisa e quando si difende viene definita terrorista. Possiamo contare soltanto su noi stessi, perché beh, se l’avesse voluto, il mondo ci avrebbe salvati già da tempo”.

Oppure: ”Proprio ieri sera in un nuovo programma televisivo ne hanno parlato (della possibilità di una guerra allargata). Un programma se posso dirlo, schifoso e opportunista come in fondo quasi tutti, presi in mano da gente estremista, razzista che non fa altro che criticare gli immigrati e dar loro la colpa per la crisi di questa Italia. Che cerca ti metter in cattiva luce l’Islam e lo critica come fosse una religione terrorista, retrograda, che si basa su principi primitivi, che la donna è sottomessa e bla bla bla, insomma le solite cose che escon fuori dalla bocca degli stolti”. E dopo la manifestazione in cui, a Parigi, il peggior sciovinismo francese ed europeo è andato a braccetto con i probabili finanziatori medio orientali dell’ISIS: “di quale libertà parlano? Di una libertà vigilata sempre sappiamo da chi? “.

Uso le sue parole per trasmettere uno stato d’animo, non per esporre un’opinione anche solo pre-politica. Uno stato d’animo che si manifesta anche attraverso una sciarpa, riproducente la bandiera palestinese, annodata ad un montante della libreria di casa mia. Me l’hanno regalata due gemelli palestinesi della mia scuola, Suad e Bashir, che mi riconoscono come uno dei pochi insegnati con cui possono parlare del loro paese (dove vivono nonni e zii e da cui sono tornato sconvolti dopo un viaggio estivo per la brutalità dei controlli dell’esercito israeliano) e della loro musica. Figli di un ingegnere, sono nati in Italia; la madre è italiana e parlano a malapena l’arabo. Ma si sentono PALESTINESI.

Infine ancora una storia. Questa volta sulla mentalità italiana. Ancora due gemelli palestinesi della mia scuola (ci sarebbe da iniziare uno studio sulla genetica della gemellarità tra i palestinesi), Ghassan e Samir. Anche loro figli di un medico. Un po’ più vivaci degli altri di cui ho parlato prima. Infatti uno dei due, Ghassan, in una discussione fattasi un po’ accesa a proposito di un voto assegnatogli da una professoressa, aveva alzato minacciosamente la voce con la stessa, avvicinandosi a lei con il viso.

Dal punto di vista dei rapporti scolastici, anche se tutti i compagni hanno poi dichiarato che effettivamente il voto era immeritato e l’interrogazione condotta con un po’ di accanimento, un episodio sicuramente spiacevole che necessitava,dal punto di vista formale dell’istituzione concentrazionaria scolastica una sanzione. Dal mio punto di vista non gran che, considerato che un mio caro amico, allora minorenne, fu espulso da tutte le scuole d’Italia per aver preso a calci, nelle cosiddette parti intime, il vice preside del suo istituto tecnico mentre questi cercava di sfondare il picchetto dello sciopero studentesco durante le lotte dei primi anni settanta.

Oppure considerato anche l’episodio in cui, negli anni novanta, in un istituto tecnico alla periferia di Torino, mani ignote staccarono dal muro dei bagni maschili, posti al primo piano dell’edificio scolastico, un lungo e pesante lavabo che, con estrema perizia, fatto passare attraverso la finestra precipitò sul cofano dell’automobile del più odiato professore di elettrotecnica. Degli allievi della classe probabilmente coinvolta in quell’episodio conservo ancora una placca d’oro con i loro nomi e il loro riconoscimento al sottoscritto e per molti anni li ho ancora frequentati, senza scandalizzarmi più di tanto.

Beh, comunque, tornando a noi, la sanzione andava presa e quindi il consiglio di classe dovette riunirsi.
Già prima, qualche collega aveva mormorato che i due fratelli, che qualche problema con l’ordine costituito l’avevano già avuto, avrebbero un giorno potuto essere ideali militanti dell’esercito islamico. Peccato che io avessi già a lungo discusso con loro, parlando della storia novecentesca del Vicino Oriente, degli avvenimenti medio orientali e conoscessi quindi benissimo la loro avversione e quella della loro famiglia all’ISIS.

Ma questo non bastava. Dovevano essere per forza colpevoli. La sanzione doveva tener conto delle loro capacità tecniche nel picchiare (poiché iscritti, saggiamente, ad una palestra di arti marziali in cui poter scaricare le loro energie in eccesso e pulsioni), come affermava un collega, e la loro pericolosità sociale, come affermava il docente di religione che non avrebbe nemmeno dovuto intervenire visto che i due soggetti di certo non praticavano la religione cristiana.
Quindi: SOSPENSIONE! Di più giorni, con il solo mio voto contrario e due astenuti (anche se non avrebbero potuto farlo; cosa che invalidò poi il tutto agli occhi del preside, talvolta più saggio dei docenti).

Avrei potuto intitolare questo testo: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Mentre anche gli allievi di cui ho parlato potrebbero essere soltanto proiezioni letterarie della mia pluridecennale esperienza di insegnante, ma l’importante, per me, è cercare di sintetizzare il problema reale di tanti giovani immigrati o figli di immigrati: la perdita dell’identità, sostituita da una identità mitica, nazionalista anche là dove la nazione non c’è o non può ancora esserci. Un’identità che accetta una religione per rifiutarne un’altra, in un contesto in cui la cultura e la democrazia occidentale moderna, che dovrebbero affondare le loro radici nel pensiero illuminista e nella pratica egualitaria, hanno abdicato ai propri compiti tornando ad evocare i peggiori fantasmi nazionalisti, razzisti e fascisti, rischiando così di vederseli ritorcere contro dai nuovi enragés delle periferie meropolitane.

Per cui, proprio come Primo Levi, nel continuare il mio lavoro sarò felice se saprò che anche uno solo dei miei nuovi studenti “avrà compreso quanto è rischiosa la strada che parte dal fanatismo nazionalistico e dalla rinuncia alla ragione”. 3 E sarà messo nella condizione di comprendere autonomamente che tutti questi odi, manipolati ad arte, non sono altro che un modo per nascondere la contraddizione principale: quella tra le classi e tra capitale e specie umana.


  1. Maria Luisa Giribaldi e Rose Marie Sardi, Bele sì. Ebrei ad Asti, Editrice Morcelliana  

  2. Vorrei qui ricordare che i Vespri siciliani del 1282 finirono piuttosto male per gli angioini e che tale rivolta popolare sanguinosissima esplose proprio a partire dal tentativo di un soldato francese di strappare il velo dal volto di una donna palermitana (proprio come ricorda anche Michele Amari nel suo Racconto popolare del Vespro siciliano, Sellerio 1982)  

  3. Primo Levi, Prefazione del 1972 ai giovani in Se questo è un uomo, Einaudi, pag.7  

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