streghe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Isabel in Wonderland (Piccole stregherie 1) https://www.carmillaonline.com/2025/06/14/isabel-in-wonderland-piccole-stregherie-1/ Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88796 di Franco Pezzini

John Williams Brodie-Innes, L’amante del Diavolo, trad. dall’inglese di Bianca Ferri, nota di Adriano Ercolani, pp. 400, € 17, Venexia, Roma 2025.

La narrativa sulle streghe interessa spesso più per il fascino dei dati antropologici che per le qualità letterarie o la suggestioni di trama – i copioni tendono spesso a riproporsi senza grosse sorprese a base di cattivi inquisitori e confessioni febbricitanti, pathos romantici e melodrammi, orrende detenzioni e supplizi finali. Non è questo il caso, fortunatamente, di un romanzo di più di un secolo fa che rappresenta a suo modo un classico e riesce a inanellare [...]]]> di Franco Pezzini

John Williams Brodie-Innes, L’amante del Diavolo, trad. dall’inglese di Bianca Ferri, nota di Adriano Ercolani, pp. 400, € 17, Venexia, Roma 2025.

La narrativa sulle streghe interessa spesso più per il fascino dei dati antropologici che per le qualità letterarie o la suggestioni di trama – i copioni tendono spesso a riproporsi senza grosse sorprese a base di cattivi inquisitori e confessioni febbricitanti, pathos romantici e melodrammi, orrende detenzioni e supplizi finali. Non è questo il caso, fortunatamente, di un romanzo di più di un secolo fa che rappresenta a suo modo un classico e riesce a inanellare colpi di scena e suggestioni inattese con un’abilità ancor oggi apprezzabile. Etichettare The Devil’s Mistress (1915) quale romanzo dell’orrore – come spesso viene indicato nel tamtam internet – suona improprio: certamente è un godibile romanzo gotico aperto al sovrannaturale, capace di temperare psicologie e dati culturali in un modo assai meno ovvio di quanto ci si potrebbe attendere.

Partiamo dall’autore, una figura interessante dell’alta marea occultistica tra Otto e Novecento. John William Brodie-Innes (1848-1923), avvocato e bibliofilo – è membro e poi presidente della Sette of Odde Volumes di Londra – nonché figlio di un amico personale di Charles Darwin, spicca tra gli esponenti di alto livello della leggendaria Golden Dawn, l’Ordine magico più celebre dell’Occidente moderno: resterà legato in particolare al tempio di Amen-Ra a Edimburgo, sua sezione scozzese fondata nel 1893, al tempo in cui l’Ordine andava alla grande.

La Golden Dawn esploderà malamente nel 1900, per una serie di concause tra cui spiccano lo sgomitare di un iniziato un po’ particolare, Aleister Crowley, e l’autoritarismo del Grande Capo Mathers, a quel punto resosi indigeribile ai confratelli della sede centrale londinese: il frantumarsi dell’esperienza tra gruppi diversi e l’abbandono della magia da parte di una porzione consistente di adepti – in direzione di una mistica cristiana paludata di estetismi medievaleggianti – segna la fine dell’epoca d’oro. Brodie-Innes, inizialmente coinvolto a tenere insieme i cocci dell’Ordine durante la ribellione, tornerà a rappacificarsi con Mathers; ma insieme si dedicherà alla scrittura sui temi che gli sono cari, e The Devil’s Mistress ne è l’esito più celebrato. Bello dunque che sia stato proposto in italiano.

L’autore è di origini scozzesi, e sulla vicenda – un caso molto particolare di stregoneria contestato nel 1662, che combina credenze demoniache e storie di fate e fa discutere gli antropologi ancor oggi – oltre a consultare documentazioni storiche sostiene di attingere ad autentici ricordi di famiglia.

Protagonista assoluta, simpatica e seducente della vicenda è Isabel Goudie – come l’autore riporta il nome, variamente trascritto (spesso Isobel Gowdie, qualche volta Gaudie – nella Scozia del tempo le donne non assumevano oltretutto il cognome del marito): una figura di cui storicamente sappiamo poco, a lasciar libera mano al narratore, ma che ha offerto una dettagliata testimonianza (in apparenza senza il ricorso a torture) sulle attività e la condizione personale di una strega. Le sue quattro confessioni rilasciate in sei settimane – e pubblicate per la prima volta nel 1833 – offriranno a quel punto ampio materiale non solo a Margaret Murray per le sue criticatissime tesi sul culto delle streghe, ma a letterati, drammaturghi, musicisti, ad attribuire a Isabel una statura paradigmatica che lei probabilmente mai avrebbe immaginato, neppure nelle sue più febbricitanti fantasie. Il tutto con le affascinanti promesse di una storia aperta, visto che a dispetto delle scelte narrative non siamo neppure certi che Isabel sia stata alla fine effettivamente giustiziata – il che pure resta probabile. Consideriamo il peso delle storie streghesche nella terra di Macbeth (qui lo sfondo è appunto quello delle Highland), dove da più di un secolo legislazione e attenzioni istituzionali – si citi solo il re demonologo Giacomo – sono particolarmente occhiute sul tema. E anche l’opposizione degli occupanti inglesi alle antiche storie dell’età papista gioca il suo ruolo.

Il contesto è drammatico. Crisi agricola da cattivo tempo tra 1649 e 1653; crisi delle agenzie istituzionali con esecuzione di Carlo I nel 1649, quando dilaga una nuova ondata di caccia alle streghe; nuovo scossone con Carlo II dichiarato re di Scozia nel 1660; Grande Caccia alle streghe scozzesi del 1661-62, ultima ma più virulenta ondata di persecuzioni nel paese. Se da altri punti di vista l’attenuarsi del rigore puritano con la Restaurazione apre in Gran Bretagna a splendori e licenze, non è questo che accade in Scozia. E appunto nel 1662 ecco la vicenda di Isabel.

Che la donna soffra di ergotismo (con allucinazioni tipicamente associate a fantasie streghesche) o che la sua immaginazione strabordi fino a esiti che lasciano perplessi – e conducono piuttosto all’orizzonte ellittico e sfuggente di storie notturne alla Ginzburg, fitte di miti sepolti e memorie rimosse – resta la sensazione di un’affabulatrice dalla visionarietà rutilante, ancorché illetterata. Brodie-Innes sovviene creativamente ai dubbi, ma con scelte intelligenti che lasciano una certa libertà all’immaginazione dei lettori. Con un passo sornione qui e là evidente (come a suggerire al lettore di interpretare correttamente i dati al di là del loro tenore letterale), fa dunque di Isabel “la figlia di un avvocato di campagna […] straordinariamente ben educata per la sua classe sociale”, di famiglia in origine cattolica e rimasta “fedele ad alcuni dei loro vecchi rituali”: una donna di bell’aspetto frustrata dal matrimonio con uno zotico e taccagno bacchettone – impalmato per pendenze economiche del padre di lei –, socialmente isolata e disperatamente bisognosa di reinventarsi l’esistenza. Fino a farle considerare attraente il corrispettivo seicentesco dell’ultimo incontro sui social. Che in effetti le spalanca un mondo…

Questa parte è forse la più bella del romanzo: la pressione psicologica e ambientale su una donna ancora giovane deprivata di ogni tipo di sogno permette di intercettare le lusinghe da lei ravvisate, le speranze legate a un incontro sulla strada, i piccoli passi per riempire di possibilità gesti in fondo banali. Incontra il diavolo? probabilmente sì (lei stessa resta a lungo dubbiosa), ma potrebbe essere chiunque, un tipo gentile in grado di farla fantasticare a prezzo contenuto, di farla sentire non solo amata ma prediletta, di donarle eccitazione ed estasi, di farla mangiare bere amoreggiare e sognare vendetta contro chi l’ha umiliata… Di farcire magari di materiali fantasmagorici il suo delirio ergotico e proiettare sui resti di un cattolicesimo della sua infanzia inaudite latitudini magiche. Di lì le scorribande – indubbiamente sciamaniche – con l’allegra compagnia del diavolo; di lì la crisi, per lei in fondo non cattiva, che la conduce a usare magie diaboliche per salvare vite e amori altrui. Resta persino, per un periodo, ospite delle fate… e non si dice di più per non spoilerare troppo. Merita solo notare che la fine di lei, appena accennata tra le righe ma non vi assistiamo, sembra in fondo l’ultima tentata evasione da un asfittico orizzonte sociale: a concedere a Isabel Goudie, almeno in conclusione, di smarcarsi da un mondo di uomini (non importa, alla fine, quanto buoni) che hanno fatto di tutto, sempre, per chiuderla in qualche gabbia.

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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Suspiria e il chiodo di Cechov https://www.carmillaonline.com/2019/01/19/suspiria-e-il-chiodo-di-cechov/ Fri, 18 Jan 2019 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50638 di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, [...]]]> di Walter Catalano

Si attribuisce a Čechov, che di drammaturgia un poco se ne intendeva, un consiglio forse banale ma molto utile per ogni narratore: se all’inizio della storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo. Sembrerebbe evidente, dopo la faticosa visione del suo ultimo film Suspiria, che Luca Guadagnino non abbia mai letto Čechov.

Sull’onda dei recenti successi il regista siculo-britanno ha mirato in alto. Voler riscrivere Suspiria, non solo farne un semplice remake, è un po’ come voler riscrivere Casablanca o Mary Poppins: non si tratta necessariamente d’intoccabili capolavori, ma di film che hanno saputo fondare e definire un immaginario. Confrontarsi con simili opere è un’intenzione che richiede cautela, specialmente se si accarezza la velleità di trasformare Casablanca in La passione di Giovanna D’Arco e Mary Poppins in Il Settimo sigillo.

Argento, da onesto artiere senza velleità intellettuali, poteva ampiamente permettersi – almeno prima del suo precoce rincoglionimento, ci si perdoni l’irriverenza – di ignorare le lezioni del grande scrittore russo: il suo Suspiria non è niente di più e niente di meno di una psichedelica icona pop-gotica che ha turbato i sonni di generazioni intere. Qui la visione scavalca la scrittura, lo spasmo viscerale calpesta il guizzo cognitivo, la fantasmagoria sommerge la citazione erudita. Argento non ha affatto bisogno di Čechov, cioè della cultura, della costruzione rigorosa e razionale, della drammaturgia coerente. Invece l’iconoclasta incauto che osi infrangere il feticcio, che voglia coltivarne l’ambiziosa metamorfosi da puro incubo, miasma dell’inconscio, ad allegoria esistenziale, da trance de viande a trance de vie, allora sì che ne ha un bisogno assoluto: il passaggio da lodevole intenzione a compiuta realizzazione si bilancia come un fachiro sui chiodi di Čechov.

Guadagnino, palesemente più a suo agio con Melissa P. o con fanciulli gay altoborghesi che con le streghe, crede che l’efficacia dell’indigesto minestrone di Macbeth sia data non dalla qualità e dal dosaggio ma dall’accumulo degli ingredienti da rimestare nel calderone, e per la court-bouillon – non esattamente corta dal momento che impiega ben 2 ore e 32 minuti per riapparecchiare un film di 1 ora e 40 minuti – del classico argentiano, pensa bene di ammannire l’immaginario visuale di almeno tre tipologie filmiche diverse: il docu-drama fassbinderiano alla Deutschland im Herbst, con autentici ma posticci spezzoni televisivi sulla cronaca della lotta armata nella Germania degli anni ’70 culminanti nell’eccidio di Stammheim; il dance film, pieno di efebiche fanciulle piroettanti, in equilibrio fra Scarpette rosse e Flashdance; e ovviamente l’horror, indeciso fra il visionario-surrealista (gli incubi della protagonista), lo splatter-gore e il kitsch incondizionato (la ridicola tregenda da pretesa Walpurgisnacht finale). Tre film in uno: nessuno dei tre compiuto, nessuno dei tre omogeneo, nessuno in sintonia con gli altri due.

La bomboniera barocca e pop della Friburgo immaginata da Argento cede il passo alla Welthauptstadt degli slavati scenari berlinesi in stile Checkpoint Charlie, perfettamente in linea con la fotografia noir di Netflix (o Amazon, che è lo stesso), sempre uguale di film in film; i tanto criticati flat characters argentiani, piatti sì ma anche archetipici come nelle fiabe – dove bastano le streghe, per l’appunto, e le vittime delle streghe – prendono corpo nella forzata intellettualizzazione pseudo-realistica di Guadagnino, come vecchi psicanalisti post-Shoah, enigmatiche insegnanti di danza (incarnati entrambi dalla bravissima Tilda Swinton, nel primo caso en travesti, unica perla nell’ostrica avariata di questo film) o giovani danzatrici ribelli divenute fiancheggiatrici della Rote Armee Fraktion: non più archetipi ma stereotipi, ugualmente flat e soprattutto pretestuosi, irrisolti e scontati.

La cosa che più irrita di questo film è la pretenziosità e l’inconsistenza: il cinema italiano che si fa notare all’estero deve essere, evidentemente, pretenzioso e inconsistente. Luca Guadagnino ricorda fin troppo, nella perizia tecnica che non significa necessariamente stile come nel manierismo autoreferenziale, un altro recente premio Oscar italico: Paolo Sorrentino. Le tematiche scelte e il modo di narrarle da parte di entrambi i pluripremiati cineasti, sembrano dovere molto di più ai Big Data dell’algoritmo con cui Netflix e le grandi compagnie di produzione e distribuzione audiovisiva costruiscono a tavolino i loro show, che all’antiquata teoria romantica del Genio. Ma Stranger Things, con tutti i suoi limiti, è un prodotto quasi universalmente efficace perché esplicitamente dichiarato e venduto come tale: non siamo sicuri di poter dire altrettanto delle opere stucchevolmente “artistiche” dei succitati autori (con tutta la buona volontà di applicare alla lettera il masochistico “volontarismo dell’amore” della baziniana Politique des Auteurs).

Meno conformisti di noi però – che mai diremmo male di un artista di moda – gli americani hanno invece saputo trattare il nuovo Suspiria come merita: inserito nella classifica dei 10 peggiori film del 2018 da The Hollywood Reporter, è stato così commentato dal New York Magazine: «Due ore e mezza di streghe così logorroiche che Hänsel e Gretel si sarebbero gettati loro nel forno, pur di non starle più a sentire», mentre il New Yorker lo ha definito : «Un debole e sordido “holocaust kitsch” con un’eleganza da fanatico e la consistenza politica di una maglietta del Che». Nessun italiano ha osato tanto.

Per quanto riguarda chi scrive, che non partiva affatto prevenuto ma anzi incuriosito e addirittura ben disposto, la delusione, la noia e l’irritazione sono state forti. In un Suspiria che sia Suspiria (un possibile Suspiria degli infiniti presenti nella Cineteca di Babele), le streghe dovrebbero fare paura e non ciabattare di qua e di là come perpetue affollando la loro congrega come una riunione di condominio (e comunque alle riunioni condominiali di solito nessuno si taglia la gola all’improvviso come inesplicabilmente vediamo fare ad una delle signore presenti: l’evento non è perturbante, semplicemente incongruo); se oltre alle streghe ci si permette di tirare di mezzo il terrorismo, la Banda Baader Meinhof, il bleierne Zeit, e la strage di Stammheim, allora si presume che il testo vada letto in relazione al contesto (diventi anche politico, quindi) e che questo non sia solo pretesto: streghe e terroristi dovrebbero quindi entrare in contiguità metaforica e non solo circostanziale; se poi si insiste sulla provenienza della protagonista, la giovane ballerina americana interpretata da Dakota Johnson, da una famiglia Amish – e non Davidiana o Avventista del settimo giorno, o cattolica o ebrea – si ha ragione di cercare il motivo della scelta in qualcosa di più del possibile omaggio a Witness e a Peter Weir; infine che relazione si dovrebbe cercare fra danza e stregoneria e quale fra allieva e maestra: i saltelli faticosi dell’apprendista la cui elevazione è aumentata dall’insegnante Madame Blanc vampirizzando a vantaggio della giovane pupilla l’energia di un’altra danzatrice che collassa poco dopo, sono un segno ambiguo entro un sistema il cui contenuto ci sfugge; se il fondamento della vicenda è il passaggio di poteri cruento fra le Madri (Suspiriorum, pare, ma c’è una certa confusione), perché questo rinnovamento si snoda proprio intorno a un ballet e perché questo s’intitola proprio Volk ? Infine, se si vuole conferire centralità al personaggio dello psicanalista (che era poco più di una comparsa in Argento), perché il suo rapporto con quasi tutti gli altri protagonisti resta periferico fino alla fine del film, tanto da rendere ancora più immotivata l’apparizione, fittizia e indotta dalle streghe, della di lui moglie, dispersa nei campi di concentramento: un occasionale pretesto per evocare l’Olocausto (che fa sempre engagement) e per fornire un ruolo cameo a Jessica Harper, protagonista del vecchio Suspiria ? Troppi chiodi, nessun impiccato – direbbe Čechov.

Già la scena d’esordio stona: l’improbabile seduta analitica della ballerina “ribelle” che vorrebbe denunciare le streghe all’anziano terapeuta, il dott. Klemperer (Tilda Swinton irriconoscibile: anche questa scelta opinabile; tre ruoli di cui uno maschile a Tilda – per quale necessità a parte lusingare la giusta vanità dell’attrice ?), sembra una corsa a ostacoli, la ragazza si muove continuamente, si alza, si siede, passa da una stanza all’altra, raccoglie e depone oggetti (tra cui un testo junghiano, tanto per gradire), e intanto parla delle streghe (senza che ci si capisca nulla). L’analista, invece di sbatterla fuori a calci nel sederino, la sta a sentire pazientemente e, a quanto si evince dal seguito, qualcosa capisce (beato lui), mentre continua a tallonarla con fatica nelle sue deambulazioni, finchè lei non imbuca la porta d’uscita e se ne va. Un inizio più farraginoso non si poteva trovare.

Altre scene in verità sono efficaci, almeno se prese singolarmente. Una in particolare funziona davvero, quella in cui ogni movimento brusco della danza che la nuova venuta americana, sta provando in palestra produce una frattura sul corpo della collega cui ha sottratto il ruolo principale e che, in lacrime per la delusione, cerca di abbandonare la congrega: rinchiusa in una sala a specchi mentre le ossa le si frantumano pezzo a pezzo, la poveretta sbava e si orina addosso ridotta ad un tronco adunco e contorto. Meglio di Argento, ma è finita lì. Non ci sarà più niente di splatter (a parte l’immotivato autosgozzamento di cui si è già detto), non ci sarà alcuna atmosfera terrorizzante o misteriosa dal momento che le streghe sono spiattellate come tali fin dall’inizio (la prima riunione condominiale) – lo straniamento dato dall’accostare arcano e quotidiano, come ad esempio Polansky fece magistralmente in Rosemary’s Baby, è del tutto fuori dalle corde di Guadagnino. Invano si attenderanno sviluppi che mettano in relazione stregoneria e terrorismo giustificando finalmente la ridondanza dell’ambientazione, invano si cercheranno chiarificazioni sulle motivazioni e le relazioni tra i personaggi.

Si arriva così, dopo una masturbazione lunga due ore e mezza e scandita in sei inutili atti con tanto di titolo, al deludente e goffo finale: l’apparizione di Madame Marcos (ancora Tilda coperta di protesi in lattice): una scena che era il climax del film di Argento, e che qui non ha alcuna rilevanza perché in realtà di Helena Marcos quasi non si è mai parlato nel corso del film ed è perfettamente inutile tirarla fuori dell’armadio proprio ora. Ecco che Marcos decolla o quasi la rivale Blanc; poi Susie Bannon, l’allieva americana – in realtà, ma che sorpresa, è lei la legittima Mater Suspiriorum – trucida la Marcos mentre una sarabanda di ballerine nude saltella in giro e Susie si apre un buco sanguinolento fra le costole; poi una specie di Mostro della Laguna Nera, che dovrebbe rappresentare la Morte o il Diavolo o chissà cosa, compare sulla scena come il Commendatore nel Don Giovanni: alcuni muoiono, altri resuscitano, mentre le ballerine si accasciano, sempre dimenando tettine e chiappette in bella vista; lo psicanalista Klemperer, rapito presumibilmente per essere sacrificato, viene invece risparmiato (perché ?). Game over. Qualche giorno dopo Susie appare in camera dello psicanalista e gli spiega prolissamente le circostanze della morte della moglie in un lager nazista, poi gli dona l’oblio di tutto quanto (i lager bisognerebbe ricordarli per sempre invece, non dimenticarli: definire la morale di Guadagnino pericolosamente ambigua è dir poco…). Nella casetta di campagna dei Klemperer frattanto si trasferisce una giovane famiglia. Dettaglio su un cuore inciso sulla traversa della porta all’interno del quale forse – la mia attenzione da tempo è un po’ caduta e non sono del tutto sicuro – si leggono le iniziali presumibilmente dello psicanalista e della moglie. Dissolvenza. Fine.

All’ingiustificata gratuità della sceneggiatura corrisponde pienamente l’insussistenza della tanto decantata colonna sonora di Thom Yorke, leader del sopravvalutato gruppo rock dei Radiohead. Il film ha un soundtrack, o così dovrebbe essere, ma non ce ne accorgiamo, è come se non ci fosse. Se l’intenzione era fare il contrario dei Goblin ci si è riusciti perfettamente, ma i Goblin però si sentivano eccome ! Anche la musica dunque delude quanto tutto il resto e alla fine, se vogliamo proprio salvare qualcosa, restano solo le prove attoriali, della Swinton in particolare, perché tutti gli altri non spiccano particolarmente. L’algoritmo di Netflix evidentemente ha fallito; ha indicato ad autore e produttori una serie di parametri per aggiornare un vecchio film come un architetto scalcagnato rimodernerebbe un loft: Berlino (città di moda); Anni di piombo e Olocausto (riferimenti fighi); Radiohead (gruppo di moda); Tilda Swinton (attrice di moda meglio se multiruolo come Peter Sellers, altro riferimento figo); ballerine (meglio se nude); splatter (non troppo); e così via. Ma sembrare fighetti non basta. Il vero problema era tenere tutto insieme. Un chiodo dopo l’altro.

Se c’è un chiodo, a quel chiodo qualcuno si deve impiccare” – ecco prorompere minaccioso come Nemesi il povero Čechov, sovrapponendosi ai titoli di coda. Così ai troppi chiodi del Suspiria di Guadagnino chi finisce per impiccarsi è lo spettatore.

 

 

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Racconti orribilissimi dal Satyricon https://www.carmillaonline.com/2016/11/08/racconti-orribilissimi-dal-satyricon/ Tue, 08 Nov 2016 22:08:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34481 di Franco Pezzini

locandina_satyricon_jpg[Si propone qui un brano dai testi di Satyricon. L’odissea di Encolpio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. La scena è quella del famoso banchetto di Trimalchione, dove a un certo punto vengono narrate due storie di argomento fantastico. Per la traduzione utilizzo quella di Andrea Aragosti, dell’edizione Bur 2009.]

Trimalchione si rivolge all’amico Nicerote che sta troppo zitto, chiedendo di narrare una storia che gli è capitata: e costui, messe le mani avanti sul timore che [...]]]> di Franco Pezzini

locandina_satyricon_jpg[Si propone qui un brano dai testi di Satyricon. L’odissea di Encolpio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. La scena è quella del famoso banchetto di Trimalchione, dove a un certo punto vengono narrate due storie di argomento fantastico. Per la traduzione utilizzo quella di Andrea Aragosti, dell’edizione Bur 2009.]

Trimalchione si rivolge all’amico Nicerote che sta troppo zitto, chiedendo di narrare una storia che gli è capitata: e costui, messe le mani avanti sul timore che gli intellettuali a tavola ridano di lui – ma, a ben pensarci, che je frega? – “tali parole proferite” (secondo la formula di Virgilio ironicamente richiamata) inizia il racconto.
Anche lui è un ex-schiavo, e la vicenda risale a prima della sua liberazione. A quel tempo gli piaceva la donna dell’oste Terenzio, tale Melissa di Taranto, “magnifica lardona” che però lui corteggiava soprattutto – bontà sua – “perché era perbene” e gli gestiva i soldi con onestà. Schiattato il partner di lei mentre era in campagna, lo schiavo Nicerote fa di tutto per non lasciarla sola in quel momento critico: e profittando dell’assenza del padrone a Capua per affari, si fa accompagnare da un ospite della casa – “un soldato, forte come un orco” – per un pezzo di strada. Partono “verso l’ora del canto dei galli, la luna splendeva che sembrava il sole di mezzogiorno” (plausibilmente il plenilunio), e a un certo punto arrivano in mezzo a un cimitero.

“[…] il mio uomo si mette a farla in mezzo alle pietre tombali; io tiro in lungo canticchiando e conto le steli. Poi, come rivolsi lo sguardo al mio accompagnatore, quello si svestì e depose tutti i suoi indumenti sul ciglio della strada. Non avevo più una goccia di sangue nelle vene e ero stecchito come se fossi morto. Lui invece si mise a pisciare torno torno ai suoi vestiti e d’un tratto diventò lupo. Non crediate che io scherzi; non direi una balla per tutto l’oro del mondo. Ma, come avevo principiato a dire, dopo che diventò lupo, cominciò a ululare e fuggì nel bosco. Io, sulle prime, non mi raccapezzavo su dove fossi, poi mi accostai per raccogliere i suoi vestiti: ma quelli erano diventati di pietra. Io sono morto di paura come nessun altro. Ciò nonostante impugnai la spada e zac zac tirai fendenti alle ombre, finché non arrivai alla cascina della mia amica”.

Quando però vi mette piede Nicerote è l’ombra di se stesso, sudato da grondare e con gli occhi sbarrati, e per poco non gli viene un coccolone: e solo quando si è un po’ ripreso, Melissa, stupita di quel suo girarsene in piena notte, commenta che ad arrivare prima, beh, avrebbe dato loro una mano. Un lupo infatti ha sterminato le pecore, prima che uno degli schiavi riuscisse a piantargli una lancia tra capo e collo… Spaventatissimo, Nicerote attende la luce per tornare di corsa dal padrone “come l’oste ripulito”, riferimento che allude alla favola Fur e Caupo di Esopo: lì un oste si vede sottratta la tunica nuova da un ospite che lo spaventa fingendo appunto di essere licantropo.
Ripassando però presso il cimitero, i vestiti pietrificati del soldato non ci sono più, solo tracce di sangue: e quando rientra a casa trova l’uomo a letto, col dottore gli medica il collo. Con quel tipo lì, che è evidentemente un lupo mannaro, Nicerote preferisce poi non avere più contatti. E la gente di quella storia pensi ciò che vuole…
Il racconto costituisce la prima testimonianza occidentale di licantropia come mutazione involontaria (cioè non collegata con rituali metamorfici come in Bucoliche VIII, 95-99); e se qualcuno ne relativizza il valore documentale per l’evidente carattere di intrattenimento, in realtà si basa comunque su tutto un patrimonio di storie folkloriche (come quelle che Plinio, St. nat. VIII 80, derubrica a menzogne “a meno di prendere per buone tutte le favole dei secoli passati”) ed elementi rituali. A partire da un contesto fortemente evocativo di quel tema morte che corre ossessivamente nel Satyricon: l’evento è innescato dal decesso del partner della “magnifica lardona” Melissa, spingendo il narratore ad addentrarsi nella notte; la scena coinvolge un soldato “forte come un orco” (“fortis tanquam Orcus”), similitudine dall’eco infera, e avviene sotto una luna “che sembrava il sole di mezzogiorno”, cioè non solo piena ma in apparenza relativa a un altro ordine di tempo ed esistenza, un notturno mezzogiorno dei morti; il tutto si consuma tra le tombe. Ma la morte può avere anche connotazioni rituali, legate a un rito di passaggio: il soldato si spoglia per assumere l’altra identità; tutto attorno agli abiti orina in cerchio come una bestia che segni il territorio (si noti che aveva già liberato la vescica almeno in parte), a innescare una duplice funzione magica. Da un lato infatti le vesti divengono di pietra, cioè simili alle stele tombali – qualcosa che sul piano pratico permette di ritrovarle (conditio sine qua non del tornare uomo, in certe tradizioni, e sembra alludervi lo stesso testo di Esopo), ma insieme le ascrive al contesto di morte. D’altro canto le tradizioni su metamorfosi in lupo citano spesso la traversata di un corso d’acqua quale momento del passaggio/frontiera tra identità diverse: qui in luogo dell’acqua c’è l’orina di demarcazione. Quanto al motivo folklorico della ferita riportata dal lupo che permetterebbe di identificarlo in un uomo similmente vulnerato, tornerà con valore probatorio a distanza di secoli in vari processi a lupi mannari.
Del resto il lupo, associato dalla tradizione indoeuropea all’aspetto magico e terrifico della sovranità (nel contesto latino Romolo, figlio della lupa, circondato dalla scatenata schiera dei lupi-capri Luperci), viene spesso accostato a divinità non solo della guerra (per esempio il Marte padre di Romolo) ma della morte (gli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, col capo coperto da una pelle di lupo). In un testo che di richiami alla predazione e insieme alla morte sembra tutto intessuto il lupo è insomma di casa; e a fronte della documentata esistenza in varie parti del mondo di società cultuali del furore guerriero improntato a un’idea di metamorfismo licantropico (in senso ampio – guerrieri-orsi eccetera – o invece specifico lupesco), non pare strano che qui a metamorfizzare sia un soldato.
La stessa partenza “verso l’ora del canto dei galli” in un’ora incerta tra notte e alba richiama a un’intera nebulosa simbolica. Alla scelta infatti di identificare il dio lupo/sterminatore di lupi in Apollo Febo, cioè lo Splendente, non è probabilmente estranea l’associazione onomastica tra lukos/“lupo” e leukos/“luce”: un’affinità dal significato non chiarissimo ai filologi e che interessa il più vasto bacino delle lingue indoeuropee. Ma gli intrecci simbolici tra lucis diurna e lupus che col suo ululato ne marcherebbe i limiti – alba e crepuscolo – rimanda a suggestioni così antiche e diffuse da far pensare a un’origine preistorica.
Nicerote conclude “Intellexi illum versipellem esse”. Com’è noto, l’italiano “lupo mannaro” viene dal latino tardo lupus hominarius, cioè “lupo mangiatore di uomini” oppure “lupo simile all’uomo”; in modo analogo si sono formati l’inglese wer(e)wolf, dove wer sta per “uomo” (latino vir), il tedesco werwolf, il francese loup-garou (con garou per wer, oppure tautologicamente per garwolf – che già significherebbe “uomo-lupo”) e l’antico francese warouls, warous, vairout, varivals. Ma il termine usato da Petronio e in generale dagli autori latini è versipellis (da qui vertit pellem, “che muta / rivolta la pelle”) in base all’idea che il pelo del lupo mannaro cresca verso l’interno del corpo; e all’associazione “lupo – pelle / pelliccia” rimandano l’antico slavo vlŭkodlakŭ, lo sloveno volkodlak, il polacco wilkolak, il russo volkolak, e il bulgaro vŭlkolak.
Come sappiamo, la credenza nella possibilità che l’uomo si muti in forma animale (e particolarmente in fiere) è pressoché universale: ma nell’esperienza occidentale è il lupo a far da mattatore, fin da un passato antichissimo. E in effetti l’episodio sembra avere valore più ampio in un romanzo dove nella sola, esigua parte conservata appaiono un personaggio, Ascilto, che frusta come un Luperco, un Lica (che figurerà nel prosieguo dell’opera) e il rimando a un Licurgo (presente nella parte iniziale perduta) con radici onomastiche che evocano il lukos/“lupo”, e una suggestione cannibalica nell’ultima parte che richiama al mito di Licaone e all’idea di un intero popolo metamorfizzato in lupi. Il genere umano, nel Satyricon, mostra senza pudore le proprie propensioni predatorie.
Comunque il racconto ha suscitato sensazione, e Trimalchione avalla la serietà di Nicerote. Aggiungendo che anche lui ha da raccontare “una storia raccapricciante: è come quella dell’asino sul tetto” – un modo un po’ buffo di evocare situazioni che raggelano per la loro alterità. Ma è suggestivo pensare che Apuleio, per le avventure dell’asinificato Lucio, abbia presente non solo genericamente il Satyricon ma il brano come qui introdotto – e di cui in effetti offrirà un controcanto.
Come Trimalchione narra nel suo modo colorito, lui era ancora uno schiavetto quando se n’era morto il favorito del padrone, “un gioiello, un cocchino, e pieno di numeri”. La madre piange, tutti sono riuniti per la veglia funebre: ed ecco “d’un tratto le streghe attaccarono a stridere: pareva il cane quando insegue la lepre”. In realtà nel Codex Traguriensis attraverso il quale conosciamo la Cena Trimalchionis si dice soltanto “strigae coeperunt”, “le streghe iniziarono”: la frequente lettura integrativa “stridere strigae coeperunt”, che evoca il verso caratteristico alla base del nome strix, fa a pugni con la similitudine del “cane quando insegue la lepre” – che sembra piuttosto richiamare l’ansimare del segugio da caccia o forse il lamento della lepre. Notiamo comunque la continuità con il racconto precedente sia nel vago sottotesto erotico – prima l’amante Melissa, qui il favorito del padrone – sia nel fatto che anche le streghe sono versipelles, mutanti, cioè donne capaci di rendersi invisibili e soprattutto trasformarsi in animali. Anche se Ovidio nei Fasti (VI 131-168, col racconto del piccolo Proca futuro re di Alba) appare incerto sulla natura originale di questi volatili inferi affini alle Arpie, donne mutanti oppure uccelli demoniaci, nell’imbarazzo di conciliare l’immaginario sugli arcaicissimi demoni femminili responsabili delle morti in culla con il folklore sulle streghe umane.
Con la famiglia c’è un cappadoce gigantesco, fortissimo (nuovo elemento di continuità col racconto precedente, là il soldato “fortis tanquam Orcus”), che si lancia fuori ad affrontarle spada alla mano (ancora continuità col precedente, un attacco contro il mondo invisibile, come quando Nicerote tirava fendenti alle ombre)

“[…] e infilza una di quelle da parte a parte, grossomodo a quest’altezza – sia salvo quel che tocco [ancora continuità, la creatura sovrannaturale ferita ma, scopriremo, senza che ciò impedisca danni gravi]. Noi sentimmo un mugolio ma loro – vi assicuro che sto dicendo la verità – non le vediamo. Allora il nostro gigante, rientrato in casa, si buttò sul letto ed aveva dei lividi lungo tutto il corpo, come se avesse preso delle frustate, perché era chiaro che lo aveva toccato una mano stregata [chi è toccato dalle striges presenta un colorito malato, cfr. Ovidio]. Noi, chiusa la porta, riprendiamo di nuovo la veglia ma, nel momento in cui la madre fa per abbracciare il corpo di suo figlio, toccandolo si accorge che si tratta di un manichino di paglia. Non aveva il cuore, gli intestini, niente di niente: era chiaro che le streghe avevano ormai rubato il corpo del ragazzo e lo avevano sostituito con un fantoccio di paglia. Mi dispiace, ma dovete crederci: esistono delle femmine che la sanno lunga, creature della Notte, e quel che sta in su lo fanno andare in giù [l’espressione è generica e può riferirsi all’idea che le streghe possano tirare giù gli astri, ma finisce con l’evocare il tema che nel romanzo poi risulterà un tormentone, l’impotenza]. Per quanto riguarda l’omone gigantesco, dopo quest’avventura non riacquistò più il colore naturale della pelle e, anzi, dopo pochi giorni morì pazzo furioso [nuova continuità, i due omoni in silenzio per tutta la storia alla fine giacciono su un letto]”.

Il tema della veglia al morto funestata da creature sovrannaturali, divenuto con Petronio un topos letterario, rimanda in effetti a un passato molto arcaico, preistorico. Nel richiamarlo, Apuleio attribuirà alle streghe la capacità di trafugare a morsi parti del viso dei morti (un motivo che elabora il tema degli uccelli lugubri pasciuti di cadaveri), o magari di portarne via il quid utile ai riti facendo cadere le parti inservibili: dove la suggestione innesca una vicenda illusionistica e complessa attraverso un narratore equivoco. Ma sufficientemente inaffidabile è anche Trimalchione, al di là del tono in apparenza preoccupato – da inquadrare in un contesto di superstizione diffusa, vedremo i colliberti angosciati – che Petronio osserva con divertito distacco. Anche il tema morte, comunque, avvicina il racconto al precedente.
È poi interessante che in Petronio il tema delle predatrici di bambini e l’altro delle manducatrici di morti si incontrino nella veglia funebre al corpo di un giovanissimo. Se per Ovidio le strigi sono use a nutrirsi di visceri o sangue di neonati, o piuttosto a somministrare umori venefici, causando lividori o segni cutanei (quasi a prefigurare di lontano i segni sul petto o sul collo dei vampiri “moderni”), eccole qui – grazie a improvvida sortita e rientro del Cappadoce – strappare via verso il regno dei morti, sostituire l’intero corpo con un fantoccio: dove il tema perturbante del manichino sostitutivo si basa su idee molto diffuse in magia (il meccanismo similia similibus, l’uso di imagines) ed evoca brividi d’orrore.
Encolpio e gli altri sono “stupefatti e al contempo convinti da questo racconto” – qualcosa che può dirla lunga sulle loro capacità critiche, tanto più dopo aver apprezzato la credibilità di Trimalchione – per cui baciano la mensa e scongiurano “le creature della Notte di non farsi vedere” quando col buio usciranno di lì dopo la cena per vagare nel dedalo della città. Se la metafisica degli ex-schiavi gaudenti non arriva più in là dell’orizzonte del magico (a sanzionare anche qui d’ironia il successo sociale dei liberti nel nuovo ordine imperiale, che a grandi numeri vede una degradazione dell’orizzonte filosofico e in generale della cultura), i colti studenti come Encolpio non appaiono meno fragili e la morte esonda, infestando ormai il convito come la Red Death di Poe.

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American Horror (Hi)Story https://www.carmillaonline.com/2016/05/11/american-horror-history/ Wed, 11 May 2016 21:30:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29007 di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, [...]]]> di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, «benché contraffatto, l’elemento perturbante torna comunque a infestare la società, suggerendo che l’orrore e il terrore rappresentati potrebbero scaturire da noi, potrebbero parlare di noi» (p. 11).
Il gotico americano non avvalora di certo il mito dell’America come paese di speranza ed armonia e «se il gotico americano ha una sua caratteristica distintiva, forse è proprio quella di porsi come critica a tale mito nazionale, fondato sulla a-storicità e l’innocenza di un intero paese, su un immaginario di purezza ed eguaglianza» (p. 12). Si può dire, secondo l’autore, che il gotico americano recupera quella storia americana che è stata dimenticata o rimossa, dunque intende rendere visibile l’invisibile.

Il saggio di Federico Boni analizza la serie televisiva American Horror Story (dal 2011) individuando in questa una mappatura delle diverse declinazioni dell’American Gothic. Nel primo capitolo del volume l’autore contestualizza la serie all’interno dell’horror televisivo mettendo in luce tanto gli elementi di novità, quanto quelli di continuità, rispetto alla tradizione del gotico televisivo. Vengono dunque analizzati il rapporto tra il mezzo televisivo e la dimensione del perturbante, il panorama dell’horror television a partire dagli anni ’50 e gli aspetti produttivi della serie, come l’aver optato per una scansione antologica ma su base stagionale. Nel secondo capitolo vengono passati in rassegna gli spazi orrorifici che strutturano le diverse stagioni della serie (la casa stregata, il manicomio…) che rappresentano i luoghi ove si concentra l’immaginario perturbante del gotico americano. Si tratta di luoghi in cui si esercitano istanze di potere e, di conseguenza, gli spettri che abitano tali spazi possono essere identificati come “spettri del potere”. Infine, nel terzo capitolo vengono analizzate alcune tematiche affrontate dalla serie.

In American Horror Story ogni stagione ruota attorno ad un luogo specifico e questo è indicato sin dal titolo che identifica la stagione. La prima serie, Murder House (titolazione aggiunta a posteriori), ruota attorno alla casa stregata di Los Angeles ove si trasferisce la famiglia Harmon, la seconda, Asylum, è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Briarcliff, nei pressi di Boston, la terza stagione, Coven, è collocata a New Orleans, in particolare in una scuola per streghe, la quarta, Freak Show, si concentra attorno ad un circo itinerante americano nella Florida del 1952, proprio all’epoca della scomparsa di questo tipo di spettacoli. Al momento della stesura del saggio non era ancora stata trasmessa la quinta stagione, Hotel. Ad ognuno di questi luoghi l’autore associa un elemento caratterizzante del gotico: il fantasma (ritorno del rimosso) per l’haunted house, la violenza dell’istituzione totale per l’ospedale psichiatrico, la stregoneria e la caccia alle streghe per la scuola di New Orleans, l’orrore grottesco per le deformità dei corpi per il freak show e la rimozione dei traumi della storia statunitense per l’hotel della quinta stagione.

boni_american_horror_story_cover«La casa stregata della prima stagione di American Horror Story, appropriatamente ribattezzata Murder House, è la “casa stregata dell’America”, il deposito delle violenze e degli orrori di cui si è macchiata la sua storia» (p. 52). Se il gotico europeo, soprattutto inglese, ha scelto di far dimorare i fantasmi soprattutto in castelli, monasteri od antiche dimore, il gotico americano opta spesso per una casa. Dalla Casa degli Usher (1839) di Poe in poi, sostiene l’autore, la haunted house ha assunto un ruolo molto importante nell’immaginario americano. «Nell’immaginario costruito da Poe, Hawthorne e Thoreau prima, e poi da Faulkner, James, Fitzgerald e tutta la schiera di scrittori statunitensi contemporanei, la casa trasforma il sogno americano in un incubo. Un vero e proprio “incubo americano” […] la haunted house americana è davvero il ricettacolo dell’orrore dell’America» (p. 53). E la Murder House della prima serie è stata «edificata sui cadaveri dei nativi, dei neri portati dall’Africa, degli stessi coloni più deboli – quelli sfruttati, emarginati, annichiliti, fantasmizzati. E lo racconta a suo modo, in una ridda di riferimenti alla letteratura, al cinema, alla cultura “alta” e alla cultura pop, che non è puro gusto citazionistico e intertestuale, ma – questa è peraltro la tesi dell’intero volume – una mappatura barocca del topos della casa infestata nel gotico americano, delle sue retoriche narrative e discorsive; un’esplorazione dei sensi di colpa di una nazione seppelliti nelle fondamenta o nella cantina – ma anche nascosti in soffitta – di una casa che vive e si nutre di traumi e violenze del passato e del presente» (p. 54).
I fatti che accadono presso l’istituto psichiatrico di Briarcliff, nella seconda stagione, Asylum, secondo Federico Boni, ricordano le colpe della società americana che ha voluto rimuovere e reprimere coloro che non si sono adeguati ad un ordine sociale puritano, anche se “veri mostri” sono da ricercarsi, sottolinea l’autore, in quei meccanismi di potere che portano l’istituzione totale manicomiale a distinguere tra cittadini dotati di diritti ed esseri privi di essi.

In Coven, terza stagione di American Horror Story, si fronteggiano due tipi di streghe, quelle provenienti da Salem in Massachusetts, cittadina famosa per la caccia alle streghe di fine Seicento, con quelle vudù di derivazione afro-caraibica. A livello narrativo, soprattutto nella parte finale della stagione, lo stile sembra «votato all’eccesso e all’artificio, enfatizzato dagli interni della scuola, dell’elegante dimora di Madame LaLaurie e di altri spazi della New Orleans del presente e del passato, fa da contrappunto estetico a una serie di richiami ad alcuni degli episodi più dolorosi della storia degli Stati Uniti: la “caccia alle streghe”, e dunque la repressione femminile, e la schiavitù. Anzi, qui la stregoneria può essere vista come una vera e propria risposta ai soprusi del potere da parte di una società patriarcale e razzista» (p. 66).

La quarta stagione, Freak Show, ha come luogo privilegiato il circo popolato da corpi deformi e grotteschi. Nella sua analisi, Boni riprende gli studi di Laslie Fiedler (Freaks, Miti e immagini dell’io segreto) in cui viene descritto il passaggio da una lettura del freak come fenomeno divino ad una che vi individua malattie scientificamente definite. «La centralità del passaggio dal regime discorsivo teologico a quello teratologico (e infine, a quello clinico) in Freak Show è evidente sin dalla collocazione temporale delle vicende narrate. La quarta stagione […] è ambientata nella Florida del 1952, quando il “Cabinet of Curiosities” di Elsa Mars è uno degli ultimi freak show presenti nel paese […] i freak di Freak Show sono una razza in via di estinzione: sempre più individui affetti da malformazioni classificabili clinicamente, e sempre meno meravigliosi “scherzi della natura”. Siamo quindi nell’epoca del tramonto di questo tipo di spettacolo, soppiantato soprattutto da una nuova, temibile, concorrente: la televisione» (p. 76). Vale la pena sottolineare come la fine dei freak show coincida con l’avvento della televisione che, per certi versi, rende davvero obsolete tali forme di spettacolo ed al tempo stesso le assorbe all’interno del suo palinsesto quotidiano seppur in nuove forme.

I mostri che compaiono in American Horror Story, tanto quelli tipicamente americani, quanto quelli derivati dalla tradizione europea, sostiene Boni, possono essere interpretati come reificazioni di traumi ed orrori reali. Alla figura del mostro la società tende ad applicare quei valori negativi che le consentono di costruire, per opposizione “altro”/”io”, un’identità positiva. L’autore, riprendendo le riflessioni di W. Scott Pole (Monsters in America. Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting), sostiene che «questi “mostri della storia americana sono reali”, metafore di una serie di circostanze e azioni storiche ben più che mere immagini della letteratura, del cinema o della televisione. Guardare all’America attraverso i suoi mostri offre una nuova prospettiva ad antiche questioni, senza sconti per nessuna di queste. Anzi, la prima vittima di questo orrore è il tanto celebrato “eccezionalismo americano”, che vorrebbe l’America un “Nuovo Mondo” innocente e puro, in grado di insegnare la democrazia in giro per il mondo» (p. 84).

Le figure degli zombie in American Horror Story riprendono la “versione originaria” haitiana che vuole lo zombie non come mostro ma come vittima di chi riporta in vita gli individui riducendoli ad una “schiavitù post-mortem”. Gli zombie di American Horror Story, nel loro «mettere insieme la versione “originaria” del morto vivente con l’estetica della “zombie renaissance” cinematografica e televisiva contemporanea, […] recuperano le attuali metafore dello zombie, che vedono questo “schiavo eterno” come vittima dello sfruttamento, delle nuove schiavitù, delle migrazioni, ma anche come “proletariato inattivo” per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi involontario (come negli zombie della saga cinematografica di George A. Romero)» (p. 86). Se da un lato lo zombie può incarnare la figura della schiavitù, dall’altro, però, incarna anche l’idea di ribellione.

pretend we're deadTrattando la figura del serial killer, che certo non mancano in American Horror Story, l’autore sottolinea come questa, pur derivando da matrici europee, rappresenti una tipicità americana: «l’idea di una sorta di “fordismo” dell’omicidio, un’arte dell’uccidere “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, appunto un’arte dell’omicidio in serie, che riporta tale mostruosità nell’alveo del gotico americano» (p. 87). Riprendendo le riflessioni di Annalee Newitz (Pretend We’re Dead. Capitalist Monsters in American Pop Culture), l’autore sostiene che i serial killer che popolano le vicende narrate da Murphy e Falchuk, «sono “mostri del capitalismo”, la loro brutalità condanna i metodi della produzione capitalistica americana portandoli al loro estremo, arrivando in definitiva alla produzione di massa (in serie) di corpi morti. Il serial killer restituisce una versione gotica e orrorifica del “lavoro morto” marxiano, proiettando sulle vittime i sentimenti distruttivi ispirati dal luogo di lavoro» (p. 88).
Per certi versi, continua Boni, anche il mad doctor è un mostro del capitalismo. «L’“americanità” di fondo di tale figura […] è legata al suo legame col capitalismo statunitense: i dottori della tradizione del gotico americano sono infatti portati alla follia, in parte, perché ritengono di dover lavorare ai loro progetti ininterrottamente, senza pausa, in un lavoro intellettuale che prevede la vendita delle proprie idee a istituzioni professionali. […] In un paese, come l’America, che ha conosciuto una progressiva “proletarizzazione” della professione medico-scientifica, il mad doctor diviene un mostro perché scisso tra manie di grandezza e lavoro alienato; così diviso, non è mostruoso perché devia dalla sua professionalità, ma proprio perché la incarna» (pp. 89-90).

Risulta interessante la parte del saggio in cui l’autore riprende l’analisi di Helen Wheatley (Gothic Television) che, considerando la tv un mezzo gotico, enfatizza il ruolo del televisore di portare l’orrore esterno all’interno delle abitazioni fino a metterlo a contatto con le ansie domestiche. Federico Boni sottolinea che quando «a essere trasmessi sono testi gotici che rappresentano case infestate o edifici inquietanti, in quel caso è possibile parlare di un incontro tra “due case gotiche”: una è quella rappresentata nel testo televisivo, dove la narrazione si ripete serialmente e dove quindi le immagini ritornano – come dei revenants – con cadenza giornaliera o settimanale; l’altra è quella che ospita il mezzo televisivo e dove avviene la visione, e che corrisponde dunque allo spazio domestico e familiare. La televisione diviene così il vero spazio perturbante della casa, un vero e proprio “fantasma in casa”, la soglia che ci porta “ai confini della realtà” e che restituisce una accezione inquietante e perturbante dell’idea della televisione come “finestra sul mondo” e come “specchio” dell’interno (dell’inferno) domestico» (p. 93)

In alcuni episodi di American Horror Story viene enfatizzato il ruolo perturbante ed orrorifico della televisione. Ad esempio, in Coven Madame LaLaurie, riportata in vita negli anni Duemila, nello scoprire la televisione non manca di denunciare come questa sia di fatto basata sull’umiliazione dei suoi “ospiti”, mentre invece in Freak Show, la televisione viene indicata come “l’orrore contemporaneo” e come creatrice di freak. A tal proposito risultano interessanti le analisi di Jon Dovey (Freakshow. First Person Media and Factual Television) sulla reality television, riprese dal saggio di Boni, che evidenziano come tale tipo di programmazione sfrutti il bisogno di esprimere la propria identità da parte di individui che rivendicano con orgoglio il loro essere freak e che sentono la necessità di mettere in scena «l’ordinarietà della loro straordinaria soggettività» (p. 95).

Altra questione su cui si sofferma il volume è quella relativa a diverse figure femminili presenti nella serie; molte delle donne presenti in American Horror Story risultano accomunate da una vita segnata da ingiustizie e sofferenze a cui, però, reagiscono ribellandosi. «In Murder House la stessa haunted house protagonista della stagione è associata al corpo femminile, e di rimando il corpo femminile è associato alla casa […] Il femminile, del resto, è da sempre presente nel topos narrativo della haunted house, soprattutto laddove la donna, a cui è negato lo spazio esterno della vita pubblica, viene relegata negli spazi chiusi dell’ambiente domestico» (p. 97).
Il saggio passa in rassegna anche quelli che definisce gli “spettri della sessualità” soffermandosi in particolare sulla coppia gay dei vecchi proprietari della casa della prima stagione, Murder House, ridotta ad essere una coppia fantasma in linea con la fantasmizzazione, dunque repressione, dell’omosessualità. «E però, lo spettro torna a infestare i vivi: così fantasmizzata, l’omosessualità si ripropone comunque e si impone nel presente e nella coscienza della nazione» (p. 100). In Asylum si fa riferimento anche all’omosessualità femminile; Lana verrà rinchiusa e sottoposta a terapie disumane al fine di “curare” il suo lesbismo.

In American Horror Story è presente anche la questione del razzismo, soprattutto in Coven, tematica spesso presente nel Southern Gothic, in particolare a proposito della segregazione razziale. Boni, a tal proposito, riprendendo alcune considerazioni di Teresa Goddu (Gothic America) evidenzia come le storie narrate dal gotico americano «ben lungi dall’essere storie che ci proiettano in mondi lontani e di fantasia, quelle gotiche sono storie intimamente connesse alla cultura che le produce […] Questo genere registra le contraddizioni della sua cultura, presentando una versione distorta della realtà, ma non scollegata da essa» (p. 101).
Alcune considerazioni interessanti riguardano anche le giovani presenze nell’immaginario gotico. Se storicamente nel gotico non è infrequente imbattersi in giovani “posseduti”, vittime di colpe non proprie, nel panorama del cosiddetto New Teen Gothic, i giovani tendo ad abbandonare il ruolo di vittime per divenire la fonte stessa dell’orrore. Tale cambiamento parrebbe aver ricevuto un netto impulso dai tragici eventi della Colombine High School del 1999.

È nota l’importanza del mito della frontiera all’interno della cultura americana e la stessa serie American Horror Story, a partire dal suo essere una sorta di cartografia del gotico americano, non manca di evidenziarlo. Si intrecciano nelle diverse stagioni itinerari e frontiere di diverso tipo, ad esempio: in Murder House gli Harmon nel trasferirsi da Boston a Los Angeles compiono il medesimo itinerario (da Est ad Ovest) dei pionieri. Facendo invece riferimento all’ospedale psichiatrico della seconda stagione, la (labile) frontiera sembra essere quella tra ragione e follia. In Freak Show la carovana itinerante sembra invece ormai essersi insabbiata nelle paludi della Florida in procinto di essere inghiottita definitivamente dalle sabbie mobili rappresentate dal nascente mostro televisivo.
Chiudendo la disanima, non resta che segnalare un’ultima riflessione proposta dal saggio. L’ossessione americana per il mito dell’apertura offerta dalla frontiera, associata allo spirito chiuso del puritanesimo, nel momento in cui si esaurisce la frontiera storica, a fine Ottocento, implode in una forsennata ricerca di nuovi spazi anche attraverso il ricorso della “furia catalogatrice” che, secondo F. Tarzia ed E. Ilardi (Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano) porterà ad un puritanesimo inquisitorio e poliziesco che dal Proibizionismo conduce alla cacce alle streghe comuniste per arrivare fino ad Echelon ed al Patriot Act: ogni ambito dell’esistenza umana deve essere catalogato ed etichettato.

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Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex De la Iglesia https://www.carmillaonline.com/2016/01/19/streghe-pagliacci-mutanti-il-cinema-di-alex-de-la-iglesia/ Tue, 19 Jan 2016 22:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27502 di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: il tempo e lo spazio.
Il saggio è suddiviso in tre capitoli. Nel primo capitolo (Tempo) la studiosa si avvale di testimonianze dirette del cineasta e di un’analisi approfondita degli scritti a lui dedicati al fine di testimoniare la relazione esistente tra l’esperienza spettatoriale del regista, la sua formazione culturale e le sue opere. Nel secondo capitolo (Spazio) vengono da una parte indagate le maschere ed i corpi messi in scena nelle opere del regista e dall’altra i luoghi in cui vengono ad agire i personaggi. Nel terzo capitolo (Opere), attraverso una serie di schede critiche, viene offerta una panoramica dell’intera produzione del cineasta.

La prima parte del saggio è strutturata in modo da offrire una rassegna critica della produzione del regista a partire da Mirindas asesinas (1991), cortometraggio d’esordio di Álex de la Iglesia. Si tratta di un 16 mm in bianco e nero che da una situazione comica iniziale si trasforma via via in una commedia nera surreale per poi diventare un thriller psicologico. Sin da questa opera compaiono alcuni personaggi che risulteranno poi essere una costante delle opere visionarie del regista.
azione_mutanteIl primo lungometraggio di de la Iglesia, Acción mutante (Azione mutante, 1993), prodotta da Pedro Almodóvar, inizia alludendo al film A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) di Stanley Kubrick,  trasformandosi poi in un prodotto audiovisivo dall’estetica tipica dell’informazione televisiva, dunque in una commedia sempre più nera fino a giungere alla fantascienza, all’horror ed al western. «De la Iglesia realizza un lungometraggio che offre un paesaggio completamente inusuale nel cinema spagnolo e dove i riferimenti costanti alla televisione, al suo linguaggio, ai suoi segni e al suo stile, annunciano già il peso che avrà questo medium nella gran parte dei suoi lavori. Per lui parlare della televisione è come parlare del mondo. La televisione è un’imago mundi attraverso cui vedere l’intero universo. La sua generazione ha conosciuto tutto attraverso il filtro della televisione» (p. 27).
Il nuovo lungometraggio, El dia de la Bestia (1995), si sviluppa attorno all’idea di pensare il maligno nell’uomo dalla porta accanto. «L’anticristo nasce nelle torri KIO [La Porta d’Europa di Madrid, NdR], simbolo tanto del potere finanziario come della dittatura franchista e nel film diventano poi, piegate dagli sceneggiatori, anche simbolo di antiche premonizioni» (p. 29). Di nuovo, sottolinea l’autrice, si intrecciano generi diversi, «Commedia, humour nero, tradizioni ispaniche, immaginario satanico, estetica heavy metal, cinema del terrore» (p. 29). Il film intende denunciare «l’intolleranza, il razzismo, la violenza politica, la televisione spazzatura, le sette sataniche, i programmi esoterici» (p. 31), senza timore di fare nomi e cognomi dei personaggi che il regista detesta nella società contemporanea.
L’opera successiva è Perdita Durango (1997), realizzazione internazionale d’ambientazione americana con un cast importante che incontra non pochi problemi di censura: violenza, sesso esplicito e contenuti ritenuti blasfemi bloccano il film in molti paesi o lo vedono ampiamente mutilato. Il film è realizzato ibridando, nuovamente, generi diversi; di fondo è un thriller ma risulta decisamente contaminato dal cinema politico, gotico e surreale. «De la Iglesia passa dalla demonologia di El dia de la bestia alla santeria di Perdita Durango; anche se il soggetto del film non è scritto da lui, il tema del male come potenza e come fascinazione permane» (p. 33).

Muertos de Risa (1998) è invece una commedia nera, non distribuita in Italia, che narra l’acuirsi, fino alle estreme conseguenze, dell’odio reciproco di una coppia di comici televisivi. «In Muertos de risa de la Iglesia contrappone immagini della Spagna franchista con quelle dell’inaugurazione dei Giochi olimpici (la Spagna europea), ma si tratta dello stesso paese, così come i protagonisti del lungometraggio rappresentano il dritto e il rovescio di un’unica medaglia, rispondendo a una sorta di cliché comune a tutte le culture nelle coppie di comici» (p. 36). Oltre al discorso politico, nel film vi è anche una riflessione sul rapporto tra umorismo e violenza e sull’influenza sociale della televisione. Se nelle prime opere il regista gioca con i generi cinematografici, con Muertos de risa si inaugura una piccola serie di opere basate sulla rappresentazione della quotidianità intesa come ambito che si rivela denso di misteri e colpi di scena.
La comunidad (2000) è una commedia grottesca che svolta sempre più verso l’horror ma, segnala Sara Martin, è anche «un tour de force metacinematografico»; sono evidenti infatti i rimandi a diversi film di Alfred Hitchcock, Roman Polanski ed alla serie The Twilight Zone (Ai confini della realtà, di Rod Serlig, 1959-1964). Secondo la studiosa mentre El dia de la bestia esibisce i demoni esteriori di Madrid, La comunidad invece mostra quelli interiori, quelli di una città dura e spietata che dietro all’immagine di progresso e modernità cela corruzione e marciume.
Con 800 balas (2002), opera non distribuita in Italia, il regista si cimenta anche con il genere western, seppure con un taglio surreale. Come in molte opere, sostiene Martin, anche in 800 balas, i personaggi secondari permettono al regista di mettere in scena una serie di perdenti che si trovano meglio a vivere una vita di finzione piuttosto che la realtà quotidiana. Sebbene il film, nella sua struttura portante, celebri il cinema, non manca di criticare la società spagnola contemporanea affetta da corruzione e speculazione edilizia. I perdenti tornano anche nell’opera successiva, Crimen ferpecto (2004), commedia nera che non manca di omaggiare, nuovamente, Alfred Hitchcock e Luis Buñuel, ambientata in un universo in cui dilaga l’ipocrisia. Anche in questo caso tornano personaggi eccentrici e perdenti che finiscono col suscitare una certa simpatia nello spettatore ma, a differenza di quanto accade nei film precedenti, sostiene Sara Martin, qui la scena è totalmente occupata dai personaggi principali e le presenze femminili risultano violente, spietate, avide e, soprattutto, trionfanti sugli uomini.
Pluton_BRB_Nero_Serie_TV_22Dopo aver realizzato La habitación del niño (La stanza del bambino) (2006), un horror per la tv con diversi riferimenti ai mondi paralleli derivati da Philip K. Dick, de la Iglesia lavora ad un poliziesco di produzione internazionale girato in inglese, The Oxford Murders (Oxford Murders – Teorema di un delitto) (2008) ed a Pluton B.R.B. Nero (2008-2009), una serie televisiva, mai trasmessa in Italia, di 26 episodi suddivisi in due stagioni, in cui compaiono ossessioni e personaggi cari al regista. «Più che una serie fantascientifica», sostiene Sara Martin, «Pluton B.R.B. Nero è una commedia in costume intrisa di humour nero e provocazione» (p. 48),
Il successo internazionale per de la Iglesia arriva con Balada triste de trompeta (2010). Il film ottiene il Premio della giuria e quello per la Miglior sceneggiatura alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2010. Per certi versi si tratta del seguito di Muertos de risa, con due pagliacci al posto dei comici televisivi. «Attraverso il racconto di due losers (e una donna), de la Iglesia percorre ancora una volta la storia del suo Paese con toni scuri, neri. I riferimenti cromatici del film sono da individuarsi soprattutto nella pittura di Goya e di Grünewald. Le atmosfere sono quanto di più lontano dal cinema felliniano a cui sovente l’autore spagnolo è stato paragonato. Per Fellini il circo è magia e meraviglia, per de la Iglesia il circo è sangue e morte e in Balada non a caso si colloca fra le rovine in un luogo decadente, squallido, brutto. I titoli di testa e quelli di coda raccontano la Spagna e raccontano il film. Si alternano immagini documentali della guerra civile e del post-guerra franchista. Nei titoli di testa si scorgono numerose immagini iconiche del franchismo (…) alternate a riferimenti alla cultura del paese (…) e miti cinematografici personali del regista» (p. 55).
Di nuovo, si sottolinea nel saggio, è il mondo della televisione a fornire immagini a tale patchwork visivo in cui, insieme ai rimandi colti, viene criticata quella sottocultura che ha fatto da sfondo all’immaginario collettivo negli ultimi tempi che «nel cinema di de la Iglesia ha una doppia funzione: da una parte desacralizzare la Cultura “alta”, dall’altra accumulare immagini, oggetti, personaggi che vanno a costruire un cinema che si pone coscientemente all’opposto della sobrietà, della pulizia, della misura per dare libero sfogo all’eccesso, alla stravaganza, alla ricchezza delle immagini stratificate nello spazio e nel tempo» (p. 56).

Dopo la realizzazione di La chispa de la vida (2011), tragedia in cui non si salva nessuno, influenzata dalla situazione politica e sociale spagnola segnata da crisi economica, disoccupazione e precarietà, il regista basco gira Las brujas de Zugarramurdi (Le streghe son tornate) (2013), una commedia horror ambientata nella cava di Zugarramurdi, tra Francia e Navarra, luogo in cui l’inquisizione Spagnola, ad inizio XVII secolo, ha dato vita ad una spietata caccia alla streghe. Il film, che non manca di criticare gli stereotipi di genere che attraversano la società contemporanea, è disseminato di riferimenti ai film amati dal regista, in particolare al cinema fantastico hollywoodiano degli anni ’80. Poco dopo il cineasta realizza Messi (2014), una biografia del celebre calciatore argentino e, nello stesso periodo, il cortometraggio The Confession, con cui Álex de la Iglesia prende parte al film collettivo Words with Gods (2014) ideato da Guillermo Arriaga in cui diversi registi raccontano, credenti o meno, la personale visione del mondo e dell’uomo in rapporto alla religione.

balada tristeLa seconda parte del saggio si sofferma sulle maschere, sui corpi e i luoghi messi in scena dal regista basco. Il pagliaccio è sicuramente una delle figure ricorrenti nei film di Álex de la Iglesia; «La figura del pagliaccio è una maschera che non simula un personaggio ma lo estetizza, nel senso che la finzione è dichiarata, la messa in scena evidente. Niente come il trucco del pagliaccio rende presente l’emozione che si trova dipinta sul viso. Il sentimento è tutto fuori, così come lo è il contesto in cui il pagliaccio si muove (il circo, la festa, il carnevale)» (p. 71). In Balada triste de trompeta si narra la storia di Javier, un pagliaccio triste disadattato che vive gli ultimi anni del franchismo vittima della superficialità e della violenza dei suoi simili, incapace di integrarsi fino a quando, improvvisamente decide di ribellarsi ma, anziché liberarsi del costume e della maschera da pagliaccio triste, «Javier fonde la maschera al proprio corpo cancellando così ogni traccia della sua storia personale: si sbianca il viso con dell’idrossido di sodio e si stampa delle cicatrici rosse con un ferro da stiro per creare un trucco da pagliaccio permanente (…) Finalmente il suo abito corrisponde al suo essere, un angelo sterminatore in grado di riportare il giusto equilibrio nella sua vita e nel mondo, padrone del proprio corpo e delle proprie azioni» (p. 70).
Elemento ricorrente nelle opere di de la Iglesia è la presenza della «immagine del “vendicatore folle” che fa esplodere lo spazio reale della fisica per impossessarsi del nuovo mondo comunitario, dove ciò che è brutto, vecchio, sporco e dimenticato, si riannoda alle dinamiche di un nuovo cosmo fatto di corpi che sono immagini, in un’euforia post-apocalittica dove i vecchi idoli del capitale e della borghesia, vengono spazzati via, fatti letteralmente saltare in aria. Le storie di de la Iglesia (…) si strutturano sempre intorno ad una visione apocalittica dello spazio scenico, in un processo di disgregazione progressiva dell’ordine costituito per mano di personaggi borderline». (pp. 72-73)

AccionmutanteI corpi rappresentano un altro elemento su si sofferma il saggio, ad esempio, in Accion mutante «una comunità di invalidi postapocalittica organizza il rapimento della figlia di un magnate dell’industria e della televisione. Questa volta il corpo-proprio è trasfigurato dalle protesi macchina che nascondono o cancellano una deformità (…) Il corpo dello storpio non simula, è autenticamente acrobatico, ovvero intrinsecamente spinto a ribaltare gli ostacoli in vantaggi, in un movimento di super-compensazione che può portarlo a gettare via le stampelle, si chiamino Stato, Democrazia, Borghesia, ecc.. Da qui deriva la sua aura rivoluzionaria sfruttata dal regista» (pp. 74-75). Il personaggio dell’alieno Roswell in Plutón B.R.B. Nero «odia l’umanità come l’umanità ha odiato lui, è disgustoso fisicamente e ributtante dal punto di vista etico-morale: trae godimento soltanto dal dolore fisico personale e dall’osservazione del dolore altrui. L’alieno deforme ribalta la sua disabilità e ne fa un’arma a danno degli esseri umani» (p. 75). Per certi versi anche nell’opera documentaria Messi, il protagonista è un freak; un individuo sproporzionato, dalle gambe corte, afflitto da problemi di crescita ma che riesce a diventare un campione del calcio alla faccia di tutti i “normodotati”. Dal cinema di de la Iglesia si evince, secondo Martin, che «i freak rimangono freak, e gli outsider rimangono outsider, ma aver mostrato la fine possibile, aver scritto un’apocalisse nera e impietosa, significa aver creato lo spazio della sua apparizione, significa reintegrare lo scudo narcisistico di tutti coloro che non accettano la disillusione in cui ci ha catapultato l’epoca moderna di matrice illuminista» (p. 83).

Anche i luoghi in cui il cineasta basco colloca i suoi personaggi hanno una funzione importante nell’ambito della costruzione narrativa. Il film La comunidad è ambientato all’interno di un condominio madrileno abitato da individui che sembrano impossibilitati ad abbandonare lo stabile. «Impressiona la spazzatura e la sporcizia che in più riprese invade lo schermo; pare che l’organismo del condominio non possa purificarsi espellendo i propri escrementi. Tutto rimane dentro. (…) La comunità che si è costituita nel condominio è ormai un agglomerato di mostri» (p. 76). Secondo Sara Martin l’idea di fondo è quella di mettere in scena quel processo di disgregazione sociale che ha investito da qualche decennio la società contemporanea ed «il progressivo ritorno a uno stile epocale estetico barocco, che si intravvede nel mondo contemporaneo bombardato da milioni di immagini, in sostituzione di uno stile economico che ancora sopravvive, si traduce in Álex de la Iglesia come ritorno al mondo dei corpi e delle immagini, luoghi assoluti della compresenza, un mondo fatto di carne e sangue. Per raggiungere questa nuova dimensione neo-comunitaria, il mondo conosciuto, classico, spazialmente coerente e matematicamente organizzato, deve essere distrutto» (p. 78).
In La habitación del niño lo spazio interno diviene il personaggio centrale della narrazione e giocando sul concetto di mondo parallelo il regista basco mette a confronto nello spazio interno dell’abitazione due dimensioni estetiche contrapposte, una fatiscente ed una perfetta. All’interno di una stanza segreta si trova una miniatura della casa ed il protagonista, dopo essere entrato a contatto con questa, una volta uscito dalla stanza si ritrova proiettato in un mondo parallelo perfetto e ben arredato. Il «mondo bello, ricco e colorato nascosto dentro la casa, come ne La comunidad, è il luogo originario in cui si muove l’individuo dionisiaco del futuro, destinato a sovvertire l’ordine costituito e chiuso del mondo borghese. È dall’interiorità pura, priva di relazioni con il resto del mondo che ha inizio la rivolta, la distruzione dell’universo. Un virus autoprodotto che si genera dal burnout di una vita organizzata sul mito della certezza e del progresso, ormai fuori controllo in una società stanca e decadente (…) L’apocalisse come rinascita. La distruzione come rigenerazione. Questo è il fil rouge della produzione scenica di Álex de la Iglesia» (pp. 81-82).

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A sentire Telifrone (Apuleio reloaded) https://www.carmillaonline.com/2015/12/23/a-sentire-telifrone-apuleio-reloaded/ Wed, 23 Dec 2015 22:14:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27483 di Franco Pezzini

locandina_apuleio ridotta[Si propone qui un brano dai testi di L’importanza di essere Lucio. ‘L’asino d’oro’ di Apuleio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. L’antieroe Lucio, giovanotto di belle speranze ed eccessiva curiosità, si trova a Ipata, nella Tessaglia delle streghe, dove intreccia una vivace relazione sessuale con la servetta Fotide e reincontra Birrena, la brava signora che l’ha allevato. Per la traduzione utilizzo quella di Gabriella D’Anna, dell’edizione Newton Compton 1995.]

Ipata, nel medioevo chiamata Neopatria e per più di un secolo capitale di un Ducato poi caduto [...]]]> di Franco Pezzini

locandina_apuleio ridotta[Si propone qui un brano dai testi di L’importanza di essere Lucio. ‘L’asino d’oro’ di Apuleio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. L’antieroe Lucio, giovanotto di belle speranze ed eccessiva curiosità, si trova a Ipata, nella Tessaglia delle streghe, dove intreccia una vivace relazione sessuale con la servetta Fotide e reincontra Birrena, la brava signora che l’ha allevato. Per la traduzione utilizzo quella di Gabriella D’Anna, dell’edizione Newton Compton 1995.]

Ipata, nel medioevo chiamata Neopatria e per più di un secolo capitale di un Ducato poi caduto sotto i Turchi, è attualmente Ypati, ex-comune nella periferia della Grecia Centrale, in Ftiotide, ormai compreso (dopo l’accorpamento della riforma degli enti locali nota come piano Kallikratis) nel più grande comune di Lamia. Suggestivo che il toponimo cui si trova oggi aggregato richiami proprio l’orchessa mitica il cui nome è poi usato genericamente per le streghe. Certo l’atmosfera oggi non colpisce per atmosfera arcana: sembra un villaggio del Cuneese, casette bianche tra montagne verdiscure, il bar della piazza col pergolato, cortili… Molto diversa doveva essere in passato; anche se la città evocata da Apuleio è trasfigurata letterariamente, per cui resta difficile attribuire alle sue descrizioni un’effettiva concretezza storica.
Una sera Birrena pretende che Lucio vada a cena da lei, così il giovanotto si trova costretto a malincuore a rinunciare al solito frizzante intrattenimento con Fotide – che gli dà il permesso, avvisandolo però di non tirare troppo tardi. C’è infatti una squadraccia di figli di papà, ragazzi ricchi che a tarda ora impazzano per le vie giungendo a uccidere senza che nessuno li fermi, e uno straniero rischia anche di più. Lucio la tranquillizza, non farà tardi – in modo da poter continuare la sera con lei – e comunque girerà armato.
Da Birrena trova un party elegante, con invitati di rango: e a un certo punto la padrona di casa domanda come gli sembri Ipata, città superiore alle altre (almeno della zona) per templi, terme e costruzioni, con un vivace giro di affari e un traffico simile a quello di Roma (qui sta esagerando), ma capace di garantire anche una vita tranquilla come in campagna. Il giovanotto la asseconda, risponde che “in nessun altro luogo del mondo mi sarei sentito più libero che qui” – appunto le libertà con Fotide – ma aggiunge sornione:

Però ho un grande timore dei tenebrosi e invincibili misteri delle pratiche magiche. Infatti si dice che neppure i sepolcri dei morti possano qui stare al sicuro, e che perfino dai crematori e dai roghi funerari si cerchino residui e frammenti di cadaveri per farne incantesimi per i vivi. E che vecchie streghe incantatrici proprio nel momento in cui si appresta un funerale riescano con rapidità incredibile a prevenire l’opera dei seppellitori portando via il cadavere.

A quel punto interviene un commensale che nota come neppure i vivi siano al sicuro. E butta lì che “un tale, non so chi, […] ha subìto una simile avventura, ed è rimasto col viso sfigurato e mutilato in ogni parte”. Risata generali, tutti fissano un tipo seduto da parte, che fa per andarsene brontolando ed è fermato da Birrena: per favore, chiede, racconti anche al figlioccio la sua avventura. Telifrone – il nome significherebbe “che pensa (phronein) alle donne (thelys, femminile)”, e vedremo in che senso – borbottando contro l’insolenza di alcuni, cede però alla cortesia della padrona, e con una certa prosopopea da oratore inizia il racconto. Che, a seconda di come interpretiamo l’opera di Apuleio, rappresenta in termini generici una nuova prova della sorprendente imprevedibilità delle cose, o invece, in più stretto riferimento a un itinerarium simbolico e iniziatico, costituisce un nuovo immergersi nel sogno.
Partito da Mileto ancora ragazzo per andare ad assistere alle gare di Olimpia, Telifrone ha la cattiva idea di visitare la Tessaglia, arrivando a Larissa. È una sorta di doppio ruspante di Lucio, il bullo che lui non sa essere e a differenza di lui senza soldi: così cerca un lavoretto per sbarcare il lunario. Quando però un vecchio allampanato in piedi su un sasso dichiara di cercare chi faccia la guardia a un morto, il ragazzo divertito domanda a un passante se da quelle parti i morti scappino. Quello risponde serio che, giovane e forestiero com’è, certo non sa di trovarsi in Tessaglia, “dove le streghe hanno l’abitudine di prendere a morsi il viso dei morti, e quello che riescono a staccarne è per loro nuova materia per le pratiche magiche” – una necessità per procurarsi “materiale umano” prima dell’incinerazione. Poi, alla domanda di lui su quale sarebbe il lavoro, spiega che occorre vegliare per una notte

“[…] con gli occhi spalancati e fissi sul cadavere e non volgere mai altrove le pupille, anzi non girarle neppure, dal momento che quelle malefiche streghe vanno strisciando di nascosto dopo essersi trasformate in un qualsiasi animale, tanto da sfuggire perfino agli occhi del Sole e della Giustizia. Infatti prendono l’aspetto di uccelli e di cani e di topi, e perfino di mosche. Poi con spaventosi incantesimi immergono nel sonno le guardie. Nessuno si può immaginare i sotterfugi che quelle donne infami sanno inventarsi per le loro perversioni. E tuttavia in compenso di un lavoro così pericoloso non si riesce mai a guadagnare più di quattro o sei monete d’oro. Ah, stavo dimenticando di dire che se l’indomani il corpo del morto non viene restituito intero, si è costretti a risarcire con pezzi tagliati dal proprio viso tutto ciò che ne è stato portato via o tolto.”

Il tema della veglia funebre insidiata da streghe o altre creature sovrannaturali è estremamente arcaico e sedimenta forse timori del passato neolitico. Di una veglia funebre minacciata dalle streghe Petronio fa parlare Trimalchione durante la famosa scena del banchetto (Satyricon 63, 2-10); e sarebbe anzi intrigante cogliere traccia di un’ispirazione per Apuleio laddove l’arciricco di Petronio – un Paperon de’ Paperoni idealmente a monte anche della figura di Milone, ospite di Lucio – annuncia che lui pure narrerà una “rem horribilem”, una cosa che fa rabbrividire di stranezza, “Asinus in tegulis”. Cioè quanto farebbe un asino sul tetto: e il tema di Lucio che vorrebbe metamorfizzare in uccello per magia e finirà per sbaglio (concediamoci uno spoiler) mutato in asino sembra sintetizzare visionariamente proprio l’espressione di Trimalchione. In seguito, in un mondo ormai cristianizzato, racconti di veglie funebri a streghe vedranno la minaccia venire dal diavolo (la storia della strega di Berkeley riportata da Guglielmo di Malmesbury, Gesta regum anglorum II, 204) o da altre creature sovrannaturali (Vij di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, 1835).
Insomma, Telifrone si offre chiedendo al banditore quale sia il compenso, e quello parla di una cifra significativa, mille nummi (cioè quaranta aurei, contro i “quattro o sei” menzionati dal passante), trattandosi del figlio di uno dei cittadini più importanti. Ma che badi a quelle “malis Harpyis” e vegli con molta attenzione; al che il bulletto risponde di stare tranquo, e che davanti a lui ha un “hominem ferreum et insomnem” più attento dei mitici Linceo e Argo.
Insomma, viene condotto a una casa con la porta principale sbarrata, passano dal retro e da una porticina (la classica porta dei morti) giungono in una stanza buia innanzi alla vedova piangente – una donna molto bella e in apparenza molto addolorata che gli raccomanda attenzione. Si preoccupi solo di pagarlo, risponde il bulletto: si accordano, poi la donna lo introduce nella stanza accanto dove il cadavere è velato da un lenzuolo. Lì, davanti a sette testimoni – “boni Quirites”, li chiama, secondo l’uso latino anche se qui siamo in Grecia – provvede a far redigere l’inventario delle parti del viso (naso, occhi, orecchie, labbra, mento – sembra non interessino altre membra); poi sta per andarsene, quando Telifrone la ferma. Gli fornisca una lampada, chiede, con olio sufficiente fino al mattino; ma in più anche “acqua calda, brocche di vino, un bicchiere e un piatto pieno degli avanzi della cena”. La donna s’indigna, hanno avuto un lutto e c’è un morto in casa, da giorni non hanno “neppure il fumo” (nel senso che il focolare non veniva acceso nei giorni tra decesso e funerale), e lui pensa a trincare e strafocarsi? Comanda dunque al personale di dargli lucerna e olio, e poi di chiuderlo nella stanza col morto.
Inizia la veglia, ed ecco che il bulletto deve, secondo il nome che porta, “pensare alle donne”, le streghe: cerca di canticchiare, ma con lo scivolare delle ombre verso la notte fonda monta la paura. Ed è a quel punto che appare una donnola, si ferma e prende a guardarlo fisso con una sicurezza che lo mette a disagio… Ovviamente anche l’animale predatore che insidia i pollai rappresenta un’eventuale forma di mutazione streghesca: all’inizio dell’età moderna le donnole verranno considerate possibili spiriti famigli delle streghe dal witch-hunter general Matthew Hopkins, e ancora Anatole France in Thaïs, 1890, menzionerà la donnola come epifania del diavolo che tenta i padri nel deserto. Telifrone la scaccia, ma poi subito piomba in un sonno profondissimo; e quando viene svegliato dal chiasso dei soldati, corre preoccupato a controllare la faccia del morto.
Nel frattempo arriva anche la vedova con i testimoni, viene condotto l’esame del viso. Sospiro di sollievo: va tutto bene, la donna ordina che paghino Telifrone e spiega che a questo punto lo considerano un amico. Il giovanotto non trova di meglio che dichiararsi disponibile per ogni volta che desidererà la sua opera: una gaffe micidiale (come ad augurare tanti decessi alla casa) per cui i servi iniziando gli scongiuri gli danno una saccagnata di botte e lo buttano fuori.
Il Nostro si ritira dunque in piazza, rammaricandosi tutto rotto delle proprie parole infelici, e poco dopo arriva il corteo del funerale pubblico per l’importante defunto che proprio lui ha vegliato: ma ecco farsi avanti lo zio del morto e chiedere a gran voce l’intervento dei cittadini. Suo nipote sarebbe stato infatti ucciso col veleno dalla moglie tanto carina, intenzionata a godersi l’eredità con l’amante… Le accuse scaldano la gente, c’è chi vorrebbe bruciare o lapidare la vedova che invece giura (ovviamente) sulla falsità delle accuse; e infine lo zio propone un’indagine necromantica grazie alla presenza in città di un “propheta primarius” (cioè “profeta – nel senso di rappresentare la volontà divina – di prim’ordine”), l’egiziano Zatchlas. In precedenza nel romanzo era apparso un indovino caldeo, Diofane, ora c’è un altro straniero esotico ed esoticamente abbigliato, a continuare insomma la mappatura di un proliferare di specialisti dell’esoterico persino in questo profondo entroterra greco. Un proliferare piuttosto sospetto, e anche qui tale da porre domande.

Come si debbano interpretare la vicenda e la figura del profeta egizio Zatchlas non è affatto chiaro: lo sviluppo della storia non ci permette di stabilire infatti se si tratti di un impostore o di un vero profeta. [Nicolini: 27]

Qui non si tratta solo di trarre informazioni dalla natura, cioè da stelle, interiora o voli d’uccello: e se Lucano nella Pharsalia (VI, 507-830) aveva mostrato un morto ridestato dalla maga tessala Eritto o Eritone, ora alle donne di Tessaglia viene contrapposto un occultista maschio, proveniente dall’Egitto terra paradigmatica di sapienza esoterica e di misteri, e specificamente di conoscenze arcane sul rapporto coi morti. In un’altra opera di Apuleio, De Platone et eius dogmate (I, 3) si cita la tradizione per cui i sacerdoti egizi sarebbero capaci di resuscitare i morti; e qui Zatchlas ha fatto un patto con il vecchio “di richiamare quest’anima dall’Averno e farla entrare nel corpo anche dopo morto”. All’apparire del giovane vestito all’egiziana, lo zio del morto prende a supplicarlo (notiamo questa serie di riferimenti)

“[…] per le stelle del cielo, per gli dèi dell’inferno, per gli elementi naturali, per i silenzi notturni e per i santuari coptici e per le piene del Nilo e per i misteri di Menfi e per i sistri di Faro. Fa’ che egli possa godere di un po’ di sole, e infondi un po’ di luce nei suoi occhi chiusi in eterno. Noi non vogliamo rifiutarci di restituire alla terra quello che è suo, ma chiediamo soltanto un breve istante di vita per il conforto della vendetta”.

Poi, posta “una certa erbetta” sulla bocca e un’altra sul petto del morto, Zatchlas invoca in silenzio il sole divino verso oriente. Ed ecco “che il petto del morto si solleva gonfiandosi, la vena del polso si mette a battere, il corpo si gonfia per il respiro, il cadavere si solleva e il giovane parla”: lamentando di essere stato ricondotto “agli affanni di una vita temporanea” quando già aveva bevuto l’acqua del Lete e stava passando nelle paludi dello Stige che avrebbero segnato la cesura definitiva. Supplica dunque d’essere lasciato al suo riposo; al che Zatchlas mellifluo gli chiede di riferire in dettaglio, illuminando l’enigma della sua morte – altrimenti, minaccia, potrebbe evocare le Furie a tormentarlo anche nella presente situazione. Certo c’è differenza tra la reviviscenza sinistra posta in atto dalla strega tessala di Lucano e quella circonfusa di preghiera solare attivata dal mago egizio: eppure la soave e spietata costrizione ad opera di quest’ultimo riesce a risultare persino più equivoca. Si è osservato che l’episodio apparentemente inutile di questo santone egizio anticipa

[…] invece gli avvenimenti alla fine del romanzo, quando tutto questo mondo sotterraneo, che ora appare soltanto in questa storia oscura, inquietante e crudele, diventa per Lucio il ponte verso l’iniziazione alla religione egizia. Già ora quindi cominciano a tessersi i fili del destino. Il nome di Zatchlas è stato collegato alla parola Sôlalas che nell’antico Egitto era usata come nome oppure per esprimere il concetto “Thoth è colui che lo conosce”. Secondo altri il nome indica Saclas, un demone collegato con la “sapienza” egizia. [von Franz: 47-48]

Per chi si interroga sulle tracce isiache nel corso del romanzo ecco un elemento d’interesse: e lo stesso centone di riferimenti egizi evocato poco prima dallo zio del morto richiamerebbe, secondo un filone interpretativo, a specifici luoghi e oggetti del culto isiaco. Per contro l’ambiguità del personaggio Zatchlas potrebbe flirtare con la ciarlataneria e la costruzione d’illusioni (un ventriloquo?), non dissimilmente dal caso del collega caldeo in precedenza apparso. Del resto tutta questa storia ci viene raccontata e non vi assistiamo direttamente, per cui Apuleio ci lascia nel dubbio – e sulla questione dovremo tornare.
A quel punto comunque, con un gemito, il morto accusa la giovane moglie di averlo avvelenato liberando il letto al proprio amante; e al clamore che segue – lei che nega tutto spergiurando, i presenti divisi sull’attendibilità delle parole – aggiunge con un altro lamento “qualcosa che nessuno sa”. E indica il povero Telifrone: le streghe, non riuscendo a ingannarlo con trasformazioni “in varie forme” (in realtà conosciamo solo quella in donnola), l’hanno avvolto in una nube di sonno profondo. Poi hanno preso a chiamare il morto per nome, per attrarlo tra le loro grinfie (nel pensiero magico il nome è l’essenza della persona, e chi lo usi in modo adeguato può esercitare su questa, viva o morta che sia, un potere tremendo), così che il corpo freddo stava per obbedire. Peccato che il custode abbia lo stesso nome del defunto, Telifrone, per cui alla fine si è alzato lui che dormiva come un morto, “e camminando come un’ombra, nonostante le porte della camera fossero diligentemente chiuse, attraverso un certo foro prima ebbe il naso tagliato e poi le orecchie, sicché subì al mio posto questa mutilazione”. Le streghe poi gli sostituiscono orecchie e naso mozzati con elementi di cera: e insomma il poveretto guadagna la ricompensa non per il suo impegno professionale ma in funzione di risarcimento.

“Atterrito da queste parole comincio a tastarmi il viso. Mi tocco, prendo il naso: mi rimane in mano; tasto le orecchie: cadono. Tutti mi segnano a dito e mi beffeggiano, scoppiano le risate: io mi sento gelato di sudore freddo e me la svigno tra le gambe della gente.
In seguito, così mutilato e ridicolo, non potei più tornare a casa mia e nella mia patria, e allora con i capelli lunghi giù ai due lati della testa ho nascosto le orecchie tagliate e ho cercato di camuffare la bruttura di questo naso coprendolo con questa striscia di lino”.

Non sappiamo, perché Telifrone non lo dice, cosa accada alla vedova assassina (probabilmente linciata dalla gente) e cosa al cadavere reviviscente (probabilmente riportato al riposo eterno dal mago): con quella fuga di Telifrone il sipario cala sull’episodio come su un sogno al risveglio, e anche in seguito troveremo episodi chiusi in termini altrettanto elusivi.
Un racconto comunque grottesco, e insieme sottilmente inquietante; un racconto fantastico nel senso pieno, dove la forza affabulatoria della soluzione preternaturale è circonfusa d’uno sghembo imbarazzo. La combinazione di fiaba di streghe e finale macabro inatteso richiama la sorpresa macabra della precedente vicenda di Aristomene [un’altra storia streghesca del romanzo], cui questa narrazione ancora una volta incontrollabile offre un ideale contrappunto; anche qui trionfa una dimensione non naturalistica e fortemente onirica; anche qui la vicenda termina con una fuga precipitosa e uno sradicamento del narratore cui è inibito il ritorno – a evocare un mondo di viaggiatori ed esuli senza radici, di Ulissi straniti incapaci di riprendersi dal faccia-a-faccia col sovrannaturale. Se nel primo racconto-sogno Socrate [il protagonista dell’episodio narrato da Aristomene] tenta di sfuggire al Femminile e ne muore, nel secondo Telifrone vi si misura e resta segnato a vita: il doppio bullesco di Lucio – o la sua Ombra, nella lettura di von Franz – gli offre cioè un nuovo avvertimento sulla minaccia che lo attende ove non sia sufficientemente cauto. Ma Lucio, che a sua volta pensa solo alle donne, cioè a Fotide, non sa valorizzare il caveat.
In effetti, nel caso di Telifrone la messa in dubbio della storia non è condotta con un teatrino dialettico come nell’altro episodio (il narratore, l’incredulo e l’ascoltatore), non ve n’è più bisogno, tuttavia lo spazio per dubitare resta. E non tanto per dettagli strani ma radicati nel folklore come il misterioso foro da cui avviene la mutilazione (attraverso pertugi di vario tipo passano o operano da sempre creature sovrannaturali, come i vampiri che filtrano fuori dalle bare); o per l’irriconoscibile sostituzione in cera di parti del viso, che restano al loro posto persino con la saccagnata di botte da parte dei servi (e si staccano solo dopo il racconto del morto, che sembra “disattivare” il relativo incantesimo). Più curioso è senz’altro il fatto che il morto menzioni esplicitamente di aver “bevuto l’acqua del Lete”, quella cioè per dimenticare la vita terrena: è vero che poi sembra rivelare dettagli univoci su quanto è accaduto, ma il particolare pare inserito per rendere la testimonianza inaffidabile e insomma lascia un po’ perplessi. Del resto, mutilazioni di naso e orecchie sono state nel tempo inflitte come sanzioni per reati o colpe di vario genere: fino a che punto possiamo dunque fidarci della versione di Telifrone che ascrive quei connotati a un evento sovrannaturale? E l’ambiguità è suggellata dalle stesse risate che alla fine del racconto esplodono tra i convitati brilli, quasi a specchio di quelle echeggiate tra la folla di Larissa dopo il prodigio – tanto più che gli eventi burleschi che seguiranno al racconto getteranno a posteriori sul tutto una luce strana.
D’altra parte quella di Telifrone è definita fabula: un termine utilizzato all’inizio dell’episodio, nella richiesta rivoltagli da Birrena, e alla fine del medesimo, dalla voce narrante. Lo stesso termine, si noti, che nel solo libro primo è tornato dodici volte, oltretutto all’apertura (nel preambolo dell’opera dove si annunciava di voler raccontare “varias fabulas”) e poi alla chiusura del libro; un termine che “si impone all’attenzione del lettore e non permette di dimenticare che tra i suoi significati possono convergere quello di finzione e quello di aspetto teatrale” [Gianotti: 20]. La sensazione è insomma di spiazzamento, nel continuo gioco di sorprese/metamorfosi in cui Apuleio gode a far smarrire i suoi lettori.

 

Gianotti: Gian Franco Gianotti, Spettacoli e spettatori in Petronio e in Apuleio: spunti teatrali nella narrativa latina, Acc. Sc. Torino, Quad. 18 (2009), I Mercoledì dell’Accademia, XIV, 2009, Accademia delle Scienze, Torino 2010;

Nicolini: Lara Nicolini, Introduzione a: Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro, BUR, Milano 2005;

Von Franz: Marie-Louise von Franz, Die Erlösung des Weiblichen im Manne. Der goldene Esel von Apuleius in tiefenpsychologischer Sicht, Insel, Frankfurt 1980; L’asino d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1985.

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