Stevie Ray Vaughan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 David Bowie https://www.carmillaonline.com/2017/01/11/david-bowie/ Wed, 11 Jan 2017 22:30:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35646 di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_bowie_sono-l-uomo-delle-stelleDavid Bowie, Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 469, € 24.00

Sul finire del 2016 l’editore Il Saggiatore ha dato alle stampe il volume Sono l’uomo delle stelle, una raccolta di interviste rilasciate da David Bowie tra il 1969 ed il 2003 selezionate da Sean Egan e pubblicate in lingua inglese col titolo Bowie on Bowie l’anno precedente.

Da questa trentina di interviste emerge un Bowie mutevole ed a tratti contraddittorio, poco propenso a lasciarsi guidare dagli intervistatori e per certi versi abile nel giostrare gli incontri con i media a proprio favore per “costruirsi-personaggio”.

Il volume, oltre a regalare ai fan di Bowie, ed agli appassionati di musica in genere, parecchio materiale interessante, offre un’idea di come è cambiata l’intervista musicale anglosassone tra gli sgoccioli degli anni Sessanta del Novecento e l’apertura del nuovo Millennio.

bowie_dont_dig_tooLa prima intervista presentata dal volume, “Non scavate troppo a fondo, il bizzarro David Bowie vi implora” di Gordon Coxhill (1969) per “New Musical Express” (UK), viene realizzata quando sono giù usciti i primi due album di Bowie (1967 e 1969) ed il brano Space Oddity, presente nel secondo disco, lo ha fatto conoscere a livello internazionale. Così termina il pezzo Gordon Coxhill: «Con il suo carico di idee originali, la sua voglia di lavorare sodo, il suo odio per le droghe pesanti e per la tendenza a dividere la musica in generi, e con abbastanza buonsenso da impedirgli di montarsi la testa quando presto arriveranno fama e adulazione, David sembra essere proprio il genere di artista di cui il pop ha bisogno in questo momento. Sono certo che sarà in grado di resistere alle pressioni, e se non ci riuscirà, sarà abbastanza saggio da fuggire» (p. 6).

Di qualche anno successiva è un’intervista restata nella storia: “Oh You Pretty Thing” di Michael Watts (1972) per “Melody Maker” (UK). A tre anni dall’entrata i classifica di Space Oddity, sul finire del 1971 viene pubblicato Hunky Dory con Bowie però già totalmente proiettato verso The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. È in tale contesto che viene realizzata l’intervista presso gli uffici della Gem Music ed è qua che il musicista se ne esce con la celebre dichiarazione di omosessualità. Si tratta di un’affermazione all’epoca di certo non in linea con ciò che il pubblico vuol sentirsi dire ma al tempo stesso utile a far parlare di sé. «L’immagine con cui si presenta attualmente Bowie è quella di un ragazzo deliziosamente effeminato, una checca smancerosa. È smaccatamente camp, con la sua mano floscia e la sua parlata cantilenante. ‘Sono gay’ dice ‘e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones.’ Ma nel pronunciare queste parole sfodera un’espressione maliziosa e divertita, e accenna un sorriso agli angoli della bocca. Sa bene che al giorno d’oggi è concesso atteggiarsi da checca e che, essendo un cantante pop, è quasi tenuto a scioccare e a creare scandalo. Magari a creare scandalo non ci riesce, ma di certo riesce a divertire» (p. 11).
melodymaker_bowie_jan22Nel pezzo Watts afferma che nonostante la nomea di compositore intellettuale, i suoi brani gli sembrano più un prodotto dell’inconscio che non dell’intelletto e forse questo è il motivo per cui Bowie ammira Syd Barret da cui probabilmente deriva l’approccio anticonvenzionale ai testi e se è Barret ad aprirgli la strada, continua Watts, spetta a Lou Reed ed Iggy Pop il compito di incoraggiarlo a percorrerla.

Il mix di androginia, fantascienza, sperimentalismo ed intreccio di identità che accompagna la pubblicazione di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars nel giugno del 1972, fanno da sfondo all’intervista “David al Dorchester” di Charles Shaar Murray (1972) per “New Musical Express” (UK). All’incontro sono presenti anche Lou Reed, la sua band (gli Spiders) ed Iggy Pop. Quando Murray fa notare al cantante che funk, camp e punk sono i termini più ricorrenti tra i giornalisti rock che parlano di lui, Bowie risponde che ciò si deve alla diffusa incapacità di esprimersi dei giornalisti. Non ritiene di avere a che fare col funk pur apprezzandolo: «Mi piace il funk, è torbido. Camp… Capisco perché lo usino. Una volta, quando c’erano gli entertainer, questa parola non esisteva; ma da quando gli entertainer vecchio stampo non ci sono più, ogni volta che qualcuno cerca di fare intrattenimento gli viene purtroppo affibbiata l’etichetta di ‘camp’. Non penso di essere più camp di chiunque in scena si sia sentito a proprio agio, di chi lo era più lì che giù dal palco […] Non saprei definire la mia musica. Nei nostri pezzi rock’n’roll ci sono sicuramente echi dei Velvet; il loro rock’n’roll ha una grande influenza su di me, anche più di quello di Chuck Berry, colui che ha dato il via al genere» (pp. 17 e 19). Murray nell’affermare che a suo avviso Bowie sta a Lou Reed come gli Stones a Chuck Berry, trova il consenso da parte del musicista.
Una parte della conversazione riguarda poi quella che l’intervistatore ritiene una progressiva trasformazione del rock’n’roll in rituale spettacolare ed a tal proposito Bowie sostiene che «Se c’è un aspetto di teatralità nei nostri concerti è perché siamo noi ad avere una certa presenza scenica, senza bisogno di scenografie o di un palcoscenico […] Ci sarà da piangere e da ridere nei prossimi anni, quando un mucchio di band tenterà di fare teatro pur non avendo alle spalle alcuna esperienza […] Resteranno solo quelle poche band strambe che hanno una consapevolezza tale da poter padroneggiare la propria teatralità. Iggy ha una teatralità innata. È un fatto interessante, perché è lontano da qualsiasi canone teatrale. È un teatro tutto suo, che si è portato dietro da Detroit, direttamente dalla strada […] In quanto a me, voglio essere proprio io, nel caso, la diavoleria scenica al servizio delle mie canzoni; voglio esserne il veicolo. Vorrei riuscire a colorare ogni brano della giusta espressività visuale» (pp. 19-20).

goodbye-ziggyL’intervista “Addio Ziggy, benvenuto Aladdin Sane” di Charles Shaar Murray (1973) per “New Musical Express” (UK) esce quando l’artista sta terminando Aladdin Sane, insomma è il momento della saetta sul viso. L’incontro si tiene presso i South Bank Studios della London Weekend Television. Circa i debiti nei confronti di altri artisti afferma Bowie: «Ascolto molti gruppi, ed è naturale che mi faccia influenzare da quelli che più mi piacciono. Se non fossi prima di tutto un fan, magari il mio lavoro sarebbe molto più personale, rispecchierebbe maggiormente la mia identità. Dal momento che sono profondamente immerso nella società in cui vivo, non posso fare a meno di usare gli strumenti con cui essa è stata creata dal punto di vista musicale. Ecco tutto, rubo – e poi uso – elementi di altri musicisti che ammiro e della loro musica» (p. 37).

In “Bowie riscopre il piacere di cantare” di Robert Hilburn (1974) per “Melody Maker” (UK) ci si sofferma sul disco di cover Pin Ups (1973), su Diamond Dogs (1974), sul doppio album dal vivo David Live (1974) e sulla registrazione di Young Americans. E proprio al soggiorno del musicista a Philadelphia per la registrazinoe di Young Americans risale “Bowie incontra Springsteen” di Mike McGrath (1974) per “The Drummer” (USA). A queste date l’inglese è più famoso del rocker americano che ancora non ha ottenuto il successo che arriverà con Born to Run: «Bruce era un po’ a disagio (come sempre quando non è sul palco), Bowie aveva l’aria di un marziano che cerca, senza riuscirci, di farsi passare per uno di noi» (p. 52).

Nel corso dell’intervista “Bowie: sono un uomo d’affari ora” di Robert Hilburn (1976) per “Melody Maker” (UK), il musicista inglese liquida Young Americans come inascoltabile e risulta restio a parlare del suo ultimo album, Station to Station. La conversazione si sofferma sul debutto di Bowie come attore in L’uomo che cadde sulla Terra (1976) e non manca qualche curiosa battuta sull’ipotesi di buttarsi in politica.

In “Addio a Ziggy e a tutto il resto…” di Allan Jones (1977) per “Melody Maker” (UK) Bowie dichiara di essersi deciso a rilasciare interviste «soltanto per dimostrare quanto io creda in quest’album. Sia Heroes che Low sono stati accolti con perplessità. C’era da aspettarselo, naturalmente. Ma Low non l’ho promosso affatto, e molte persone hanno pensato che non l’avessi fatto con il cuore. Voglio mettercela tutta per spingere le vendite del nuovo album. Vedi, credo più negli ultimi due album che in qualsiasi cosa abbia fatto in passato. Voglio dire, dei miei precedenti lavori sono molte le cose che apprezzo, ma poche quelle che davvero mi piacciono» (p. 70).
L’intervistatore ritiene che gli ultimi due album di Bowie, registrati a Berlino in collaborazione con Brian Eno, siano «tra i più audaci e stimolanti dischi che siano stati finora dati in pasto al pubblico rock. Questi due album, che non potevano che suscitare reazioni controverse, combinano le teorie e le tecniche della moderna musica elettronica con testi che vedono Bowie fare a meno delle forme narrative tradizionali in favore di un nuovo vocabolario adatto alla disperazione e al pessimismo che secondo lui dilagano nella società contemporanea» (p. 71). Di rientro dalla parentesi americana, afferma Bowie: «mi sono reso conto che dovevo sperimentare. Scoprire nuovi modi di scrivere. Di più, sviluppare un nuovo linguaggio musicale. Ecco ciò che mi sono prefissato di fare. Ecco perché sono tornato in Europa» (71).

bowie_zigzagL’intervista “Dodici minuti con David Bowie” di John Tobler (1978) per “ZigZag” (UK) è curiosa soprattutto per lo stile adottato dalla testata che all’epoca è una sorta di fanzine e riporta il colloquio quasi letteralmente, parola per parola, evitando il più possibile di strutturare il pezzo. L’incontro è organizzato nell’ambito della promozione di Heroes ed in alcuni passaggi Bowie si sofferma sulla collaborazione con Brian Eno: «ero stanco di scrivere nella maniera tradizionale come stavo facendo in America, e quando sono tornato in Europa ho preso in esame ciò che scrivevo e i contesti di cui stavo scrivendo e ho deciso che dovevo cercare un nuovo linguaggio musicale. Avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano perché mi sentivo un po’ perso e chiuso in me stesso, così ho chiesto a Brian Eno se voleva aiutarmi ed è così in realtà che tutto è cominciato» (p. 80).

Le collaborazioni con i registi David Hemmings e Nicolas Roeg ed il ricorso alla tecnica del cut-up nei suoi testi sono al centro della lunga intervista “Confessioni di un elitista” di Michael Watts (1978) per “Melody Maker” (UK). Incalzato dall’intervistatore circa il suo essere spesso associato alla fantascienza, Bowie risponde di non aver mai considerato i propri lavori fantascientifici: «non ho mai pensato di essere futuristico, anzi, ho sempre pensato di essere una figura molto contemporanea, legata al presente. Il rock è sempre indietro di dieci anni rispetto alle altre arti, ne raccoglie le briciole. Voglio dire, non ho fatto altro che servirmi di una tecnica che Burroughs aveva introdotto in letteratura diverso tempo prima. Ma ho utilizzato uno stile che nella letteratura è morto e sepolto, non si usa più da tempo» (p. 94).
Nel corso della conversazione si torna anche sul rapporto del musicista con Eno: «Grazie a lui ho iniziato a concepire la musica in un modo completamente nuovo, e mi è tornata la voglia di scrivere. Mi ha aiutato ad abbandonare la forma narrativa, di cui ero proprio stanco […] Poi Brian mi ha aperto gli occhi sull’idea del processo creativo, inteso come forma astratta di comunicazione» (p. 98).

Poco prima che Bowie inizi a recitare a Broadway nei panni del protagonista di The Elephant Man, viene realizzata la corposa intervista “Il futuro non è più quello di una volta” di Angus MacKinnon (1980) per “New Musical Express” (UK). Inevitabilmente una parte dell’intervista si sofferma sulle sue prove di attore che lo hanno visto recitare in film come Furyo, Basquiat, L’ultima tentazione di Cristo, Absolute Beginners, Miriam si sveglia a mezzanotte, Labyrinth – Dove tutto è possibile. Terminata la trilogia berlinese, il musicista si appresta a pubblicare Scary Monsters (and Super Creeps) ed in un passaggio in cui l’intervistatore lo incalza a proposito sulla sua ripetuta insoddisfazione circa quel che ha fatto fino a quel momento e lo invita ad individuare anche qualcosa di positivo, così si esprime Bowie: «L’idea che non si debba vivere esclusivamente sulla base di un unico e definito sistema di valori e di morale, che si possano indagare altre aree e altre dimensioni percettive provando ad applicarle alla vita di tutti i giorni. Credo che sia quello che ho cercato di fare, e penso di averlo fatto piuttosto bene. Talvolta, anche se soltanto a livello teorico, ci sono riuscito. Per quanto concerne la vita quotidiana, invece, non penso… Le mie origini piccolo-borghesi rappresentano per me un impaccio di cui cerco continuamente di liberarmi […] È semplicemente come se avessi un paraocchi e la mia visione fosse sempre più limitata. Cerco di continuo di strapparlo via e ridurlo in pezzi, ed è proprio allora che le cose si fanno pericolose, immagino» (p. 141).

Il 1983 è l’anno in cui esce Let’s Dance e ciò coincide con il successo internazionale nelle classifiche di vendita ma anche con il diffondersi tra i vecchi fan di una certa delusione per la strada intrapresa. È in tale contesto che si tiene “L’intervista su The Face” di David Thomas (1983) per “The Face” (UK) conclusasi con un’affermazione che, come afferma Sean Egan nell’introdurre il pezzo, sembra uscita più dalla bocca dei Clash che da quella di Bowie. Alla domanda di David Thomas circa quale consideri il crimine che più di ogni altro gli procuri indignazione, così risponde il musicista: «Vedere un uomo che umilia le sue capacità lavorando per qualcun altro, e doverlo accettare come un dato di fatto […] Sì, penso che sia davvero un crimine, un crimine continuo, che probabilmente causa più problemi sociali di qualsiasi altra cosa» (p. 170).

bowie-on-bowieDopo Let’s Dance (1983) è la volta di Tonight (1984) e dopo un periodo di silenzio con la stampa, che in molti imputano al timore di dover rendere conto della qualità delle ultime produzioni, Bowie si concede ad un giornalista notoriamente benevolo nei suoi confronti: “Sermone dal Savoy” di Charles Shaar Murray (1984) per “New Musical Express” (UK). Nel corso della conversazione Bowie si sofferma sul ruolo politico che possono rivestire gli artisti e sulle questioni sociali che attraversano il suo paese: «ha senso che le persone che svolgono le cosiddette professioni artistiche facciano incursioni in territori dove possono far valere le proprie competenze. Di contro, senza una profonda conoscenza dei problemi sociali dei nostri tempi è molto pericoloso fare incursioni in territori dove possiamo essere influenzati da forze esterne. È essenziale non farsi trascinare, e penso che per gli artisti che come me hanno una conoscenza solo superficiale del sistema politico e sociale sia un rischio schierarsi sotto qualsiasi bandiera politica» (p. 182).
Murray chiede anche a Bowie se si vede protagonista di qualche rivoluzione musicale ottenendo come risposta: «Nel rock penso sia molto difficile… Dopo aver espresso il tuo punto di vista iniziale, a meno che non se ne possa adottare più di uno, è difficile concepirne un altro che abbia la stessa potenza del primo. Per quanto mi riguarda, i primi anni settanta sono stati la mia occasione. Non credo che potrò impormi di nuovo come allora» (p. 188).

Dopo l’uscita di Never Let Me Down (1987) Bowie entra a far parte dei Tin Machine ed insieme al gruppo rilascia l’intervista “Boys Keep Swinging” di Adrian Deevoy (1989) per “Q” (UK). Nel corso del colloquio Bowie non manca di criticare le sue ultime produzioni da Let’s Dance a Tonight e Never Let Me Down ed ha modo di dichiarare la sua ammirazione per alcune band hardcore, trash metal e speed metal che ha avuto modo di ascoltare in America.
Durante il tour promozionale del secondo album dei Tim Machine, a Dublino viene rilasciata l’intervista mai pubblicata “Tin Machine II” di Robin Eggar (1991). Il tono della conversazione a cui partecipa la band è divertito.

L’uscita quasi in contemporanea dei dischi degli Suede e di Bowie è invece al centro di “Un giorno, figliolo, tutto questo potrebbe essere tuo…” di Steve Sutherland (1993) per “New Musical Express” (UK). Quella che doveva essere un’intervista al solo Bowie in uno studio di Camden, finisce per trasformarsi in un curioso scambio di impressioni tra Brett Anderson degli Suede e David Bowie sulla musica in senso stretto e sul mondo che gira attorno ad essa.

“Station to Station” di David Sinclair (1993) per “Rolling Stone” (USA) è invece una sorta di resoconto del “tour della memoria” che Bowie organizza a Londra alla ricerca dei suoi anni Settanta proprio in un periodo in cui quel decennio sembra essere tornato di moda. Si passa dalla visita al palazzo di Soho in cui si trovavano i Trident Studios ad un occhiata a quel che resta dei pub allora in auge nel South London, come il Thomas à Becket ove provavano Bowie ed i primi Spiders from Mars, poi è la volta di un salto nel cuore della città ad Heddon Street, dietro a Regent Street, ove è stata scattata la foto per la copertina di Ziggy Stardust, dunque un passaggio dal negozio in Charing Cross Road ove comprò il suo primo sassofono, poi la visita ai resti del Marquee Club ed all’Hammersmith Odeon (rinominato Hammersmith Apollo)… La conversazione si chiude su Mick Ronson, ormai malato terminale.

“Boys Keep Swinging” di Dominic Wells (1995) per “Time Out” (UK) è una doppia intervista che coinvolge, oltre a Bowie, anche Brian Eno e tocca soprattutto gli interessi artistici extra-musicali dei due. Anche in “Action painting” di Chris Roberts (1995) per “Ikon” (UK) la musica ha uno spazio per certi versi secondario; la conversazione tra Roberts e Bowie verte soprattutto sul postmodernismo, la recitazione e la letteratura.

In “Un geniale vecchiaccio” di Steven Wells (1995) per “New Musical Express” (UK) si salta repentinamente da un argomento ad un altro con una certa disinvoltura; si passa dalla fascinazione provata da Bowie per il misticismo nazista a metà anni Settanta, proprio quando l’estrema destra inglese sta facendo proseliti in Inghilterra, alla ricerca di spiritualità ed alla cupezza della gioventù americana… il tutto inframmezzato da qualche riferimento musicale in cui l’intervistatore ama insistere sui dischi di Bowie ritenuti peggiori.

«David Bowie è tra quei pochi che hanno direttamente influenzato il corso della musica popolare. Forse si può persino dire che Bowie è l’unico musicista che è riuscito a cambiare il volto del rock più di una volta nel corso della sua carriera» (p. 307). Da tali premesse prende il via l’intervista “Non è più A Lad Insane” di HP Newquist (1996) per “Guitar” (USA) che intende parlare soprattutto dei chitarristi con cui ha avuto a che fare Bowie: Mick Ronson, Robert Fripp, Reeves Gabrels, Adrian Belew, Carlos Alomar, Trent Reznor, Stevie Ray Vaughan…

bowie_mcqueenNel caso di “Fashion: turn to the left / Fashion: turn to the right” di David Bowie e Alexander McQueen (1996) per “Dazed & Confused” (UK), assistiamo ad una conversazione telefonica tra Bowie e lo stilista Alexander McQueen, British Designer of the Year del 1996. I due, un paio di anni prima, avevano concepito la redingote con la Union Jack indossata dal musicista anche per la foto della copertina di Earthling (1997) ed in questa chiacchierata discutono di moda evitando di prendersi troppo sul serio.

“Una stella ritorna sulla terra” di Mick Brown (1996) per “Telegraph Magazine” (UK) passa in rassegna i momenti salienti della carriera di Bowie fino alle soglie del suo cinquantesimo compleanno. In chiusura il pezzo iriporta un’affermazione di Brian Eno riferita esplicitamente all’amico: «Essere un camaleonte come lo era David è quantomeno poco convenzionale […] La cosa peggiore che possa capitare a una persona è non avere una chiara percezione di sé ed esserne terribilmente preoccupati. Ma io credo che sia arrivato alla conclusione che o si ha una percezione molto chiara di se stessi oppure non ci si preoccupa di non averla. Ora pensa solo: “Chi se ne importa!”» (p. 339).

“Changes Fifty Bowie” di David Cavanagh (1997) realizzata per “Q” (UK) è un’intervista raccolta in buona parte durante un tour americano. «All’inizio del 1996 Bowie è stato inserito da David Byrne nella Rock and Roll Hall of Fame di New York. Poi ha ricevuto il premio Outstanding Contribution to British Music al Brits di Londra. A novembre ha completato il suo ventunesimo album in studio, Earthling. Quest’anno David Bowie diventerà la prima rockstar quotata in borsa con titoli azionari a suo nome per un valore tra i trenta e i cinquanta milioni di sterline. Il giorno dopo il suo compleanno Bowie terrà un concerto di beneficenza al Madison Square Garden, dove la sua band di quattro elementi si arricchirà di ospiti speciali come Lou Reed, Foo Fighters, Sonic Youth e Robert Smith dei Cure. Nelle settimane che seguiranno a quell’evento Bowie vorrebbe dedicarsi alla lettura di un paio di sue biografie pubblicate di recente, Loving the Alien di Christopher Sandford e Living on the Brink di George Tremlett» (p. 341). Questo inizio di intervista sintetizza bene lo stato del successo di Bowie alla fine degli anni Novanta. Il pezzo di Cavanagh ha un po’ il tono di chi intende tracciare il bilancio della carriera di una popstar cinquantenne ancora ostinatamente sulla breccia.

Al bilancio della carriera sembra mirare, sin dal titolo, anche “Bowie. Una retrospettiva” di Linda Laban (1997) per “Mr. Showbiz” (USA). L’incipit dell’intervista conferma l’impressione: «David Jones nasce tra le macerie di una Gran Bretagna postbellica e cresce in una tetra periferia del sud di Londra. All’inizio degli anni settanta, David Bowie scuote la scena della musica hippie con una straordinaria visione apocalittica che, da allora, ha influenzato gruppi che vanno dai Cure ai Nine Inch Nails. Incapace di fermarsi un attimo, Bowie ha portato avanti un processo di reinvenzione artistica, se non addirittura personale, che può essere vista sia come una trasformazione calcolata che come un’ambiziosa ridefinizione della propria vita e della propria arte» (p. 354). Al di là della retrospettiva non mancano però alcune domande in cui l’intervistatore chiede a Bowie del suo rapporto con l’allora giovane mondo di internet.

Nel corso della promozione newyorchese di ‘hours….’ Bowie rilascia l’intervista “E ora dove avrò messo quei dischi?” di David Quantick (1999) per “Q” (UK) ed a proposito del nuovo album afferma: «ho cercato di catturare l’idea di canzone della mia generazione, perciò mi sono dovuto calare psicologicamente in una situazione di insoddisfazione nei confronti della vita, che nel mio caso non era reale. Dovevo crearmele le situazioni. Molto gira attorno a questo tizio che si innamora e si disinnamora ed è deluso e via dicendo. Non l’ho vissuto davvero, ma è stato un buon esercizio cercare di catturare ciò che vedevo, persino tra i miei amici, quel genere di vite vissute a metà, ed è proprio triste ma non ci si può fare niente, e loro si sentono incompleti, delusi e via dicendo» (p. 369).

“Bowie: l’uomo più elegante” di Dylan Jones (2000) per “GQ” (UK) è una conversazione con il musicista che nasce dal suo essere stato eletto “uomo più elegante dell’anno” dalla rivista. Degna di nota l’affermazione in chiusura di pezzo in cui Bowie dichiara: «Ho iniziato a introdurre le vecchie canzoni nei concerti attorno al ’97, quando ci esibivamo nel circuito dei festival estivi. In un contesto del genere c’è da presumere che non tutti siano venuti per te. Devi pensare: ‘Che cazzo, meglio che gli faccia ascoltare qualcosa che conoscono!’» (p. 382).

“Vale più di un mucchio di album di successo, questo. Grazie mille” di John Robinson (2000) per “New Musical Express” (UK) è un’intervista a Bowie fresco della coraggiosa, quanto (decisamente) opinabile, nomina da parte della rivista di “artista rock più influente di tutti i tempi”. Il tono proposto dall’intervistatore è dunque all’insegna della celebrazione e, per stemperare un po’ il clima, Sean Egan, introducendo il pezzo pubblicato da “New Musical Express”, afferma: «quest’intervista confermerà la principale obiezione dei detrattori di Bowie, ovvero che l’artista è spesso sembrato motivato non dall’amore verso il rock o il pop ma verso il proprio ego. O per dirlo con parole sue: ‘Ero sempre più interessato a cambiare ciò che io percepivo come musica pop…’» (p. 384).

All’insegna della ricostruzione della carriera è anche “Contatto” di Paul Du Noyer (2002) per “Mojo” (UK). Nonostante la recente uscita di Heathen (2002), l’intervistatore concede al nuovo album poco spazio preferendo passare in rassegna le tappe principali della carriera di Bowie dagli esordi sino alla “trilogia berlinese”. Così Bowie sintetizza la sua decisione di intraprendere, in giovane età, la strada musicale: «Amavo l’arte, il teatro e i tutti modi in cui ci si può esprimere con la cultura, e pensavo davvero che il rock fosse un ottimo modo per non dovervi rinunciare. Si possono infilare i mattoncini quadrati nei fori rotondi: incastrandoceli a forza finché non entrano. È un po’ quello che cerco di fare: un po’ di fantascienza di qui, un po’ di kabuki di qua, un filo di Espressionismo tedesco di là. È come se fossi circondato da amici […] Non sapevo scrivere una canzone, non ero particolarmente portato. Mi sono sforzato di essere un bravo cantautore, e sono diventato un bravo cantautore. Ma non avevo predisposizioni naturali. Ho lavorato tantissimo per diventare bravo. E l’unico modo che avevo per imparare era osservare gli altri» (pp. 396-397).

bowie_somaNichilismo, esistenzialismo e fine del mondo sono al centro di “David Bowie: una vita sulla terra” di Ken Scrudato (2003) per “Soma” (USA). «Ma non ero andato lì per parlare delle sonorità della chitarra o di produttori e sprecare un’opportunità. Che siano le riviste musicali a occuparsi di certi argomenti […] Volevo sapere questo: David, in questo nuovo mondo postmoderno, così sconcertante e deludente, perché e come diavolo fai a farlo ancora?» (p. 407). Così inizia il pezzo di Scrudato per “Soma”, rivista che si autodefinisce “voce e visione influente di arti avanguardistiche, moda, cultura e design”. Questa è, in definitiva, la risposta di Bowie circa cosa diavolo lo spinge a continuare per la sua strada: «Non so quante altre cose ancora mi restano da fare, sai? Ma fare musica è senz’altro in cima alla lista. Mi diverte moltissimo; adoro scriverla, adoro crearla. E penso che ognuno di noi abbia una passione che lo assorbe, della quale possiamo nutrirci: una storia d’amore con la vita. Penso che sia una sensazione che sta diventando sempre più difficile da accendere, ma cos’altro potrei fare se non questo?» (p. 413).

Sulle note di The Loneliest Guy, una ballata al piano piena di tristezza e nostalgia, si apre l’intervista “Un giorno perfetto” di Mikel Jollett (2003) per “Filter” (USA) e le prime tre considerazioni che il giornalista annota sul taccuino sono: «Pensiero 1: Questa canzone la sentiremo spesso alla radio. Pensiero 2: La sua sarà una rentrée niente male. Pensiero 3: Amo il mio lavoro» (p. 416).
Quando la conversazione si sofferma su Andy Warhol, artista a cui spesso, forse troppo ed a sproposito, è stato associato Bowie, così liquida bruscamente la questione il musicista inglese: «Non l’ho mai conosciuto. Voglio dire, cosa c’era da conoscere? Andy era difficile da inquadrare. Ancora oggi mi chiedo se nella sua mente passasse qualcosa. A parte le cose superficiali che diceva. Non so se facesse dei pensieri profondi, davvero non lo so. O se invece era solo un’astuta checca che aveva centrato lo Zeitgeist, ma non con l’intelletto. Diceva solo cose come (imitando perfettamente la parlata effeminata e strascicata di Andy Warhol): ‘Wow, hai visto chi c’è lì?’. Non andava mai, dico mai, più a fondo di così. (Adottando nuovamente la parlata strascicata.) ‘Accidenti, ma ha un aspetto fantastico. Quanti anni avrà ora?’. Di certo Lou [Reed] conosceva Andy molto, molto meglio di me. E lui dice sempre che nella sua testa ne passavano di cose. Ma io non ho mai avuto questa impressione» (p. 418).

Nell’ultima intervista proposta da Sean Egan, “Te la ricordi la tua prima volta?” di Paul Du Noyer (2003) per “The Word” (UK), il giornalista «ci fa capire come il rapporto tra un fan e un artista possa cambiare quando il primo diventa un giornalista professionista che si ritrova spesso vicino il suo vecchio idolo» (p. 425). Così scrive Paul Du Noyer: «La mia fedeltà verso Bowie non è mai vacillata nel corso degli anni settanta. Se mi rifiutai di vedere il magnifico tour di Ziggy Stardust è perché, da adolescente snob quale ero, non sopportavo i nuovi fan, quelli che lo avevano appena scoperto. E benché amassi Aladdin Sane e Diamond Dogs non riuscivo a tollerare le zazzere cremisi, le calzamaglie e la generale sgradevolezza dello stile glam rock. Quando si trasformò nel soul boy di Young Americans iniziai finalmente a considerare il look di Bowie accettabile, e nel 1976 decisi di seguire il suo nuovo grande tour, quello in cui nelle vesti del Sottile Duca Bianco promuoveva Station to Station […] In seguito andai a vederlo tutte le volte che si esibì a Londra: prima accanto a Iggy Pop nel 1977, poi all’Earls Court e infine nel 1983, quando fece tappa in città con il Serious Moonlight Tour, quello che promuoveva l’album della svolta commerciale (Let’s Dance) […] Negli anni ottanta un David più solare si mise a passeggiare lungo i boulevard del pop. Ma io non vidi in ciò un miglioramento. Mentre gli eccessi fisici e i disordini mentali degli anni settanta furono almeno accompagnati da album meravigliosi (Ziggy Stardust, Low e così via), il decennio successivo lo vide andare avanti per forza d’inerzia e pubblicare dischi mediocri come Never Let Me Down. Ero in preda alla disillusione […] Oggi Bowie considera quello un periodo di crisi creativa» (p. 439).

L’ultima intervista pubblicata dal volume si tiene nel novembre del 2003, successivamente escono The Next Day (2013) e l’antologia Nothing Has Changed (2014). L’ultimo album di David Bowie viene pubblicato l’8 gennaio 2016, un paio di giorni prima della morte, inevitabilmente accolto come una sorta di testamento recante come titolo una semplice blackstar.

Su Carmilla, il nostro Dziga Cacace, in un pezzo intitolato David Bowie, ecco, steso di getto a ridosso della scomparsa del musicista, nel gennaio del 2016, scrive «giusto due righe sulla parentesi musicale che tutti stanno dimenticando e che invece è paradigmatica di come Bowie sia stato un artista geniale, capace di reinventarsi ogni volta. Mi riferisco a quando ha deciso di far parte di una band, con identici diritti e doveri dei compagni di squadra: i Tin Machine, esperienza non solo sottovalutata ma anche apertamente osteggiata da tantissima critica dell’epoca e mai pienamente rivalutata dopo». A conferma di quanto scritto dal nostro, in diverse interviste tra quelle selezionate e pubblicate da Sean Egan, l’ostilità della critica musicale anglosassone nei confronti dell’esperienza di David Bowie con i Tin Machine è esplicita e ripetuta.

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La discoteca di Babele: Jimi and Randy play together https://www.carmillaonline.com/2014/09/25/discoteca-babele-jimi-and-randy-play-together/ Wed, 24 Sep 2014 22:05:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17427 di Sandro Moiso

Whiskyatnight 004 Soltanto, in un lontano numero di “Creem”, Lester Bangs aveva parlato di una fantomatica registrazione live degli Spirit di Randy California con Jimi Hendrix. Dopo la morte del giornalista nessuno aveva più fatto cenno al concerto e neanche nelle innumerevoli registrazioni live o in studio pubblicate dopo la morte di Randy California, nel 1997, era mai apparso alcun riferimento a tale evento.

Oggi la Kismet, casa discografica nota soltanto per aver ristampato su cd il disco dei Taos, un gruppo del 1970, in parte californiano ed in parte newyorkese a metà strada tra i Poco [...]]]> di Sandro Moiso

Whiskyatnight 004 Soltanto, in un lontano numero di “Creem”, Lester Bangs aveva parlato di una fantomatica registrazione live degli Spirit di Randy California con Jimi Hendrix. Dopo la morte del giornalista nessuno aveva più fatto cenno al concerto e neanche nelle innumerevoli registrazioni live o in studio pubblicate dopo la morte di Randy California, nel 1997, era mai apparso alcun riferimento a tale evento.

Oggi la Kismet, casa discografica nota soltanto per aver ristampato su cd il disco dei Taos, un gruppo del 1970, in parte californiano ed in parte newyorkese a metà strada tra i Poco ed i Buffalo Springfield, mette a disposizione degli appassionati la registrazione (le note di copertina non chiariscono se dell’intero concerto o soltanto di una parte di esso) dell’incontro avvenuto il 26 aprile 1970 tra Jimi Hendrix e Randy California sul palco del Whisky A-Go-Go, storico locale di Los Angeles, posto all’incrocio tra Clark e Sunset Boulevard.

In realtà Jimi e Randy si conoscevano almeno dal 1965, quando il giovane Randolph Craig Wolfe aveva incontrato casualmente Hendrix in un negozio di chitarre di New York. Da lì era nata un’amicizia che avrebbe portato Jimi ad offrire a Randy il posto di secondo chitarrista nei suoi Jimmy James & the Blue Flames poco prima, però, di partire per l’Inghilterra nel 1966. Randolph era originario di Los Angeles e fu proprio il chitarrista nero e mancino a soprannominarlo, per questo motivo, “California”. Soprannome che diventò da allora il nome d’arte attraverso cui tutti l’hanno poi conosciuto.

Mentre Jimi iniziava a giganteggiare nel mondo del rock e del blues, Randy aveva dato vita, insieme al patrigno Ed Cassidy di trent’anni più vecchio, Jay Ferguson e Mark Andes ( che già avevano precedentemente suonato con Cassidy nei Red Rooster) e, infine, a John Locke agli Spirit. Uno dei migliori e, allo stesso tempo, più sottovalutati e sfortunati gruppi californiani a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
spirit 1
Già dal primo album, intitolato semplicemente Spirit e pubblicato nel 1968, avevano miscelato rock, folk e jazz, grazie soprattutto alle esperienze precedenti di Cassidy e Locke, in maniera estremamente originale, dando vita ad una psichedelia morbida, illuminata da squarci di improvvisazione chitarristica e pianistica lontani da ciò che la scena californiana aveva proposto fino ad allora. Infatti gli Spirit potrebbero difficilmente essere inseriti nel filone dell’acid rock.

Il secondo album, The Family That Play Together , raggiunse il ventiduesimo posto in classifica nel 1969, mentre il terzo, Clear, non riscosse grandi successi di vendita, pur essendo all’altezza dei due precedenti. Soltanto con il quarto, e di fatto ultimo, album della formazione originale, Twelve Dreams of Dr. Sardonicus, avrebbero raggiunto il disco d’oro…ma soltanto sei anni dopo la sua pubblicazione, quando il gruppo non esisteva più da almeno quattro anni!

Il concerto del 26 aprile 1970, di cui qui si parla, avviene dunque dopo la pubblicazione del terzo album (luglio 1969) e prima della pubblicazione del quarto (novembre 1970) e il giorno successivo del trionfale concerto di Jimi Hendrix con la Cry of Love Band al Los Angeles Inglewood Forum.
Sul palco troviamo Jimi e Randy alle chitarre e voci, Billy Cox al basso elettrico, Ed Cassidy alla batteria e John Locke al piano. Un quintetto, quindi, formato dai migliori componenti delle due band.

E l’effetto si sente da subito. Da quella Fresh Garbage, tratta dal primo album degli Spirit, che dà modo a tutti di riscaldare immediatamente muscoli, menti e pubblico con i suoi ritmi latini alternati a stacchi rock che permettono ai due chitarristi e a Locke di improvvisare in chiave jazz sull’intricata ritmica di Cassidy e Cox per quasi otto minuti.
Poi è la volta di Hey Joe, uno dei brani più famosi di Hendrix, che California suonerà più volte su album e dal vivo negli anni successivi. Una versione in cui l’effetto mexico è sottolineato dal pianoforte di Locke, mentre il basso di Cox ne esalta le linee fondamentali e le due chitarre si incrociano negli a solo, quasi a farsi indistinguibili. Anche qui circa sette minuti di pura passione musicale.

Ma è il terzo brano a travolgere l’ascoltatore: una All Along The Watchtower che si trasforma prima in un medley dylaniano quasi commovente (comprendente anche Like a Rolling Stone e My Back Pages) e poi in un autentico tornado di feedback. Dylan è stato un autore molto amato sia da Hendrix che da Randy e qui ne risulta un’autentica celebrazione, in cui l’assolo di pianoforte di Locke sulle note di My Back Pages costituisce l’autentica ciliegina sulla torta. Prima dei 12 minuti finali in cui il gruppo e le chitarre sembrano volare via con tutto il locale su un’astronave interstellare.
34 minuti complessivi…che trascorrono in un battibaleno. Anzi, forse anche troppo in fretta per l’ascoltatore che, ormai intossicato, ne vorrebbe ancora e ancora e ancora…

Anche All Along The Watchtower è una canzone che farà parte, fino alla fine dei suoi giorni, del repertorio live delle varie formazioni successive degli Spirit. Così come la successiva I Got A Line on You, tratta dal secondo album, che, con i suoi stacchi, tempi sincopati e controtempi permette ai due chitarristi di rivaleggiare degnamente e di supportarsi a vicenda durante i cinque minuti della sua durata.

Poi è la volta I’m Truckin’, in cui il protagonista diventa il basso funky di Cox che trascina decisamente ed implacabilmente la trasformazione del brano, tratto dal terzo album Clear, in direzione dell’hendrixiana Machine Gun, dimostrando ancora una volta il grande affiatamento tra Jimi e il suo ex-commilitone subentrato a Noel Redding. Inutile dire che rullanti, tom tom e piatti di Cassidy non vengono mai meno al loro compito, così come la chitarra di California.
Sull’affiatamento di California con il suo ex-mentore giocava la precedente amicizia ed esperienza comune tanto da far sì che Randy sia poi stato, insieme a Jeffrey Lee Pierce e Stevie Ray Vaughn, uno dei più importanti continuatori del chitarrismo hendrixiano.

spirit 2Altri dieci minuti se ne sono andati e lì arriva la botta finale. Room Full of Mirrors, forse uno dei brani più aperti e sperimentali di Hendrix, eseguita la sera prima al Los Angeles Forum, ritorna in tutta la sua grandezza e in tutto il suo disordine, permettendo alle due Fender e a tutti gli altri strumenti di dare il meglio di sé. Quindici minuti e poi cala il sipario.
Il pubblico dell’epoca è frastornato, così come l’ascoltatore odierno.
Torna il silenzio nel lento spegnersi del ronzio degli amplificatori (grazie al tecnico del suono che non l’ha tagliato!).

Il bagliore di una nova si spegne nel buio del cosmo.
Da lì a poco Hendrix lascerà definitivamente il pianeta (18 settembre 1970) e poco più di un anno dopo gli Spirit originali, dopo l’abbandono di Andes e Ferguson, si spegneranno grazie anche ad una brutta caduta da cavallo di Randy che lo terrà lontana dai concerti e dalle sale di incisione per molto tempo.

California, dopo molti alti e bassi e varie formazioni degli Spirit ( in cui l’unico elemento di continuità sarà dato dalla presenza di Ed Cassidy alle percussioni) morirà a soli 46 anni, all’inizio del 1997, nel tentativo (riuscito) di salvare il figlioletto dalle onde e dai gorghi del Pacifico presso Molokai, alle Hawaii, luogo d’origine della madre.
Ed Cassidy morirà nel 2012 all’età di 89 anni.
A noi restano alcuni dischi e questo grande, indimenticabile concerto.

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Stevie Ray Vaughan: Life Without You https://www.carmillaonline.com/2013/08/27/life-without-you/ Mon, 26 Aug 2013 22:01:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8406 di Filippo Casaccia

srv01The sky is crying, Look at the tears roll down the street

Non so bene se questo sia un omaggio o cosa. Di solito è tempo di commemorazioni quando gli anni passati fanno cifra tonda o è un quarto di secolo, ma il pezzo m’è venuto così, ora, e ve lo servo pari pari, senza stare a girarci troppo intorno. Dunque, la prendo larga: tra amanti del blues ci si sente membri di una piccola setta. Quelli che guardano gli altri con un po’ di superiorità, perché NOI, a differenza vostra, sappiamo da dove veniamo. Questa musica che [...]]]> di Filippo Casaccia

srv01The sky is crying,
Look at the tears roll down the street

Non so bene se questo sia un omaggio o cosa. Di solito è tempo di commemorazioni quando gli anni passati fanno cifra tonda o è un quarto di secolo, ma il pezzo m’è venuto così, ora, e ve lo servo pari pari, senza stare a girarci troppo intorno.
Dunque, la prendo larga: tra amanti del blues ci si sente membri di una piccola setta. Quelli che guardano gli altri con un po’ di superiorità, perché NOI, a differenza vostra, sappiamo da dove veniamo. Questa musica che impasta dolore e gioia, che è la radice di tutto e che da tutto prende, è una febbre da cui non si guarisce.
Quando si parla di musica, ci riconosciamo subito, come se avessimo un odore particolare. Basta un cenno, un nome, specificare che quella Stratocaster è del periodo pre CBS o che il tale ha suonato con John Mayall… Quando non c’era la Rete queste quisquilie erano gli unici modi per mandarsi segnali in codice.
E una volta stabilito il contatto, si passava alla logorrea, consigliandosi dischi e artisti e non di rado prestandosi proprio i supporti, avendo fede, perché uno che ama il blues non può arrecartelo. Magari si teneva i tuoi dischi troppo a lungo, ma per amore. Però poi te li rendeva, potevi starne certo, proponendoti le sue scoperte.
Un artista che si scambiava poco – perché più o meno tutti lo avevano – era Stevie Ray Vaughan. Prima della sua morte, nel 1990, però, dopo essere stato un segreto per iniziati, era diventato anche fonte di grosse discussioni.
Si parlava di lui e gli integralisti sbraitavano: suona commerciale. È imposto dalle case discografiche. Vuole vendere. Quante sonore cazzate! Come se i dischi si producessero per tenerli sugli scaffali.
Il texano col cappellaccio, vestito con kimono sgargianti, era inviso a molti che lo vedevano come un pagliaccetto. Il motivo è il solito in cui cascano i saputelli, e noi bluesofili – come s’è detto – siamo i saputelli peggiori e ci piace far parte di quella carboneria che adora l’oscuro bluesman, sconosciuto, non inquinato dal mercato. Perché – assioma immortale, anche adesso che la discografia è alla canna del gas – se uno ha successo, allora significa che ha accettato compromessi o s’è venduto. Figuriamoci se è bianco, poi.
Invece in USA, dove non si fan troppe seghe mentali e il blues lo conoscono eccome e i poseurs li sgamano a distanza, il chitarrista nato a Dallas ma cresciuto artisticamente ad Austin ha rappresentato un fenomeno clamoroso e, praticamente da solo, ha fatto rinascere un genere. Aveva l’immagine, certo (e MTV se n’era resa conto), ma sapeva anche suonare. E di brutto.
Un’intera generazione ha ripreso in mano la chitarra, ispirata da quel tizio scatenato, e ascoltando i suoi dischi ha scoperto gente come Albert e Freddie King, Buddy Guy, Otis Rush, Albert Collins o semplicemente Jimi Hendrix: tutti progenitori del Little Brother Stevie. Tutti con carriere rivitalizzate e tranquille vecchiaie assicurate dal risorgere della loro musica d’elezione.
Io, che sono un sempliciotto molto meat n’ potatoes, Vaughan l’ho adorato subito, proprio perché ero un ignorante, senza filtri, e grazie a lui ho allargato a dismisura i miei orizzonti.
Però, poi, scoprendo gli originali e assuefatto alla produzione pulita e (giustamente) “contemporanea” di Stevie, anche a me negli anni Novanta è venuta una crisi di rigetto e all’erede postmoderno che tutto ricombinava preferivo la crudezza dei maestri classici.
Il problema non era tanto SRV ma la sua sovraesposizione. Era morto, un cadavere squisito perfetto per la necrofilia di fine millennio: il fratello Jimmie, già nei notevoli Fabulous Thunderbirds, curava uscite di inediti e live, con l’affetto fraterno e la cura del musicologo, certo, ma aiutando la Sony a intasare un mercato che già aveva avuto il meglio del musicista di Austin.
E fedelmente si acquistava, finché non è subentrata un po’ di noia. Non si trattava del tremendo sfruttamento di Hendrix – certo – senza alcuno a curarlo filologicamente (fino a pochi anni fa, ma è un’altra storia), però il troppo stroppia, sempre. E mi è servito aspettare alcuni anni per tornare ad assaporare Stevie, depurato dalle scorie mediatiche e anche dotato di consapevolezza da guru bacucco, ormai maturo e distaccato dalle mode.
srv02E ora che le cose le vedo con la giusta distanza, con la saggezza di chi tutto ha assaggiato e con l’equilibrio che l’età impone, posso dire serenamente che Stevie Ray Vaughan era uno STRACAZZO DI INCREDIBILE MAESTRO, uno che merita il posto nel Pantheon a fianco dei Grandi, unico nella sintesi e nella riproposizione, la cui importanza non è solo nell’aver convertito masse di biancuzzi a quel suono e a quella storia, ma anche perché ha scritto brani splendidi (non tantissimi, ma è anche morto presto) e ha messo in scena una tecnica chitarristica paurosa, alzando l’asticella ed emarginando tanti cialtroni, che pensavano bastasse schitarrare una pentatonica e cantare di cotone raccolto e donne infide ed eravamo tutti bluesmen.
E no, cari. Serve altro.
Serve essere cresciuti in uno stato come il Texas, eccedendo nel cicchetto fin da ragazzino, con tantissimi amici neri da cui imparare. Mangiando polvere nei peggio locali fino a un insperato contratto discografico con John Hammond Sr., quello che già aveva scoperto Dylan, Aretha e Bruce.
Dopo tanto parlare di questo prodigio, la créme musicale lo vede esibirsi a Montreux nell’estate del 1982. È un caso più unico che raro: una band senza contratto, ma Claude Nobs, il geniale patron svizzero che organizza il festival, ha capito che qui c’è qualcosa di unico. David Bowie e i Rolling Stones rimangono scioccati dalla performance ed è il primo a cogliere la palla al balzo: Stevie libera la sua chitarra su Let’s Dance, ma rifiuta di partire in tour perché non si mollano così i compagni di strada, i Double Trouble, dopo tanti anni di gavetta assieme.
Anche Jackson Browne ha visto l’incendiario concerto estivo e mette a disposizione gratuitamente il suo studio a Los Angeles dove il travolgente Texas Flood viene partorito in poco tempo. La ricetta, in studio e live, è deflagrante: boogie, shuffle, rock n’roll, lenti in maggiore e minore, scorribande strumentali virtuosistiche, escursioni jazzate e cover che omaggiano la Storia del genere. Le mani enormi e fortissime di Vaughan non hanno limiti: suona scordato di mezzo tono come faceva Jimi e con un incordatura col Mi cantino da 0.13, praticamente un cavo d’acciaio, e lo piega fino a 4 semitoni. Se suonate la chitarra sapete cosa intendo, se non lo sapete, invece, fidatevi. È roba tosta, con un tono, un attacco e un sustain unici, aiutato da poca effettistica e da tantissimo feeling e da una conoscenza enciclopedica del repertorio e del vocabolario del blues.
Arrivano il successo, i piazzamenti nella classifica di Billboard, e dai saloon si passa alle arene in pochissimo tempo. Aumenta anche il consumo di droga e alcol e i dischi sono belli, sì, ma, dopo l’esordio aspettato per dieci anni, un po’ appannati, non così rivoluzionari. Senza quel fenomenale tiro live.
Fino al collasso per consunzione prima di salire su un palco tedesco nel 1986 e il ricovero, la disintossicazione e la rinascita.
In Step del 1989 è un album bello, moderno e classico allo stesso tempo, dove il blues si sposa col funky e col rock. Rilancia il profilo del chitarrista: nuovi concerti e ritrovati status artistico e salute, combattendo giorno per giorno, passo dopo passo, la battaglia contro l’alcol.
Finché dopo una jam con Eric Clapton, tra le montagne di East Troy, in Wisconsin, il 27 agosto 1990, si prende l’elicottero sbagliato e si muore a soli 36 anni. Nella nebbia, tra gli amici increduli.
Postumo esce l’album Family Style, realizzato col fratello Jimmie sotto il geniale sguardo paterno di Nile Rodgers (altra bella storia: Black Panther, chitarrista per tanti bluesman e leader degli Chic). E va altissimo in classifica, vince un Grammy e sbanca, perché quando sei morto tutti ti vogliono bene e vogliono ascoltarti ancora una volta e piangerti e perché il singolo Tick Tock sembra prodotto apposta per far divampare l’incendio emozionale. Perché in fondo era una semplice bella canzone, tra le tante altre.
E se avete dubbi sulla sua tecnica, ascoltatevi la monumentale rilettura di Little Wing: si passa dalla diteggiatura di Hendrix alle ottave di Montgomery, mettendoci in mezzo tutto lo scibile chitarristico, urlando e sussurrando.
Ecco, Stevie Ray Vaughan è stato il primo musicista che ho amato, morto mentre lo stavo apprezzando. Negli anni dopo, molti (e io tra di loro) sarebbero rimasti orfani di Freddie Mercury, Kurt Cobain o Jeff Buckley, ma quello è stato il mio primo vero lutto musicale.
Ero in vacanza con gli amici di sempre e la notizia appresa alla radio ci lasciò senza parole. Avevo con me solo una cassetta di Texas Flood, che cominciò ad andare in loop sul portatile, mentre ascoltavamo attoniti e orfani.
Per la prima volta capivo veramente cosa fosse il blues.

srv03

Da ascoltare
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: Texas Flood (1983)
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: In Step (1989)
The Vaughan Brothers: Family Style (1990)
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: The Sky is Crying (1991, postumo)
Da leggere
Stevie Ray Vaughan: Caught in the Crossfire di Nick Patoski e Bill Crawford (1994)
Stevie Ray Vaughan: Day by Day, Night After Night di Craig Hopkins (2010)
Da vedere
Live at the El Mocambo (concerto del 1983; 1991)
Live At Montreux: 1982 & 1985 (2004)

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