Stefano Erasmo Pacini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Che la memoria non si perda https://www.carmillaonline.com/2022/05/25/che-la-memoria-non-si-perda/ Tue, 24 May 2022 22:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72049 di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Malamente. Una educazione maremmana, Effigi, 2022, pp. 299, € 18,00.

La storia delle rivoluzioni è un’interminabile sequenza di sconfitte. Alle corse sfrenate sui pendii della vita, alle intuizioni geniali, agli amori che ti riempiono lo stomaco di farfalle, seguono le cadute nei crepacci, le ossa rotte, le carni aperte, il buio e le sue creature mostruose. E allora che senso ha questa fatica di Sisifo che si ripete a ogni generazione di ribelli? Nessuno, verrebbe da dire. Almeno che di tutti questi slanci eroici non rimanga la [...]]]> di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Malamente. Una educazione maremmana, Effigi, 2022, pp. 299, € 18,00.

La storia delle rivoluzioni è un’interminabile sequenza di sconfitte. Alle corse sfrenate sui pendii della vita, alle intuizioni geniali, agli amori che ti riempiono lo stomaco di farfalle, seguono le cadute nei crepacci, le ossa rotte, le carni aperte, il buio e le sue creature mostruose. E allora che senso ha questa fatica di Sisifo che si ripete a ogni generazione di ribelli? Nessuno, verrebbe da dire. Almeno che di tutti questi slanci eroici non rimanga la memoria e la sua narrazione mitica: “non è importante che tutto sia finito, è importante che abbiamo fatto quello che dovevamo fare, è importante che sappiamo che è stato giusto farlo, senza nessun rimorso. È importante che rimaniamo liberi, qualcuno deve rimanere per raccontarla, che la memoria non si perda, almeno quella, mi raccomando, se no moriamo anche noi prima che ci seppelliscano.” Fausto si rivolge così a Paco in Malamente, il nuovo romanzo di Stefano Erasmo Pacini, finalmente uscito nella sua interezza su carta, dopo che alcune parti erano state pubblicate a puntate su “Carmilla”.

Paco, l’alter ego letterario dell’autore, da bambino guarda i film al contrario dietro il telo; crescendo si batte per un mondo migliore insieme a molti altri, viaggia e sogna a occhi aperti per tutta la vita. Raccoglie poesie, cartoline, lettere mai spedite, racconti popolari, storie familiari e territoriali; è una spugna di memorie che assorbe dai genitori, dai nonni, dagli incredibili abitanti di un far west maremmano e da una folla di personaggi caratterizzati con pochi tratti vivaci. C’è l’ex minatore Mirto che conosce i sentieri dei partigiani, il Cavalier Mondiale che cerca di disquisire con chiunque di politica internazionale, Tex/Sheridan che entra nel bar dello sport con il cappello da cow boy, l’impermeabile bianco e la pistola giocattolo a fulminanti; c’è Icaro che costruisce una macchina per volare e ci sono gli amici e le amiche: Alessio, Anna, Cesare, Marcello, Stella e molti altri ancora. Un’infinità di nomi, di avventure, a volte vissute, altre ascoltate, sempre rinarrate, con un linguaggio scorrevole, colorito da toscanismi, punteggiato da folgorazioni poetiche.

Il romanzo è diviso in tre parti. La prima è la storia familiare dei genitori e dei nonni, il fascismo, la guerra, la descrizione di un mondo contadino in cui esistevano cataloghi di donne meridionali da sposare e l’accensione del televisore era un vero e proprio rito: “Quando annunciai trionfalmente a Santi – il nonno di Paco – che l’uomo era sbarcato sulla luna lui si mise a ridere, tirò un cureggione e mi disse: ‘eh, poerini, so’ tutte novelle!’” Nella seconda parte il protagonista frequenta l’Istituto tecnico minerario, aderisce a Lotta Continua e si ribella a un’esistenza predeterminata dall’etica del lavoro. È l’età dell’oro, gli anni settanta del secolo scorso: cadono i recinti delle spiagge private e si raggiunge il Portogallo rivoluzionario in Mini Minor, ma è anche l’epoca in cui un amico può morire durante una manifestazione: “La cosa che mi ricordo con maggiore piacere di quel movimento è il senso di intimità e tenerezza collettiva, una tribù solidale con un futuro da conquistare. Il non sentirsi mai soli ma parte di un fiume in piena.” L’ultima parte del racconto si svolge quando la battaglia per rivoluzionare il mondo sembra ormai persa. Questo è cambiato, ma non nella direzione auspicata: al posto della Cantina Sociale adesso ci sono le “boutique di vini” e la campagna assomiglia a un cimitero diffuso per colpa degli americani che piantano cipressi ovunque, non sapendo che sono alberi funebri. Paco si rifugia nella fotografia e si guadagna da vivere a prezzo di un duro lavoro. Lo ritroviamo prima nella ex Iugoslavia martoriata dalla guerra e poi a Siena come gestore di un bar rifugio di anime perse: punk, studenti malinconici, profughi senza documenti, giovani compagni.

Malamente è un libro corale, la storia di una generazione vista da una prospettiva periferica, ma forse proprio per questo, intima e straniante. A volte sembra di essere di fronte a un album di foto in bianco e nero. Poi di tratto le immagini si muovono, appaiono i colori, i profumi e le canzoni che portiamo nel cuore. I volti di quei giovani che guardano le stelle nella notte sono i nostri, non ci sentiamo più soli, ma parte di un racconto infinito. Le sconfitte non ci devono far paura, basta narrare le lotte e le aspirazioni che le precedettero. L’immaginario di quelle avventure ispirerà altri che verranno dopo di noi.

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Hai vissuto o no? Il viaggio fotografico di Stefano Erasmo Pacini https://www.carmillaonline.com/2021/05/07/hai-vissuto-o-no-il-viaggio-fotografico-di-stefano-erasmo-pacini/ Thu, 06 May 2021 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66232 di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Figli dei fiori e figli del vento, Bam, 2021, pp. 130, € 15,00.

Il ribelle e il rom: chi rifiuta la norma sociale e chi per vicissitudini storiche ne è rimasto ai margini. Per questa condizione liminare entrambi scorgono orizzonti possibili che vanno oltre la miseria della vita sprecata, entrambi ne pagano un prezzo doloroso. È questa la connessione metaforica che attraversa Figli dei fiori e figli del vento, il nuovo libro fotografico di Stefano Erasmo Pacini.

Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso un’ondata di [...]]]> di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Figli dei fiori e figli del vento, Bam, 2021, pp. 130, € 15,00.

Il ribelle e il rom: chi rifiuta la norma sociale e chi per vicissitudini storiche ne è rimasto ai margini. Per questa condizione liminare entrambi scorgono orizzonti possibili che vanno oltre la miseria della vita sprecata, entrambi ne pagano un prezzo doloroso. È questa la connessione metaforica che attraversa Figli dei fiori e figli del vento, il nuovo libro fotografico di Stefano Erasmo Pacini.

Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso un’ondata di contestazione culturale, politica ed esistenziale investì ogni ambito della vita sociale spingendosi ben oltre i centri urbani. Arrivò ad esempio in Maremma e l’autore di questo volume – come racconta in forma romanzata in Educazione maremmana – ne fu travolto. Questa sua internità risalta fin dalla prima carrellata di ritratti, quasi una schedatura fraterna di sguardi che alludono ad altre dimensioni di desiderio e di libertà.
L’estetica fotografica aspira a cogliere un istante decisivo, capace di schiudere nuovi significati: decine di ragazze e di ragazzi dai capelli lunghi sorridono, suonano la chitarra, si abbracciano. Sono figli di contadini, di operai e di minatori, ma non credono più all’etica del sacrificio dei propri genitori. Hanno vestiti ampi, scialli, jeans sdruciti, polacchette consumate; fumano stravaccati, amoreggiano in un fienile, siedono di fronte a una tenda canadese e con lo zaino in spalla partono per il viaggio archetipico della vita. Quando i loro occhi lucidi incontrano i nostri ci interrogano: “Che cosa hai fatto dei tuoi anni? Dove hai sepolto il tuo tempo migliore? Hai vissuto o no?” Pacini antepone al suo testo introduttivo queste parole di Dostoevskij perché gli scatti raccolti nel libro assomigliano al ripercorrere junghiano della prima parte della vita. Senza mai cadere nella nostalgia, il fotografo ritiene infatti che la memoria e la riflessione sul passato siano il tessuto immaginario di ogni progetto di liberazione, personale e collettiva.

Poi ci sono le immagini dedicate ai rom che curvano in modo originale la rete di significati della prima sezione: torme di bambini i cui schiamazzi sembrano uscire dalle foto, una sposa vestita di bianco in una roulotte, anziani seduti davanti a mura di foratino senza intonaco, uomini baffuti, lamiere di metallo. Dai non luoghi delle aree di sosta anche questi volti ci chiedono con impertinenza: “sei felice?”, “se ti guardi indietro, qual è il tuo bilancio?”
Noi guardiamo loro, loro ci guardano dentro, e in questa spirale possiamo avvertire la vibrazione lontana di quello “stato di grazia” in cui tutto sembrava possibile. I potenti ne ebbero grande paura, serrarono le fila, ristrutturarono le fabbriche, disciplinarono la società e, dopo un attento lavoro di rabbia e di scienza, ebbero la meglio. Non soddisfatti aggredirono anche la memoria, affinché di quel periodo restasse solo il colore della notte.
Sfogliando Figli dei fiori e figli del vento possiamo invece vedere quale giornata di sole vi fosse prima del buio, e tornare a immaginare le imprese che verranno.

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Educazione maremmana #6. Che la memoria non si perda https://www.carmillaonline.com/2020/11/15/educazione-maremmana-6-che-la-memoria-non-si-perda/ Sat, 14 Nov 2020 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63106 di Stefano Erasmo Pacini

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Le mie Colonne d’Ercole le avevo varcate mesi prima, dopo l’occupazione e la cacciata di Lama dall’Università di Roma. Avevo pianto di gioia, avevamo infranto l’ultimo tabù, era ora. Le università erano occupate contro la circolare Malfatti, a Roma in particolare il Movimento era fortissimo, i fascisti avevano provato a fare irruzione come nel ‘68, respinti, avevano sparato, ferendo in modo gravissimo un compagno. Alla manifestazione del giorno dopo, il 2 febbraio, in seguito all’incendio della sede dei fasci, c’era stata una [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Le mie Colonne d’Ercole le avevo varcate mesi prima, dopo l’occupazione e la cacciata di Lama dall’Università di Roma. Avevo pianto di gioia, avevamo infranto l’ultimo tabù, era ora. Le università erano occupate contro la circolare Malfatti, a Roma in particolare il Movimento era fortissimo, i fascisti avevano provato a fare irruzione come nel ‘68, respinti, avevano sparato, ferendo in modo gravissimo un compagno. Alla manifestazione del giorno dopo, il 2 febbraio, in seguito all’incendio della sede dei fasci, c’era stata una sparatoria tra noi e la polizia con altri feriti gravi; le occupazioni però, invece di scemare, erano aumentate ovunque, con il Pci tagliato fuori, il partito che prendeva su di sé il ruolo di gendarme “democratico”, che tacciava tutto il Movimento di essere in mano a provocatori, squadristi, intimandoci di sgomberare le facoltà occupate, che così ostacolavamo la sua politica di compromesso storico e sacrifici.
Quel giorno, in realtà, il Pci non voleva tenere nessun comizio, nessun dialogo, voleva semplicemente affermare di fronte alle istituzioni che con noi non c’entrava più nulla, non eravamo figli suoi né legittimi né illegittimi, eravamo nemici. Era un po’ anche uno psicodramma collettivo, il tradimento dei padri, la rabbia dei figli, non più una contrapposizione politica, ma una guerra, definitiva. Giornali che sino al giorno prima avevano tuonato contro il ‘68 e gli estremisti, che all’improvviso ne tessevano le lodi per contrapporli alla nostra marmaglia violenta, per dividerci. Quel giorno è iniziata l’opera di sistematica distruzione del Movimento, delle forze più vive e critiche della società, della scelta per molti obbligata, e già perdente, della lotta armata. Il Pci è riuscito in questa opera in pochi anni, senza ottenere nulla in cambio, neppure un ministero di lenticchie, senza neanche accorgersi di gettare i semi del suo stesso suicidio, ben prima della caduta del muro di Berlino.
Sin dalla mattina la tensione era palpabile, squadre di persone coprivano tinteggiando le nostre scritte sui muri, erano edili e operai romani del servizio d’ordine del Partito, orgogliosi delle proprie mani rovinate dal lavoro, colmi di diffidenza per noi studenti sfaticati, erano vecchi rispetto ai nostri vent’anni, e venivano da una galassia lontana. Montavano un apparato pazzesco di altoparlanti su di un camion; neppure volendo si sarebbe potuto ascoltare il comizio di Lama, era troppo potente, era assurdo, come la situazione. Il resto è noto, ma rivedo al rallentatore sempre la stessa scena: a un certo punto Mau, di fianco a me, nel parapiglia, con la faccia pesta per una bastonata di un tipo con un impermeabile che ci urlava “Pariolini di merda, in Siberia!” e io che urlavo con gli altri “Via! Via, la nuova polizia!” caricando poi con centinaia di compagni e rovesciando quel camion fortificato che ci sembrava un enorme carro armato russo. Pensai che ce l’avrebbero fatta pagare cara, che ci avrebbero schiacciati, non ci sarebbe bastata una vita per sfuggirli, che eravamo davvero soli, ma almeno, se dovevamo, saremmo morti da esseri liberi e non da schiavi.
Le promesse che seminavamo creavano grandi aspettative, seguite da delusioni immani, disastri emotivi. Ho confinato quei pochi lunghissimi mesi in un recesso della mia mente. Ma mi hanno forgiato per il resto della mia vita. Il 16 marzo del ’78 capii che era iniziata la fine.

Ci eravamo sbattuti tantissimo per creare una radio nostra, libera, anarchica, di movimento. Come e più di Radio Brigante Tiburzi a Grosseto. E lo facemmo con mezzi leciti o meno, coinvolgendo in un canto del cigno anche Alessio e i suoi amici, chiunque ci capitasse a tiro e ci potesse far gioco. A un certo punto era tutto pronto, l’antenna, gli amplificatori, il microfono, con Claudio facemmo anche la prova: “Uno, due, tre, prova, sì, prova, ci siamo, qui Radio Malaria, uno due tre…” Ma non c’era più nessuno in giro, le riunioni andavano semi deserte, sparivano tutti tra Massa, Follonica, Grosseto, chi arrestato, chi suicida, chi con l’ero, chi fuggiva lontano, le donne per conto loro, nelle due stanze nei vicoli non ci passava più nessuno, cosa potevamo dire da soli? Le attrezzature rimasero a prendere polvere, poi le rivendemmo a quattro soldi, alla fine chiudemmo anche le stanze. Ricordo una delle ultime sere, gli chiesi a cosa fosse servita tutta questa nostra storia, tutto quello che avevamo fatto, perché dovesse finire così. Claudio Tuttopenne, il capellone che faceva innamorare schiere di ragazzine, mi sorrise nelle tenebre, ma la sua voce era cupa: “Non è importante che tutto sia finito, è importante che abbiamo fatto quello che dovevamo fare, è importante che sappiamo che è stato giusto farlo, senza nessun rimorso. È importante che rimaniamo liberi, qualcuno deve rimanere per raccontarlo, che la memoria non si perda, almeno quella, mi raccomando, se no moriamo anche noi prima che ci seppelliscano.”

Ho conosciuto la solitudine dopo che per un tempo ostile avevo cambiato spesso casa, città. Ero disposto a tutto prima di perdere la libertà. Invece non si sa per quale combinazione di istinto, caso, amicizia, nessuno mi ha denunciato nessuno mi ha arrestato. Un mio vecchio compagno di Roma che poi è diventato un medico affermato, mi ha procurato un biglietto aereo e i contatti giusti. Mi ha fatto cambiare aria per un po’. Nel posto giusto al momento sbagliato. Sono andato prima a Damasco, poi a Beirut, ospite dei nostri compagni palestinesi del Fplp. Proprio quando l’esercito israeliano ha deciso di regolare i suoi conti con l’Olp, con Abu Ammar, noto in occidente come Yasser Arafat. Mi tornò in mente in quei giorni Lawrence d’Arabia, film che mi fece sognare viaggi esotici dopo averlo visto da ragazzino in paese in un cinema affollatissimo. La vita poteva diventare ferocemente ironica: mi ritrovai in una città bella, dolente con bambini dagli occhi grandi, curiosi e allegri, che correvano a frotte, impegnati in giochi di guerra finta con armi vere. Mi ritrovai in una guerra vera con gli israeliani che giocavano con le milizie palestinesi intrappolate in città come il gatto con il topo. L’urlo delle ambulanze della Mezzaluna Rossa che spesso riportava i pezzi di quei ragazzini.

Ho pensato che almeno mi potevo rendere utile e combattere anche qui la mia battaglia. Non avevo più nulla da perdere. Eppure mi sentivo vivo in quella disperata allegria, in quel mondo che subito mi aveva accolto come un figlio, trattandomi come un ospite di riguardo. Vivevo presso la famiglia di un medico dirigente del Fplp che parlava italiano; si era laureato a Roma. Hamed mi spiegava la situazione politica e militare, mi portava spesso al piccolo ospedale da campo che era stato allestito tra le macerie dei bombardamenti. Nei momenti liberi mi facevo dare lezioni da alcuni miliziani con armi anticarro. Giravo con una pistola alla cintura, che Hamed mi aveva dato dicendomi con un sorriso che così adesso ero diventato la sua guardia del corpo. Visitavamo molte case e campi, decine di volte ci accoccolavamo per prendere tè e dolci, ovunque ero presentato come un rivoluzionario italiano, amico fraterno del popolo palestinese e della sua causa. Ricevevo decine di abbracci e benedizioni, da parte mia masticavo un po’ di frasi in arabo; a parte i convenevoli la mia preferita era “Thawra atta’ nasr – Rivoluzione fino alla vittoria”. A casa, Rashida badava a tre bambini dagli occhi neri, la femmina, Jasmina, faceva il segno di vittoria con le manine e poi sorrideva, guardandomi con aria interrogativa solo quando il tonfo cupo delle esplosioni sempre più vicine faceva tremare tutto come in un terremoto. In quel caso la prendevo in braccio mentre Rashida prendeva per mano gli altri due fratellini e scappavamo con altre famiglie in una cantina che faceva da rifugio antiaereo. Lì, alla luce fioca di una lampada a gas, sotto lo sguardo benevolo dei poster di Arafat, Habbash e Leila Khaled, Rashida mi parlava senza abbassare gli occhi o nascondere con fazzoletti il suo volto, bellissimo. In un inglese, molto migliore del mio, mi diceva come stesse lavorando per l’organizzazione con le donne palestinesi, come fosse fiduciosa che questa rivoluzione ormai in marcia non si sarebbe fermata fino a che la Palestina non fosse stata liberata, i suoi uomini, le sue donne, emancipati. Ero io invece, con imbarazzo, ad abbassare gli occhi quando mi chiedeva della nostra rivoluzione. Era lei a farmi coraggio alla fine, un giorno mi disse di non disperare mai, e mi citò una poesia di Hikmet: “la speranza, la speranza, la speranza: la speranza è nell’uomo”. Non so che fine abbiano fatto, in seguito mi dissero che avevano perso i contatti con Hamed e la sua famiglia, pare si fossero trasferiti a Damasco.
Estate del 1982, bombardamenti dal cielo, dal mare e da terra, tra una partita e l’altra del campionato del mondo di calcio. Ho scoperto che i ragazzini palestinesi erano tutti per noi: “Paolo Rossi, squadrazzurra!” Foto di una umanità urlante ma orgogliosa, bagliori di bombe e di tv con il commento in arabo delle partite, i gol di Pablito intervallati dalle urla dei feriti e dei miliziani, gli shebab che gioivano dei gol. Chissà che bei bianco e neri, ma non li ho mai visti, la Yashica per una cannonata è finita sotto dei calcinacci, le tendine sfondate, i rulli dispersi durante la fuga precipitosa. Dopo un abbraccio frettoloso con Hamed e Rashida, mi hanno caricato quasi a forza su un vecchio Mercedes che mi ha riportato a Damasco, ordini superiori, non volevano martiri italiani, ne avevano d’avanzo in proprio. L’Italia ha vinto il campionato del mondo, ma non abbiamo potuto vedere la finale, l’arbitro era israeliano e le tv arabe non l’hanno trasmessa. La radio sì, urli di gioia nella notte, raffiche di mitra sparate in aria. L’ultima festa per molti di loro, prima che Abu Ammar fosse costretto in esilio a Tunisi, prima del massacro di Sabra e Shatila.

Niente da fare, sono rimasto vivo, sono sopravvissuto anche a questo inferno.

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Educazione maremmana #5. “Sempre viva l’anarchia!” https://www.carmillaonline.com/2020/11/08/educazione-maremmana-5-sempre-viva-lanarchia/ Sun, 08 Nov 2020 12:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63100 di Stefano Erasmo Pacini

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La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina. Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina.
Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a prezzi stracciati. L’hai mai provata? Ah, è bellissima, è pazzesca, come fai a spiegarla? Appena ti buchi senti un’onda calda da capo a piedi, un vero e proprio orgasmo con il tuo corpo, poi subentra una pace liquida enorme, beata, che speri non termini più. Ma quando riemergi non fai più vita, perché avverti quello che hai perso in maniera insostenibile. E allora, che tu lo voglia o no, prima o poi ti rifai, e come ti fai ti accorgi che ti fa un po’ meno e allora magari ti rifai prima e poi… a quel punto sei del gatto, vivi solo per la bianca, non esiste altro, non te ne frega più niente, tutto viene dopo. Mi faccio schifo ma è così, non so che farci”
Neppure noi sapevamo che fare. Cercavamo di cacciare gli spacciatori, ma spesso erano ragazzi come Brio o Alessio diventati tossicodipendenti; i trafficanti grossi erano mafiosi tollerati dal potere. L’equazione era semplice: più eroina, più debolezza, meno giovani arrabbiati, meno guai.
Brio non si compativa né voleva esserlo, spesso metteva su quello che chiamava teatro-guerriglia, con travestimenti, spettacoli surreali di poesia e di mimo. All’Umbria Jazz lo ritrovai che raccontava come avesse fatto l’autostop a un commenda che poi l’aveva ospitato due giorni a casa sua, sfamandolo e rivestendolo, gli era parso doveroso scoparselo prima di andarsene. Brio non si faceva recuperare da nessuno, scappava anche dalle comunità terapeutiche, riusciva sempre ad ironizzare sui propri mali e le sue debolezze.
Su un conto della spesa aveva scritto: “Solo perché voleva vivere lo aiutarono a morire presto.” Una volta riuscì a convincermi a comperare insieme a lui cinquantamila lire di erba. Naturalmente non avevo più visto né le une né l’altra, ma quando lo incontravo glielo ricordavo, così, giusto per farlo sentire un po’ in colpa. Finché una sera Brio mi fissò negli occhi e mi domandò se la nostra amicizia era più o meno importante di quattro soldi, e mi dette un libro di poesie di Ferlinghetti, rubato di fresco. Con l’andare del tempo la legge lo dichiarò delinquente abituale, finì confinato in un paesino di montagna, come fosse un mafioso. Lo incontrai l’ultima volta per caso lì, nel bar alimentari, ma non lo riconobbi subito, aveva i capelli completamente bianchi, sembrava un vecchio, camminava adagio. Era già malato di aids, il ricordo che avevo di lui non collimava più con la realtà. Poi mi parlò, e il suono familiare della sua voce mi fece capire con un tuffo al cuore chi fosse. Mi chiese di rendere giustizia a un suo amico, lasciato morire in overdose da un medico che aveva rifiutato il soccorso. Fino all’ultimo non si è mai disperato, scriveva poesie, alle volte sui muri con lo spray.
Del suo giro di amici, a distanza di pochi anni, non è sopravvissuto nessuno, e questo è accaduto in tutta Italia. Iniziarono a morire dapprima in maniera sporadica, con titoli giganteschi dei giornali locali. Poi sempre di più, a un certo punto a decine, tanto da meritarsi a fatica un articoletto in cronaca locale, tra una premiazione scolastica e una sagra della ranocchia fritta. Una generazione di desaparecidos dell’eroina, senza clamore o ricordo storico, morti senza possibilità di alcuna giustizia sia pur postuma. Di lui mi rimane un libro di Ferlinghetti e una poesia che aveva vergato nell’ultima pagina:

Parlare
iperparlare
la ragione sragiona
e ha ragione
se i mentecatti vinceranno
non ci saranno più i pazzi che ridono.


Mia sorella si era laureata, sposata e stabilita nel lontano Meridione. Mia madre mi disse che aveva discusso con mio padre e ora si aspettavano che anch’io scegliessi una facoltà: “Lascia perdere la politica, tagliati i capelli, datti una regolata e studia davvero e se no, se non vuoi fare l’università, come tecnico minerario sulle piattaforme petrolifere pagano bene, sai?
Ci parlavamo sempre meno, non esisteva più lo spirito del fantastico avamposto di campagna. I nonni uno a uno si erano spenti, sempre più scettici su un mondo irriconoscibile per loro. I miei erano sempre più stressati a causa di lavori che non lasciavano che rari momenti liberi, si sorrideva sempre meno, le comodità, gli elettrodomestici, i soldi, che adesso permettevano di cambiare anche l’arredamento e avere due auto, non compensavano la dignitosa povertà di un tempo. Oltretutto non riuscivano a capire la mia rabbia, il mio gesticolare e maledire, le discussioni finivano spesso male. Mio padre riusciva a mantenere la calma anche se spesso scuoteva la testa, cercava di farmi ragionare portandomi ad esempio Torquato, il nostro vicino di podere diventato senatore del Pci. Non capiva che quel tipo di politica per me non solo era finita, ma nemica. Un giorno, dopo l’ennesima scaramuccia, mia madre non si tenne più: “Accidenti a te e a chi ti ha fatto porcoddissi! Tanto lo sentii appena incinta che crostino saresti stato! E poi dopo la tu’ sorella che mi fece vedere i sorci verdi e non si capiva se sarebbe campata o no…figurati se ti volevo! Ho fatto di tutto per tirarti giù, ballare fino alle tre di notte, dare una mano a tuo padre in campagna, portare secchi pieni d’acqua, pesi… niente, sei nato di quasi cinque chili e hai cominciato a mangiare tutto, anche il buio avresti mangiato! Non arrivavi ancora con la testa al bordo del tavolino e già prendevi la roba da mangiare nel piatto di tua sorella, tanto che lei dalla rabbia ha cominciato finalmente a mangiare, in un certo senso le hai salvato la vita, ma di due figlioli qui non se ne fa uno a garbo!”
E lanciò l’asciughino dentro l’acquaio, uscendo di casa. Rimasi muto, non riuscii a ribattere niente, come facevo solitamente. Impietrito, anche se non lo detti a vedere. “Gli uomini devono essere forti, gli uomini non devono mai piangere, gli uomini non devono far capire cosa hanno dentro, ma agire.” Avevo da essere uomo, per forza.

Alla fine mi iscrissi a Filosofia a Firenze, ma a tempo pieno frequentavo solo i collettivi, spostandomi anche a Roma. Ci eravamo stufati di farci sparare addosso. Iniziammo a fare riunioni semi segrete, a staccarci dai vecchi gruppi che predicavano la rivoluzione a parole e poi partecipavano alle elezioni con risultati pessimi.
Tornai in paese per il funerale di Silvio “il leone”. Lo chiamavo così per via dei capelli forti e foltissimi. Piccolino e sorridente non dimostrava gli anni che aveva; curava la bacheca del gruppo anarchico Pietro Gori, suonava il mandolino e era un bravissimo creatore di mascheroni di carnevale con la carta pesta. Mi aveva raccontato di Pietro Gori, Bakunin, Malatesta e Durruti, delle sue peripezie per il mondo, di fatti meravigliosi e sconosciuti, come l’occupazione della chiesa a Scarlino per farne un teatro, con la storia del Bartolomei che dopo questi eventi, perseguitato dal fascismo era andato in esilio in Francia dove aveva ucciso in una sparatoria un prete italiano spia dell’Ovra fascista, per fuggire poi in Belgio, emigrando definitivamente, all’arrivo dei nazisti, a Montevideo, dove continuò a sostenere con collette e articoli la stampa libertaria. Mi aveva raccontato della vita dissoluta di Quisnello Nozzoli, ciabattino massetano, rissaiolo, agitatore, finito a Barcellona durante la guerra civile a infilzare con una spada i franchisti dichiarandosi anarchico trionfante. Riparato poi in Messico dopo esser transitato per Cuba, e ritornato in Italia alla fine della guerra. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltarlo. Silvio ci offrì di dividere la sua bacheca con i nostri sogni. La sua vita era stata tutta una avventura e noi ragazzi ribelli lo ascoltammo sempre con stupore e rispetto.
Piansi come un bimbo ma stavo piangendo anche quella stagione di scoperte e stupori che mi sembrava così lontana e perduta. Ci ritrovammo tutti insieme, forse per l’ultima volta, vecchi e giovani, riempiendo la via fino alla porta medioevale che guarda verso Siena. Un vecchio compagno del Cln ricordò la sua incrollabile fede in un mondo migliore, libero, solidale. La sua schiena dritta negli anni bui, le persecuzioni patite. Alla fine della cerimonia mentre Mau urlava “Sempre viva l’anarchia!” e il carro funebre con la bandiera rossa e nera partiva per il crematorio di Livorno, si avvicinò silenzioso alle mie spalle Mirto e mi disse in un soffio: “Paco stai attento, ho sentito dal responsabile del Partito che i carabinieri ti stanno curando, stai attento per favore. Questi scherzano poco, buttano via la chiave.” Poi mi dette una occhiata di sbieco scuotendo la testa, si allontanò come se non mi avesse neppure visto.

 

 

Ho cominciato a essere più circospetto, ma neppure per un attimo ho pensato a tirarmi indietro. Istinto e fortuna mi aiutavano. L’istinto animale che ti fa percepire un pericolo senza spiegarlo. Avevamo un appartamento in centro a Firenze dove alcuni di noi vivevano e altri transitavano, per organizzare manifestazioni e diffondere stampa insurrezionalista e movimentista, il cui confine con le formazioni clandestine era labile, specialmente per la polizia. Quella mattina ero appena arrivato nella via sotto casa, ma qualcosa di inspiegabile mi aveva bloccato. Una forza misteriosa mi aveva obbligato a tornare indietro. Dopo un po’ di fronte a una vetrina avevo visto un tipo che mi seguiva. Era sicuramente della squadra politica della questura. Avevo raggiunto apparentemente tranquillo una libreria in centro, sempre col tipo che mi pedinava. Entrato dentro avevo chiesto a un commesso che conoscevo, uno di quei ragazzi assunti per qualche mese che simpatizzavano per noi e spesso chiudevano gli occhi sui libri portati via o pagati in parte, se ci fosse una uscita secondaria. Aveva capito subito, senza fare una piega mi aveva guidato in magazzino e da qui in un vicoletto laterale. A fatica ero riuscito a dirgli un grazie sottovoce. Il giorno dopo da Roma potevo leggere di sei arresti tra gli studenti universitari di Firenze. Alcuni sarebbero stati rilasciati dopo pochi mesi, altri dopo diversi anni.

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Educazione maremmana #4. Con la Yashica nella rivoluzione portoghese https://www.carmillaonline.com/2020/11/01/educazione-maremmana-4-con-la-yashica-nella-rivoluzione-portoghese/ Sat, 31 Oct 2020 23:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63028 di Stefano Erasmo Pacini

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Rompemmo gli indugi appena finite le scuole, e decidemmo di partire anche noi e di andare a vedere. Si era sparso un tam tam in tutta Europa: a Lisbona, a Lisbona a sostenere la Rivoluzione! Hanno fatto anche un film di successo su quel periodo, Alla rivoluzione sulla due cavalli. Noi invece andammo con la Mini Minor prestata dal fratello di Alessio, dopo una mega colletta tra tutti gli amici a cui Brio contribuì con un tocco di fumo, le nonne e [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Rompemmo gli indugi appena finite le scuole, e decidemmo di partire anche noi e di andare a vedere. Si era sparso un tam tam in tutta Europa: a Lisbona, a Lisbona a sostenere la Rivoluzione! Hanno fatto anche un film di successo su quel periodo, Alla rivoluzione sulla due cavalli. Noi invece andammo con la Mini Minor prestata dal fratello di Alessio, dopo una mega colletta tra tutti gli amici a cui Brio contribuì con un tocco di fumo, le nonne e le mamme con salami e bocce di vino. In autostrada pilotava come un pazzo Alì, che aveva la patente da un mese. Alì accelerava sorpassando decine di camion sulle strade spagnole e intanto ci urlava che non si sarebbe mai sposato, nel caso di abbatterlo a raffiche di mitra. Con me faceva scintille, per le mie risate a queste uscite. Oltre tutto la Mini aveva il difetto di non partire a freddo, per cui ogni volta che ci fermavamo per più di un’ora toccava partire a spinta come fosse un bob e poi balzarci dentro al volo. Non sempre c’erano discese ad aiutarci, da qui le discussioni su chi dovesse spingere, degenerate in un’alba piovosa alla frontiera spagnola in urla e spintoni, tanto che la Guardia Civil quasi non ci faceva passare, dopo averci insultato e sputato addosso avendo capito che non eravamo certo turisti.

Stavamo in un vecchio albergo abbandonato con i pavimenti in legno occupato dagli italiani di Lotta Continua, in Rua do Prior a Lisbona. Sopra il portone uno spray rosso aveva tracciato grande la scritta “AARPI”, che stava per Associazione di Amicizia Rivoluzionaria Portogallo-Italia. Dalle finestre vedevamo il Tago e mezza città. Dormivamo sopra brande che erano state dei soldati portoghesi nelle colonie in Africa, ce le avevano portate i soldati rivoluzionari di una vicina caserma, soldati con i capelli lunghi che partecipavano in divisa e armati ai cortei di sinistra che percorrevano tutti i giorni la città; ci sembrava di sognare. Scorrazzavamo insieme a giornalisti tedeschi per il centro di Lisbona o nelle fattorie occupate dell’Alentejo, scattavo foto trattenendo il respiro, sorridendo, immaginando il risultato. Perché quella che si respirava era la Libertà, il rovesciamento della dittatura aveva liberato un entusiasmo immenso. La luce incredibile della città sul Tago mi aveva incantato: vecchi tram, palazzi coperti di azulejos, mercati all’aperto dove potevi trovare di tutto, dalle scarpe all’erba angolana, dagli zingari che suonavano nenie tristi a neri giganteschi che volevano solamente parlarti, curiosi di capire da dove venivi e cosa succedeva nel tuo paese. Studenti universitari attaccavano manifesti giganteschi e striscioni in stile maoista, ragazzini a piedi nudi come i nostri scugnizzi napoletani si rincorrevano dietro un pallone di stracci, un vecchietto malmesso ma con l’aria dignitosa mi domandava se volevo comperare un mensile anarchico che si chiamava “Merda” con la “a” cerchiata. Alla radio nazionale occupata da un collettivo di giornalisti lasciammo in dono alcuni dischi; una mattina accendendo la radio ci emozionammo capendo: “disco, dono di compagni italiani, Area – gruppo popolare internazionale”. Subito dopo sentimmo la voce inconfondibile di Demetrio Stratos:

La mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Spesso scortavamo il corrispondente del nostro giornale, un tipo che ci sembrava vecchio, anche se in realtà avrà avuto trent’anni, che la sera tardi dopo aver avuto la linea nel palazzo dei telefoni dettava l’articolo a Roma. Non ci ha capito mai niente comunque, né in Portogallo, né anni dopo in Iran al tempo della rivoluzione contro lo Scià, ma si è prontamente riciclato come opinionista in doppio petto nelle tv del Cavaliere.

Spesso lasciavo poltrire a Rua Do Prior Mau e Alì e me ne andavo con la Yashica a fotografare in giro per la città, felice di trovare ovunque capannelli di persone che discutevano animatamente, leggevano giornali, seguivano manifestazioni improvvisate, mettevano su banchetti dove si vendeva di tutto, in una fiera continua. Manuel era un ragazzo sveglio, un ladruncolo del Rossio in grado di vendere qualsiasi cosa o di procurarla in poche ore. Uno spilungone olivastro la cui mobilità degli occhi neri contrastava con la flemma dei movimenti. Si era incaponito di vendermi un chilo di ottima erba angolana a trentamila lire, come se non avessi dovuto superare le frontiere spagnola e francese al ritorno in patria. Mi raccontava della sua infanzia in Angola, i suoi genitori erano coloni portoghesi poveri, partiti con le pezze al culo e tornati dopo il 25 aprile più poveri di prima. Rimpiangeva il respiro d’Africa, me ne parlava tutte le volte che rimanevo un po’ lì ad ammirarlo lavorare e trafficare: “Il respiro immenso dell’Africa tu lo puoi sentire, capisci? Non ti abbandona mai, è caldo, pesante, ti entra dentro, tu sei quel respiro a un certo punto. La notte è solo un respiro più buio e caldo, ti avvolge passando la zanzariera, la luce accecante del giorno non ce la fa a dissiparlo. È un respiro di tutto il continente, lo capisci a un certo punto, non è solo l’Angola, è tutta l’Africa che ti respira addosso, in faccia, dentro. Amo questa città, ma dall’Africa non si guarisce più, nonostante la fatica, le malattie, l’essere scappati senza neppure un soldo. Non ci tornerò mai più, ma non ne guarirò mai, lo sento.”
Pensavo che fosse possibile esportare ovunque il modello portoghese, ma una sera arrivò una notizia tremenda: in Spagna il dittatore Franco respingendo le richieste di grazia da tutto il mondo aveva fatto fucilare cinque antifascisti baschi e catalani. Un corteo di migliaia di persone mosse verso l’ambasciata di Spagna, distante diversi chilometri; ci unimmo di corsa. Entrammo strada facendo dentro il consolato, poi dentro la compagnia Iberia, polverizzandoli con mazze, picconi e mani nude, non ci fermò nessuno, molti ci applaudivano mentre urlavamo i nomi dei fucilati, la polizia stava a guardare, non voleva rogne. Arrivati all’ambasciata, un palazzo immenso, trovammo un bus a due piani dirottato da un gruppo di ladruncoli del Rossio tra cui Manuel: mentre noi spaccavamo tutto, loro “salvavano” argenteria, quadri, mobiletti, automobili persino; il loro mercato parallelo ci visse per settimane. Dopo alcune ore arrivarono dei camion carichi di paracadutisti, presero a sparare raffiche di mitra in aria per disperderci. Me ne ritornai in Rua Do Prior a piedi, trascinando a mo’ di trofeo una targa dell’ambasciata strappata dal portone. Per strada mi abbracciavano, scambiandomi per spagnolo.

Tornai diverso. Era possibile cambiare anche in Europa, spazzare via i vecchi regimi, cominciare a praticare la rivoluzione. Cadeva la dittatura dei colonnelli in Grecia, dopo che gli studenti avevano sfidato i carri armati, si sfaldava il regime franchista in Spagna, dopo la morte del generalissimo, il vecchio boia della guerra civile. Diventavano indipendenti le ex colonie portoghesi in Africa, i Vietcong entravano a Saigon mentre gli americani fuggivano. Stavamo facendo la storia, cambiavano destini apparentemente immutabili, la nostra adrenalina, la forza stessa della nostra gioventù ci faceva sentire inarrestabili. Cresceva anche in Italia il movimento dei soldati, quello dei disoccupati, a Napoli nasceva un collettivo autonomo di contrabbandieri.
Il regime democristiano veniva travolto nel referendum sul divorzio, anche i miei genitori hanno iniziato a votare il Partito comunista. Basaglia riusciva dapprima a togliere le inferriate, poi a chiudere i vecchi manicomi lager. Di più, in quegli anni spariva praticamente il Festival di Sanremo. In compenso, al concerto di Frank Zappa a Roma, c’erano tutti i fricchettoni d’Italia. Marcello dava un volantino di Stampa Alternativa con scritto a caratteri di scatola “la musica si sente, il biglietto non si paga!” Un gruppetto riuscì a scavalcare le cancellate del palasport inseguito dalla polizia. All’interno la folla si aprì per accoglierli, richiudendosi subito dopo per non far passare gli sbirri; meglio della scena del Mar Rosso nel film su Mosè, e Zappa attaccava con una versione travolgente di Hot Rats. Qualcuno ha detto che la nostra generazione ha preso per un’alba quello che in realtà era un tramonto. Se anche fosse? Aveva colori bellissimi.

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Educazione maremmana #3. Interrail https://www.carmillaonline.com/2020/10/25/educazione-maremmana-3-interrail/ Sat, 24 Oct 2020 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63023 di Stefano Erasmo Pacini

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Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere in strada era più che un problema, un miracolo. Iniziai a scorrazzare a tutte le ore del giorno e della notte, visto che bruciava anche la benzina agricola. Inoltre fui assunto come operaio stagionale alla cantina sociale dove mio padre era stato eletto presidente: facevo i campioni dell’uva che arrivava per determinarne il grado zuccherino dopo averla pesata, meritandomi bestemmie e maledizioni a strascico appena comunicavo i risultati ai soci che l’avevano conferita. Contadini, proprietari terrieri, autisti, vignaioli della domenica, tutti egualmente convinti di avere l’uva migliore del mondo e di essere truffati nel peso, nelle analisi, nel vino a cui avevano diritto. Tutti assetati già di prima mattina, pronti a riempire bottiglie e fiaschette dai tini del vino vecchio sfuso, scegliendo con cura e mano lesta tra rosso, rosato o vermentino. La squadra con cui lavoravo era composta quasi unicamente da marchigiani pensionati della “Repubblica di Ca Bernardi”, ovvero un palazzo di Massa abitato interamente dalla comunità marchigiana che aveva raggiunto la Maremma dopo guerra, alla chiusura della miniera locale per trovare lavoro a Niccioleta. Sicuramente grandi lavoratori, fin troppo per i miei gusti, visto che spesso ripartivo dopo le mie otto-nove ore lasciandoli a fare straordinari su straordinari, per il miraggio di qualche lira in più.

Con loro c’era Ganascia, un omaccione che il cantiniere chiamava “baffino” pur essendo sbarbato e calvo, che nel mezzo del lavoro non era raro sentir cantare con un vocione da orco le arie più famose della lirica. Ganascia cantava specialmente la sera quando era stanco, e mentre stava cantando con trasporto “ridi pagliaccio” mise la mano nella diraspatrice che si era ingolfata pensando che fosse ferma e ne uscì con quattro dita mozzate. Lo vidi arrivare con un fazzoletto che teneva stretto sulla mano farra, con calma, e come non fosse accaduto nulla mi chiese: “Paco mi fai per favore questo numero al telefono?” Mentre facevo il numero che mi aveva chiesto guardavo il fazzoletto intriso di sangue e la sua faccia tranquilla, rilassata. Gli portai la cornetta vicino alla bocca quando sentii che squillava dall’altra parte: “Nina, o Nina senti, stasera faccio più tardi del solito che ho avuto un problema, devo andare in ospedale, no, no, ’un è niente di che, non ti preoccupare, ti ho detto che ’un è niente Maremma avvelenata, o su, e basta eh!” La faccia era diventata bianca come un cencio, e fece fico svenendo ma fummo pronti a sorreggerlo e lo adagiammo su un tavolone in attesa dell’ambulanza.
Il lavoro più delicato che svolgevo, in segreto, era quello di assaggiatore dei vini prodotti. Sì, perché la tradizione voleva che il presidente avesse l’ultima parola prima di passare all’imbottigliamento e alla commercializzazione del vino. E mio padre era astemio, il massimo che riusciva a concepire in piena estate era una birra che allungava con acqua zuppandoci certe volte anche il pane. Un po’ se ne vergognava, ma mi aveva raccontato che da ragazzo era stato male per via della vinella, e da allora proprio non riusciva a bere vino. La vinella era la risciacquatura delle botti, il vino buono andava al padrone, il mezzadro consumava anche quella infernale brodaglia. Ma non potendo deludere i soci che lo avevano eletto, portava a casa i vini e il vinsanto da assaggiare, e lì davo il meglio di me nel senso che non ricordo nessuna bocciatura, ma tante bocce vuotate. Solo una volta ebbi qualche scrupolo ad assaggiare un vermentino peraltro notevole. È che in quella vasca ci erano finite le dita di Ganascia.

Dopo la prima vendemmia come operaio di cantina, vista la busta paga gonfia, comprai una tessera ferroviaria Interrail di un mese e partii con Nico Manolesta per Parigi, giorni in giro col naso all’insù, a conoscere gente con i sacchi a pelo da tutto il mondo, a dormire in ostelli sgangherati e barconi sulla Senna. Poi arrivammo ad Amsterdam ospiti di Jan, serate a giocare a carte, bere birra, fumare canne, e ogni tanto mangiare patate fritte. Infine dirigemmo su Londra. Qui, dopo poco, ci separammo: Nico rimaneva nonostante tutto un bravo ragazzo ligio alla famiglia piccolo borghese e aveva promesso di essere a casa entro i trenta giorni per preparare gli esami universitari. Io non ne avevo nessuna voglia, mi aspettavo la cartolina precetto militare e avevo deciso di non partire, di rimanere a Londra come avevano fatto già molti prima di me. Quando lo accompagnai alla stazione mi sembrò nel salutarlo di avere reciso l’ultimo cordone ombelicale, quello con gli amici cari. Nico Nasone lo avevo conosciuto davanti al juke-box della Lucciola, entrambi tredicenni brufolosi e timidi, mettevamo gli stessi dischi dei Rolling Stones e Santana: ci eravamo riconosciuti al volo.

Adesso ero solo, ma avevo conosciuto Michael, un vero maestro. Ebreo di Jaffa, piccolo, sempre in movimento, pareva non potesse mai star fermo, biondo con gli occhi grigi, riscuoteva un visibile successo tra le indigene e le turiste, e oltretutto pareva conoscere tutti dai saluti che somministrava a destra e manca in continuazione. Mi aveva subito preso a benvolere e raccontato, in un linguaggio gesticolato tutto suo che mischiava inglese, francese e spagnolo con parole italiane e yiddish, di essersi rifugiato a Londra perché ricercato due volte: una per aver rapinato una farmacia per procurarsi anfetamine e l’altra per essere fuggito per non essere richiamato militare, per non voler combattere. Girare per Londra con lui era una meraviglia. Mi insegnava tutti i trucchi per non pagare il bus o pagare poco la metro, dove trovare vestiti gratuiti all’Esercito della Salvezza, dove biblioteche con ogni ben di dio compreso il caffè, dove fabbriche di birra con visite e degustazioni, supermercati aperti anche di notte dove imboscare facilmente del cibo, e nel mentre faceva questo mi raccontava instancabile i suoi viaggi in Oriente, traffici piccoli e grandi di droga, icone e opere d’arte, arresti e fughe dalle finestre all’irruzione della polizia. Da due anni abitava con altri squatter in una casa occupata nell’East End vicino al mio ostello gestito da un nazionalista scozzese instancabile ascoltatore dei Led Zeppelin e riscossore a tutte le ore del giorno e della notte della quota giornaliera. Convincermi a lasciare quei letti a castello a due sterline al giorno fu facile, avere una mezza camera per me bello, anche se la cucina spesso non era agibile perché, per motivi a tutti noi oscuri, ci si chiudevano Full e Janis, vestiti di pelle nera da capo a piedi, a scopare urlando e a farsi di coca per ore. Meno facile fu convincermi a investire parte dei miei risparmi per fare con gli altri un acquisto collettivo di mezzo chilo d’erba con cui sostenere la casa, secondo il principio “mezza da fumare e mezza da vendere agli amici”. Alla fine dopo una trattativa araba riuscii a versare un quinto di quanto mi aveva chiesto Michael e per festeggiare decidemmo di arrivare in un pub vicino per un concerto live. “Sono degli sconosciuti” mi disse, “ma faranno strada”. Dopo il concerto mi misi a ridere, “Michael, erano davvero forti, mai visto niente di simile ma questi non sanno suonare, di strada ne fanno poca mi sa”. Lui replicò con un gesto infastidito, come quando si caccia via una mosca.

Quella notte mi sentii entrare Janis nel letto, pensai avesse sbagliato camera, al mattino non c’era più, mi rimase il dubbio di un sogno erotico particolarmente vivido e violento. La situazione con lo scorrere dei giorni stava prendendo una piega interessante, non mi vergognavo più di espropriare i supermarket, dichiarare di aver perso il biglietto su bus e metro e nel caso della richiesta di generalità dare nomi italiani di personaggi pubblici che detestavo. Certe notti Janis mi raggiungeva in camera quando Full si metteva a russare come un treno, senza dire mezza parola, con mezza bottiglia di scotch che mi passava in bocca attraverso i baci o con un po’ di coca. Il giorno mi ignorava quasi del tutto.
Stavo precipitando verso il nirvana meglio che ai tempi della motocicletta. Ma un malcelato senso del dovere continuava ad allignare in qualche mio recesso, per cui una mattina telefonai a carico del destinatario a mia madre in negozio. Non rispose, ringhiò:
“Disgraziato, dove sei? Nico è tornato e te no, ma sei rincitrullito del tutto? Accidenti a te e a chi t’ha fatto! Figlio d’una troia! Uh, l’ho detto, porcoddissi!”
“Ma’ ascoltami, ma’ diolupo chetati, sono a Londra, sto bene, sono in una casa con amici, faccio foto, giro, vedo gente, imparo la lingua e se trovo lavoro ci resto che il militare non lo voglio fare! Non preoccuparti ma’, voi tutto ok?”
Ruggì: “Sei sempre il solito legno torto e i legni torti non si addrizzano! Ecco ci mancava Londra ci mancava! Sì, si sta bene senza te! Comunque ieri è arrivata una raccomandata dal distretto militare di Grosseto, ti hanno scartato per sovrannumero, mai una gioia, ti avrebbe fatto bene un po’ di disciplina, eh, ti avrebbero addrizzato la schiena loro!”
“Come hai detto? Ma’, sei sicura?”
“Sì, sì, il congedo, ti è arrivato il congedo, ora scommetto torni, che roba che mangia torna a casa, e ora fai un po’ come ti pare, io qui in bottega ho gente, devo lavorare!”
Buttò giù il telefono che vedevo le fiamme della sua rabbia a quasi duemila chilometri di distanza. Al ritorno dalla cabina telefonica alla casa non camminavo, galleggiavo a mezza altezza, ero beato, mi si schiudevano un sacco di possibilità, potevo tornare, ma anche rimanere, che cominciavo a masticare bene l’inglese e trovare quello che Michael definiva di volta in volta il ritmo vitale, l’onda perfetta da cavalcare, il momento decisivo, la sliding door. Magari mettere su una storia “lavorativa” alternativa con lui, qualcosa che mi facesse svoltare, magari una storia con Janis, chissà.

Anche Michael aveva telefonato a casa. Pareva un albero schiantato da un fulmine, continuava a scuotere la testa e lamentarsi con una cantilena profonda, viscerale. Janis lo abbracciava e ogni tanto baciava sul petto e sul collo, gli accarezzava i capelli. Aveva appena saputo che sua madre era morta e suo padre lo incolpava per questo. Una settimana più tardi decisi di partire, Michael era troppo dolente e incerto se tornare o andarsene comunque da Londra, l’inverno stava arrivando, i soldi se ne andavano per l’erba e altre droghe che avevamo ripreso a consumare in quantità. Gli lasciai le ultime sterline, ci scambiammo gli indirizzi, ma non seppi più niente di lui. Tornai a casa con la mia Rolleicord biottica rimediata a un mercatino e tre pellicole di scatti londinesi, palazzi occupati, vie grigie, arabi con piccioni a Piccadilly Circus, due foto sfuocate, mosse e buie di quel concerto, di un gruppo di pazzi che si chiamavano Sex Pistols. Dentro la Rolleicord un tocco di fumo e alcuni trip su carta assorbente. Trovai il foglio di congedo illimitato firmato, ironia del nome, dal maresciallo Spezzacatene. Lo incorniciai e poi feci una settimana di festeggiamenti con gli amici, dando fondo alle droghe che avevo portato. Mia madre non cambiò mai idea sul servizio militare: quando si ricordava quei mesi scuoteva la testa guardandomi.

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Educazione maremmana #2. Ebbri di vita davanti alla morte https://www.carmillaonline.com/2020/10/18/educazione-maremmana-2-ebbri-di-vita-davanti-alla-morte/ Sat, 17 Oct 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63016 di Stefano Erasmo Pacini

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Una notte d’agosto organizzai un ritrovo con un passaparola al mio podere, arrivarono tutti e ci mettemmo a bere e fumare fuori, al buio, sotto un tappeto di stelle immenso, eravamo in uno stato di grazia, le nostre parole ci avvolgevano e legavano l’uno all’altro; parlavamo di cambiare per sempre la nostra vita, di metter su una comune, di dividere entrate e spese, viaggi e fatiche, sogni e amori. A un certo punto Eros si lasciò scappare un grido e [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

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Una notte d’agosto organizzai un ritrovo con un passaparola al mio podere, arrivarono tutti e ci mettemmo a bere e fumare fuori, al buio, sotto un tappeto di stelle immenso, eravamo in uno stato di grazia, le nostre parole ci avvolgevano e legavano l’uno all’altro; parlavamo di cambiare per sempre la nostra vita, di metter su una comune, di dividere entrate e spese, viaggi e fatiche, sogni e amori. A un certo punto Eros si lasciò scappare un grido e tutti noi ammutolimmo. Una stella cadente immensa aveva solcato la volta celeste e la sua scia si era spenta solo dopo un tempo che ci parve infinito. Mentre fioccavano i commenti, ed Eros parlava del buon auspicio rappresentato da quella stella eccezionale, a me corse un brivido lungo la schiena: pensai che eravamo noi quella scia luminosa bellissima, destinati a durar ancora poco. Eros aveva dieci anni più di noi, ci faceva da fratello maggiore, da teorico dell’amore grande, da sognatore che si era licenziato dalla fabbrica per seguire il suo nuovo amore in una compagnia teatrale. In più lavorava duramente da manovale, sempre immaginando di veder svolazzare via l’uccellaccio del lavoro, come ci diceva. Ma solo diversi anni dopo un infarto lo liberò per sempre.

Progettavamo di partire d’estate con l’autostop per l’India, come già avevano fatto alcuni nostri amici più grandi di cui si rincorrevano notizie confuse e racconti fantastici. Magari si finiva in Europa con l’Interrail, l’importante era comunque viaggiare e poi andare, capire cosa c’era fuori nel mondo, vedere, lasciarsi coinvolgere. Mi ero già innamorato di quel verso di Paul Valery: “si alza il vento, bisogna tentare di vivere.” La nostra rivoluzione voleva viaggiare e scoprire. Frank barba lunga era arrivato in autostop fino ad Amsterdam e ci aveva raccontato di una città libera, del Vondelpark, dove si poteva fumare liberamente e dove dei ragazzi si lanciavano giocando uno strano disco di plastica. Aveva riportato con sé dei fogli di carta assorbente maculati. Abbiamo passato un autunno intero con quei trip, visto i più bei colori della nostra vita, le facce distorte dei mezzibusti televisivi con il loro parlare da serpenti, ascoltato le musiche della West Coast, prima che si cominciasse a parlare di indiani metropolitani, Apache, forse immaginandone già la stessa fine. Un mondo colorato, ma con le certezze in bianco e nero: di qua noi, di là tutti gli altri.

Aveva sparso la voce Mau, troviamoci in Poggio, sotto gli alberini vicini al monumento dei martiri di Niccioleta. Lui aveva portato la chitarra, Frank il sax, io il flauto, Claudio i bongos, Cesare l’armonica e piano piano mentre il Sole accennava a tramontare dietro l’isola d’Elba si erano aggiunte Francesca e Anna, Alì, Nico, Alessio, Eros, Francesca e alla fine era arrivata Stella, la regina degli hippies di montagna, e un bel gruppo di follonichesi, Elena, Ganf, Angelina, Bob, Giuliano, Franchino. La musica era salita sempre più alta e intensa mentre il Sole scendeva, con le prime tenebre illuminate dai nostri sorrisi e poi rischiarate dagli accendini che riscaldavano dello zero zero marocchino portato da Alessio vai a sapere come. Il buio alla fine ci aveva avvolto, ma nessuno aveva voglia di andarsene. Era un momento magico, irripetibile, una sospensione dalla realtà che incombeva là fuori, a trenta metri dal parco. Alcuni si erano cominciati a baciare, tutti stavano vicini, come se avessero paura di perdersi, come se sapessero che di lì a poco si sarebbero persi, che alcuni non sarebbero riusciti a raccontarla, che altri non l’avrebbero comunque raccontata, che l’eroina era dietro l’angolo, li avrebbe falciati tanti, troppi.

Un tardo pomeriggio d’inverno ci sorprese un improvviso black-out mentre passeggiavamo in centro con Nico Manolesta e Cesare. Non ci fu bisogno neppure di una parola. Ci ritrovammo in pochi secondi dentro la Standa, intenti a portar via bracciate di roba; la luce ritornò giusto in tempo che ce la svignavamo nel vicolo, ridendo come matti. Nel caos io avevo beccato uno scaffale di libri, senza accorgermi che erano romanzetti rosa di Liala, Cesare delle gonne scozzesi prendendole per giubbetti. Nico invece, manco fosse un nittalope, era uscito con whisky, Martini e salmone, “la classe non è acqua”, ci disse con un sorrisino soddisfatto. Cesare per non dargliela vinta la sera successiva si presentò con la gonna e un berretto di suo nonno che sembrava uno scozzese verace. Nico gli dette a quel punto una bottiglia di whisky, il salmone invece ce lo mangiammo mentre ci facevamo una canna leggendo passi di un libro di Liala, piegati in due dal ridere.

Cesare aveva preso il treno e aveva fatto un giro al mercatino americano di Livorno, poi aveva raggiunto Pisa per una manifestazione antifascista. Voleva fare qualche foto con la Yashica usata che avevamo comprato insieme pochi giorni prima; forse ricordava le mie raccomandazioni su come fare delle belle foto da esporre in sede, anche se capivo che con l’obbiettivo da cinquanta millimetri fisso non fosse facile.
Cesare ci provò, anche quando scoppiarono degli scontri per una carica improvvisa dei celerini che vollero disperdere il corteo. Rimase calmo a fotografare mentre quasi tutti scappavano. Poi prese un candelotto lacrimogeno in pieno petto. Aveva fatto delle belle foto. Le esponemmo al suo funerale insieme al suo ritratto. Sulla sua bara che portammo a spalla la bandiera rossa col pugno nero. Poi un dolore sordo, costante, un sottofondo a cui avrei fatto l’abitudine col tempo, ma che non sarebbe mai scomparso. Quel giorno lo giurai a me stesso, non finisce qui.

Si cresce in fretta tra sogni e risvegli brutali. Certe ferite sanguinano, ma non si smette di correre, non è ancora tempo di cicatrici e consuntivi. Oltre tutto se ci muoviamo rapidi non veniamo neppure nelle foto. Potevamo stare ore senza dirci niente, magari ascoltando gli ultimi dischi rimediati al mercato. Oppure incartarci in discussioni su cosa fare dopo il diploma, che città e università scegliere, che paese visitare d’estate con l’autostop.
Altre volte prendevamo in moto giù per la montagna sognando di andare verso il nirvana; poi non è che avessimo capito bene cosa fosse questo nirvana, ma la parola ci piaceva, e quando era piovuto con le gomme tassellate era facile cadere e scivolare anche per venti metri, ma evidentemente esisteva uno spirito guida per i folli.
Non conoscevamo la prudenza: un pomeriggio che nevicò di brutto salimmo in due sul motocross mettendoci a sbandare e ridere, finché Cesare in discesa mise la terza e dette gas urlando: “si volaaa!” E si volò veramente dentro una cunetta piena di neve, come nelle comiche di Stanlio e Ollio, che se avessimo provato altre cento volte saremmo finiti a pezzi. Macché, niente, infarinati come da una valanga, ebbri di paura, sollievo, stupore, felicità. Ubriachi di vita, tanto che la morte quel giorno si girò dall’altra parte.

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Educazione maremmana #1. Cadono i recinti delle spiagge private https://www.carmillaonline.com/2020/10/11/educazione-maremmana-1-cadono-i-recinti-delle-spiagge-private/ Sat, 10 Oct 2020 22:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62999 di Stefano Erasmo Pacini

[Iniziamo oggi la pubblicazione a puntate di Educazione maremmana che proseguirà a cadenza settimanale per altre cinque domeniche. Si tratta di un racconto di memorie ribelli che abbracciano un decennio a partire dai primi anni ’70. Si parte dalla Maremma, si va a Londra, poi in Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, si torna in Italia per dar assalto ai palchi delle burocrazie sindacali nel ’77 e si finisce in Palestina sotto i bombardamenti israeliani. Stefano Erasmo Pacini è nato a Massa Marittima nel 1956, ha fotografato [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

[Iniziamo oggi la pubblicazione a puntate di Educazione maremmana che proseguirà a cadenza settimanale per altre cinque domeniche. Si tratta di un racconto di memorie ribelli che abbracciano un decennio a partire dai primi anni ’70. Si parte dalla Maremma, si va a Londra, poi in Portogallo durante la Rivoluzione dei Garofani, si torna in Italia per dar assalto ai palchi delle burocrazie sindacali nel ’77 e si finisce in Palestina sotto i bombardamenti israeliani. Stefano Erasmo Pacini è nato a Massa Marittima nel 1956, ha fotografato la rivoluzione portoghese, la stagione dei movimenti degli anni ‘70, Genova nel 2001, i campi rom, la guerra in ex Jugoslavia. Nel 2016 ha pubblicato il libro fotografico Noi sogniamo il mondo (Effigi Edizioni) dal quale sono tratte le foto di questa puntata e delle prossime. I suoi scatti sono stati esposti a Cuba, in Bosnia e in Portogallo. Oggi insegna fotografia nei corsi della Corte dei Miracoli, un centro culturale di Siena ospitato in un ex ospedale psichiatrico; lavora nei campi come bracciante, e scrive.]

Questo racconto è parto della mia fantasia e si è ibridato con personaggi realmente esistiti che ho a mia volta elaborato e alterato. Tutti i riferimenti a persone, fatti e luoghi reali sono dunque da considerarsi puramente casuali.

Mi iscrissi all’Istituto tecnico minerario, raggiungere Follonica o Grosseto era fuori discussione partendo da Niccioleta. Era sicuramente il più frequentato della zona con ragazzi che arrivavano anche da fuori provincia. E sin dal 1° ottobre cominciai subito a respirare un clima diverso, a incontrare miei simili, a stringere amicizie molto forti. In pochi mesi crebbi di molti centimetri, ma più che altro cambiai pelle rompendo un guscio che non poteva più contenermi. Quasi tutti i giorni venivano dati volantini o affissi manifesti, il vecchio preside era sempre più spiazzato, decenni di ordine gestito con Don Bini, prete, insegnante, coordinatore scolastico, potenza politica in paese, stavano per essere spazzati via.
I goliardi erano sempre stati incoraggiati dal preside, con la scusa di chiederti un contributo per il loro veglione studentesco miravano a stabilire una gerarchia molto forte basata anche su scherzi e prepotenze pesanti, specie a danno dei nuovi arrivati; con il dirsi apolitici spalleggiavano in realtà la Dc o il Msi e vedevano come fumo negli occhi ogni novità che rompesse le mura che avevano innalzato intorno alla scuola. Era una mattina di metà ottobre, c’era nell’aria una discreta tensione; un gruppo di ragazzi che avevo annusato già da qualche giorno avevano dato un volantino intitolato “NO alla matricola, basta con tradizioni goliardiche e fasciste!” Altri, sicuramente della quinta classe si erano fermati cupi di fronte al cancello d’entrata, cercavano le matricole, i ragazzini di prima come me. Stavo entrando e finendo di leggere il volantino, quando mi venne strappato di mano e un braccio mi bloccò all’altezza della spalla. Mi sibilò bruscamente addosso, tanto che sentii il fiato da fumatore: “Te sei di prima! Ci devi pagare la matricola entro sabato, capito? Sono duemila lire!” Non lo so perché lo feci, non so se vennero al pettine tutte le rabbie accumulate per anni, so che mi ripresi con la sinistra il foglietto, mentre con la destra detti uno spintone fortissimo al tipo che mi aveva parlato, mandandolo contro un motorino il che lo fece franare con fragore davanti all’entrata. Immediatamente mi sentii arrivare uno schiaffo sull’orecchio destro, ma ormai ero partito, non me ne fregava nulla se ero solo contro dieci, avevo una rabbia tremenda e null’altro.
Con due cazzotti secchi il tipo dello schiaffo precipitò addosso all’altro, si alzarono urla, sbandarono gli studenti che stavano entrando, vidi arrivarmi addosso altri tre ma a un metro fermarsi; dietro di me erano arrivati quattro o cinque studenti dei volantini e, soprattutto, al mio fianco si era materializzato Gigione, già leggendario cazzottatore delle medie, che stava andando in cantiere a lavorare. Oltre tutto aveva in mano la catena per bloccare il motorino e, pur non avendo capito il motivo, mi aveva riconosciuto. A modo suo aveva pensato, visto che i tipi che chiedevano la matricola erano di Follonica e Gavorrano, che fosse uno scontro Massa-resto del mondo. “Bravo Paco”, mi disse appena quelli si allontanarono, “ora sì che ti sei svegliato, gli hai fatto vedere che ai massetani non si mangia in capo!” E mi dette una pacca sulle spalle che manca poco finisco per terra. Il giorno dopo non si parlava d’altro, prima d’entrare feci amicizia con Alì, Frank, Mau, Claudio, Nico, Anna, Francesca che mi proposero subito di unirmi a loro per mettere su un collettivo operai studenti sullo stile di quelli nati a Pisa e Torino e rappresentati dal settimanale “Lotta Continua”. Improvvisamente le giornate iniziarono a farsi sempre più brevi e dense e il tempo a non bastarci più.

Sbandierando a ogni occasione il regio decreto del 1929 che ci minacciava di espulsione da “tutte le scuole del regno” per qualsiasi manchevolezza, il preside Zaccardo tentò una controffensiva. Ma i nostri tempi incalzavano. Avevamo creato col nostro esempio l’effetto valanga: adesso ci venivano a cercare, non dovevamo più noi cercare adesioni. Quelli del Pci cominciarono a guardarci male anche loro, gli rubavamo il mestiere e la piazza. Una mattina alla fine della ricreazione volò una notizia, il preside stava per sospendere un ragazzino che aveva affisso un manifesto per la libertà di Valpreda e contro Calabresi assassino di Pinelli sulla porta dei bagni. Fu la scintilla che aspettavamo; irrompemmo nelle classi urlando “Fuori tutti, sciopero, no alla repressione, Zaccardo vattene!” Man mano che scendevamo verso il cortile una fiumana ci seguiva. Non erano rimasti seduti. Fuori sentimmo un rumore di vetri infranti; qualcuno con un tiro magistrale aveva centrato la finestra del preside. La paura di tanti anni era andata in frantumi insieme a quei vetri. Zaccardo se ne andò in pensione a fine anno, la scuola era ormai in mano nostra. Oggi la scuola, pensammo, domani la società. Niente pareva potesse fermarci. Dei ragazzi che avevano la nostra età, tre operai, un imbianchino, si erano uniti a noi, e già ci pareva di poter guidare la classe operaia. La sera ci ritrovavamo in due stanzette affittate a ottomila lire al mese nei vicoli a ciclostilare volantini quasi quotidiani: “Il potere che la società capitalista esercita su di noi ha dei connotati ben precisi. Non esiste più una ristretta cerchia di uomini con potere e una grande massa di sfruttati senza potere. La cosa è molto più articolata; c’è una parcellizzazione del potere che è diventato privilegio di molti. Il potere di consumare ad esempio, la possibilità offerta nello spettacolo della cultura dei padroni, di uno sfogo delle proprie frustrazioni e un incanalamento della propria rabbia. È la negazione della nostra soggettività. È la negazione della vita. Imprigionando gli uomini in questo scenario il potere diffonde sempre più lo squilibrio ed il malessere. Ci trattano come le banane Chiquita, solo uno su dieci avrà il bollino! Ognuno è nella propria vita al centro del conflitto. IL VIVO SI RIBELLA! Come cento anni fa a Parigi, riprendiamoci la vita, spezziamo le catene, fuciliamo gli orologi! Sempre viva la Comune di Parigi! Collettivo operai studenti – Lotta Continua”

La cosa che mi ricordo con maggiore piacere del Movimento è il senso di intimità e tenerezza collettiva, una tribù solidale con un futuro da conquistare. Il non sentirsi mai soli, parte di un fiume in piena. Come nello sguardo di un bambino che cresce, tutta la luce del mondo, tutta la speranza, tutti i sogni e le ansie, gli amori e le delusioni. La prima canna in compagnia del capellone Claudio Tuttopenne dopo aver salato la scuola, in una mattina piena di sole sul poggio da dove si domina il mare. Con me un libro di Kerouac e uno di Ginsberg, un mangianastri con i Rolling e tanta paura di non poter controllare le mie emozioni. Allen scriveva: “Togliete le serrature dalle porte, togliete anche le porte dai cardini!” Correvo felice col motorino giù per la montagna, cantando con il vento in faccia, mi accorgevo dei primi sguardi di Anna, a cui portavo volantini e prestavo l’autobiografia di Malcolm X davanti alla scuola. Ore e ore a camminare per le strade, con ogni tempo, a spalancare i nostri cuori agli amici, a confidarsi e a sentire la loro vicinanza, fratelli, di curiosità e di slanci. Nottate lunghissime a immaginarsi la vita, l’amore, a incazzarsi per le prime testate contro i muri, i primi no di ragazze diverse da noi. E d’estate tutti a Prato Ranieri a Follonica, dove Frank barba lunga aveva messo su una tenda sotto i pini della spiaggia, un campeggio libero e freak che proclamava “lo stato di felicità permanente” con una bandiera rossa e nera. I ragazzi stranieri si fermavano e rimanevano a dormire col sacco a pelo sulla spiaggia, i carabinieri arrivavano sbuffando in bicicletta domandando chi fosse il capo e ricevevano in risposta risate, mentre Frank diceva: “non ci sono, non vogliamo più capi”. La notte buttavamo giù i recinti delle spiagge private, lasciando volantini con scritto: “il mare è di tutti!” Falò a rischiarare la notte, bagni illuminati dalla Luna, i primi baci salati che partivano sempre dalle ragazze.

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