Stalin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 19 Aug 2025 20:00:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tumulti rusticani https://www.carmillaonline.com/2025/07/16/tumulti-rusticani/ Wed, 16 Jul 2025 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89200 di Sandro Moiso

AA.VV., Tumulti rusticani. Rivolte e resistenze contadine tra il Medioevo e la Modernità, edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 72, 4 euro

In occasione del solstizio d’estate, 20 – 21 e 22 giugno 2025, si è tenuto a Villar Pellice (TO) un interessante convegno sulle rivolte contadine e sul rapporto tra specie, ambiente e agricoltura a partire dal cinquecentesimo anniversario della guerra dei contadini tedeschi del 1525. Iniziativa assolutamente necessaria se si considera che, come si afferma nelle note editoriali legate al nuovo volumetto della collana «Bundschuh» ovvero “lega dello scarpone”, simbolo della resistenza della “gente comune” contro [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV., Tumulti rusticani. Rivolte e resistenze contadine tra il Medioevo e la Modernità, edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 72, 4 euro

In occasione del solstizio d’estate, 20 – 21 e 22 giugno 2025, si è tenuto a Villar Pellice (TO) un interessante convegno sulle rivolte contadine e sul rapporto tra specie, ambiente e agricoltura a partire dal cinquecentesimo anniversario della guerra dei contadini tedeschi del 1525. Iniziativa assolutamente necessaria se si considera che, come si afferma nelle note editoriali legate al nuovo volumetto della collana «Bundschuh» ovvero “lega dello scarpone”, simbolo della resistenza della “gente comune” contro i “signori”, da cui prende il titolo la collana stessa:

Nella storia “ufficiale”, i contadini appaiono come un fastidioso rumore di fondo. Li si ricorda soltanto – con terrore – le volte in cui, armi in pugno e in fitte schiere, hanno preso d’assalto i castelli, le chiese, i palazzi dei potenti. Non si tratta soltanto di un altezzoso sguardo di classe, è un vero e proprio disprezzo, quasi antropologico. I rustici sono una maledizione da rimuovere, gente rozza e ignorante, arcaica e sporca, perché legata alla terra, l’esatto contrario dell’individuo moderno, l’uomo nuovo, razionale, sofisticato, libero dalla “schiavitù della natura”. Oggi, a cinque secoli dalla “grande guerra dei contadini” del 1525, possiamo fare un bilancio di dove ci ha condotto questa perversa concezione di libertà e progresso: in un abisso di genocidi, disastri, ingiustizia, infelicità. [Mentre] è forse anche il momento di ribaltare la storia che ci hanno raccontato, e di far riemergere dalle sue pieghe nascoste quel mondo rurale: non soltanto nei suoi momenti di furiose ribellioni, ma anche nelle sue quotidiane strategie di resistenza, nei suoi saperi, nelle sue forme di autonomia e di autogoverno comunitario. Quel mondo stritolato negli ingranaggi della macchina capitalista e statale, che è oggi più che mai urgente e vitale riscoprire, risollevare, riarmare.

Proprio per tutti questi motivi, le edizioni Tabor e la collana «Bundschuh» proseguono nella meritoria opera di riscoperta e riedizione di pubblicazioni oggi dimenticate oppure mai tradotte in italiano per ricostruire la lunga storia dei poveri insorti per difendere le loro comunità e le loro autonomie. Ma non solo, perché a quella storia si intrecciano altri momenti fondamentali della nostra modernità, come la Riforma protestante – con le sue correnti radicali, profetiche e rivoluzionarie – i roghi delle donne bruciate come streghe, i massacri degli indigeni nelle colonie, l’inizio di quell’economia di rapina che ha permesso l’accumulazione originaria all’origine del Capitale. È in quegli anni, in quegli slanci e in quelle tragedie, che nasce il presente in cui viviamo. In tal senso conoscerne le origini non è un mero esercizio di curiosità intellettuale. È il primo passo per raccogliere il testimone di chi ha combattuto prima di noi. Per ritornare a combattere…

L’ultimo volume pubblicato nella collana raccoglie due testi. Uno di Werner Rösener tratto da I contadini nella storia d’Europa (Laterza, Roma-Bari 1995) e significativamente intitolato I contadini si oppongono e si ribellano. Mentre il secondo è la traduzione di un saggio di Paul Freedman, intitolato Peasant Resistance in Medieval Europe (Resistenza contadina nell’Europa medievale), pubblicato originariamente sulla rivista «Filozofski Verstnik» il 18.2. 1997.

Ed è in particolare il secondo dei due testi, sulla scorta anche delle ricerche condotte sul campo in Estremo Oriente da James C. Scott, ad allargare il campo temporale e geografico delle resistenze contadine: dai primisecoli dopo il Mille alla guerra dei contadini tedeschi fino alle guerre contadine in Russia in epoca stalinista nel periodo delle collettivizzazioni forzate ovvero dell’”accumulazione socialista”. Mostrando così come il problema delle rivolta contadine e dell’analisi dei conflitti sociali nelle campagne abbia visto in prima linea per l’interpretazione erronea e semplicistica spesso data proprio quei movimenti politici, come il marxismo, che della Rivoluzione avevano fatto la propria bandiera.

Oltre alle grandi e note guerre tardo-medievali e alle confederazioni contadine, esistevano altre forme di conflitto rurale medievale. Soprattutto a partire dal XIV secolo si verificarono frequenti rivolte contadine locali e regionali. Per il solo Impero tedesco si contano 59 insurrezioni contadine tra il 1336 e il 1525.
Eppure, fino a poco tempo fa, i contadini del passato e dell’epoca contemporanea sono stati considerati da storici e studiosi come estranei al dramma del progresso storico. Se sono stati coinvolti in eventi importanti, è stato come vittime inconsapevoli o come folle manipolate. Il loro ruolo nella resistenza alla Rivoluzione francese in Vandea, ad esempio, avrebbe incarnato sia il loro attaccamento agli assetti tradizionali sia la futilità dei movimenti rurali organizzati1.

Così, anche se alcune correnti marxiste hanno favorevolmente interpretato certi aspetti dei movimenti contadini, pur sempre relegandoli a ruolo di gregari del corso dello sviluppo delle contraddizioni della società feudale e delle moderne forze produttive:

per la maggior parte del Novecento gli scienziati sociali – marxisti e non – hanno concordato sul fatto che i contadini rappresentavano un fattore retrogrado nello sviluppo economico e che il progresso li avrebbe lasciati indietro. Nel pensiero marxista ortodosso i contadini sono un ostacolo al progresso rivoluzionario o al massimo possono rincorrerlo, partecipandovi indirettamente. Che solo il proletariato urbano potesse forgiare una vera rivoluzione fu ribadito da Stalin, che considerava le prime rivolte contadine russe degne di nota, ma le loro motivazioni “zariste” le rendevano irrilevanti per dei veri rivoluzionari. La collettivizzazione forzata dell’agricoltura in Unione Sovietica fu il risultato logico, anche se particolarmente brutale, di un atteggiamento che vedeva il proletariato come avanguardia della rivoluzione e la modernizzazione industriale come possibile in una società arretrata solo distruggendo i piccoli proprietari agricoli2.

D’altra parte, per i teorici dello sviluppo di stampo occidentale, il grado di sviluppo e di progresso industriale ed economico di una società è stato spesso interpretato sulla base della progressiva oppure definitiva scomparsa della popolazione rurale.

L’atteggiamento contemporaneo nei confronti del mondo rurale è curiosamente parallelo a quello del Medioevo, che vedeva i contadini come disgraziati, inarticolati, capaci di ribellioni pericolose ma irrazionali e senza obiettivi, e privi di qualsiasi programma o senso del progresso. La resistenza contadina è considerata un fenomeno ricorrente ma inutile, espressione di una rabbia istintiva piuttosto che di un piano organizzato. I movimenti contadini che sembravano degni di nota erano o esplosioni irrazionali (di cui la Jacquerie francese del 1358 potrebbe essere presa come esempio tipico), o dipendenti dall’iniziativa di classi più consapevoli e articolate (soprattutto cittadine).
Negli ultimi anni, tuttavia, molto è cambiato, poiché la razionalità e l’uso delle risorse da parte dei contadini sono state rivalutate in maniera più positiva. In parte ciò è avvenuto come risultato di un tardivo disincanto nei confronti dei costi sociali e degli effetti ecologici dello sviluppo. Lo spettacolare fallimento dell’agricoltura sovietica e gli effetti deleteri del disinvestimento nell’agricoltura a favore di programmi sconsiderati o corrotti (ad esempio in Africa) hanno incrinato la fiducia in ciò che è “razionale” o “irrazionale” nelle pratiche agricole3.

Per questi motivi si rende, oggi, estremamente necessario tornare a riflettere su quelle esperienze, non soltanto da un punto di vista storico e “militare”, ma anche da quello della riscoperta di un rapporto con la terra, il lavoro e la comunità che rivela come le promesse di un radioso futuro, sia di stampo capitalistico che socialista, devono ancora fare i conti con resistenze che si possono rivelare più profonde, antiche e motivate di quanto sia sempre stato, immotivatamente, dato. Come quelle delle comunità indigene ancora in corso in tante parti del mondo, a cominciarere dal Messico zapatista, sta ancora lì a ricordarci.


  1. P. Freedman, Peasant Resistance in Medieval Europe in AA.VV., Tumulti rusticani. Rivolte e resistenze contadine tra il Medioevo e la Modernità, edizioni TABOR, Valsusa 2025, p. 45.  

  2. P. Freedman, op. cit., p. 46.  

  3. Ivi, pp. 48-49.  

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E con il cuore ci mettemmo a giocare https://www.carmillaonline.com/2025/04/28/e-con-il-cuore-ci-mettemmo-a-giocare/ Mon, 28 Apr 2025 21:45:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88099 di Francisco Soriano

Quando Vladimir Vladimirovič Majakovskij si tolse la vita, Josif Mandel’štam era in Armenia, la sua «terra promessa». Fu in quel momento che quest’ultimo venne a conoscenza della scomparsa del poeta simbolo della Rivoluzione d’Ottobre. Per Mandel’štam fu la conferma di ciò che aveva sempre sentito dentro di sé: quel mondo in cui ancora in molti credevano ciecamente era definitivamente mutato. La «speranza», come in tutte le rivoluzioni che si rispettano, tramonta in un lasso di tempo quasi immediato e si trasforma in un incubo di uccisioni e terrore. Il messaggio rivolto da Majakovskij ai posteri con il suo [...]]]> di Francisco Soriano

Quando Vladimir Vladimirovič Majakovskij si tolse la vita, Josif Mandel’štam era in Armenia, la sua «terra promessa». Fu in quel momento che quest’ultimo venne a conoscenza della scomparsa del poeta simbolo della Rivoluzione d’Ottobre. Per Mandel’štam fu la conferma di ciò che aveva sempre sentito dentro di sé: quel mondo in cui ancora in molti credevano ciecamente era definitivamente mutato. La «speranza», come in tutte le rivoluzioni che si rispettano, tramonta in un lasso di tempo quasi immediato e si trasforma in un incubo di uccisioni e terrore. Il messaggio rivolto da Majakovskij ai posteri con il suo gesto suicidario non era né di resa né di sconfitta, ma annunciava l’impossibilità di accettare che la poesia venisse relegata in uno spazio che non poteva essere abitato secondo le aspirazioni e la prassi di un vero poeta: impossibile continuare a vivere in questo «tradimento».

Quasi parallelamente lo stesso Mandel’štam vagava come già morto, in quel luogo bianco, senza strade, senza cieli, senza quotidiano, rappresentato dai versi delle sue incredibili poesie. Majakovskij era stato invece un militante coerente alla sua scelta rivoluzionaria, che non amava «pettegolezzi», sensi di colpa e quella ricerca ossessiva di responsabili verso cui lanciare anatemi per scagionare, forse, se stessi. Così chiosò nel suo testamento di morte: «come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci». I due poeti ebbero una vita completamente diversa nel vissuto, ma ambedue furono traditi, in modalità differenti, dai valori della rivoluzione. La dimostrazione è nella prassi delle loro esistenze dove si riscontrano, tuttavia, la stessa ferrea coerenza e lo stesso intangibile amore per la poesia.

Si può accettare il tradimento di un’utopia, divenuta realtà seppur in un lasso di tempo breve, di un mondo più giusto e solidale? La realtà e Majakovskij avevano raggiunto le stesse aspettative, realizzato le medesime battaglie, ma l’incantesimo si era spezzato. Il gesto eclatante, simbolico, perfettamente in simbiosi con la vita, era il colpo di rivoltella che, diretto al cuore, glielo avrebbe schiantato. Era il 14 aprile del 1930. Nessuna importanza si ritrova nell’idea e nella ricerca che il suicidio potesse essere stato una messinscena ordita da sinistri agenti di Stalin se non per pura cronaca, come sarebbe capitato negli anni a seguire ad altri personaggi uccisi per mandato di questo mostruoso uomo che incarnava il senso del più bieco potere. Dal canto suo Mandel’štam scrisse un poemetto dal titolo Il montanaro del Cremlino, dichiarando così apertamente di essere disponibile al «suicidio», quello per mano degli sgherri di Stalin: atto puntualmente perpetrato da anonimi aguzzini e laidi carcerieri durante il trasferimento da un campo di transito vicino a Vladivostok, sulla strada verso il gulag di Kolyma, dopo essere stato imprigionato per attività controrivoluzionaria, a temperature disumane. Il poeta morì probabilmente di assideramento, malato, e gettato in una fossa comune il 27 dicembre del 1938 insieme ad altri malcapitati, senza la possibilità che il suo corpo fosse mai più ritrovato. Pochi giorni prima aveva scritto una missiva, un ultimo testamento sulle condizioni che lo stalinismo riservava a poeti come lui: «Sono ridotto allo stremo – quasi irriconoscibile».

Josif e Nadežda Mandel’štam

Le morti di Majakovskij e di Mandel’štam rappresentano la certezza che la poesia e il potere non possono avere ontologicamente alcuna simmetricità, né un lontanissimo punto di incontro, neppure la possibilità di sfiorarsi. Le vite dei poeti, diverse e agite in modalità lontane nel sentire e nei gesti, hanno in realtà un comune destino, la stessa ellissi di negazione, di asimmetricità, e l’emersione di un’idea del potere che deraglia dall’umano, lo tradisce, lo soffoca. Gli amici Šklovskij, Rodcenko, Pasternak, Tatlin non si aspettavano il gesto di Majakovskij; lui, così virile nella lotta di militante comunista, se ne andava senza far apparire niente a nessuno: disagio, depressione, angoscia, nulla di nulla. Proprio questa condizione di normalità invece prova la veridicità del gesto, la sua «consapevole» testimonianza, la coerenza di non voler e dover tradire la poesia per gettarla alla mercé di filistei meschini e personaggi «iscariotici» partoriti da quella rivoluzione che aveva realizzato, come accadde durante le settimane della Comune francese, le speranze di eguaglianza di una storia emblematica per tutta l’Umanità. Le sue invettive contro il «tradimento» si leggevano fra le righe delle opere ultime, come La cimice (1928) e Il bagno (1929), quest’ultima scritta un anno prima della sua tragica scomparsa.

Fu Pasternak che comprese più di tutti il simbolico epilogo dell’amico, a cui diresse un meraviglioso poema che ne esaltava il poeta e l’uomo: «Il tuo sparo fu simile a un Etna in un pianoro di codardi!» È condivisibile l’idea che Majakovskij non avesse alcuna familiarità con la politica, non ne conosceva i meccanismi autoritari, le ambiguità, né avrebbe mai potuto accettare di essere complice di assurde dinamiche del potere. Per Majakovskij la poesia e la rivoluzione andavano di pari passo: erano due scintille, due fuochi. Al contrario, nella solitudine e nella stasi, Mandel’štam aveva avvertito subito la deriva della rivoluzione, la sua ritualità, il partito come spazio metafisico, il disimpegno dall’umano: aveva percepito che sarebbe arrivato il momento dell’inevitabile erosione dei valori rivoluzionari, soffocanti, estenuanti, ingiusti, disumani, avvinghiati alla burocrazia per esaltare, infine, una forma di un autoritarismo senza appello. Per Majakovskij, scomparso così prematuramente, il popolo nutriva un amore smisurato come smisurato è il tono della sua poesia, deflagrante, meravigliosa, dirompente, tanto da rappresentare per lo stesso Pasternak una sorta di devozione/ossessione senza precedenti. La prova risiede nelle citazioni copiose di quest’ultimo, ad esempio nel libro Il salvacondotto, che si chiude con la morte del poeta: «Quando tornai là, di sera, era già nella bara… gli altri lottavano, sacrificavano la vita e creavano oppure sopportavano sconcertati, ma erano pur tuttavia gli indigeni di un’epoca passata e, nonostante le differenze, erano conterranei da essa imparentati. Solo a lui la novità del tempo scorreva climaticamente nel sangue». Fu Pasternak per primo, infatti, a smascherare il «tradimento» subito da Majakovskij.

Immaginare il poeta come il «rappresentante culturale» e l’intellettuale organico di quel Paese, subito dopo il sogno spezzato della rivoluzione, può ritenersi addirittura un’infamia. I vertici del partito furono ben consapevoli della fascinazione subita dal popolo per un poeta come Majakovskij: fu così che cominciarono a utilizzarlo, sventolarlo, proporlo come il cantore e il canone poetico dei Soviet, naturalmente nella forma decurtata di quella disillusione che ne avrebbe reso la poesia inaccettabile per il regime. Un’ingiustizia per chi ama la poesia, il disagio e la fragilità di accondiscendere agli strumenti del potere. E fu proprio Pasternak, così intelligente e sensibile nel comprendere che cosa stava accadendo, a scrivere una lettera a Stalin con fare «poco coraggioso», ringraziandolo per la liberazione dei familiari della Achmatova verso i quali si era prodigato e aveva «rischiato» personalmente di insospettire il satrapo. Nello stesso momento aveva altresì ringraziato il dittatore di aver messo «Majakovskij al primo posto…» Ma Pasternak, che aveva visione politica e comprensione chiara di quello che stava accadendo, sapeva perfettamente che l’operazione cinica di Stalin riguardo alla figura e all’opera del poeta avrebbe portato col tempo a un disconoscimento della sua poesia: quest’ultima doveva essere «riprodotta» come rivoluzionaria in un momento di stabilizzazione del potere, dove al posto delle idee venivano ormai proposte purghe, gulag e uccisioni di massa. L’operazione di delegittimazione verso l’opera del poeta, dunque, era cominciata silente e ben organizzata, facendola sembrare invece un’alta legittimazione rivoluzionaria e comunista.

Determinanti per la conoscenza e la divulgazione postuma dei due poeti furono le loro compagne di vita e muse ispiratrici: Lilja Brik, nel caso di Majakovskij, e Nadežda Khazina, per Mandel’štam, alla quale dobbiamo anzi in modo esclusivo la conoscenza che abbiamo oggi dell’opera straordinaria del poeta. Le sue poesie erano state vietate dal regime sovietico: un gesto a mio modo di vedere criminale e insensato, come lo sono stati la «negazione» di una sepoltura, la cancellazione del corpo e della persona. Perseguitato e vessato, Mandel’štam non aveva arretrato dalle sue posizioni di opposizione solitaria neppure di un millimetro, con il coraggio dei poeti: costui era folle di umanità, di creatività, di coraggio e, per questo, odiatissimo dal potere. A differenza di Majakovskij, il candore di Mandel’štam risiedeva nella sua indifferenza alla fama, così concentrato sulla ferma volontà di rimanere per sempre esule, come negli anni seguenti capiterà prima della caduta del muro di Berlino a Josif Brodskij. Nadežda conosceva perfettamente l’impeto intellettuale e la statura etica del suo compagno, sapeva quale trattamento gli avrebbero riservato, prevedeva la tragica conclusione e nascondeva i suoi versi nella federa di un cuscino, quando di tanto in tanto i torturatori di Stalin le facevano visita a casa.

Fu il 1° maggio del 1919 che Mandel’štam conobbe la pittrice di origini ebraiche Nadežda Khazina, figlia di una delle prime donne medico della storia della Russia e di un avvocato: si sposarono nel 1922 a Kiev. Nadežda, che significa «speranza», resterà per sempre fedele al poeta anche quando Osip ormai non ci sarà più. La poetessa Anna Achmatova, legata da vincoli di amicizia profondi alla coppia Mandel’štam, dirà dell’amico «martire»: «Osip amava Nadja in modo incredibile, inverosimile… Non permetteva a Nadja di allontanarsi da lui neanche di un passo; non le dava la possibilità di avere un lavoro; era follemente geloso; le chiedeva consigli su ogni parola dei suoi versi». Forse l’unico aspetto negativo che Achmatova sottolinea dell’amico geniale era la sua gelosia in questo rapporto amoroso e letterario senza precedenti. Nadežda Mandel’štam morirà il 29 dicembre del 1980, a Mosca, dove aveva fatto ritorno nel 1964 dopo essere stata in esilio per molti anni. Nadežda è una scrittrice sopravvissuta a Stalin, ai suicidi, alle uccisioni dei sicari, al potere dittatoriale, e ha sempre rappresentato una spina nel fianco al regime sovietico. Nel suo appartamento, si racconta, ebbe a ospitare proprio tutti: poeti, fuggiaschi, perseguitati, derelitti. Due grandi immagini nei racconti di chi l’ha conosciuta ben la rappresentano: una appartiene a Josif Brodskij e l’altra è dello scrittore-viaggiatore inglese Bruce Chatwin. Diceva Brodskij di lei: «Per decenni Nadežda Mandel’štam visse alla macchia, in fuga perpetua, svolazzando tra gli angiporti e oscure città del grande impero, posandosi in un nuovo nido solo per riprendere il volo al primo segnale di pericolo. La condizione di ‘non persona’ divenne a poco a poco la sua seconda natura. Era una piccola donna, di esile corporatura, e col passare degli anni si rattrappì sempre più, come se cercasse di trasformarsi in un oggettino privo di peso che si potesse facilmente ficcare in tasca al momento della fuga».

Brodskij racconta di aver incontrato una prima volta Nadežda Mandel’štam nel 1962, sempre per intercessione di Anna Achmatova: «Abitava in un piccolo appartamento comune, formato da due stanze… Quasi tutto lo spazio era occupato da un letto di ferro a due piazze; c’erano anche due sedie di vimini, un cassettone con un piccolo specchio, e un tavolino da notte, un tavolino tuttofare sul quale si vedevano dei piatti con gli avanzi della cena». Nel giugno del 1972, invece, Brodskij lasciò definitivamente l’Unione sovietica, ma prima di partire fece ancora visita a Nadežda: «Il pomeriggio stava per finire, e lei sedeva, fumando, nell’angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa. L’ombra era così profonda che le sole cose che si potessero distinguere erano la tenue scintilla della sigaretta e quei due occhi penetranti. Il resto – lo sparuto corpo rattrappito sotto lo scialle, le mani, l’ovale della faccia cinerea, i capelli grigi, anch’essi cinerei – tutto il resto era inghiottito dal buio. Nadežda Mandel’štam sembrava un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la tocchi». Nadežda è stata soprattutto una grandissima scrittrice nonché traduttrice, molto influente fra gli intellettuali russi postrivoluzionari.

Di indicibile tristezza è invece il ricordo di Bruce Chatwin, il quale, pur dipingendola nel bianco a differenza di Brodskij, tracciava una linea di enorme dolore nel descriverla. La incontrò nel 1978 e il testo a lei dedicato è inserito in un suo libro dal titolo: Che ci faccio qui? Il racconto si apre con la visione di una nevicata copiosa. Bianca era la neve che cadeva senza sosta, bianco su bianco il quadro di Vladimir Weisberg appeso alla parete della dimora di Nadežda, e bianco sembrava essere il dolore intorno che tutto soffocava. La cucina aveva un odore forte di kerosene e di pane raffermo, fra il disordine sul tavolo si intravedevano bicchieri abbandonati e un vaso di begonie che sembrava ergersi in quell’abbandono. Entrando nell’appartamento, Chatwin vide un uomo di aspetto sgradevole uscire dalla stanza da letto in cui si trovava Nadežda: «Che cosa ha pensato del mio dottore?» domandò con una smorfia la donna. La risposta è nel testo di Chatwin: «Il dottore presumo, era il suo agente del KGB». Nadežda «aveva i denti ridotti a schegge annerite tra le quali luccicavano bianchi ponti di metallo. Una sigaretta era incollata al labbro inferiore. Il naso era un’arma. Sapevi per certo che quella era una delle donne più forti del mondo, e sapevi anche che lei lo sapeva».

Tanto è l’importanza di questa donna per la letteratura mondiale che anche Doris Lessing affermava, citando gli scritti autobiografici di Nadežda, che «Le testimonianze di una vita sotto l’egida della tirannia sono ormai molte, ma nessuno, nemmeno Solženicyn, ha mai scritto meglio». Di lei Isaiah Berlin, invece, segnalava quanto «Le crude reminiscenze della signora Mandel’štam si leggono come la realtà stessa, cruenta… il suo è un lavoro letteralmente unico». Seamus Heaney, nella nota scritta per la «London Review of Books» nell’agosto del 1981, in occasione della pubblicazione del secondo volume delle testimonianze di Nadežda, sottolinea un aneddoto che la scrittrice racconta in esergo alle sue memorie, proprio in relazione al temperamento del marito: «Dopo lo schiaffo ad Aleksej Tolstoj, Mandel’štam era tornato immediatamente a Mosca, e qui telefonava ogni giorno ad Anna Achmatova, scongiurandola di venire». Che cos’era accaduto di tanto grave? Tolstoj nel 1932 era a capo di una «corte di compagni» presieduta dal Sindacato degli Scrittori per ascoltare una denuncia di Mandel’štam contro i comportamenti del romanziere Sargidžan e di sua moglie. Come sostiene Heaney, i Mandel’štam avevano una «cattiva reputazione» presso le autorità rivoluzionarie e la coppia Sargidžan era stata incaricata di spiarli in condominio, ma questi avevano addirittura colpito Nadežda con violenza. Vagliato il caso, la corte aveva concluso, dando torto a entrambi, che quel comportamento era retaggio di un «sistema borghese». Tolstoj ricevette lo schiaffo due anni dopo come conseguenza di quella decisione «salomonica», Mandel’štam non glielo aveva perdonato. Fu dopo questi eventi che Osip scrisse il componimento contro Stalin, che gli costò il primo arresto e la perquisizione della sua casa, firmando così la sua condanna a morte: fu interrogato e deportato a Čerdyn dove, in stato di sofferenza psicologica, tentò il suicidio. Fu ancora una volta l’onnipresente Pasternak che intercederà per l’amico direttamente con Stalin, facendo commutare in esilio, direzione Voronež, la condanna al carcere. Mandel’štam ebbe ancora la possibilità di comporre versi, declamando e spesso camminando in moto continuo: «il passo, unito alla respirazione e saturo di pensiero: è questo che Dante intende per inizio della prosodia» – per un uomo simile, che riusciva a chiedersi «quante suole abbia consumato l’Alighieri mentre scriveva la sua Commedia», la prospettiva dell’esilio non era in fondo del tutto negativa. Nadežda, donna di indicibile forza, cominciò così il suo progetto mnemonico, la sua risposta al potere, all’autoritarismo, all’ingiustizia, reclamando il corpo del marito ormai cancellato, con il suo libro Speranza contro speranza. Il testo è nient’altro che il «cenotafio» di Osip Mandel’štam: «Salvando i versi di Mandel’štam non osavamo sperare, eppure non smettevamo di credere che un giorno potessero risorgere. E ci aggrappavamo a questa fede. Dopotutto, era la fede nel valore eterno e nel carattere sacro della poesia».

Oggi coloro che parlano delle democrazie malate del nostro Occidente, i cantori della fine ineluttabile, non sanno riflettere, né conoscono le dittature, non le hanno vissute, non le hanno capite, le hanno viste dalle poltrone infeltrite delle loro accademie. Basterebbe semplicemente leggere questo passo per trovare, magari, qualche risposta alle proprie stupide deduzioni: «In epoche come la nostra, dov’è il limite fra ciò che è psicologicamente ‘normale’ e ciò che non lo è? Io e Mandel’štam pensavamo le stesse cose, ma in lui questi pensieri diventavano in un certo senso ‘tangibili’: egli non si limitava a pensare, ma immaginava, vedeva come sarebbero andate le cose. Mi svegliava nel bel mezzo della notte per dirmi che Anna Achmatova era stata arrestata e che in quel momento la stavano conducendo all’interrogatorio. ‘Perché pensi una cosa simile?’ ‘È una impressione precisa’. Camminando per Čerdyn’, cercava il corpo di Anna Andreevna sul fondo di ogni burrone… Certo, questa era già follia. Ma io, dopo essermi destata dal letargo che mi aveva assalita, non riuscivo più a dormire e passavo la notte cercando di indovinare chi fra i nostri parenti e amici fosse già stato arrestato e sotto quali accuse. Se anche non c’era una denuncia precisa, le accuse si potevano sempre inventare».

I Mandel’štam avevano visto giusto e, soprattutto, «lungo»: «Chi vive sotto una dittatura, si permea rapidamente del senso della propria impotenza e vi trova consolazione e giustificazione per la propria passività e inerzia: ‘La mia voce potrà forse fermare le fucilazioni? Non dipende da me… Chi volete che mi dia retta?’ Così andavano dicendo i migliori di noi e l’abitudine al confronto fra le proprie forze e quelle altrui ha fatto sì che qualsiasi Davide, pronto ad assalire, disarmato, un Golia, suscitasse soltanto perplessità e alzate di spalle… Tutti eravamo pronti al compromesso: tacevamo nella speranza che non uccidessero noi, ma il nostro vicino. Non sappiamo nemmeno bene chi fra noi contribuiva a uccidere e chi si salvava tacendo».

Diversa ma, per molti versi non meno drammatica, fu la parabola di Lilja Brik. Lilja era la moglie del commerciante ed editore Osip Brik. Quest’ultimo già nel 1919 cominciò il ménage à trois con sua moglie e il poeta, una dinamica che scatenò pettegolezzi e smascherò il volto moralista del potere dei Soviet. Diceva Lilja di quel periodo: «Io ero la moglie di Volodja, lo tradivo come lui tradiva me. E tutte le chiacchiere sul triangolo e sull’amour à trois non hanno niente a che vedere con quello che in realtà c’era fra noi».

Fu lo stesso Lenin, come ricorda in un suo libro Serena Vitale, a impedire che un decreto sui danni della gelosia presentato da Aleksandra Kollontaj, che si batteva per il superamento del rapporto borghese e bigotto fra le persone, passasse. Tuttavia, in questo campo, si ricorda che il primo provvedimento dopo la rivoluzione dell’ottobre del 1917 fu quello di sancire la possibilità di divorziare facilmente, svuotando di significato religioso e statuale il gesto del legame matrimoniale. Ma già nel 1919, quando la Ceka si insediò, smentendo i primissimi provvedimenti in tema di unioni matrimoniali, la Russia divenne uno stato puritano.

Con Stalin, un certo morboso indagare negli affari intimi, le somministrazioni di purghe e le repressioni anche a discapito degli scrittori si fecero sentire massicciamente, come ad esempio, ricordano le sparizioni e il suicidio dello stesso Sergej Esenin. Si indagava nelle vite private, si indebolivano anche da un punto di vista intimo le persone e si annientavano per la loro ritrosia nell’obbedire al regime. Lilja, a differenza di Nadežda, continuò a credere nella rivoluzione, nonostante i riferimenti ideali dell’utopia rivoluzionaria fossero cambiati. Non a caso in una lettera a Stalin sponsorizzò la divulgazione nel 1935 dell’opera di Majakovskij, chiedendo che divenisse il riferimento artistico e poetico della Russia bolscevica.

Stalin colse l’occasione e Majakovskij venne insegnato nelle scuole come il poeta per eccellenza del regime, chiaramente in una modalità ridotta e in parte censurata, svilendo la sua forza espressiva. Il mito del poeta doveva essere sancito a tutti i costi per dimostrare che quel potere era la sua reincarnazione artistica: infatti le autorità sovietiche formarono un’apposita commissione diretta dal tedesco Oskar Vogt al fine di dissezionare il cervello del poeta, in ottemperanza a quell’ideologia materialista e riduzionista, senza riuscire, tuttavia, a scoprire i «segreti» del suo talento. Accadde lo stesso per il cervello di Lenin, utilizzato come «unità di misura» con la finalità di progettare «l’uomo nuovo», una pratica che tanto fa pensare all’ideologia nazista e suprematista.

Di quell’uomo, che con un linguaggio nuovo aveva cercato di cambiare il mondo attraverso la rivoluzione, tutto era stato stravolto, marginalizzato, reso icona e scorza vuota dell’autoritarismo. La sua lealtà si riassume proprio nel suicidio e ne testimonia la distanza. Se e quanto Lilja Brik si rese conto del fallimento è difficile dirlo, ma la sua intelligenza e il suo temperamento artistico ci fanno pensare alla deriva umana e ideologica vissuta dalla donna. In una delle interviste rilasciate in vita parlò del suo Majakovskij senza abiurare a nulla di quanto fatto, anzi rimarcò quanto fosse importante l’opera di quest’uomo per le future generazioni di giovani uomini e donne.

Il suicidio di Majakovskij secondo Lilja era un evento annunciato, pensato, voluto, e così ricorda: «egli ancora per la centomillesima volta mi parlava del suicidio, mi diceva che l’avrebbe fatta finita, perché non voleva diventare vecchio, malato». Tentò diverse volte di uccidersi fino al punto di riuscirvi, anche perché, aggiunge Lilja: «ci sarebbe da dire dell’altro; se le circostanze degli ultimi tempi fossero state di poco più gradevoli si sarebbe forse potuto evitare. A quali circostanze si appellò Lilja non è dato sapere con precisione, ma di sicuro la macchina del fango del regime aveva cominciato massicciamente a danneggiare l’uomo, il poeta, il rivoluzionario.

Le rivoluzioni in questo si assomigliano molto, per la loro innata utopia, per lo spirito di giustizia che le animano, per la necessità di stabilizzarsi e divenire, inesorabilmente, autoritarismo e bieca persecuzione. Lilja continuò tuttavia a segnalare che per Majakovskij il suicidio fosse «comunque» inevitabile: «egli voleva morire quando voleva lui e non quando avesse voluto il destino». Majakovskij odiava l’«infame buonsenso». Per tutta la vita insieme al terzo marito si dedicò alla diffusione dell’opera di Majakovskij. Quando nel 1978 scoprì di essere affetta da una grave malattia, Lilja Brik si suicidò a Peredelkino il 4 agosto.

 

  • Bruce Chatwin, Che ci faccio qui, Adelphi, Milano 1990.
  • Vladimir Majakovskij, Poesie, con un’intervista a Lilja Brik, a cura di Maria Roncali Doria, Newton Compton, Milano 1973.
  • Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, introduzione di Paolo Nori, Settecolori, Milano 2024.
  • , Speranza contro speranza, introduzione di Seamus Heaney, Settecolori, Milano 2022.
  • Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1988.
  • Renato Poggioli, I lirici russi: 1890-1930, Lerici, Milano 1964.
  • Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015.
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A proposito del Manifesto di Ventotene https://www.carmillaonline.com/2025/03/20/lanno-degli-anniversari-1941-2021-manifesto-di-ventotene/ Thu, 20 Mar 2025 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68587 di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento [...]]]> di Sandro Moiso

[Poiché si ritengono tutte le forze politiche rappresentate in parlamento ugualmente nemiche della lotta di classe e amiche del partito della guerra e vista la bagarre scatenatasi in quell’aula nei giorni scorsi, a seguito delle parole di Giorgia Meloni e l’uso opportunistico e guerrafondaio fatto del Manifesto di Ventotene dalla cosiddetta sinistra liberal-democratica “europeista”, si è scelto di ripubblicare un intervento sullo stesso tema già apparso su Carmilla nell’ottobre del 2021. S.M.]

Ad agosto (2021) ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento ideale dell’attuale Unione Europea.
Peccato, però, che a leggerne anche soltanto alcune pagine, guarda caso poste proprio all’inizio dello stesso, la narrazione europeista autorizzata non regga.

Il Manifesto, il cui titolo completo è “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, fu infatti elaborato da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nell’agosto del 1941, in piena seconda guerra mondiale, mentre i due antifascisti si trovavano confinati, insieme ad un migliaio di altri oppositori del regime, sull’isola di Ventotene, al largo di Formia.

L’autore principale fu Altiero Spinelli (1907-1986), che aveva iniziato la sua attività politica nelle file dell’allora Partito Comunista d’Italia e proprio per il suo ruolo di segretario giovanile dello stesso per l’Italia centrale era stato condannato nel 1927 a dieci anni di carcere e successivamente al confino, da cui fu liberato soltanto nel 1943 dopo la caduta “istituzionale” di Mussolini. Nel 1937, però, a seguito dei processi di Mosca e di una lunga riflessione sull’esperienza dello stato sovietico stalinizzato, era uscito da quello che era diventato il PCI.

Ernesto Rossi (1897-1967), che pure diede un importante contributo alla stesura del Manifesto, fu tra i fondatori e i principali animatori di Giustizia e Libertà e poi del Partito d’Azione e proprio attraverso gli scambi di idee con Spinelli, durante il periodo di confinamento forzato, divenne un sostenitore del federalismo europeo.

Idea di federalismo che, non dimentichiamolo, era nata e si era sviluppata proprio a seguito di quel secondo conflitto imperialista che stava macellando la gioventù europea e mondiale sui campi di battaglia ed era conseguenza non solo delle brame imperialiste delle potenze coinvolte, ma anche di un feroce nazionalismo che, in varie forme, aveva precedentemente finito con l’ingabbiare le stesse masse dei lavoratori.

Forse prendendo a prestito, almeno in parte, quell’idea di Stati Uniti d’Europa che Leone Trockij era andato sviluppando fin dal 19231, con l’intento di dar vita ad una federazione europea degli operai e dei contadini che desse una risposta concreta alle questioni più scottanti della rivoluzione europea, anche se nel 1915 lo stesso Lenin si era dichiarato contrario a tale parola d’ordine2, con argomentazioni che sarebbero poi in seguito state usate da Stalin per giustificare la teoria del “socialismo in un paese solo”.

Trockij, al contrario, era invece convinto che soltanto dall’unione tra le due parole d’ordine «governo operaio e contadino» e «Stati Uniti d’Europa» fosse possibile ingabbiare e controllare in chiave socialista quelle forze produttive capitaliste che superavano, già allora, il quadro nazionale degli Stati europei ed avevano costituito la vera forza motrice del Primo macello imperialista.

Proprio come la guerra rifletteva il bisogno di un ampio campo di sviluppo per le forze produttive compresse dalle barriere doganali, così l’occupazione della Ruhr, funesta per l’Europa e per l’umanità, riflette il bisogno di unire il ferro della Ruhr con il carbone della Lorena. L’Europa non può sviluppare la sua economia nelle frontiere doganali e statali che le sono state imposte dal trattato di Versailles. Essa deve abbattere queste frontiere, altrimenti è minacciata da una completa decadenza economica. Ma i metodi impiegati dalla borghesia dirigente per sopprimere le barriere che essa ha creato non fanno che aumentare il caos e accelerare la disorganizzazione.
L’incapacità della borghesia di risolvere i problemi fondamentali della ricostruzione economica dell’Europa si manifesta sempre più chiaramente di fronte alle masse lavoratrici. La parola d’ordine «governo operaio e contadino» va incontro a questa crescente aspirazione dei lavoratori a trovare una via di uscita con le loro forze. Ora, è necessario indicare in maniera più concreta questa via d’uscita: è la cooperazione più stretta tra i popoli d’Europa, l’unico mezzo per salvare il nostro continente dalla disgregazione economica e dall’asservimento al potente capitale americano3.

Messe da parte alcune considerazioni forse oggi superate sul tema delle “foze produttive” e del loro inarrestabile sviluppo, va qui compreso come in quelle poche righe già il leader bolscevico prefigurasse quelle che sarebbero state le conseguenze del trattato di Versailles prima e del secondo conflitto mondiale in seguito.

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si trovarono invece a scrivere in un periodo in cui erano fallite le speranze di un governo operaio e contadino europeo oppure di una federazione di governi di tal fatta, mentre Stalin si accaniva nella costruzione forzosa di un nuovo e potente capitalismo di Stato, non troppo diverso da quello rimesso in piedi da alleati ed avversari nel corso di quel devastante conflitto. Forse, fu proprio a partire da questa constatazione che, nella terza parte del Manifesto, Compiti del dopoguerra – La riforma della società, i due poterono affermare:

La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia4.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica “routinière” per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;

b) le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio, ecc.;

c) i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

d) la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

e) la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali 5.

E’ evidente che numerose affermazioni qui contenute potrebbero, oggi, essere ampiamente riviste, ma ciò non toglie che la domanda da porsi sia: cosa c’entrano il contenuto del Manifesto e le idee dei suoi estensori con l’Europa di Draghi (e oggi di Ursula von der Leyen), della guerra, del capitale finanziario e della BCE oggi celebrata proprio attraverso le sue pagine? Visto che l’Europa unita sognata all’epoca dai due estensori e, prima, forse anche da Trockij andava in una ben diversa direzione.

La prima domanda, però, deve essere accompagnata anche da un’altra: cosa c’entrano gli attuali difensori dello Stato-nazione e dei suoi sacri confini, in un contesto di capitalismo avanzato, col socialismo, il comunismo e la rivoluzione?


  1. Si veda L.Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, ora in L. D. Trockij. Europa e America (a cura di David Bidussa), Celuc Libri, Milano 1980  

  2. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, «Sotsial-Demokrat» n. 44, 23 agosto 1915  

  3. L. Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, in op. cit., p. 100  

  4. Per i lettori che dovessero strabuzzare gli occhi davanti a tali affermazioni, occorre qui ricordare che tale principio era in linea con la Nep, la Nuova politica economica, con cui Lenin aveva cercato di rivitalizzare l’economia dell’U.R.S.S. al termine della devastante guerra civile del 1919- 1921, mentre la statalizzazione assoluta di ogni attività economica e proprietà fu alla base delle politiche staliniane di industrializzazione forzata e competizione economica sul mercato mondiale. – N. d. R. 

  5. Altiero Spinelli, Enesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Celid per conto del Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2001, Parte Terza: Compiti del dopoguerra- La riforma della società, pp. 24 – 26  

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Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Il battaglione partigiano russo d’assalto https://www.carmillaonline.com/2024/10/06/il-battaglione-partigiano-russo-dassalto/ Sun, 06 Oct 2024 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84763 di Nico Maccentelli

Vladimir Pereladov, Il battaglione russo d’assalto, Anteo Edizioni, pag. 80 € 15,00

In onore e memoria delle vittime di Monte Sole nell’80° dall’eccidio nazifascista di Marzabotto.

In tempi di ostracismo e discriminazioni verso i russi in Europa e in Italia, di voti bipartisan al Parlamento Europeo che equiparano il comunismo al nazifascismo, di rilettura falsificante della storia a uso e consumo della guerra che USA UE e NATO stanno conducendo per mezzo degli ucronazi in Ucraina, questo piccolo libello è una boccata d’ossigeno storico e anche politico. E che restituisce all’Armata Rossa sovietica e ai [...]]]> di Nico Maccentelli

Vladimir Pereladov, Il battaglione russo d’assalto, Anteo Edizioni, pag. 80 € 15,00

In onore e memoria delle vittime di Monte Sole nell’80° dall’eccidio nazifascista di Marzabotto.

In tempi di ostracismo e discriminazioni verso i russi in Europa e in Italia, di voti bipartisan al Parlamento Europeo che equiparano il comunismo al nazifascismo, di rilettura falsificante della storia a uso e consumo della guerra che USA UE e NATO stanno conducendo per mezzo degli ucronazi in Ucraina, questo piccolo libello è una boccata d’ossigeno storico e anche politico. E che restituisce all’Armata Rossa sovietica e ai suoi combattenti nei fronti europei, il ruolo centrale che ha avuto nella vittoria contro il nazifascismo nella Seconda Guerra Mondiale del secolo scorso.

In particolare il libro ripercorre le tappe, con dati e spiegazione dei vari eventi il ruolo che i sovietici, spesso prigionieri scappati dalla schiavitù del duro lavoro per la costruzione di trincee e firtificazioni, per conto della Wermacht di Hitler, hanno avuto nel liberare l’italia, operando nelle formazioni partigiane (anche con unità proprie) del Comitato di Liberazione Nazionale.

L’autore, Vladimir Pereladov scrisse questo libro molti anni fa e in Italia uscì per le Edizioni della Squilla già nel 1975. Ciò che però lo rende ancora più utile è il saggio introduttivo di Giambattista Cadoppi, che ripercorre quei fatti con una scrupolosa metodologia storiografica. Pereladov rappresenta una testimonianza importante: prigioniero dei tedeschi e utilizzato insieme a tanti altri russi nella realizzazione delle fortificazioni della Linea Gotica, lungo l’Appennino emiliano, riuscì a fuggire e a unirsi alle formazioni partigiane operanti nelle montagne del modenese.

Nel marzo del 1944, Pereladov fu alla testa di un reparto partigiano in cui militavano in prevalenza sovietici che successivamente si organizzò nel Battaglione russo da cui prende il titolo dell’opera. Rilevante fu la sua attività nella costituzione e nella difesa della Repubblica patigiana di Montefiorino (1), che oggi non lo si sa, fu un’esperienza di gestione comunitaria popolare secondo gli ideali del socialismo e della democrazia di popolo, alla quale aderirono tutte le forze antifasciste. Persino le cattoliche Fiamme Verdi(2), molte delle quali futuri elementi della Democrazia Cristiana ebbero parole di elogio verso i partigiani russi.

Vladimir Pereladov

Ma le azioni e le operazioni di guerriglia nel teatro italiano, in cui si distinsero i partigiani sovietici, furono numerose. Si calcolo che furono 5-6 mila i combattenti russi che parteciparono alla Liberazione dell’Italia. Nel libro si parla della determinazione di questi uomini negli attacchi al grido di “hurrà Stalin” che spesso metteva terrore (3) tra le fila di militari tedeschi già demotivati da un andamento della guerra non certo favorevole ai nazifascisti E qualcuno potrebbe commentare ritenendo questa ricostruzione come frutto di un’esaltazione retorica più dettata dall’ideologia, che dai fatti per come sono realmente accaduti. Ma non dobbiamo dimenticare un “dettaglio” non da poco al di là di ogni ideologia da una parte e dell’altra: che nei combattenti partigiani sovietici operanti in Italia e altrove, era ben chiaro ciò che stava accadendo da qualche anno nelle terre sovietiche alle proprie popolazioni. L’Operazione Barbarossa e tutta la conduzione della guerra sul fronte orientale, fu una storia di eccidi efferati sui civili, di massacri di massa perpetrati dai militari nazisti tedeschi e dai loro kapò, come in Ucraina come l’organizzazione nazionalista di Stepan Bandera e i corpi SS ucraini, repsonsabili di migliaia di assassinii di massa tra ebrei, polacchi, russi e ucraini stessi per tutta l’occupazione nazista.

Con la prefazione di Cadoppi, il libro è ricco di analisi storiche sulle scelte politiche fatte dal fronte alleato, a cui lascio ai lettori farsi un’opinione. Quello che mi interessa sottolineare è che stiamo vivendo un momento storico segnato da una volontà di guerra e di mantenimento di una supremazia declinante nel mondo e nel processo al multipolarismo, da parte di un ‘Occidente che nei secoli ha solo portato sfruttamento, schiavitù e predazione attraverso il razzismo colonialista. Non posso non rilevare l’arroganza suprematista di dirigenti o ex tali dell’UE nel definire giardino fiorito i paesi dell’UE e giungla il resto del mondo (4): ci sono forti assonanze tra questa visione razzista e suprematista e la visione hitleriana verso altri popoli, tra cui gli slavi, considerati dai nazisti come subumani. E che dire dell’etno-nazionalismo sionista (definizione appropriata data da Moni Ovadia) verso il Popolo Palestinese, che considera le popolazioni arabe alla stessa stregua di chi aveva i baffetti 80 anni fa? Tutto nel nome di “popolo eletto” e di una “terra promessa” (ma quante volte dio gliela promette?) che configura una “grande Israele nelle loro stesso monete. Che, detto per inciso nulla ha che vedere con l’ebraismo e che milioni di ebrei anche di stretta osservanza religiosa non sono per nulla d’accordo con il sionismo genocida e della pulizia etnica e dell’esaltazione terrena.

Partigiani della Brigata Stella Rossa di cui fece parte anche l’ufficiale sovietico Karaton che, dopo i giorni di accanita resistenza sul Monte Caprara sopra Marzabotto, nei giorni della strage di Monte Sole, passò nelle fila della 63ma Brigata Garibaldi “Bolero”,trovando poi la morte a Casteldebole, alle porte di Bologna, per mano nazista.

Riportare elementi di verità storica all’attezione dell’opinione pubblica è importante e vitale per un futuro di giustizia sociale, democrazia popolare vera, pace e cooperazione tra i popoli. E visto che la storia la fanno i popoli e non semplicemente le loro classi dirigenti, nel rileggere queste pagine non si tratta di esaltare esperienze fallimentari del passato a cui una gran parte della sinistra radicale è purtroppo ancora legata in modo fideistico, e direi religioso, per un’incapacità poco o nulla marxista di elaborare percorsi di liberazione dallo sfruttamento capitalistico che partano da “un’analisi concreta della situazione concreta” (per dirla come la disse Lenin). Ma si tratta di capire, per esempio, che in un’Europa dove 27 milioni di cittadini sovietici sono morti per sconfiggere il nazifascismo e che il tributo più grande in militari caduti in combattimenti o sterminati nei campi di concentramento nazisti, l’ha dato l’Armata Rossa, non si può prescindere da questo fatto storico tragico, ma anche straordinario, che ha dato vita nella Liberazione e poi nel prosieguo del sistema socialista sovietico a lotte di liberazione antimperialista nel Terzo e Quarto Mondo e, di contrappeso geopolitico, persino a quelle Costituzioni e a quel welfare nell’Occidente capitalistico che per decenni hanno espresso la forza materiale delle classi popolari, dei loro partiti e dei sindacati, nonostante la lunga riorganizzazione della bestia imperialista sotto altre bandiere. E quindi non si può prescindere, piaccia o meno, dalla funzione progressiva e di contrasto all’imperialismo nel pianeta che ha avuto l’URSS durante e nel dopoguerra.

Tre partigiani sovietici della Divisione Modena: il primo e secondo da sinistra e l’ultimo a destra

Capire questo significa comprendere anche cosa è accaduto dopo e la lunga preparazione delle élite finanziarie imperialiste che ha portato alla fine di queste democrazie borghesi, al loro svuotamento lasciandone un vacuo involucro. E quindi al ritorno di un’era di guerra nei mutati scenari mondiali. La comprensione dei fatti storici del passato deve servire a questo, senza che le sacrosante esaltazioni nostalgiche offuschino la realtà presente e i compiti che ci aspettano. E con la determinazione di proseguire la lotta in nuovo contesto geopolitico e sociale.

Questo libro è un piccolo ma utile tassello di verità.

 

§ § §

 

NOTE

1. Il battaglione partigiano russo d’assalto, pag. 16

2. Ibidem, pag. 19

3. Ibidem, pag. 18 e 19

4. Faccio rispondere a questi euroburocrati una ragazza adolescente che vive a Lugansk:

“Salve signor Borrell,
mi chiamo Faina Savenkova, sono un’adolescente di Lugansk, città che l’Ucraina bombarda con armi fornite dai paesi occidentali e dall’Unione Europea. Mi trovo sul Viale degli Angeli a Lugansk. Ogni giorno il numero dei bambini uccisi aumenta grazie a Lei, signor Borrell. Mi dica, signor Borrell, questi nomi qui incisi Le dicono qualcosa? Penso che per Lei non siano nemmeno una statistica, ma solo nomi che non Le dicono nulla. Tuttavia, per i loro genitori sono un dolore eterno. Questi bambini non vedranno mai i loro cari e la colpa è Sua e dell’Unione Europea, signor Borrell. Sapete bene che l’Europa non sopravviverà alla Terza Guerra mondiale, ma con le vostre forniture di armi e pompose parole sullo scontro con la Russia, voi state provocando una grande guerra. Non provate dispiacere per i russi, o per gli ucraini che muoiono a migliaia, o per gli europei. Quando questa guerra fratricida finirà, i politici occidentali che hanno scatenato e sostenuto questo massacro saranno certamente puniti. L’Ucraina non è una vittima, ma l’organizzatrice di un conflitto, a cui partecipa la NATO. Vivendo nel mio natìo Donbass da 10 anni sotto i bombardamenti ucraini, ho il diritto di dire a Lei personalmente che anche Lei è responsabile di ciò che sta accadendo. Spero tanto che in Europa capiscano che non ci saranno vincitori in una guerra nucleare”.

 

 

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Nostalgia di un Occidente, forse, mai esistito https://www.carmillaonline.com/2024/05/15/nostalgia-di-un-occidente-forse-mai-esistito/ Wed, 15 May 2024 20:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82446 di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma [...]]]> di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma pensava a come ogni frase sarebbe suonata in francese, di chiarire al suo pubblico le « parole chiave », le « parole trabocchetto », le « parole d’amore » attorno alle quali erano costruiti i suoi romanzi.

Dalla riunione dei due testi, entrambi usciti in origine su « Le Débat », risulta evidente la volontà di rivendicare un’appartenenza occidentale per la città e la cultura letteraria, ma non soltanto, del paese d’origine di un autore di cui Adelphi è stata la prima e fortunatissima casa editrice in Italia, mentre la Francia, che lo aveva ospitato fin dal 1975, costituiva la seconda patria. Se non la prima, considerato che Kundera è stato spesso indicato come «scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca e etnia ceca». Una rivendicazione e una forma di nostalgia che derivavano sia da una forma di riconoscenza nei confronti del “nuovo mondo” che lo aveva accolto nell’esilio e, contemporaneamente, dalla nostalgia tipica del profugo nei confronti della patria lasciata alle spalle.

Una rivendicazione ostentata di accostamento, se non di appartenenza, non solo della sua opera ma di un’intera cultura nazionale che si scontra però, in maniera paradossale, con la storia di una città che, come altre ai “confini orientali” d’Europa e un tempo integrate nell’impero asburgico o austro-ungarico, ha visto incrociarsi sul suo territorio e nel suo background culturale lingue, religioni, popoli e culture spesso profondamente diverse. Sicuramente la lingua tedesca, quella ebraica e yiddish, quella slava insieme alle rispettive religioni di appartenenza (cattolica, protestante, ortodossa ed ebraica). Cosa che se da un lato può aver dato vita a conflitti e divisioni in numerosi momenti storici (si pensi soltanto alla defenestrazione dei delegati cattolici a Praga del 1618 che di fatto diede vita alla guerra dei Trent’anni e che, invece, l’autore nel testo in questione sembra voler far coincidere con la rivendicazione dell’occidentalità della cultura praghese, mentre quello fu proprio l’inizio di una divisione interna all’Europa che, di fatto, sembra non essersi chiusa ancora adesso nonostante la leggenda dell’unità europea e delle sue radici cristiane), dall’altro ha creato quelle condizioni di ricchezza culturale e linguistica che ha caratterizzato la sua letteratura.

Basti far riferimento a Franz Kafka e alla sua famiglia, in cui le origini e le tradizioni ebraiche del padre in qualche modo si scontravano con quelle “tedesche” della madre. Anche a livello linguistico. Motivo per cui lo scrittore scrisse le sue opere in tedesco, risultando poi essere il principale esponente della letteratura ebraica in quella lingua.

E’ soltanto un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, per riportare sui giusti binari la polemica a favore dell’identità culturale ceca che anima l’opera e l’intento di Milan Kundera (Brno, 1929 – Parigi, 2023). Ma è anche chiaro, però, che la polemica e la rivendicazione ceco-occidentale di uno dei più conosciuti autori praghesi della contemporaneità, contenuta in un testo scritto nel 1980, è dovuta soprattutto alla pesante e massiccia azione di rimozione e risistemazione culturale e politica operata dall’Unione Sovietica a seguito della spartizione territoriale d’Europa seguita al secondo conflitto mondiale e alla Conferenza di Yalta.

Una forma di sudditanza agli interessi sovietici che, anche se fatta rispettare direttamente dagli scagnozzi in divisa e dai burocrati di Stalin e degli altri segretari del PCUS fin quasi alla caduta del muro di Berlino, derivò proprio dalle scelte politiche e militari di quell’Occidente liberale e democratico che troppo spesso l’autore sembra idealizzare. In fin dei conti quella spartizione conveniva ad entrambi i reggitori del mondo, come la fine del condomino russo-americano sul pianeta ha finito con il dimostrare anche a danno dell’immagine statunitense, cosicché i popoli che ne furono vittime nell’Europa Orientale (dai lavoratori in rivolta a Berlino Est nel 1953 agli insorti ungheresi del 1956, fino agli studenti praghesi del 1968 e gli operai polacchi degli anni Settanta e Ottanta) possono ancora “ringraziare” tutt’ora sia i carri armati sovietici che le fasulle promesse democratiche americane per la repressione, quasi sempre durissima, che li colpì ripetutamente ad ogni tentativo di rialzare la testa.

Così il nazionalismo culturale di Kundera, perché è di questo che si parla in sostanza, rinvia a quell’immagine delle piccole patrie già così ben descritta, nel loro livore e nelle loro divisioni fratricide, nei reportage di George Simenon contenuti in Europa 331 che, nel 1933, sottolineava le ambizioni, le piccinerie, gli egoismi e le rivalità che separavano tra di loro le piccole nazioni sorte sul finire del Primo conflitto mondiale ad opera della suddivisione dell’impero austro-ungarico messa in atto a Versailles, sotto l’influenza e l’azione del presidente americano Wilson.

Odii, rivalità, pretese, sabotaggi politici ed economici che vediamo in atto ancora oggi, in occasione del conflitto russo-ucraino, e che spesso i media mainstream riducono a filo-putinismo o a disattenzioni per le regole democratiche dettate dall’Unione Europea, ma che in realtà nascondono interessi politici, economici e territoriali infinitamente complessi e spesso dettati da un nazionalismo di origine, tutto sommato, recente per alcuni casi (ad esempio la divisione tra Repubblica ceca e Slovacchia) o più antico e ancora caratterizzato da mire espansionistiche in altri (come i rimpianti imperiali della Polonia che pensa ancora in termini simili a quelli della dinastia jagelloniana, che in realtà era di origine lituana, oppure alle rivalità sui territori e popoli della Transilvania tra Ungheria, Romania e Ucraina stessa).

Ed è per i motivi qui appena delineati che dispiace vedere tirate in ballo l’indiscutibile grandezza e l’ironia incomparabile, questa sì autenticamente praghese, di autori come Franz Kafka, Jaroslav Hašek (forse il più grande scrittore antimilitarista di tutti i tempi) e di Bohumil Hrabal, tutti e tre sicuramente “universali” nella loro fulgida grandezza letteraria, per sviluppare un discorso che nel difendere l’identità letteraria e culturale ceca e praghese finisce con l’esaltare un nazionalismo fasullo che finge una coincidente linea di attrazione “fatale” tra cultura e politica boema e libertà occidentali (sempre e soltanto presunte anch’esse).

A chiarire, diciamolo pure, la sudditanza culturale, questa sì, dello stesso autore nei confronti di un Occidente di cui è stato a lungo corteggiato ospite, dovrebbe bastare una delle ottantanove definizioni date nel secondo testo: quella di ROMANZO (europeo), di cui Kundera giunge a dare la seguente definizione e definitivo giudizio:

Il romanzo che io definisco europeo nasce nel Sud dell’Europa agli albori dei Tempi moderni e rappresenta in sé un’entità storica che in seguito amplierà i propri confini al di là dell’Europa geografica(in particolare nelle due Americhe). Per la ricchezza delle sue forme, l’intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali nelle altre civiltà2.

Manifestando così una sorta di nostalgia per un’Europa e una cultura che ancora si pretendeva superiore sul resto del mondo, più che una coscienza delle infinite trasformazioni, delle lotte e dei conflitti che ne hanno definito e disfatto, allo stesso tempo, l’identità e la sua crisi, sviluppatasi in forme drammatiche e contraddittorie fino ad oggi e, certamente, non soltanto a causa dei “barbari” provenienti dall’Est.


  1. G. Simenon, Europa 33, Adelphi Edizioni, Milano 2020. In particolare nel lungo reportage che da il titolo al volume da p. 11 a p. 126.  

  2. M. Kundera, Ottantanove parole, in M. Kundera, Praga, poesia che scompare, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 91.  

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Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2024/01/03/il-feticcio-del-fronte-unico-la-concretezza-della-rivoluzione/ Wed, 03 Jan 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80441 di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente [...]]]> di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – ed anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».

Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.

Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.

A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.

Purtroppo, però, l’iniziativa “rivoluzionaria” aveva raggiunto il suo apice proprio durante gli ultimi anni della guerra mondiale, manifestandosi sia con la Rivoluzione russa che con gli ammutinamenti di soldati1 e, talvolta, degli operai e dei contadini, tra il 1917 e il 1919. Anno in cui le armate bianche persero l’appoggio delle armi occidentali su tutti i fronti interni alla Russia, dal Baltico alla Siberia, proprio per lo spirito di rivolta che percorreva ormai le fila dei quindici eserciti occidentali impegnati nella guerra civile russa2.

Tali discussioni e battaglie intorno al Fronte Unico hanno attraversato quella generazione di rivoluzionari, ma costituiscono ancora utile materiale di approfondimento e di riflessione per i militanti di oggi. La tattica all’epoca proposta si proponeva, infatti, di raccogliere le forze, di strappare ai rinunciatari partiti socialisti ed ai sindacati da essi diretti la maggioranza del proletariato in vista di un rilancio dell’”offensiva di classe”.

Dibattito che fu particolarmente vivace in Italia, dove il Biennio rosso aveva riacceso la speranza di ripresa delle lotte, dopo un 1917 che aveva visto il rifiuto dei soldati di continuare a combattere nei giorni di Caporetto3 e l’insurrezione operaia di Torino qualche mese prima. Esperienze tradite entrambe da un Partito socialista che mai immaginò, nemmeno lontanamente, di porsi alla testa o alla direzione di un’insurrezione e, tanto meno, di una rivoluzione.

Motivo per cui i giovani socialisti dissidenti erano giunti alla conclusione, alimentata anche dalle richieste di Lenin e dell’Internazionale Comunista, di dover dar vita al Partito comunista d’Italia a partire da una scissione nel Partito socialista, poi realizzatasi a Livorno nel 19214. Scissione avvenuta comunque in ritardo rispetto ai sommovimenti di classe che, ancora nel 1919, avevano scosso la stabilità sociale e politica del paese, senza giungere però ad un ribaltamento dei rapporti di forza, anche grazie all’incapacità di quegli stessi giovani socialisti di andare oltre un operaismo un po’ troppo rigidamente inteso5.

Il testo di Graziano Giusti si divide in due parti ben distinte, anche se coese nel contenuto: la prima dedicata agli anni del primo dopoguerra (1918-1920) e, sostanzialmente, agli avvenimenti e ai dibattiti intorno al Biennio Rosso e una seconda rivolta agli anni in cui il tema del Fronte Unico esplose nel dibattito (1920-1924). In entrambi i casi, però, rimangono “centrali” le opinioni espresse già allora da Amadeo Bordiga e le critiche all’operato dello stesso, soprattutto alla sua ferma opposizione al coinvolgimento dei gruppi “sportivi” del PCd’I con il movimento degli Arditi del popolo e le loro azioni militari rivolte contro le squadracce fasciste. Opposizione derivante, secondo l’autore, anche da una sottovalutazione dello stesso Bordiga del ruolo e dell’autonomia del Fascismo mussoliniano rispetto sia alla repressione di classe che nei confronti dello Stato borghese e liberale dell’epoca.

Ma, tralasciando il gran numero di argomenti e dibattiti riportati dall’autore all’interno di una ricerca molto ampia e approfondita, ciò che conta sottolineare, almeno per l’estensore di questa recensione, è che ciò che ancora si rischia di non cogliere oggi, ma che forse colse Bordiga all’epoca, è che la fase involutiva del movimento rivoluzionario era iniziata proprio col fallimento delle iniziative autonome di classe sia nell’esercito che nelle fabbriche e nelle campagne di quegli anni e che il dibattito sul Fronte Unico giunse in ritardo rispetto alla reale esplosione rivoluzionaria avvenuta in Europa tra il 1917 e il 1919.

Se, infatti, le condizioni materiali e politiche per una rivoluzione possono covare sotto le ceneri e svilupparsi nel corso di anni, se non di decenni, il momento in cui queste possono effettivamente concretizzarsi è estremamente breve. Proprio nell’aver compreso ciò sta il genio politico e militare di Lenin nel 1917, che pur dovette già muoversi in ritardo a causa dei ritardi e delle incomprensioni del suo stesso partito prima del suo arrivo alla stazione di Finlandia.

Come ha affermato, in anni più recenti, un teorico distante dalle posizioni dell’ortodossia comunista, ma attento lettore di Lenin: «Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre»6.

La tattica del Fronte Unico, che in seguito si sarebbe trasformata, sotto l’influenza dell’Internazionale stalinizzata, in quella ben più perniciosa dei Fronti popolari, cercava dunque di porre tardivamente rimedio a ciò che non era stato fatto, o si era stati impossibilitati a promuovere, non solo per inadeguatezza politica, negli anni precedenti.

Quello che giustamente sottolinea Giusti, fin dalle prime pagine, è come tutto il “comunismo rivoluzionario” dell’epoca fosse comunque affetto da una ferrea fiducia nel fatto che “la crisi del capitalismo fosse irreversibile” e che “la rivoluzione fosse alle porte”, nonostante si parlasse anche di “fase di ritirata del movimento operaio”. Forzature e giravolte analitiche che finivano col fossilizzare l’azione politica o, perlomeno, con l’indirizzarla su strade difficilmente percorribili.

Anche i dati che il testo riporta a proposito degli scioperi di quel periodo non confortano l’idea della possibilità, all’epoca, di un effettivo rivolgimento sociale, visto che in una parte significativa del mondo occidentale, soprattutto in due paesi usciti comunque vincitori dalla guerra (Gran Bretagna e Stati Uniti), non si elevavano al di là di richieste di miglioramenti salariali e lavorativi che rimanevano pienamente nella tradizione tradunionista senza mai spiccare il volo verso richieste più politiche e radicali.

D’altra parte, anche consultando altri testi più ricchi di dati sul movimento degli scioperi nel corso del XX secolo7, si può cogliere come, quasi sempre, il movimento rivendicativo organizzato più forte nel seno delle fabbriche e della classe operaia sia sgorgato. in maniera impetuosa, più in fasi di crescita economica che non di debolezza o riflusso dell’economia capitalistica.

In tale situazione, infatti, sia la socialdemocrazia che i sindacati ufficiali non potevano ottenere molto e si sono trovati davanti ad una risposta dell’imprenditoria che, seppur diversamente articolata, ha quasi sempre teso a mostrare il suo volto più aspro e deciso nel tentativo di salvaguardare i propri profitti e interessi di classe. Come si può cogliere ancora oggi nelle strategie liberiste e repressive messe in atto dal capitale occidentale, ma non solo.

Strategie che non possono far altro che preludere a nuove guerre piuttosto che a un’intensa ripresa della lotta di classe in chiave rivoluzionaria. Questa, infatti, se verrà in Occidente, esattamente come nel biennio compreso tra il 1917 e il 1919, sarà sulla base di devastanti contraccolpi sociali, economici e militari che metteranno in pericolo la stessa sopravvivenza delle classi subalterne e medie impoverite.

Proprio per questo, ieri come oggi, il tentativo di costruire “fronti” tra forze politiche diverse per indirizzo, tattica e strategia e sindacati egualmente diversi tra di loro, a causa del loro posizionamento “politico”, può risultare un escamotage inutile e, soprattutto, dannoso, indirizzando il movimento di classe verso tattiche e strategie subalterne alle logiche di compromesso che, da sempre, hanno limitato e limitano nei fatti tutti i tentativi di dare vita a quegli stessi fronti.

Lasciando ai lettori la scoperta del ricco dibattito dell’epoca raccolto e, talvolta, riassunto nelle quasi seicento pagine del libro, val ancora la pena di sottolineare come, in fin dei conti, anche l’azione degli Arditi del popolo non potesse consistere in altro che in una difesa di diritti e condizioni di vita e lavoro, acquisite precedentemente, dall’assalto militare, politico ed economico fascista. Mentre, proprio per questo, non avrebbe mai potuto costituire, nemmeno in nuce, il possibile prologo alla formazione di un’armata rivoluzionaria impegnata ad aggredire l’esistente, più che a difenderlo.

Quindi, anche se è giusto cogliere, come fa l’autore della ricerca, le contraddizioni e i limiti teorici e politici di chi all’epoca lottò contro una teorizzazione tattica di cui denunciava i limiti e i compromessi, è anche vero che ciò che circondava davvero quelle scelte e quell’azione politica, talvolta avventate e per altre troppo limitate, era il fatto che la controrivoluzione, in tutte le sue forme, aveva già vinto, essendo venuta meno l’iniziativa di classe dal basso, e che, con l’affermazione di Stalin ai vertici del partito sovietico, avrebbe vinto definitivamente anche nel cuore degli organismi politici che avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia della rivoluzione mondiale.


  1. Sugli ammutinamenti e le diserzioni nelle armate zariste nell’inverno tra il 1916 e il 1917, rimane insuperato: China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti, Roma 2017. Mentre sugli ammutinamenti in Francia si può consultare P. Caporilli, Francia – Anno 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, I Dioscuri, Genova 1989.  

  2. Si veda in proposito, e solo per la parte del fronte Nord, Liudmila G. Novikova, La “controrivoluzione” in provincia. Movimento bianco e Guerra civile nella Russia del nord, 1917-1920, Viella libreria editrice, Roma 2015, in particolare alle pp. 326-331: La campagna militare dell’estate 1919 e la fine dell’intervento alleato.  

  3. Sul clima nell’esercito italiano, prima e dopo Caporetto si vedano: M. Isnenghi, I vinti di Caporetto, Marsilio Editori, Vicenza 1967; E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari 1968; Q. Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, Donzelli editore, Roma 2014 e C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (prima edizione 1921), Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  4. Sullo scontro tra i giovani militanti socialisti e la dirigenza del PSI dell’epoca si vedano: M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine Marxiste, Milano 2022 e L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019.  

  5. In proposito si veda: R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek Edizioni, Roma 2006.  

  6. Toni Negri in un’ intervista rilasciata il 13 luglio 2000.  

  7. Si veda, ad esempio, G. P. Cella, Il movimento degli scioperi nel XX secolo, casa editrice Il Mulino, Bologna 1979.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 6 https://www.carmillaonline.com/2023/09/03/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-6/ Sun, 03 Sep 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78426 di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un [...]]]> di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un giornale come “La classe” può assumere un valore paradigmatico. Due sembrano essere gli aspetti centrali: l’attenzione continua per tutte le lotte e le insubordinazioni operaie che si sviluppano e la ricerca costante del punto di vista operaio.

Questo corpo militante, una parte del quale si è formato all’interno delle varie esperienze operaiste degli anni precedenti mentre un altro è maturato nel ’68, che dà vita a “La classe” lavora costantemente per mettere in contatto le lotte, anche di modesta proporzione, che si sviluppano nella classe operaia. Qui riemerge in maniera non dogmatica quell’uso del giornale come elemento essenziale finalizzato alla messa in forma di quel partito dell’insurrezione che aveva fatto da sfondo al leniniano “Che fare?”.

Ma cosa significa mettere in contatto le lotte? Certo, banalmente, far sapere che esistono, ma non è solo questo il punto. Il dialogo e la conoscenza tra gruppi di lotta significa socializzare delle esperienze, unificare dei comportamenti, rompere l’isolamento a cui, di fatto, la vita operaia rinchiusa nella fabbrica–prigione è costretta. Significa che gli operai possono iniziare a riconoscersi come corpo sociale collettivo e percepirsi concretamente come classe ma non solo. Un giornale che focalizzi l’attenzione sul punto di vista operaio, e quindi assume le parole operaie come punti cardinali per la propria azione, non si limita a fare della cronaca o dell’informazione, ma assolve a un duplice obiettivo: da una parte è veicolo d’organizzazione e dall’altro fa sì che la lotta operaia assuma un ruolo centrale sulla scena politica. Ma questo è possibile solo se la centralità operaia è depurata tanto da un qualunque sostrato ideologico quanto da ogni sorta di mitologema. La centralità operaia può essere fattivamente tale se, in primo piano, è posta la concretezza operaia del suo qui e ora. Ciò che verrà definito protagonismo operaio sarà esattamente l’essere di questa concretezza che, dentro esperienze come “La classe”, iniziò a elaborare una propria sintassi e un linguaggio appropriato.

Solo chi della classe operaia ha una conoscenza del tutto astratta e, come diretta conseguenza, profondamente mitologica, ignora le condizioni materiali della vita operaia. Solo chi è estraneo al lavoro operaio può esaltarlo mentre, chi dentro a quel lavoro è costantemente imprigionato, non può fare altro che odiarlo. Gli operai se ne fottono della classe operaia in astratto ma, molto più realisticamente e sensatamente, non vogliono più essere operai. Ma il comunismo non era forse la soppressione del lavoro salariato? Allora si tratta, a partire da ciò, di leggere i comportamenti che spontaneamente pongono in crisi la macchina del comando. Il giornale diventa, in pieno stile leniniano, un organizzatore collettivo, un momento tanto di sintesi quanto di elaborazione e, con ciò, uno strumento d’organizzazione. Il giornale diventa lo strumento che costruisce la linea politica operaia perché è da dentro la classe e solo dentro di lei che può darsi linea politica e organizzazione. Non si dà linea politica, non si dà linea operaia precipitandosi davanti ai cancelli delle fabbriche con le direttive di un qualche improvvisato Comitato Centrale, ma si dà linea politica e linea operaia solo dentro la pratica dell’inchiesta e delle lotte.

Per altro verso questo lavoro è costantemente attento al punto di vista operaio perché è proprio questo a fornire l’ossatura del partito dell’insurrezione. Scorrendo anche solo di sfuggita i numeri de “La classe” è facile notare la quantità di materiali empirici di cui il giornale è ricco. Si tratta di resoconti operai, interventi in fabbrica, interventi in assemblea, interviste insomma tutto ciò che dentro la classe si muove e questo produce almeno tre risultati: da un lato rompe qualunque possibilità di isolamento della classe operaia e delle sue lotte, le quali, grazie alla risonanza che il giornale offre loro, si socializzano con una certa facilità, gli operai comprendono che quanto accade in una determinata officina non è un fatto isolato, ma quanto accade ha dinamiche e motivazioni del tutto simili a qualcosa in atto a qualche chilometro di distanza, o anche a centinaia di chilometri.

La classe operaia, così, comprende di non essere un insieme di individui casualmente piombati in una particolare situazione, ma di essere parte di un tutto che condivide la medesima condizione e sta condividendo le stesse esperienze. Attraverso la circolarità delle lotte non vi è solo la socializzazione di queste ma lo scambio delle esperienze. Da ogni contesa si può apprendere un modus operandi e la sua eventuale generalizzazione. Infine, ma certamente non per ultimo, queste esperienze diventano oggetto di discussione per tutti i militanti che si pongono sul terreno della conflittualità operaia. La classe operaia, quella vera e non la sua icona propria delle varie ortodossie comuniste, diventa il costante punto di riferimento di tutto il dibattito politico del movimento. Va detto chiaramente: senza tutto questo impegno le lotte operaie ben difficilmente sarebbero state in grado di avere quel ruolo centrale che tutta la società italiana gli ha riconosciuto e “La classe” rappresenta un passaggio essenziale di tutto questo, così come, ed è quanto si proverà ad argomentare nelle pagine seguenti, avrà l’indubbio merito di portare nel dibattito operaio l’insieme di tensioni politiche, culturali ed esistenziali che il ’68 aveva fatto albeggiare. In questo modo la lotta concreta dell’officina può coniugarsi con le astrazioni che agitano il mondo emancipando la fabbrica dai suoi angusti perimetri e la classe operaia dal suo isolamento.

Mao e il maoismo sono sicuramente una di queste astrazioni. L’interesse de “La classe” per la Cina e per la Rivoluzione culturale che la sta attraversando non è cosa secondaria. Prima di parlare del maoismo che trova un certo spazio nel giornale necessita una premessa al fine di emancipare sin da subito “La classe” da quell’insieme di gruppi e gruppuscoli, per non dire della quantità di neopartiti comunisti marxisti–leninisti, formatisi sulla scia del maoismo i quali se meritano una nota storica, questa è una nota tutta perimetrata nell’ambito del folclore e del ridicolo. Il Mao che sta dentro “La classe” è un eretico, forse ancor più di Lenin e comunque un Mao che non ha nulla di quell’esotico e/o terzomondismo che caratterizza le diverse organizzazioni maoiste.

In prima istanza il Mao che interessa a “La classe” è quello che si contrappone radicalmente al socialimperialismo sovietico. Qui l’interesse è duplice: da una parte significa identificare sul piano internazionale un polo innovativo finalizzato allo sviluppo del movimento rivoluzionario internazionale, anche dentro le metropoli imperialiste e focalizza lo sguardo proprio su ciò che accade nelle metropoli imperialiste. Mentre il socialimperialismo è artefice non secondario del mantenimento dello status quo post bellico, la Cina maoista è fondamentalmente propensa a far saltare il banco della spartizione del mondo in precise e delimitate sfere di influenza allo stesso tempo, così come il socialimperialismo è tutto dentro i Palazzi, la Cina si mostra come un valente interlocutore della o delle Strade quindi, il rapporto con il maoismo, può essere giocato tutto contro il riformismo il quale si identifica appieno nel blocco socialimperialista e delle relazioni politiche ufficiali delle quali ha fatto il suo solo orizzonte.

Ciò era stato quanto mai evidente nel corso del ’68 quando, proprio Mao e la rivoluzione cinese, erano diventati uno dei punti di riferimento centrali di quel movimento che aveva sconvolto gli equilibri di tutti i sistemi politici1. Mao e il maoismo sono l’elemento di rottura internazionale che affascina gran parte della gioventù rivoluzionaria e in ciò un ruolo non secondario lo gioca il fattivo appoggio che la rivoluzione cinese sta offrendo al popolo vietnamita in guerra con l’imperialismo americano ma anche il rapporto che il maoismo costruisce con realtà come le Black Panther e i vari movimenti di resistenza sviluppatisi dentro le metropoli imperialiste. Mao, in un mondo che sembra immutabile, è il vento dell’est che ritorna a dire: “Bisogna sognare!” e lo fa ponendo nuovamente al centro del suo agire quella marxiana violenza, ostetrica della storia, messa al bando dal movimento operaio ufficiale.

Sulla scia di ciò “La classe” trova nel maoismo uno strumento di battaglia politica contro il riformismo e con ciò Mao è portato, così come è stato fatto con Lenin, dentro la fabbrica tanto che si potrebbe dire da Lenin in Inghilterra a Mao a Mirafiori. Di ciò si ha una corposa dimostrazione attraverso le scritte, già ricordate, fatte dagli operai legati a “La classe” in fabbrica: “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” è esattamente questo il maoismo privo di fronzoli e folclore immesso nella metropoli imperialista. È il Mao stratega militare2 che viene ripreso e modellato dentro la fabbrica prima e, almeno per la componente che darà vita a Lotta Continua, nella metropoli poi, così come il principio della guerra di lunga durata diventa il punto di riferimento costante di tutto ciò che ruota nella e intorno a “La classe”.

Questo apre su un altro tema centrale, tanto della teoria politica maoista quanto, come si è provato ad argomentare in precedenza, negli orizzonti de “La classe”, ovvero la questione della violenza. Mentre il riformismo, attraverso l’assunzione della guerra di posizione come solo e unico orizzonte politico, ha espunto la questione politico–militare, Mao, con il suo: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, aveva riportato, e lo aveva fatto come leader di una delle più grandi potenze del mondo, la questione della violenza al centro dell’agenda politica dei movimenti comunisti e lo aveva fatto declinandola interamente sulle masse. Non la guerra degli apparati cara al socialimperialismo, ma la guerra di popolo, la guerra delle masse e la sua organizzazione. Abbiamo detto che il principio maoista della guerra di lunga durata3 è assunto per intero da “La classe” il che comporta tutta una serie di ricadute che, dalla teoria maoista, possono ricevere non secondarie indicazioni. Lo studio degli “Scritti militari” di Mao diventano un passaggio centrale per tutta una generazione di avanguardie operaie e militanti comunisti che, proprio su questo terreno, si erano mostrati completamente vergini.

Attraverso gli scritti militari di Mao è possibile cogliere la questione dell’edificazione del dualismo di potere che, secondo i militanti de “La classe”, sarà la caratteristica del processo rivoluzionario dentro le metropoli imperialiste. Ciò che la lotta di fabbrica ha fatto albeggiare è un conflitto che non si risolverà in una battaglia ma che per forza di cose si protrarrà nel tempo, un conflitto che, pur con tutte le tare del caso, assumerà contorni simili alla guerra rivoluzionaria in Cina ossia una guerra fatta di avanzate e ritirate, di zone liberate e instaurazione del potere rosso, ma anche di ripiegamenti repentini sotto l’incalzare della contro offensiva padronale e statuale.

Qui vi è un salto politico radicale rispetto all’operaismo che ha preceduto questa nuova stagione della lotta operaia. Il vecchio operaismo non era stato certamente parsimonioso nel decretare il potere operaio ma era un potere che, a conti fatti, non trovava mai una qualche forma. Nel vecchio operaismo il potere operaio non trovava mai un momento di cristallizzazione politico–organizzativa ma si dava soltanto come elemento di una conflittualità permanente capace di definire rapporti di forza e di potere continuamente in trasformazione senza che, il potere operaio, trovasse degli istituti politici stabili in grado di esercitarsi sino in fondo. Per il vecchio operaismo il potere operaio è ciò che sta nella sua potenza, una potenza che non ha necessità e bisogno di trovare una sua concretezza stabilmente organizzata. Da questa impasse “La classe” si emancipa sin da subito e l’incontro con il maoismo, in ciò, gioca un ruolo per nulla secondario. Vale la pena di sottolineare, infatti, come proprio nell’assunzione del maoismo come possibile referente teorico–politico la questione dello stato venga assunta per intero e, con ciò, la rottura con tutte le ambiguità proprie dell’operaismo delle origini si consumi appieno. Anche se solo abbozzata la necessità di offrire uno sbocco organizzativo politico–militare alla lotta operaia è ormai un bisogno reale. Da qui non si torna indietro e gli anni immediatamente a ridosso di questa stagione daranno, di tutto ciò, più che una conferma. Mentre i gruppi e partitini maoisti si caratterizzeranno per la loro dimensione da operetta finendo con l’esaurirsi in un mare di ridicolo, il maoismo che fuoriesce da “La classe” sarà all’origine delle più significative pratiche rivoluzionarie dei primi anni settanta.

Un ulteriore aspetto che lega “La classe” al maoismo è l’inchiesta. Anche in questo caso l’immediata vena polemica con il riformismo è tanto evidente quanto immediata. La famosa asserzione di Mao: “Solo chi fa inchiesta ha diritto parola”4, suona come miele alle orecchie de “La classe” che proprio sulla centralità dell’inchiesta operaia aveva declinato la sua linea di condotta. Mentre per il riformismo a contare sono solo gli equilibri politici e il punto di vista delle masse è del tutto inessenziale tanto che, per lo più, si mostra del tutto incapace di leggere e comprendere le trasformazioni intervenute all’interno della composizione di classe, mentre Mao pone al centro dell’attività del partito il lavoro di inchiesta e quindi la soggettività delle masse al centro dell’iniziativa di partito.

In ciò non vi è solo un aspetto metodologico ma il completo recupero della dialettica marxiana. Lo stile di lavoro basato sull’inchiesta recupera interamente la triade marxiana prassi/teoria/prassi e, con questa, rimette in sella tutte le argomentazioni di Lenin intorno a Hegel presenti nei “Quaderni filosofici”5, ma con ciò, e non è cosa di poco conto, vi è la completa presa di distanza dalla svolta impressa al marxismo dal Diamat6 e il recupero integrale del rapporto dialettico tra classe e partito. Ma questa lettura di Mao che cosa è se non il pieno recupero di quella attualità della rivoluzione che il ’68 aveva fatto albeggiare in occidente? Anche su ciò almeno due tratti del maoismo si mostrano particolarmente affini a ciò che “La classe” ha appreso dalle lotte operaie le quali con il ’68 hanno non poco a che fare.

Il secondo aspetto del maoismo che cattura l’attenzione de “La classe” è quel fenomeno in atto in Cina, fortemente voluto da Mao, che ha preso il nome di Rivoluzione culturale la quale non poche aspettative ha creato dentro tutto quel mondo comunista che ha rotto con il movimento operaio ufficiale. Sparare sul quartier generale è l’incipit attraverso il quale la Rivoluzione culturale si è presentata. Questo, in prima istanza, significa ridare la parola alle masse ponendo tra parentesi fino ad azzerarlo il potere che una casta di burocrati di partito sta esercitando, ma questo significa anche cogliere nella fase attuale della rivoluzione cinese quell’antiautoritarismo così presente nelle istanze più radicali del ’68 e che adesso rivive, e per di più in maniera amplificata, dentro le lotte operaie. Se c’è qualcosa che padroni e riformisti lamentano è proprio la messa in mora dell’autorità da parte degli operai. La non governamentalità della fabbrica trova origine proprio nel rifiuto del principio di autorità e la rivoluzione culturale sembra sintetizzare proprio questo. Dando l’indicazione di sparare sul quartier generale Mao rimette al centro l’azione dal basso, il potere delle masse e la necessità di esautorare ogni forma di autorità burocratica ma, in questo, c’è anche molto di più. In ciò vi è il completo recupero dell’insegnamento leniniano per il quale la legittimità del partito è tale solo se espressione e sintesi della soggettività di classe, solo come passaggio intermedio della dialettica marxiana prassi/teoria/prassi. A fronte di un potere burocratico che azzera i poli della prassi per assolutizzare la sintesi teorica (che si incarna nell’apparato) Mao rimette in campo Lenin. Se necessario, se il partito diventa un corpo burocratico estraneo alle masse, il partito va azzerato e l’organizzazione ricostruita ex novo a partire da quelle che sono le istanze delle masse, bisogna, cioè, sparare sul quartier generale, ma non è forse questa la linea di condotta proprio de “La classe”? Molto sinteticamente questo il maoismo con il quale “La classe” si contamina. Ma non è solo Mao l’orizzonte astratto che occupa le pagine del giornale poiché a farsi prepotentemente strada è il rapporto razza/classe e le coeve forme di colonialismo interno che fanno da sfondo al ciclo di accumulazione capitalista.

( 6continua)


  1. Tra l’immensa pubblicistica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.  

  2. Al proposito si veda, Mao Tse Tung, Scritti militari, Edizioni Oriente, Milano 1966.  

  3. Cfr. Mao Tse Tung, Scritti militari, cit.  

  4. Mao Tse Tung, Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola, in Id. Opere volume 3, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 1991.  

  5. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, P. Greco, Milano 2021.  

  6. Con Diamat si intende la rivisitazione teorica compiuta da Stalin nei confronti del materialismo storico, una rivisitazione dove veniva del tutto espunta la dialettica e, ancor più, ogni possibile legame di Marx con Hegel. Il Diamat si ascrive così a pieno titolo in quel materialismo rozzo e meccanicista il quale, non per caso, finì con lo sposarsi velocemente con il positivismo e lo scientismo. J. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico, in Id. Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948.  

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/21/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-3/ Mon, 21 Aug 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78014 di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra [...]]]> di Diego Gabutti

Willy Fisher

1957. Un gruppo di cacciatori di spie dell’FBI fa irruzione in una stanza dell’Hotel Latham, Manhattan, puntando le pistole sull’uomo nudo, sdraiato sul letto, che fuma una sigaretta e contempla le crepe del soffitto. «Lei è in arresto, colonnello! Siamo al corrente delle sue attività spionistiche!» Sono circa le sette del mattino. Ci siamo, pensa lui mentre si mette in piedi. Con una mano si copre la pudenda, con l’altra afferra la dentiera sul comodino e se la caccia in bocca. Con la sigaretta che gli ciondola tra le labbra, dichiara con voce indignata di chiamarsi Emil Goldfus e protesta contro la violazione dei suoi diritti costituzionali. Pensa (strano pensiero) che da allora in poi dovrà tenere d’occhio Orlov lo Svedese. «Un agente segreto», dirà più tardi al suo avvocato, «si prepara a questo momento per tutta la vita».

«Goldfus», cinque giorni dopo l’arresto, rivela di chiamarsi Rudof Ivanovič Abel, colonnello dei servizi segreti sovietici. Dichiara d’essere stato personalmente istruito da Vjačeslav Michajlovič Molotov (che Stalin chiamava familiarmente «deretano di piombo») durante un’ultima cena al Cremlino, nel 1948, la sera prima di lasciare Mosca per New York. In quanto Abel, agente sovietico confesso, sarà scambiato anni dopo col pilota americano Gary Powers, abbattuto nei cieli dell’Urss durante una ricognizione aerea. Ma il fatto è che Abel non è affatto Abel. È Willy Fischer, nato in Inghilterra nel 1902 da un rivoluzionario di professione bolscevico, nello spionaggio sovietico praticamente fin da bambino.

Il vero Abel è morto l’anno prima a Mosca. Entrambi maestri di guerra segreta, lui e Fischer erano sempre stati inseparabili, come Gianni e Pinotto. Lo racconta Kirtill Chenkin in un memorabile libro di memorie, Il cacciatore capovolto. Il caso Abel, Adelphi 1982, dove spiega che Fischer assume l’identità di Abel, il suo vecchio compagno, per lanciare un segnale alla centrale moscovita: la copertura regge, non sto collaborando, la missione continua.

«Elemento antisovietico», transfuga in Israele dai primi settanta, Chenkin è amico e ammiratore di Fischer, che insieme a Rudolf Abel era stato suo istruttore alla scuola di spionaggio durante la seconda guerra mondiale, quando il Kgb lo aveva reclutato. «Willy», scrive, «mi aveva insegnato a guardare la realtà in modo che ne risalti il lato nascosto. Quando tu hai afferrato l’essenza d’un disegno criptico, non puoi fare a meno di vedere – in mezzo ai rami, o tra le corna d’un cervo – il cacciatore capovolto, non poi tanto abilmente nascosto». Chenkin, che vuole lasciare la scuola di spionaggio perché non gli piace il clima, chiese consiglio a Fischer e questi gli dice, scuotendo la testa, che «una volta spie, si è spie fino alla morte. Ma un ragazzo sveglio», aggiunge poi sottovoce, «può sempre mostrare, volendo, la propria assoluta inettitudine al servizio segreto».

Mangiata la foglia, Chenkin comincia a infastidire i superiori con proposte bislacche. Suggerisce d’istituire strette di mano segrete per riconoscersi tra agenti sul campo. Telefona ai colleghi per informarsi se la ricezione dei messaggi in codice è stata abbastanza chiara. Finché un bel giorno non gli dicono che per il momento la sua collaborazione non è necessaria (non ci richiami, richiamiamo noi). Fischer, insomma, era nel suo mestiere un’autorità indiscussa.

E veniamo allo Svedese, che al momento dell’arresto occupa tutti i pensieri del «colonnello». Aleksandr Michajlovič Orlov, altrimenti detto «lo Svedese» oppure «Nikolskij», è un vecchio bolscevico, capo dello spionaggio sovietico in Europa fino al 1938, epoca di purghe sanguinose, quando declina l’invito di tornare a Mosca da Parigi per conferire con i grandi capi e s’invola dalla capitale francese dopo aver svuotato la cassaforte dell’ufficio. Ormai da vent’anni Orlov vive negli Stati Uniti, vezzeggiato dalla CIA, per conto della quale istruisce le reclute sui metodi e le magie del Kgb. Orlov e Fischer sono vecchi amici.

Perché lo Svedese non smaschera il falso Abel rivelando che il suo vero nome è Fisher? E Willy, ulteriore mistero, che cosa sta esattamente spiando a New York? Segreti atomici americani non ce ne sono mai stati, non per i russi, ai quali fior di scienziati occidentali passano sottobanco tutte le informazioni utili. Ma nessuno di questi informatori, neppure Ethel e Julius Rosemberg, finiti sulla sedia elettrica per spionaggio atomico, passa attraverso la rete di Fischer. Altra stranezza: i Rosenberg morirono sempre negando d’essere spie, mentre lui lo ammise subito, senza essere per questo trattato da traditore e anzi guadagnandosi uno sproposito di medaglie al suo ritorno in Urss, dopo lo scambio con Gary Powers sul «ponte delle spie» di Berlino.

Come fu scoperto? Fu tradito da un maramaldissimo: il tenente colonnello «Heihannen», tra i migliori elementi del Kgb, braccio destro di Willy a Brooklyn. Strana spia, questo Heihannen. Gli agenti segreti praticano l’arte dell’invisibilità affinchè nessuno li noti, mentre lui è sempre ubriaco, picchia la moglie in pubblico, litiga con i vicini di casa, ruba, insulta i poliziotti e si fa arrestare. Una spia che non ha niente da spiare, un disertore da decenni al servizio della Cia che lo può smascherare ma non lo fa, un braccio destro che fa di tutto per farsi notare. Che storia è? Chenkin non ha dubbi: da qualche parte, in questo disegno, c’è un cacciatore capovolto. È possibile, secondo Chelkin, che una falsa rete di spie sia stata offerta a Cia e Fbi per coprire la rete vera, rimasta ignota. È possibile, certo, ma non si saprà mai.

Willy, dice ancora Chenkin, era un fan di Dashiell Hammett, l’autore del Falcone maltese, comunista ed ex detective dell’Agenzia Pinkerton. Negli anni quaranta, alla scuola di spionaggio, Fisher amava raccontare ai suoi allievi la parabola hammettiana di quell’uomo che abbandona tutto per farsi una nuova vita, stanco della moglie chiacchierona e dei figli urlanti, dell’automobile da quattro soldi, del lavoro malpagato e della squalllida villetta di periferia dove abita ormai da troppo tempo, finché non viene ripescato anni dopo alla guida di un’automobile scassata, diretto a una squallida villetta di periferia, dove lo aspettano una moglie chiacchierona e un paio di figli urlanti (vedi Dashiell Hammett, Continental Op. Tutti i racconti, Mondadori 2021). Era la copertura perfetta, il perfetto cacciatore capovolto.

Willy è un Eroe dell’Unione Sovietica quando muore di tumore nel 1971. Istruttore fino all’ultimo del Kgb, il suo migliore amico è il giovane Chenkin, un dissidente. Crede nel socialismo come in una catastrofe inevitabile, dice Chenkin. Ma non molla, e continua a spiare. «Il radioso futuro si è definitivamente rovesciato in notte dei tempi? Che ci vuoi fare? Il mestiere è mestiere».

Bruno Maksimovic Pontecorvo

Fisico delle particelle e storico della scienza, Frank Close ha scritto libri sull’antimateria, sull’epopea della fisica moderna fino alla scoperta del Bosone di Higgs e sulla caccia al neutrino. Proprio il neutrino è la particella a lungo sfuggente di cui segue la pista, tra gli altri, anche il fisico italiano Bruno Pontecorvo, uno dei «ragazzi di Via Panisperna», più tardi noto nella sua seconda patria, l’Urss, come «Bruno Maksimovič Pontekorvo».

Pontecorvo (ma anche un po’ Pontekorvo, il cittadino sovietico membro del Pcus) è l’idolo di Close, che in Vita divisa (Einaudi, 2016) ne racconta la biografia politica e scientifica. Due i Pontecorvo, come due erano anche i Fuchs: il fisico teorico e il comunista. Come scienziato, Pontecorvo fu certamente ammirevole, un pioniere della fisica sperimentale, uno studioso brillante e originale, ma come uomo del suo tempo, devoto per (quasi) tutta la vita alla più grottesca ideologia del secolo breve, fu un disastro.

Nel 1950 fugge con moglie e figli piccoli in Urss, dove per anni non gli è consentito neppure di scrivere ai suoi fratelli (tra cui Gillo, il regista di film comunisti) e ai suoi genitori; dove non lo lasciano mai nemmeno avvicinarsi a un acceleratore di particelle; dove gli tocca vivere per una vita intera in una città che non può lasciare nemmeno per fare un giro a Mosca o a Leningrado; dove non riceve mai una visita dagli scienziati suoi vicini di casa e dove due poliziotti lo scortano ogni giorno da casa al lavoro e dal lavoro a casa.

Intorno alla città segreta e ultrasorvegliata in cui vive da galeotto di lusso, i lavori pesanti sono affidati a prigionieri, gente vestita di stracci, la testa rasata, tutti magri come acciughe, puro Gulag, e «Pontekorvo» pensa che siano lavoratori volontari, giusto un po’ male in arnese (be’, dice di pensarlo, anche se naturalmente non sono pensieri degni del suo QI). Miriam Mafai, nel 1982, intervista lo scienziato ormai ottantenne per un libro-intervista nostalgico e sospiroso; quando Close, molti anni dopo, chiede alla giornalista italiana perché Pontecorvo, secondo lei, ha lasciato la libera Inghilterra per trasferirsi all’inferno, lei risponde con tipica (e ridicola) alterigia togliattiana che «ci sono cose che puoi capire solo se sei comunista».

Pontecorvo aveva un’altra risposta (stavolta degna del suo QI): «Sono stato un cretino». È quel che dice dopo la caduta del comunismo, un’era geologica troppo tardi, «parlando con un giornalista inglese», a beneficio del quale «giudica con franchezza e senza mezzi termini le sue convinzioni del passato». Dice anche di più: «Per molti anni ho creduto che il comunismo fosse una scienza; mi accorgo ora che non è una scienza, ma una religione».

È Kim Philby, a mettere in allarme Pontecorvo, lo scienziato, e Pontekorvo, l’agente segreto, dopo che altre spie atomiche sono state smascherate dall’FBI e una pista di briciole di pane porta fino a lui. Pontecorvo, a quel punto, può soltanto fuggire in Urss, dove da perfetto trinariciuto porta con sé anche i tre figli bambini e una moglie che soffre di crisi depressive. A organizzare la fuga è Emilio Sereni, cugino dello scienziato e pezzo grosso del Partito comunista italiano. Pontekorvo crede nei Processi di Mosca, nel materialismo storico e dialettico; crede persino nel complotto dei medici ebrei (col quale Stalin si gingilla prima di morire). Pontekorvo si beve tutto, ogni sciocchezza, ogni superstizione. È il secolo breve. Alegher.

H.A.R. Philby, in arte «Kim»

Sua moglie, Eleanor Philby: «Lo ricordo come un marito affettuoso, intelligente e sentimentale. Credo che possegga ancora qualcuna di queste qualità. Ha tradito molte persone, me tra le altre. Non gli piace la musica pop, ma qualche tempo fa gli ho spedito un disco dei Beatles, Help».
 
«Non sono un patito dello spionaggio. Della vita di Kim Philby conosco solo i dati basilari. Non ho mai letto una sua biografia, in inglese o in russo, né prevedo che ne leggerò mai una. Tra le alternative che si offrono a un essere umano egli scelse la più aberrante: tradire un gruppo di persone a favore d’un altro», scrive il poeta russo Iosif Brodskij in Un cimelio, un saggio memorabile che trovate in Profilo di Clio, Adelphi 2003.
 
Lui stesso, Philby, fatuo e snob, nella sua autobiografia: «Come, perché e quando sono diventato membro del servizio segreto sovietico è una questione che riguarda solo me e i miei compagni. Dirò solo che, quando mi venne fatta questa proposta, non esitai. Non si discute l’offerta di far parte d’una forza d’élite».
 
Gelido, dopo aver dedicato i suoi libri migliori (perdoniamogli i peggiori, e sono stati tanti) allo studio d’una sorta di metafisica del tradimento, John le Carré si chiedeva, nel 1968, «come passerà Philby il resto dei suoi giorni? Bevendo? Aspettando l’olocausto dell’Inghilterra? Oggi si trincera in una sdegnosa solitudine. Tra dieci anni fermerà i turisti inglesi per le strade di Mosca. Immaginate quell’occhio lacrimoso e quella voce arrochita dal whisky, quel suo charme insinuante. “L’Inghilterra è un paese fascista” dirà. “non potevo non farlo”».

«Ma siamo proprio sicuri che lo fece?» si chiede il logico statunitense Daniel C. Dennett. Figlio del residente Cia a Beirut negli anni cinquanta, studioso degli stati di coscienza, padre della teoria dei «memi», Dennett spiega che «quando Philby si presentò a Mosca per la prima volta, egli era (apparentemente) sospettato dal Kgb d’essere un infiltrato britannico – un triplo agente, se preferite. Per anni è circolata una storia nei circoli dell’intelligence, che sosteneva questa tesi. L’idea è che quando il SIS “esonerò” Philby nel 1951, fu trovato un modo brillante di sistemare il delicato problema della fiducia. “Congratulazioni, Kim, vecchio mio. Abbiamo sempre saputo che eri leale. E come prossimo incarico vogliamo che tu finga di rassegnare le dimissioni dal SIS e che ti trasferisca a Beirut, dove la tua copertura sarà quella di giornalista in esilio”. […] Una volta che il SIS ebbe dato a Philby questo nuovo incarico, le sue preoccupazioni svanirono. Non aveva nessuna importanza se Kim fosse davvero un patriota britannico leale che fingeva d’essere un agente scontento o se fosse veramente un agente sovietico leale che fingeva d’essere un agente britannico leale. Si sarebbe comportato nello stesso modo in entrambi i casi; le sue attività sarebbero state interpretabili e prevedibili da entrambe le prospettive intenzionali speculari».
 
«La smania di presentare Andropov [generalissimo, ex capo del Kgb] come un occidentale in tutto e per tutto non conosce limiti», scrive Kirill Chenkin nel suo pamphlet del 1983 su Jurij Vladimirovič Andropov, che all’epoca era appena salito sul trono di tutte le Russie. «I dettagli più pittoreschi che finora si conoscono sulla vita e le abitudini del nuovo Segretario Generale del Pcus li ha forniti alla stampa, per la maggior parte, un giovane diplomatico sovietico passato in Occidente nel luglio del 1971, Vladimir Sacharov.

Nel 1971 Sacharov aveva appena 26 anni. Qualche mese fa, tredici anni dopo la sua fuga all’ovest, Sacharov, in una intervista a Penthouse, ha aggiunto un altro particolare piccante al ritratto di Andropov. Pare, sostiene Sacharov, che Andropov sia debitore del suo successo, in gran parte, a Kim Philby, ex collaboratore dei servizi di spionaggio inglesi e, per più di vent’anni, spia sovietica, fuggito via Beirut in Urss nel 1963. Stando a Sacharov, Philby, divenuto uno stretto collaboratore di Andropov, avrebbe trasformato il Kgb da una “banda di straccioni” in una organizzazione di altissima efficienza copiata esattamente sull’Intelligence Service britannico.

Il nocciolo della storia, ahimè, è un altro. È difficile, forse, trovare un servizio di spionaggio e controspionaggio che sia stato tanto infiltrato, per decenni, da agenti sovietici come quello britannico. Lo stesso Philby occupava un posto di rilievo nel MI5. E persino il capo da anni dell’intero controspionaggio inglese, sir Roger Hollis, sembra sia stato un agente sovietico, anche se le accuse non furono mai provate. Su sir Roger rimane qualche incertezza. Ma per altri collaboratori dei servizi inglesi, e tutti di rango piuttosto alto, come George Blake, Maclean, Anthony Blunt, i fatti addebitati loro sono stati confermati e ammessi. Eppure tutti si facevano fare gli abiti a Londra. In che senso allora avrebbe potuto prestare i lumi della sua esperienza un Kim Philby alla riorganizzazione del Kgb? Non è chiaro. Sbaglio, o lavorava anche lui per l’organizzazione quand’era ancora una “banda di straccioni”?».

«[Il lavoro di Graham Greene] si svolge a stretto contatto con Kim Philby», scrive Paolo Bertinetti nella cronologia in apertura di Romanzi 1936-1955, il primo volume delle opere di Greene. Con Philby «si instaura un rapporto di reciproca stima durato tutta la vita (negli anni Ottanta Greene s’incontrerà ancora con Philby in Urss). […] Nel maggio 1944, poco dopo una promozione accordata a Philby, che a sua volta gli offriva una promozione, Greene dà le dimissioni dal servizio, per trasferirsi presso un altro organismo, in qualche modo sempre connesso con l’intelligence, che si occupa di propaganda. Perché Greene si sia dimesso in un momento cruciale della guerra, poco prima dello sbarco in Normandia, rimane misterioso e le sue spiegazioni per nulla convincenti, benché sia stata avanzata l’ipotesi che Greene avesse avuto il sospetto che Philby facesse il doppio gioco e che questo fosse il motivo delle dimissioni».

(Fine)

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/08/07/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-1/ Mon, 07 Aug 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78003 di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima [...]]]> di Diego Gabutti

Nella casa degli specchi che era il mondo delle spie, inesistente non significava irreale. (Mick Herron, Slow Horses)

Richard («Ika», «Ramsay») Sorge

Agente segreto sovietico, Richard Sorge crea un’importante rete d’agenti in Cina e Giappone, dove lavora come corrispondente di gazzette tedesche. Per un po’ lui e la sua prima moglie lavorano per l’Institut für Sozialforschung, l’Istituto di Scienze sociali guidato da Marx Horkheimer e Th.W. Adorno, universalmente noto come Scuola di Francoforte. Sorge è nipote di Friedrich Sorge, membro della Lega dei comunisti dal 1848, amico personale di Marx ed Engels e ultimo segretario della Prima internazionale, quando la sua sede centrale viene trasferita da Londra a New York.

Nei primi anni venti Richard Sorge è uno dei più noti giornalisti di sinistra tedeschi, nonché un membro eminente del partito comunista. Nondimeno, da un giorno all’altro, riesce a convincere i nazisti d’essersi convertito all’hitlerismo. Non è l’unico comunista a saltare il fosso: passano alla svastica intere sezioni di partito. Ma Sorge non è un comunista qualunque. È vissuto per anni a Mosca, è un marxista convinto, ha scritto libri leninisti, è uno dei primi esemplari di radicalismo chic novecentesco. Eppure i nazisti lo accolgono nelle proprie fila. È lui a intortare loro? O sono loro a intortare lui e il Ghepeù? Non si saprà mai.

Corrispondente a Yokohama di due importanti testate tedesche, il Borsen Zeitung e il Tagliche Rundschau, è grazie a un suo agente nell’ambasciata tedesca a Tokyo che nell’aprile del 1941 il Cremlino è informato dell’imminente attacco tedesco. Stalin, che dopo il patto Molotov-Ribbentrop considera Hitler un amicone, stabilisce che l’informazione è falsa: la solita dezinformatzija, decreta, dell’intelligence inglese. Meno d’una settimana più tardi Leningrado è assediata dai tanks tedeschi, Mosca è minacciata e i bolscevichi di riguardo, Iosif Vissarionovič in testa, corrono a gambe levate lontano dalla capitale lasciando nelle peste i moscoviti di sangue plebeo.

Nell’ottobre dello stesso anno Sorge è tratto in arresto come agente sovietico dai servizi segreti giapponesi. Finisce sulla forca tre anni più tardi, nel 1944. Passano un paio di decenni e «nei primi anni sessanta» – come scrive Anya von Bremzen, L’arte della cucina sovietica, Einaudi 2014 – «i francesi producono un documentario sulla storia di Sorge e tentano di venderlo alla Russia. Chruščëv assiste alla proiezione. “Cosí dovrebbe essere l’arte!” esclama entusiasta quando le luci si riaccendono. “È una storia inventata, ma non ho staccato gli occhi dallo schermo”. “Vede, Nikita Sergeevič”, gli spiegano, “Sorge non è un personaggio di fantasia… è esistito veramente”. Chruščëv chiama il Kgb. Gli confermano sia l’effettiva esistenza di Sorge sia la sua carriera nell’Intelligence. Senza indugio, Chruščëv gli conferisce l’onorificenza postuma di Eroe dell’Unione Sovietica e ordina che sia celebrato come campione massimo delle spie sovietiche». Come più tardi Kim Philby, anche lui finisce sui francobolli.

Klaus Fuchs

Nemmeno rivelando all’NKVD di Lavrentij Pavlovič Berija «i segreti atomici» il fisico tedesco Klaus Fuchs, marxista-leninista e grande traditore, si guadagna l’Ordine di Lenin, o quello di Marx: la scienza sovietica, secondo la vulgata, ha spaccato l’atomo da sola, senza l’aiuto delle spie. Nato a Rüsselsheim, in Assia, nel 1911 da un pastore luterano dal carattere anche troppo forte e da una donna che si suicida quando lui è ancora molto giovane, Fuchs s’iscrive al partito comunista da ragazzo, quando frequenta la facoltà di scienze. Sono gli anni dell’ascesa di Hitler e Fuchs è in prima fila nelle battaglie di strada contro le SA di Ernst Röhm. Anche le sue due sorelle e suo fratello sono membri delle organizzazioni di partito e lasciano come lui la Germania quando Hitler diventa cancelliere. Continua gli studi in Francia, poi in Inghilterra, dove in virtù del suo QI e della qualità delle sue intuizioni teoriche sale subito ai piani alti della ricerca scientifica angloamericana: il circolo segreto degli scienziati atomici. È uno scienziato, e pertanto studia volentieri i problemi tecnici, teorici e persino un po’ metafisici della folle corsa che, dal 1942 al 1946, porta dal Progetto Manhattan a Hiroshima e Nagasaki e infine al mondo bipolare, sorvegliato a vista da migliaia di testate nucleari pronte all’uso: l’esercito di guerrieri di terracotta della guerra fredda.

È uno scienziato, ma anche un comunista militante e non appena capisce a cosa sta lavorando pensa bene di stabilire un contatto con lo spionaggio sovietico. Attraverso gli amici del KPD, il partito comunista tedesco, che come lui sono riparati in Inghilterra, comincia a passare segreti atomici all’NKVD: centinaia di cartelle fitte di calcoli, resoconti d’esperimenti riusciti e falliti, ipotesi, formule, equazioni. Collabora con Berja e i suoi ragazzi dai laboratori inglesi, poi da Los Alamos e, finita la guerra, di nuovo dall’Inghilterra. È instancabile: uno degli agenti segreti più produttivi d’ogni tempo, e forse il solo agente segreto che con le sue informazioni abbia «cambiato la storia del mondo» (così Mike Rossiter, autore della Spia che cambiò il mondo, Newton Compton 2014).

Klaus prolunga di decenni l’esistenza del Gulag e del «campo socialista». Dapprincipio, prima di capire su quale miniera d’oro hanno messo le mani, i servizi sovietici prendono le rivelazioni di Fuchs sottogamba. «Scienza borghese degenerata», strapensano (come si straparla) i cekisti: la meccanica quantistica, «che costituisce il fondamento della fisica moderna, è ritenuta in contrasto col materialismo dialettico, dogma ideologico del comunismo sovietico». È solo quando a Stalin entra finalmente nella zucca il potenziale distruttivo della bomba atomica che i quanti vengono adottati dal Cremlino. Grazie a Fuchs, che la nutre di pappa fatta, la scienza sovietica raggiunge in poco tempo e con costi irrisori i risultati che a Los Alamos sono stati raggiunti soltanto con enormi spese e dopo molti anni. Quanto a Londra e Washington, dove la scienza esoterica dei fisici moderni è presa molto sul serio, si prendono sottogamba le idee politiche di Klaus Fuchs. Da giovane, okay, è stato comunista, e tuttora professa opinioni radicali. Ma è solo un professore, via, e non c’è scienziato atomico che non sia per definizione un po’ pazzo e radicale (guardate Einstein, con quella zazzera).

Alla fine, quando il team di crittografi e decodificatori del Progetto Venona (i cui risultati furono desecretati solo decenni più tardi) decifra tra gli altri un messaggio che inchioda anche Fuchs insieme ai coniugi Rosenberg, è per tutti una sorpresa, Intelligence inglese in testa. Prima di cedere e confessare i suoi rapporti con lo spionaggio sovietico, Fuchs vende cara la pelle. Ma la volpe è una, i cani tanti, e finisce come deve finire: con una confessione e una condanna a 14 anni di prigione. Ne sconta nove. Esce di galera nel 1959 e ripara a Berlino Est. C’è, a margine, anche una storia d’amore: appena tornato in Germania, passate poche settimane, anzi pochi giorni, Fuchs sposa la sua più vecchia fiamma, Grete Kleison, già segretaria del segretario del Comintern Georgi Mihajlov Dimitrov e membro del CC del KPD, che lui ha conosciuto molti anni prima a Parigi, dove lei era una sperimentata combattente clandestina. Forse è stata lei a reclutarlo nei servizi segreti sovietici. Sono stati lontani per 26 anni. Ma eccoli tubare come due piccioncini. Puro Festival di Sanremo, roba più borghese e decadente della meccanica quantistica. Fuchs passa a miglior vita nel 1988. Appena in tempo. In questo modo gli è risparmiata l’umiliazione di vedere la Caduta del Muro di Berlino. Un’umiliazione, diciamolo, che si sarebbe meritato.

Agnes Smedley

Agente del Comintern dell’NKVD, nata in Missouri nel 1892, ex compagna di Richard Sorge, nonché «amica del popolo cinese» e grande giornalista, toccherebbe a lei intervistare Mao Zedong e gli altri capi comunisti nelle grotte di Yenan, dove l’armata contadina ha trovato rifugio dopo la Lunga marcia (12.000 chilometri, 80.000 morti, un anno di cammino). Ma al suo posto parte Edgar Snow, anche lui americano, però di gran lunga meno radicale e, al suo confronto, un novellino anche come giornalista. Ciò la fa andare su tutte le furie. È il 1936, e le sembra d’aver mancato lo scoop della vita.

A tradire Agnes Smedley è Sun Chingling, sua vecchia amica, nonché vedova di Sun Yat Sen (fondatore e primo presidente nel 1911 della repubblica cinese, poi amico dei comunisti) e cognata di Chiang Kai-shek (signore della guerra e capo del Kuomintang antibolscevico). Sun Chingling e la leadership comunista apprezzano Smedley, che si è stabilita in Cina alla fine degli anni venti, e che si è fatta notare come attiva militante antimperialista fin dal primo dopoguerra. Sun Chingling e i capi maoisti non mancano di servirsi di lei. Chu The, il generale rosso che zigzagando tra mille insidie conduce a Yenan i 20.000 superstiti dell’esercito popolare, è un suo grande amico (è lei a scriverne l’autobiografia: Chu Teh, La lunga marcia, Editori riuniti 1974, uno dei grandi libri sulla Cina della guerra civile).

Smedley conosce bene anche il Presidente Mao, che da lei impara a ballare il fox trot, ma che per mantenere la pace in famiglia deve rifiutarle la tessera del partito quando lei, mettendo il dito tra moglie e marito, interviene in difesa della sua giovane interprete, che la seconda moglie di Mao ha beccato in compagnia del marito. Più che il dito, in realtà, Agnes mette l’intera mano: stende la signora Mao, che le ha allungato una sberla chiamandola «sgualdrina», con un diretto al mento, in puro stile rissa da saloon. Smedley piace un po’ a tutti i capi maoisti (meno alle loro signore, che si sentono minacciate, adesso che la poligamia è finita, dalle sue prediche pro libero amore). Però i generalissimi comunisti non se ne fidano davvero.

Spia russa, secondo quanto dichiara il suo ex compagno Richard Sorge dopo l’arresto, non le piacciono i russi (che nel 1940 liquidano il rivoluzionario indiano Viren Chatto, un altro suo ex compagno). Figlia del popolo, anzi Daughter Of The Earth, figlia della terra, come dice il titolo della sua autobiografia, che nel 1929 le ha dato la celebrità, Smedley non sta dalla parte dei poveri e degli oppressi per sentirsi «parte dell’apparato» e nemmeno per avvertire, come si diceva negli ambienti radicali newyorchesi, «un meraviglioso senso di appartenenza a un grande ordine segreto».

Costretta a lavorare fin da bambina, orfana di madre, con un’istruzione sommaria e un padre alcolizzato e violento, Smedley è una rivoluzionaria per istinto. Prima che il maccartismo, con l’inizio della guerra fredda, cancelli anche il ricordo del suo contributo al giornalismo americano, dove il suo nome si legge ancora ma ormai a malapena, semicancellato dal grande censore, il tempo che passa, Smedley fu una scrittrice e una giornalista famosa, ma soprattutto una donna tosta. Non le piacciono gli stalinisti, ma non le piacciono nemmeno i trotskisti, con i quali rompe ogni rapporto negli anni della grande purga. Toglie il saluto anche a un’amica della prima ora, l’anarchica Emma Goldman, che ha conosciuto a Manhattan nel primo dopoguerra e di cui ha preso le difese quand’era stata arrestata a Mosca dalla Ceka (l’autobiografia della Goldman, Vivendo la mia vita, La Salamandra 1980-1985, 3 voll., è un classico della memorialistica radicale americana).

Christopher Isherwood e W.H. Auden, che la incontrano a Hankow, nell’Hubei, nel corso del loro Viaggio in una guerra, Adelphi 2007, scrivono che è «impossibile non amarla e rispettarla, così decisa, aspra e appassionata; così spietatamente critica nei confronti di chiunque, compresa se stessa, mentre se ne sta seduta davanti al fuoco, rannicchiata, come se tutte le sofferenze e tutte le ingiustizie del mondo torturassero le sue ossa al pari dei reumatismi».

Muore a Londra, nel 1950, entrando in coma dopo un’operazione allo stomaco. J. Edgar Hoover e il Comitato che indaga sulle attività antiamericane avrebbero voluto farla tornare in America per interrogarla come sospetta spia. Ma è tardi per le risposte, e tardi anche per le domande. Nel 1951 le sue ceneri sono traslate a Pechino e interrate sotto una lapide di marmo nel cimitero dei martiri della rivoluzione. Richard Sorge, super spia e suo ex compagno, pensa che «le donne non sono adatte per il lavoro di spionaggio. Ma Agnes», dice, «è diversa. Come moglie non vale granché, ma ha una mente brillante e fa bene il suo lavoro di giornalista: è come un uomo».

(Fine prima partecontinua)

N. B.
Le biografie delle spie pubblicate qui e nelle prossime due puntate sono tratte da un’Appendice prevista, ma successivamente esclusa dall’ultima opera di Diego Gabutti (Segretissimo, Magog 2023) recensita su Carmilla qui.

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