Spike Lee – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 31 May 2025 20:17:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La caccia ai nazisti spiegata ai bambini https://www.carmillaonline.com/2024/02/26/la-caccia-ai-nazisti-spiegata-ai-bambini/ Sun, 25 Feb 2024 23:05:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81368 di Luca Baiada

Marco De Paolis con Annalisa Strada, L’uomo che dava la caccia ai nazisti. Le indagini su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le altre stragi compiute durante la guerra, Piemme, Milano 2022, pp. 160, euro 14.

 

Ai bambini si deve dire la verità. Benvenuto questo libro, allora, perché ci sono cose che devono sapere, ma con addenda et corrigenda.

L’autore racconta all’infanzia le stragi nazifasciste, l’insabbiamento delle indagini dopo la guerra e i processi successivi. È un magistrato della giustizia militare, in alto. Nel risvolto di copertina iniziale, dopo un cenno alla mancata giustizia nel periodo postbellico, è [...]]]> di Luca Baiada

Marco De Paolis con Annalisa Strada, L’uomo che dava la caccia ai nazisti. Le indagini su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le altre stragi compiute durante la guerra, Piemme, Milano 2022, pp. 160, euro 14.

 

Ai bambini si deve dire la verità. Benvenuto questo libro, allora, perché ci sono cose che devono sapere, ma con addenda et corrigenda.

L’autore racconta all’infanzia le stragi nazifasciste, l’insabbiamento delle indagini dopo la guerra e i processi successivi. È un magistrato della giustizia militare, in alto. Nel risvolto di copertina iniziale, dopo un cenno alla mancata giustizia nel periodo postbellico, è «il giudice che ha dato il via a quelle investigazioni». Vediamo.

L’archivio con le indagini sulle stragi, dopo pochi processi negli anni Quaranta, non è più utilizzato se non in modo sporadico e inconcludente. Resta nella sede centrale della giustizia militare, a Roma. È rifrequentato nel 1994 e l’opinione pubblica lo sa solo nel 1996. Poi cominciano nuovi processi, come quello al Tribunale militare di Torino per l’eccidio di Milano del 1944, o quello del Tribunale militare di Verona al boia del Lager di Bolzano, Michael Seifert. I processi usciti dall’archivio – sarà chiamato Armadio della vergogna dopo le pubblicazioni di Franco Giustolisi – vanno tenuti distinti da altri, con origine diversa, fatti o cominciati poco prima della sua rifrequentazione: si tratta del processo di Santa Maria Capua Vetere, per la strage di Caiazzo, e del processo Priebke e Hass, a Roma, per le Fosse Ardeatine. In quegli anni Marco De Paolis non fa parte di nessuna di quelle sedi; niente Torino, Verona, Roma, Santa Maria Capua Vetere: è a La Spezia dal 1988 al 2008.

I tre nomi tedeschi appena detti – ai bambini va spiegato bene – sono quelli degli unici andati in carcere: Priebke, Hass, Seifert. Nessuno dei tre fu estradato dalla Germania: uno lo fu dall’Argentina, l’altro viveva in Italia e il terzo fu consegnato dal Canada. I primi due li prese la Procura militare di Roma retta da Antonino Intelisano, il terzo quella di Verona retta da Bartolomeo Costantini. De Paolis non ha messo in carcere nessun nazista. I 57 ergastoli che ha ottenuto, ricordati nel libro, non sono stati eseguiti.

I meriti ci sono lo stesso. A La Spezia, dove prima è giudice, nel 2002 diventa procuratore militare e organizza le indagini. Da Roma è arrivato materiale abbondante, l’ufficio ha competenza su zone d’Italia molto colpite. È materiale predisposto dagli Alleati, soprattutto dai britannici, che poco dopo i fatti raccolsero testimonianze, documenti, fotografie. Qualche caso fu trattato così bene che si sarebbe potuto fare il processo subito dopo la Liberazione. Ci furono anche indagini statunitensi e italiane. Ma soprattutto i britannici, dettero «il via a quelle investigazioni».

Ancora sul «via». La riemersione dell’archivio negli anni Novanta è rimasta oscura anche dopo le commissioni d’inchiesta: le persone sentite, più erano state vicine all’archivio, più hanno dato versioni tendenti a prendere le distanze. Ovvio: a chi ha davvero rimesso in moto l’archivio si deve chiedere perché non l’ha fatto prima, come lo conosceva e molto altro. Per i ragazzini: chi conosce il nascondiglio della cioccolata e della fionda, o ce le ha messe lui o sa chi è stato. Configurare un ruolo iniziale di De Paolis potrebbe quasi metterlo in cattiva luce, ingiustamente.

Il procuratore ha fatto un grosso lavoro di organizzazione, riordino, approfondimento, incrocio di dati con altri archivi e con testimonianze, valorizzazione di nuove piste investigative. In certi casi bisognava attribuire il crimine di una formazione, già certo nel 1945, ai militari ancora vivi. Come spiegarlo ai bambini? È sicuro che una cosaccia, a scuola, l’ha fatta una classe, tutta, lì e quel giorno. Ci sono le prove: è stata quella classe. Bisogna vedere chi c’era nella classe; trovare i registri, approfondire, controllare, togliere i bambini sospesi, assenti, a casa con la bua. Gli altri, punirli.

Già, appunto: la pena? Se qualcuno dà la caccia ai nazisti, è perché ricevano una pena, o no? De Paolis dà del tu al piccolo lettore e lo prende per mano:

Se ora mi segui, ti spiegherò nel dettaglio come sono arrivato a quel fatidico momento in cui ho aperto la prima cartellina uscita dall’Armadio della vergogna. […] Con calma ti spiegherò tutto, ma ora ti chiedo di continuare a leggere, così che io possa accompagnarti lungo la mia storia e dentro la Storia[1].

Ecco cose sue: il compleanno, l’onomastico, a cinque anni sa rifarsi il letto, il prete della parrocchia, capoclasse a scuola, soffre la matematica, gli piace il mare. A un quarto del libro diventa procuratore militare a La Spezia, nel 2002 appunto. Ecco gli spostamenti, in Italia per vedere luoghi e persone, in Germania per interrogare i nazisti e incontrare colleghi tedeschi. Dopo arrivano i dibattimenti, coi successi e i rovesci, poi le impugnazioni eccetera. Già, bene.

Ma insomma, la pena dei nazisti? Leggiamo nel capitolo Meglio tardi che mai:

Che cosa avrei ottenuto con una giustizia tardiva su un numero limitato di colpevoli? Questa domanda mi rigirò in testa a lungo. Stavo facendo il mio lavoro e compiendo il mio dovere, ma il senso di tutto questo qual era? Era un quesito tormentoso e trovai una sola risposta plausibile: il senso era, ed è, quello stretto della Giustizia. Non un atto simbolico ma vero, reale, opera di un giudice, non di uno storico o di un giornalista, e quindi capace di incidere sulla vita vera, restando agli atti dello Stato come un punto fermo e non più discutibile. […] Avevo la certezza che, se anche avessi ottenuto una sequenza di ergastoli – come poi in effetti accadde – , nessuno li avrebbe scontati perché erano persone troppo anziane e perché a eseguire la condanna avrebbe dovuto provvedere la Germania. Ma tutto ciò non aveva importanza. Contava affermare un principio di verità e giustizia, sebbene tardiva. «Meglio tardi che mai» non è solo un modo di dire: può diventare, in situazioni estreme, un modo per dare un significato a qualcosa che pare aver perso senso[2].

Attenzione. Gli ergastoli «nessuno li avrebbe scontati»; è bene che ai bambini non sfuggano queste parole, le uniche nel libro su un fatto gravissimo.

La domanda sul senso è interessante, in generale. Però. La mancata esecuzione delle condanne va attribuita soprattutto alla contrarietà della Germania, non a questioni di età: le incarcerazioni di Priebke, Hass e Seifert (su cui ai bambini si tace) ci furono, benché comode per modalità o brevi perché seguite presto dalla morte. Ancora. L’ultimo processo è finito nel 2015, vent’anni dopo la rifrequentazione dell’archivio, settant’anni dopo la Liberazione, e complessivamente i dibattimenti – molti con la partecipazione di De Paolis – sono stati una ventina (spesso con più di un imputato ciascuno). Questo, per la giustizia, non è tardi, è mai. E il bambino legge: «Ma tutto ciò non aveva importanza».

L’atto non simbolico ma vero, reale, che incide sulla vita vera, non c’è stato: tutti i nazisti condannati, a parte i tre detti, sono morti in Germania indisturbati. Certo, i processi sono rimasti agli atti dello Stato; in molti casi c’è il materiale del 1945, poi tradotto, riordinato e arricchito con altro. Ma questo è un punto fermo e non più discutibile? Le sentenze si possono discutere, e c’è già almeno un caso. Cefalonia è il più vasto massacro di italiani fatto dai tedeschi, un crimine esaminato anche a Norimberga (The Hostages Trial); la decisione presa nel processo di dieci anni fa, trattato e raccontato da De Paolis, è messa in dubbio da uno studio che esclude la partecipazione dell’unico condannato, Alfred Störk, ai fatti addebitati a lui[3].

Torniamo all’insegnamento più profondo del libro: «Il senso era, ed è, quello stretto della Giustizia». Così, con la maiuscola. Ma in concreto? I nazisti non sono stati puniti. Tanti indagati, senza seguito. Meno di un centinaio processati in assenza, appena disturbati dal postino con qualche carta, oppure dalla visita di un poliziotto o di un giornalista. Tutti quelli inquisiti da De Paolis, compresi i 57 che hanno avuto l’ergastolo, al più si sono sentiti rivolgere domande, in Germania, da un signore alto – «la mia stazza», scrive – senza obbligo di dirgli la verità. In Italia non si sono fatti vedere.

Restano i risarcimenti alle famiglie colpite, ma su questi l’autore non dice nulla ai bambini. Parliamo di condanne economiche non a carico degli imputati ma dello Stato tedesco. Il procuratore nel libro non tratta deportazioni e stragi di deportati, ma sa che in Italia un processo civile per una deportazione, quella di Luigi Ferrini, portò nel 2004 a una novità, in Cassazione a sezioni unite: per i crimini più gravi gli Stati possono essere condannati; un precedente legale che vale per lo Stato tedesco e per ogni altro: Usa, Russia, Israele, Iran, Ucraina, Turchia. Lo sa perché la notizia della sentenza Ferrini fece il giro del mondo, al punto da essere d’esempio in Corea e in Brasile, in processi per crimini giapponesi e tedeschi. Lo sa perché nel 2006, grazie a quel precedente, il Tribunale militare di La Spezia, mentre lui era pubblico ministero, giudicando la strage di Civitella condannò la Germania al risarcimento.

Il processo su Civitella è uno di quelli citati, ma non si dice né della chiamata in causa dello Stato tedesco né che De Paolis fu contrario. E pensare che anche l’Avvocatura dello Stato – una struttura che non si intenerisce facilmente – fu possibilista e dimostrò senso di umanità: «L’Avvocatura dello Stato è un istituto, ma l’avvocato dello Stato è una persona». Il pubblico ministero replicò: «Lo Stato tedesco, così come preannunciato nelle note verbali che questo ufficio, che questo Tribunale ha ricevuto, non ha alcuna intenzione di soddisfare alcuna richiesta e non lo farà mai, quindi in concreto questo problema non si pone». Persino la sentenza del Tribunale prese le distanze da quanto sentito in udienza:

Gli spunti polemici sull’opportunità della richiesta in questione, ribaditi anche in occasione delle conclusioni, inducono a sottolineare come le parti civili richiedenti abbiano esercitato un insindacabile diritto, a sostegno dei privati interessi civili, di cui sono portatrici nel processo penale[4].

Negli anni, su questo il procuratore si è espresso. Per esempio ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[5]. Oppure ha detto in un convegno: «La tentazione, diciamo così, di sfruttare il dolore, di sfruttare la bontà, il valore che c’è dietro una strage, un eccidio, è una tentazione molto forte, no, da parte di tante persone»; nella stessa sede, commentando l’intervento di un gruppo di vittime, per chiedere giustizia, a una cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario: «Forse è meglio andare da Fazio»[6].

Sui risarcimenti a carico della Germania la giustizia con la maiuscola, in questa storia, non è né tardi né mai: è contro. Per spiegarlo ai bambini bisognerebbe chiarire anche la bontà, il valore dietro una strage.

Nel risvolto di copertina finale è scritto che l’autore ha ricevuto «l’Ordine al merito, una prestigiosa onorificenza» della Germania. Si tratta della Grosses Verdienstkreuz mit Stern, consegnata nel 2021, dopo la morte degli ultimi condannati, liberi, qualcuno centenario. L’ambasciatore tedesco, alla cerimonia: «Con il Suo lavoro, stimato dottor De Paolis, caro Marco, Lei ha contribuito in modo essenziale alla riconciliazione dei nostri due paesi e alla cultura della memoria italo-tedesca».

Per i più piccini. Cappuccetto Rosso andava soletta. Venne il lupo, la mangiò e tornò nella foresta di Luponia. Il cacciatore lo cercò, lo trovò, lo interrogò. Il lupo rimase a Luponia e digerì. Il cacciatore tornò col carniere vuoto ed ebbe l’Ordine della gran pelliccia, un titolo che fa figura ai ricevimenti delle ambasciate. Suona male? Anche Cappuccetto Rosso di Perrault non ha il lieto fine. Meglio evitare certe consolazioni.

Nel libro starebbe bene una cosa. L’archivio si forma a partire da una decisione ufficiale del 1945: per fini di giustizia, i fascicoli sono a Roma. Si fanno alcuni processi, poi tutto si ferma e anche il discorso pubblico ne risentirà. In Italia ci sarà una colossale rimozione politica, morale, mentale. Rimozione, come spiegarla? Proviamo.

Bambini, che fate se avete in bocca una gomma, e non si può? La togliete, e via: in tasca, in mano, appiccicata sotto il banco, ovunque ma non in bocca. La nascondete, cioè la spostate. Per forza, altrimenti non riuscite neanche a negare il fattaccio, si sentirebbe: «No, no, momma, non ho affotto la ciongomma in bocca». Invece l’archivio delle stragi fu nascosto senza spostarlo; rimase nel palazzo dove ci rimisero le mani mezzo secolo dopo. Pare impossibile, pare un gioco da bambini, quando vedono quello che non c’è, o il contrario. Quali parti politiche sapevano, e a quali livelli? Di certo non potevano dirlo: avevano la gomma in bocca. Ma era fatta con la carne dei morti.

Un gioco macabro del potere, un vedo-non-vedo che ricorda – è una coincidenza? – altre feste in maschera: la strategia della tensione, il caso Moro, le stragi del 1992-1993. La storia dell’Armadio ha qualcosa di sciasciano, ma forse non è il caso di dirlo ai ragazzini. Di Leonardo Sciascia, i più svegli potrebbero leggere in Porte aperte – parla anche del delitto Matteotti, siamo nel centenario – la riflessione di un giudice: «Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità. “Sono anch’io un brav’uomo di questi, in effetti”».

Concludendo. Come parlare di giustizia sui crimini internazionali ai bambini? Nelle scuole ci sono quelli di paesi colpiti. Ci si può rivolgere ai piccoli ucraini, palestinesi, africani. Ed è meglio farlo senza discorsi sfuggenti sul senso stretto della giustizia. Si potrebbe domandare così, per esempio a un ucraino. Senti: i tuoi cari uccisi dai russi; le prove, nascoste per mezzo secolo; quando le ritrovano, si scrivono condanne ma non si eseguono, i colpevoli restano in Russia e la Russia non paga risarcimenti; un magistrato che ha fatto le indagini, ucraino come te, riceve un’onorificenza russa e scrive un libro per bambini. Cioè, un libro per i tuoi nipoti, perché tu sei diventato nonno. E magari con figli e nipoti hai qualche problema perché hai sofferto tanto, quindi hai un brutto carattere. Che ne dici?

Rivolgersi ai bambini, rivolgersi agli adulti. Il tempo contratto. Su queste cose – scrivere mi era necessario per intravederlo, non mi basta per spiegarlo – i bambini sono bambini ma non sono bambini, e anche l’occhio che li guarda è adulto e bambino insieme. Perché? Françoise Sironi ha scritto che il tempo del trauma è un tempo inaugurale[7]. Chi incontra orfani delle stragi sente quel tempo raggelato, quell’età strana che hanno addosso, doppia o indefinibile. In Miracolo a Sant’Anna, nella scena finale della strage, Spike Lee fa mormorare a un bambino parole in cui la voce è infantile ma il senso non più: «Ti ricorderai di tutto questo, sono cose di quando eravamo bambini». Ma è tutto qui? o è altro, è prima? prima quando? Non lo so, ma c’è un epigramma di Marziale, Persona Germana, su una maschera:

Follia di figulo, rosso figuro

tedesco: la stessa faccia

che fa ridere te, un bambino agghiaccia[8].

Nella seconda metà del Primo secolo la romanizzazione ha toccato solo in parte i Germani, anche dopo non li comprenderà mai tutti: e la maschera germanica, buffa e terrifica, divide e unisce adulti e bambini. Stiamo andando troppo lontano? Eppure tanto tempo dopo, nell’anno dello sbarco in Normandia, Benedetto Croce, in una pubblicazione spiazzante oggi dimenticata, si dichiarerà germanofilo e vorrà spiegare la storia europea con la battaglia fra Arminio e Varo, cioè con la mancata romanizzazione della Germania[9]. Forse, dunque, è vano criticare troppo questo libro per l’infanzia, un segnaposto senza colpa né originalità. Da duemila anni di maschere non ci si affranca facilmente. Marcel Marceau, nel mimo Il fabbricante di maschere, deve combattere col suo artefatto; quando si strapperà il sorriso posticcio si vedrà la sua disperazione, ma solo allora sarà salvo[10]. È quanto deve fare chi lavora per la giustizia, quando la giustizia è stata vanificata.

Un’ultima cosa. Il libro, del 2022, non dice nulla – forse non ha fatto in tempo – sul decreto-legge 36 dello stesso anno, che ha protetto ancora gli interessi tedeschi e ha creato per le vittime un fondo pagato da Roma, non da Berlino. Un fondo insufficiente che neanche funziona. Ai beni tedeschi protezione vera, alle vittime promesse di «ristoro». Come spiegare ai bambini un ristoro? Ci aiuta un vecchio film, Bianco rosso e verdone. Il tonto (Carlo Verdone) prende una fregatura in un negozio, poi esce: «Nonna, nonna! m’hanno fatto un buono! Che vor di’? vor di’ che…»; la nonna (Sora Lella, indimenticabile): «Che te la pij ’n der c…».

 

 

[1] Marco De Paolis con Annalisa Strada, L’uomo che dava la caccia ai nazisti. Le indagini su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le altre stragi compiute durante la guerra, Piemme, Milano 2022, pp. 28-29.

[2] Ivi, pp. 65-66.

[3] Manfred H. Teupen, L’uomo che non c’era. Osservazioni in merito alla condanna all’ergastolo di Alfred Störk, in Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca, prefazione di Giorgio Rochat, a cura di Manfred H. Teupen, Gaspari Editore, Udine 2014, pp. 471-482. Il libro è una versione ridotta di Blutiges Edelweiß. Die 1. Gebirgs-Division im Zweiten Weltkrieg, Ch. Links Verlag, Berlino 2008.

[4] Tribunale militare di La Spezia, 10 ottobre 2006, dep. 2 febbraio 2007 n. 49, imputati Böttcher e Milde, p. 13.

[5] https://www.lanazione.it/massa-carrara/cronaca/il-console-tedesco-ricorda-i-morti-della-strage-nazista-1.4608471.

[6] https://www.youtube.com/watch?v=xg3ySLlbGh4&feature=youtu.be.

[7] Françoise Sironi, Persecutori e vittime. Strategie di violenza, Feltrinelli, Milano 2001, p. 76.

[8] Marco Valerio Marziale, Epigrammi, Einaudi, Torino 1979, traduzione di Guido Ceronetti, XIV, 176, Persona Germana.

[9] Benedetto Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Gius. Laterza & figli, Bari 1944.

[10] https://www.youtube.com/watch?v=OLpWaicALjg.

 

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BlacKkKlansmam di Spike Lee https://www.carmillaonline.com/2018/10/05/blackkkansmam-di-spike-lee/ Thu, 04 Oct 2018 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49029 di Mauro Baldrati

Il tema del razzismo è molto presente nella filmica di Spike Lee. E’ impegnato, come uomo e come regista. E lo tratta con diversi registri: enfasi, ironia, cinismo, rabbia.

Anche in questo film scambia un po’ i registri: certi passaggi sono quasi fumettistici, soprattutto quando sono in scena gli esponenti del KKK, rappresentati come subumani microcefali che sparano oscenità talmente primordiali da strappare più di una risata in sala. Mentre i militanti del Black Power sono belli, allegri, vitali, ballano e ascoltano musica, in opposizione ai trucidi incappucciati che, al [...]]]> di Mauro Baldrati

Il tema del razzismo è molto presente nella filmica di Spike Lee. E’ impegnato, come uomo e come regista. E lo tratta con diversi registri: enfasi, ironia, cinismo, rabbia.

Anche in questo film scambia un po’ i registri: certi passaggi sono quasi fumettistici, soprattutto quando sono in scena gli esponenti del KKK, rappresentati come subumani microcefali che sparano oscenità talmente primordiali da strappare più di una risata in sala. Mentre i militanti del Black Power sono belli, allegri, vitali, ballano e ascoltano musica, in opposizione ai trucidi incappucciati che, al solo apparire, ci spingono a toccare ferro per la sfiga che sprigionano dalla loro aura scalena (anche se… una lama affilata ci sfiora la schiena strappandoci un brivido perché anche a casa nostra, nel 2018…).

Spike Lee sa costruire i personaggi, e gli eventi, con mano leggera, di velluto quasi. Si potrebbe dire con una patina di mainstream; eppure non scivola mai nel comico, nella commedia, o nel blaxploitation, anche se non manca qualche riferimento. E’ un mix auto cosciente di leggerezza e di rappresentazione del male, di rispetto e di voglia di sbertucciare.

C’è anche una storia, seria, avvincente: l’infiltrazione di un poliziotto nero, Ron Staiworth (interpretato dal figlio di Denzel Washington), nel KKK. Per fortuna Spike non usa il classico plot poliziesco hollywoodiano, con tutti quei colpi di scena e inseguimenti in auto che cappottano e distruggono mezza città e gli abiti firmati e quelle squadre speciali coi monitor ad alta definizione e i satelliti e gli attori belli e giovani che corrono di qua e di là. E’ una vicenda solida, ma anche qui usa un registro di semplicità che tuttavia non toglie un grammo di suspence, e intriga, per la gestione dell’alter ego: Ron ovviamente non può mostrarsi di persona, per cui istruisce un collega bianco, Flip Zimmerman, che sarà il suo avatar sul campo. Lui parla con gli psicopatici razzisti solo al telefono, imitando alla perfezione il parlato dei “fratelli americani bianchi”. Flip è ebreo, e quindi anche lui un emarginato, al secondo posto nella scaletta hate-level, dopo i negri (o meglio, sempre “gli sporchi negri”). Due ruoli speciali, diretti e recitati benissimo, con Flip che deve lanciarsi in continue filippiche sugli “sporchi giudei” che vogliono dominare l’America con un complotto per emarginare i “bianchi cristiani protestanti”, dopo “avere ucciso Gesù Cristo”. Alcune telefonate di Ron col caporione del Klan, che sembra un deficiente svalvolato (interpretato mirabilmente da Topher Grace), sono scene di alto teatro, così come i guai che deve fronteggiare Flip in prima linea che rischia di essere scoperto lasciano col fiato sospeso. Ron è anche infiltrato nel gruppo dei Black Power, ma stringe un’amicizia molto stretta con la bellissima attivista sosia di Angela Davis, alla quale poi confesserà chi è veramente, chiudendo così la sua missione (e qui, a volere proprio “fare i piedi alle mosche”, la sceneggiatura scricchiola un po’).

Il tutto è abbastanza ironico, come sempre in Spike Lee, ma anche maledettamente serio, coinvolgente. Si/ci concede pure due camei emozionanti: una conferenza di Stokeley Carmichael, l’ex attivista dei Black Panther (poi allontanatosi perché le sue idee, vicine al primo Malcom X, erano troppo separatiste rispetto ai Panther, che accettavano anche i bianchi radicali – le White Panther – alle manifestazioni), tornato col nuovo nome Kwame Ture; e Harry Belafonte (quello vero, mentre Carmichael ovviamente è un attore, essendo morto nel 1996) che, di fronte a una platea commossa e indignata, racconta il linciaggio di un ragazzo nero, frettolosamente processato per lo stupro di una ragazza bianca, che fu trascinato in catene, accoltellato, castrato e bruciato vivo dal Klan.

Può anche darsi che alcuni dei nostri fratelli spettatori di area anarco-comunista storcano il naso per la mano leggera che il regista usa per alcuni aspetti, come l’ambiente della polizia, che sembra esente dal virus del razzismo, benché i colleghi di Ron-Flip siano tutti bianchi. C’è solo uno psicopatico, un caratterista, che poi viene neutralizzato. E Ron è un moderato, crede che, come poliziotto, possa contribuire a cambiare il sistema dall’interno. Potrebbero, insomma, accusare Spike Lee di essere troppo di destra. Che, in fondo, in lui batta un cuore amerikano. Però il film è tratto da una storia vera, le memorie del poliziotto omonimo, che ha vissuto in prima persona questa avventura e così l’ha raccontata. Inoltre si “riscatta” nel finale (un po’ sbrigativo, ma ci sta), dove arriva la mano nera del potere che impugna la mannaia della censura.

In realtà il finale, quello vero, è costituito dagli straordinari filmati degli scontri del 2017 a Charlottesville tra nazisti e antirazzisti, in Virginia, dove un’auto assassina si è lanciata tra la folla degli antirazzisti ferendo numerosi manifestanti e uccidendo una ragazza. Evento al quale, dopo molte ore, sono seguite le fantasmagoriche dichiarazioni di Trump sull’odio reciproco.

Per tutti questi aspetti, per lo stile, l’approccio che non si tira indietro di fronte alla gentilezza senza rinunciare alla sincerità e all’impegno, che non fa sconti, e non esente da autoironia, questo film potrebbe rappresentare una nuova, moderna versione di cinema-arte popolare. E per questo lo salutiamo con rispetto, perché ne abbiamo bisogno in questa fase storica così lugubre e malvagia.

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The Roof is on Fire: l’America della nuova coscienza “nera” https://www.carmillaonline.com/2018/01/16/the-roof-is-fire-lamerica-della-nuova-coscienza-nera/ Mon, 15 Jan 2018 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42724 di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?» Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali. La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta. Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal [...]]]> di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?»
Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali.
La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta.
Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal musicista che acquista nei suoi versi un significato particolare.
Thug Life, traducibile in “vita da teppista” diviene: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody.
E così Khalil spiega l’acronimo: «nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo».
Tupac, per Khalil, era la verità.
Lo diverrà anche per Starr, cessando di essere solo, musica “dei vecchi tempi”.

Khalil, cresciuto insieme alla protagonista è costretto a farla, la vita da teppista, con una situazione familiare alle spalle piuttosto problematica a causa della madre che non riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, ed una nonna anziana e malata.
Starr vive nello stesso quartiere di Khalil, ma studia in una scuola lontano dal suo abitato, in cui è una delle poche teen-ager afro-americane; suo padre, ex membro di una gang – come a sua volta sua padre – è stato in carcere ed ora gestisce un piccolo spaccio alimentare nel quartiere regalato dal vecchio proprietario – unico a dargli un lavoro uscito di prigione – ; la madre lavora come infermiera professionale.

Starr ha un fratello più grande che il padre ha avuto da una relazione extra-coniugale con la “donna” di King, capo-banda della gang di quartiere, i King Lords, a cui il padre era “affiliato”, e un fratellino più piccolo Sekani…
Starr, ha visto uccidere da una “pallottola vagante” la sua migliore amica Natasha alcuni anni prima, senza che fosse fatta luce su quell’omicidio.
Nella finzione letteraria così come nella realtà, le vite degli afro-americani uccisi in conflitti a fuoco non conta, sia che a sparare sia un agente di polizia sia che l’omicidio avvenga in altre circostanze.

Quella notte, Khalil e Starr verranno fermati dalla polizia che ucciderà Khalil durante il fermo nonostante fosse disarmato e non avesse dato adito ad alcun comportamento “sospetto”.
Sarà la presunta aggressività verbale di Khalil e il possesso di una spazzola nella portiera dell’auto, confusa per una pistola, a far premere il grilletto all’agente secondo il suo “alibi”.
Il vero motivo è che Khalil è un giovane afro-americano…

La vita di Starr viene stravolta una seconda volta, e forse l’unica cosa che la salva dall’essere la seconda vittima della violenza poliziesca quella notte – l’autore dell’omicidio non smette di puntarle la pistola addosso anche dopo aver ucciso Khalil – è il preciso decalogo che i suoi genitori le hanno imposto dall’età di dodici anni sul comportamento da tenere in caso di fermo.
Le parole del padre, Starr, le ha stampate in testa, quando sente la sirena e lo specchietto retrovisore dell’auto su cui viaggiano si colorano d’azzurro.
Devi fare tutto quello ti dicono di fare […]Tieni le mani bene in vista. Non fare movimenti bruschi. Parla solo se interpellata.
Le ha insegnato il padre, e così si comporta, “salvandosi”.

Da allora, vive un perenne conflitto interiore, che risolve decidendo di non tacere di fronte alla morte dell’amico, di non rimuoverla per dimenticare in fretta.
Non vuole convivere silenziosamente con i propri rimorsi di coscienza che si alternano agli incubi che popolano le sue notti.
The Hate U Give è “un romanzo di formazione” e il lettore viene proiettato nel mondo di una sedicenne afro-americana nel suo mutevole rapporto con il mondo e con se stessa nella sua vita di tutti i giorni, ma che tiene testa a tutti, genitori compresi.
Ai poliziotti che la interrogano e che le chiedono:
«Puoi dirci cos’è successo la sera dell’incidente?»
Starr risponde a bruciapelo:
«Intende la sera che è stato ucciso».

Una vita quotidiana fatta anche di amore viscerale per le Jordan (i vari tipi di calzature indossati da Air Mike) e per il Basket, i “cibi spazzatura”, l’irrompere improvviso della sessualità, un rapporto organico e strutturante con i social – che divengono strumenti della sua battaglia e non solo semplici passatempi – e personaggi dello spettacolo della cultura mainstream con cui idealmente tal volta si confronta, come Willie il principe di Bel Air della fortunata serie televisiva.

La sua vita si svolge dentro più di un conflitto e “tra conflitti”, basti pensare che suo zio Carlos, il fratello della madre, importante sostituto del padre durante i suoi anni di detenzione, è un poliziotto nato e cresciuto in quartiere ma trasferitosi poi nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Suo zio, non rinuncia a “proteggere” la nipote anche recidendo quella “solidarietà di corpo” che è il collante della polizia in casi come questi, e prendendosi in carico un altro giovane afro-americano a cui la gang a cui era affiliato vorrebbe “fare la pelle”.

Starr sceglie di contribuire al sabotaggio della macchina del fango montata contro Khalil che viene rappresentato dai media come un criminale tout court, ed indaga direttamente sulla strada intrapresa dal suo coetaneo accusato di essere uno spacciatore appartenente ad una banda, scoprendo i motivi reali della sua scelta “extra-legale”. Decide di diffondere attraverso i social, insieme agli altri, un’ immagine dell’amico più consona alla realtà rispetto a quella stereotipata dei media mainstream, facendo divenire virale la percezione della comunità degli affetti attorno a Khalil.
Una ricerca travagliata, perché la costringe a fare i conti per ciò che provava veramente per Khalil, a far riemergere i ricordi di un passato che aveva dovuto rimuovere a causa della morte di Natasha e del “trio” che formavano insieme a lui: momenti di felicità infantile che fanno l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco a causa della tragica scomparsa degli amici.

Starr fornisce elementi concreti per smontare la tesi che utilizza l’inversione tra vittima e carnefice tesa a deresponsabilizzare l’agente per la morte di Khalil, affinché non si proceda giuridicamente contro di lui.
La protagonista affronta la spensierata crudeltà del pregiudizio razziale che anche una delle sue migliori amiche, Hailey, esercita su di lei, ridefinendo un universo relazionale più maturo e cosciente con un’altra sua amica asiatico-americana.
Ingaggia un confronto serrato con il suo ragazzo Chriss, figlio di una famiglia agiata che vive nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.

Ciò che ha vissuto Starr “politicizza” le sue relazioni, in un rapporto dialettico di incontro/scontro fondato su basi nuove. Così, alla fine, Starr è un vettore di crescita di Chriss, che decide di partecipare organicamente alle proteste degli afro-americani – unico bianco in un quartiere nero in rivolta – e in maniera non meno impegnativa sceglie di affrontare il padre e lo zio di Starr che non vedevano di buon occhio il fidanzamento della figlia con un bianco, ma che alla fine si rassegnano all’evidenza che il ragazzo abbia “le palle”.
Chriss, è un “traditore di razza” disposto a mettere in discussione i suoi pregiudizi razziali inconsapevoli, in un percorso che lo porta a annullare anche il suo “machismo”, l’opposto positivo di Hailey e dei suoi tanti coetanei pronti a sfruttare la morte dello “spacciatore” Khalil solo per perdere un giorno di scuola.
Williamson, il nome della scuola che frequenta, e Garden Heitghts, il quartiere-ghetto dove vive, «sono due mondi completamente diversi» che la protagonista aveva precedentemente deciso di tenere separati, ma l’esistenza e le relazioni in questi due “universi paralleli” si intrecceranno dissolvendo le divisioni artificiali e facendo comunicare tra loro i compartimenti stagni dell’esistenza precedente.
Ma se si dissolvono nella scelta di vita di Starr, i muri della segregazione secondo la linea di colore rimangono alti per le due comunità.

Anche il rapporto con il quartiere si modifica nel corso degli eventi, una relazione complessa dove gli elementi di una irrinunciabile familiarità con le relazioni di mutuo appoggio storicamente intessute dai suoi abitanti, si alternano ad uno spazio fisico disseminato da pericoli.
Rischi dovuti allo scontro tra le gang, dove anche andare a fare due tiri in un campo di basket in un parco all’aperto in un territorio conteso può riservare “spiacevoli sorprese”.
Un quartiere dominato da un circolo vizioso che costringe gli ultimi della scala sociale – per poter emergere o più comunemente per sopravvivere – all’affiliazione ad una banda che ha come propria ragione d’esistenza lo spaccio di droga che falcidia le vite delle persone a causa della loro tossicodipendenza, della guerra per lo spaccio e delle massiccia presenza della polizia “giustificata” dalla “guerra alla droga” stessa.
Questa è una dinamica magistralmente inquadrata dalla serie televisiva dell’HBO: The Wire, affresco di una città, “nera” e “povera” come Baltimora, che ritroviamo nel libro della Thomas…

Lo spettro dell’insurrezione urbana, il riot, attraversa tutto il romanzo, e prende concretamente forma in due momenti separati aventi come apice “i disordini” che provoca la decisione della giuria di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Khalil, nonostante la coraggiosa testimonianza di Starr di fronte al Gran Giurì e alla sua altrettanto temeraria, e non scevra di conseguenze, scelta precedente di comparire in una seguitissima trasmissione televisiva.
Il quartiere diventa teatro di una violenza contraddittoria che investe obiettivi “legittimi” della rabbia popolare: un’auto della polizia e il negozio dei pegni, come attività commerciali la cui scomparsa desertificherebbe ancora maggiormente il tessuto urbano e la condizione stessa degli “insorti”, aspetti che riecheggiano i temi sviluppati da Spike Lee in “Fai la cosa giusta”.

Riprendiamo le parole di Tupac: quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo.
Questa è la cifra del romanzo, se alle nuove generazioni afro-americane viene fatto bere “il latte marcio” del suprematismo bianco nel mix letale di quartieri degradati, violenza poliziesca, “carcerizzazione” e guerra tra bande come orizzonte di vita, il precipitato politico di questo non può che essere la ribellione.

Che sia lo scatto di coscienza di una sedicenne, la solidarietà tra subalterni della stessa comunità o il riot che brucia l’illusione di una società post-razziale in un quartiere dove la polizia si comporta come forza d’occupazione, la matrice resta la stessa.
Tupac è il medium, anche a livello di storia familiare, tra ciò che è stato storicamente il movimento di liberazione degli afro-americani – di cui il romanzo è pieno zeppo di riferimenti grazie alla figura del padre ed è rappresentato all’oggi dalla figura dell’avvocato-attivista che aiuta Starr nella sua battaglia.

Così come le rivolte nei ghetti afro-americani segnarono il passo a fine anni ‘60, decretando la fine dell’illusione integrazionista del movimento per i diritti civili sotto la leadership di Martin Luther King e aprendo la strada ad una “nuova” radicalizzazione degli afro-americani, così le proteste scaturite dall’uccisione di afro-americani da parte della polizia ha fatto maturare una nuova coscienza nera “organizzata” – di cui #BlackLivesMatter è l’esempio maggiormente conosciuto – facendo cambiare pagine alla società colorblindness narrata dall’industria culturale di Obama.
Questo romanzo, da cui è stato tratto un film per la regia di G.Tillman Jr., ne è un esempio potente, incalzante nella scrittura, serrato nei dialoghi, come le rime di un brano hip hop, mondo da cui l’autrice – che vive da sempre a Jackson, nel Mississippi – proviene.

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La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/la-corazzata-pote%cc%88mkin-non-cagata-pazzesca/ Thu, 21 Dec 2017 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42220 di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice [...]]]> di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice missione. Il situazionismo formalista di Dziga, esteta sopravvissuto alla prospettiva Nevskij, e la pratica dei bassifondi di Cacace, un tipo oscuro che pare uscito da una commedia di Mariano Laurenti. A differenza del dottor Jekyll, ignaro di trasformarsi nottetempo in mister Hyde, Cacace è perfettamente consapevole di essere anche Dziga, e viceversa. Anzi, diciamo pure che la cosa si fa più intrigante quando nella medesima recensione si scorgono echi di entrambe le voci. Come ad esempio in quella dell’“immortale capolavoro” di Sergej M. Ejzenštejn, La corazzata Potëmkin, restituito al suo legittimo e consacrato valore da Dziga senza che Cacace se ne possa lamentare più di tanto. A volte, lo confesso, si spera nella prevalenza del secondo, che nonostante l’etimo napoletano ha un curioso intercalare genovese. Stupendo in questo senso l’incipit de Le due sorelle: «L’attacco del film avrà sicuramente provocato spontanee polluzioni in quei fanatici che s’esaltano con tutte quelle fregnacce sullo spettatore voyeur che guarda un personaggio voyeur, a sua volta osservato – non visto – da qualche altro voyeur che bla, bla e altre belinate discorrendo». Sono passato anch’io attraverso le “belinate” qui messe alla berlina e vale la pena continuare a dissacrare, nonostante la critica cinematografica, come la nostalgia, non sia ormai più quella di un tempo: conta sempre meno, è inascoltata, soprattutto non convince più nessuno ad andare al cinema e questo purtroppo lo confermano le cifre disastrose se si guarda al gradimento di pubblico dei cosiddetti film d’essai. Nel libro di Dziga Cacace però non si aprono dibattiti, non si rifondano correnti estetiche, non si fa storiografia, non si vanno a comporre campioni statistici per indagini sociologiche. No, semplicemente si prendono i film e ci si sbatte contro con il corpo, i sensi, a volte il cuore. Sorprende nella narrazione del Nostro questo essere colto dalla visione quasi suo malgrado all’improvviso, magari facendo zapping nella notte o ritrovando qualcosa d’inatteso su una VHS (preistoria, lo so, ma tant’è) che avrebbe dovuto registrare tutt’altro – è il caso di Un orfano chiamato San Mao di un anonimo cinese caro a Enrico Ghezzi –, oppure acquistando una cassetta a caso dall’edicolante di Bonassola. Lo stupore di Cacace (o Dziga, qui si confondono di nuovo) è contagioso. Frequentatore abituale (in gioventù) del leggendario Cineclub Lumière di Genova, nel capitolo Lo sguardo mutilo colleziona recensioni brevi, quasi in forma di diario, con annotazioni che riportano anche il critico con i piedi per terra (non si sarà mica assopito guardando questo piuttosto che quello? Boh…). In tutto ciò, esercitando in modo così forsennato la lettura trasversale dei film, capitano anche stroncature che meriterebbero duelli all’alba (diciamo che De Palma non è il suo regista preferito, e quando ho letto la rece de La presa del potere di Luigi XIV «di un pesantissimo Roberto Rossellini» mi è venuto un colpo…) ma ovviamente fa parte del gioco. D’altro canto la schiettezza del Cacace a volte provoca più invidia che rabbia. Per dire: la recensione di Bus in viaggio di Spike Lee inizia così: «Dio che ciofeca». Lo penso anch’io ma non so se avrei potuto scriverlo. Eccolo, il senso di un’operazione che trasuda competenza e paradossale buonsenso: fare della critica cinematografica un esercizio (anche) liberatorio.
Dziga Cacace ci riesce. Anzi: ci riescono.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 59 https://www.carmillaonline.com/2014/05/20/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-59/ Mon, 19 May 2014 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14692 di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città! È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà [...]]]> di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città!
È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà grande affetto: “Dopo il punk, ultima scossa tellurica datata 1977, il rock che non vive di maniera ha ripreso a vivere solo grazie all’innesto di nuove forme musicali e al recupero di quelle tradizionali, diventando una creatura mutevole, spesso sfuggente, ma ancora vitale perché crogiuolo di suoni e significati. E speranze. La Mano Negra è l’incarnazione più riuscita di questo meticciamento, tanto da dargli un nome, patchanka, che tutti utilizziamo per indicare quel cocktail inebriante di rock’n’roll, punk, musica araba, reggae e quello che saltava in testa ai membri della band in quel momento. Una fusione viscerale e coinvolgente, politicamente esplosiva perché autonoma, avulsa dai canoni spettacolari dello showbiz: rock per pensare e per ballare, dove l’attività del bacino asseconda quello degli emisferi cerebrali. Out of time documenta con generosità (sono 6 ore, tutte meritevoli) la storia di questa banda di delinquenti che ha rifiutato le lusinghe dello star system andando a suonare (perlopiù gratis) nelle periferie del mondo, regalando emozioni e catturando ogni volta nuove energie vitali per la propria arte. Il doppio dvd presenta 4 coloratissimi film documentari, 17 videoclip (molti inediti) e altre 17 tracce audio tra cui – guarda un po’ – saltano fuori cover di Little Richard, Elvis, Fats Domino e Chuck Berry, le radici della rivoluzione. Musica e immagini ci rendono un universo di truffatori, puttane, sbronze e consapevolezza politica, contro l’odierno strapotere culturale e politico yanqui. Edizione in francese (di tali Joseph Dahan, Thomas Darnal, Philippe Teboul) con sottotitoli, ma musica e immagini parlano da sé. Facce scure, sorrisi, chitarre, trombe e tamburi… come dice la Mano Negra: pura vida”.
E poi che altro cinema c’è stato? Beh, il mio, perché il 12 maggio Bruce Springsteen era in città e io (mesi prima) avevo già deciso che non avevo l’età per cercare i biglietti. Però, la mattina, un mio vicino mi fa: “ne ho uno che mi avanza… interessa?”. Secondo te? Ad Assago siamo tutti ipnotizzati da un concerto bello, intenso e musicalmente validissimo che fa seguito all’album tributo We Shall Overcome – The Seeger Sessions: folk, work song, un po’ di Woody Guthrie e nessuna concessione al repertorio del Boss. Alla prima canzone scoppio a piangere, davanti a gente che non conosco. Non sono l’unico a commuoversi e mi abbraccio con uno sconosciuto. Il mio amico Max non ha dubbi: non è passione musicale condivisa, è solo depressione incipiente.
Il 30 invece ho visto, sempre ad Assago ma stavolta con acustica degna di un mercato ittico, Santana: concerto buono ma non eccezionale, con qualche chicca (A Love Supreme, l’attacco di Santana III) ma troppi pezzi da Supernatural e dai recenti album danzerecci che sembrano prodotti in un villaggio vacanze. Sono piazzato in tribuna Gold ed è un pacco perché è lontanissima dal palco: la vera fiesta è sotto, con una marea di latinos che hanno finalmente una meritata serata para gozar en paz. Seduto vicino a me c’è Antonio Ricci che al cellulare, sornione, dà indicazioni per la messa in onda in diretta di Striscia la notizia: “Allunghiamo il brodo… mettici Capitan Ventosa”. Sotto la tribuna bambini, vecchie signore che ballano il merengue anche se non c’entra nulla e tanti giovani ingiacchettati che quando riconoscono le hit si scamiciano, “esagerando” per manifestare il loro apprezzamento. Per tornare a casa ci metto un’ora e mezza, come se abitassi ancora a Genova: i vigili ti dirottano solo sulla tangenziale dove ci sono lavori, incidenti e polizia e non è possibile puntare direttamente verso il centro città. Tutti provano a superare tutti e la coda conosce un processo di gemmazione inarrestabile. Questa è la Milano che ha eletto ieri Letizia Moratti sindaco. Addavenì la dittatura, ma quella cattiva cattiva. (Dvd; 26 e 27/5/06)

ddv5902lenny586 – Splendido Lenny di Bob Fosse, Usa 1974
Quando rivedo un film dopo tanti anni, ho sempre una paura tremenda. Perché la memoria addolcisce tutto e a 17 anni non avevo pensieri: ogni film era un regalo, una storia nuova con delle immagini da affidare al catalogo dei ricordi. E infatti Lenny ce l’ho ancora stampato qui in testa: le scene, le facce dei personaggi, le interpretazioni, il bianco e nero aspro e doloroso, anche la musica. E poi la vecchia nonna ebrea che fa Feee feeee!, Dustin Hoffman in un ruolo della vita, la battaglia artistica contro la società e le convenzioni, la disperazione, la solitudine e i propri demoni combattuti con armi suicide come alcol e droga. Ho letto l’anno passato Come parlare sporco e influenzare la gente, curato da Luttazzi, e qui ritrovo quel sapore amaro e disincantato. Film amato ai tempi del liceo e anche a quelli dell’università: il timore di non aver capito nulla allora è fugato: Lenny è ancora bellissimo (oppure non capisco niente anche adesso, fate voi). (Dvd; 4/6/06)

ddv5903TheCorporation587 – Il mappazzone The Corporation di tre tizi, Canada 2003
Film paratelevisivo dei carneadi Mark Achbar, Jennifer Abbott & Joel Bakan, frutto del rimontaggio di un ciclo di episodi più lunghi. Gode di meriti dovuti alla sua natura no global ma, sinceramente, è un pasticcio montato neanche granché bene. Tante storie di capitalismo sfruttate senza un’idea dietro che non fosse il metterle in fila. E mancano anche le conclusioni su cosa produca questo sistema mondiale, fermandosi al singolo cattivello preso con le mani nel sacco. In più l’edizione italiana parla continuamente della Corporazione, qualcosa che a me evoca dei sindacati fascisti e non il Nuovo Ordine Mondiale (per non parlare del SIM, ecco). Peccato, anche se vedendo cosa raccontano, meglio che l’abbiano fatto, dài. (Dvd; 6/6/06)

ddv5904Vergeat589 – Il capolavoro artigianale Vic Vergeat Live at Music Village di Riccardo Festinese ed IO, Italia 2006
Questa è una storia lunga ed è meglio raccontata a voce, ma il succo è che a fine novembre dell’anno passato abbiamo organizzato in pochi giorni le riprese di un concerto di Vic Vergeat, un amico musicista sulla cui vicenda di milite chitarrista ignoto Riccardo ed io stiamo progettando un documentario. In due giorni abbiamo messo su una squadra di 4 persone (noi compresi) approfittando dei potenti mezzi televisivi della redazione in cui lavoriamo (abbiamo cioè fregato nastri, microfoni e telecamere). Poi, in loco s’è decisa la regia, impostato le luci e scelto coll’artista una scaletta. E poi ci siamo affidati alla buona sorte. La prima serata non è stata eccezionale né per Vic né per noi: stavamo ancora capendo tutti come comportarci. La seconda è venuta benissimo, band e troupe in forma, con l’unico personale problema di tenere la telecamera dritta mentre balli. Il Dvd lo abbiamo montato all’antica, mettendo al passo tutte le camere e scegliendo gli stacchi – pochi – in modo preciso, non a cazzo come sembra di moda fare adesso. È venuto sinceramente bene e le advanced copies mandate alle riviste musicali hanno fruttato una marea di recensioni entusiastiche, dovute anche all’affetto per il musicista e per la modalità produttiva da banditi, a costo veramente ridottissimo. L’unico problema è che il Dvd, poi, la Cramps non lo ha praticamente distribuito. Io l’ho portato materialmente da Black Widow, negozio di settore di Genova, e le dieci copie che gli ho lasciato sono state tutte acquistate entro una settimana. Misteri del mercato. È stata una bella esperienza e sul curriculum adesso vanto regia, direzione della fotografia, montaggio e produzione di un titolo. Che però non ha dato gli esiti sperati. Amen. (Dvd; luglio 2006)

ddv5905ER590 – Il capolavoro seriale E.R. Anno 1 di Aa.Vv., USA 1994/95
Mi sono detto: massì, tra un match e l’altro della Coppa del mondo di calcio in Germania, mi vedo un episodio tanto per gradire e capire perché tanti decerebrati perdono le bave per un maledetto telefilm, come drogati davanti al video per ricevere la dose settimanale. E poi, ovviamente, la scimmia m’è salita in spalla: diventato campione del mondo senza troppo entusiasmo (fuorché nella semifinale coi tedeschi, quando ho gridato afono per non svegliare Sofia), non sono però riuscito più a staccarmi dal serial. Perché è vero: E.R. è altissima narrazione popolare che affronta cronaca e vita, con un linguaggio, un ritmo e un’abilità narrativa e tecnica notevoli. È un capolavoro fruibile a tutti i livelli, io chiaramente al più basso, quello emozionale, de panza, amando subito tutti i personaggi, vivendone i problemi, sentendoli incredibilmente vivi e veri. E il dvd è un’invenzione geniale: 40 minuti a sera, in lingua originale, col formato giusto. E poi tutti a nanna. (Dvd; giugno, luglio e agosto 2006)

??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????591 – Adorabile Volver di Pedro Almodòvar, Spagna 2006
Primo film in sala da un anno e quattro giorni a questa parte, di nuovo a Champoluc: serve un’estate intera e vuota, ormai, per riuscire ad andare al cinema. E per fortuna questo è un bel film che ti sbilancia con le consuete follie almodovariane che tu accetti dicendoti: e beh, Almodòvar! Del resto sei stanco, dormi poco, capisci già quasi niente di tuo… e poi, come per magia, alla fine, tutto ha un senso, il mosaico si ricompone e capisci che sei uomo di poca fede di fronte all’abilità di Pedro. E poi quelle facce, gli occhi di Penelope, quei colori, quella musica, quelle lacrime. E sei felice. (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 14/8/06)

ddv5907JoeCocker592 – Il felicemente caotico Joe Cocker Mad Dogs and Englishmen di Pierre Adidge, USA 1971
Quando non c’era il dvd e neanche uno straccio di tivù musicale, se ti perdevi un concerto non ti restava che andare al cinema. E beccarti un film come questo: la cronaca di un tour incredibile che attraversò gli USA nel 1970. Reduce da altre tournée e beneficiato dalla performance immortalata dal film su Woodstock, Joe Cocker fu letteralmente costretto dai discografici a tornare on the road. In pochi giorni quel geniaccio di Leon Russell (il pianista di Delta Lady… ah no? Non la conoscete? Strano…) gli mise su una band funkyssima, con sezione fiati e coriste da infarto: una ventina di crociati del rock (e del blues e del gospel e del soul etc. etc.) con bambini e cani a carico, incubo di ristoratori e albergatori nel cuore dell’Amerika. La regia è minimale: sesso e droga sono pressoché invisibili, ma li leggi negli occhi dei protagonisti, occhi distrutti dalla fatica (in poco più di due mesi, 58 concerti) e dalla tensione che stava montando, dal momento che Cocker non sopportava il ruolo di Russell, vero leader sopra e sotto il palco. Il film è disordinato ed eccitante come i concerti ripresi, talmente intensi che il catarroso Cocker ci ha messo quindici anni per riprendersi e diventare il crooner pelato per yuppies di metà anni Ottanta. Il proletario inglese di allora sembra il bisnipote di quello odierno. Ha ancora i capelli e due basette da ufficiale napoleonico e se l’air guitar è l’abilità a mimare la sei corde ecco a voi il campione del mondo di air orchestra, capace di assecondare coi movimenti spastici del corpo tutti i musicisti che lo accompagnano sul palco. Film tenero, quando si pensava che il rock potesse cambiare il mondo ed evitare la prossima guerra. (Dvd; 23/8/06)

ddv5908MyArchitect593 – Inaspettatamente sentimentale, My Architect di Nathaniel Kahn, USA 2003
Oggi un po’ dimenticato quando si cita il Movimento Moderno, l’architetto e urbanista Louis Kahn gode di grande fama tra gli intenditori. A me, personalmente, è sempre stato pesantemente sulle balle. Quando studiavo architettura non amavo le sue (poche) realizzazioni monumentali e un po’ ottuse e un prof che ritengo un coglione lo magnificava apoditticamente (sono un po’ invelenito, lo ammetto, perché la carogna mi aveva fatto sputare sangue per l’esame di Composizione II). Grazie a questo documentario scopro che Kahn era anche un farfallone, indebitato fino al collo e incapace di gestire i suoi affari che comunque lo avevano portato in giro per il mondo come guru architettonico ben prima degli odierni archistar. Il figlio avuto fuori dal matrimonio indaga sul padre che non ha conosciuto abbastanza e scopre quanto detto sopra. Ma gli vuole bene lo stesso e gli dedica questo affettuoso filmetto dove si cercano tracce del padre ripercorrendone anche la carriera. Ci sono momenti grandiosi (un bengalese che, davanti al parlamento di Dacca, chiede: “Chi? Farrakhan?!”), altri crudi (l’urbanista pratico che massacra il lavoro dell’architetto), altri ancora impudichi o calorosi. Documentario altalenante, curioso, formalmente impreciso come lo sono le opere fatte col cuore e non con la testa. Per cui fa piacere vederlo. (Dvd; 26/8/06)

ddv5909Hitchhikers594 – The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Garth Jennings, Gran Bretagna 2005
Siam dalle parti del capolavoro, e ve lo dice uno che la fantascienza non la capisce mai fino in fondo. In origine uno sceneggiato radiofonico, poi libro, infine film. Conoscevo il testo (che però avevo anche abbastanza dimenticato) e trovo magnifica la riduzione cinematografica, che conserva invenzioni, stupore e ironia: procuratevi un asciugamani, che si parte. (Scusate, ma non so cosa scrivere di più… non so: 42? Grazie per il pesce? Dai, un film così non si commenta, si ama e basta). (Dvd; 30/8/06)

ddv5910InsideMan595 – Molto cool, Inside Man di Spike Lee, USA 2005
È un giovedì e ci diamo un tono da genitori che non subiscono la dittatura dei figli e che vanno allegramente al cinema. Anche a metà settimana, capito? Ed è tutto falso, ma il film lo vediamo veramente, anche se poi non c’è tempo neanche per un toast e una birretta. Inside Man non è niente male e ci va bene così: solido film di genere, con megarapina in banca, simpatia evidente per i delinquenti e investigatore scaltro (Denzel Washington) che esibisce con gusto la sua sensuale blackness. Dialoghi serrati e ben gestiti, attori notevoli, bellissima fotografia sgranata e regia inventiva. E si parla anche della psicosi newyorchese post 11/9 e delle libertà individuali sotto tiro, senza che stavolta Spike parta col trombone retorico, ma facendolo per cenni brevi e sapidi. Bravo. E bravi. Noi. (Cinema Gloria, Milano; 7/9/06)

ddv5911lecollinehannogliocchi596 – Il pessimo anatroccolo Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja, USA 2006
Rifacimento putridissimo di un classico dell’horror che non ho mai visto. Di questo posso dire che la prima parte non mi sembra granché. Lo comunico placidamente a Barbara nell’intervallo, sospirando per la sfiga di chi va poco al cinema e in più si piglia un film dissenterico. Poi però c’è una svolta maligna e il film diventa cattivello come si deve: la bellissima Vinessa Shaw viene ammazzata senza pentimenti (cosa che aggiunge mistero al plot: hai veramente seccato una così? …una che vale da sola la visione del film? Naaa, dài…) e assume importanza anche un sottotesto politico prevedibile ma orchestrato decentemente. Insomma: volevo gli zompi e qualche idea e alla fin fine – siccome son di bocca buona e maltrattato dall’insonnia – li ho avuti. Rilevo che sono tra i pochissimi a cui sia minimamente piaciuto il film. Ci sarà qualche motivo, temo. (Cinema Ducale, Milano; 14/9/06)

ddv5912blackmoreMr. Blackmore, I suppose…
Ritchie Blackmore è l’uomo responsabile di milioni di chitarristi grazie al riff primordiale di Smoke on the Water. Eccentrico, taciturno, spigoloso: dai tempi dei Deep Purple, la fama che lo precede non è rassicurante. Ha fatto impazzire compagni di band coi suoi scherzi pesanti, ha licenziato frotte di musicisti e ha spiazzato i critici con interviste aggressive o dichiarando l’amore per gli ABBA. Dieci anni fa ha imbracciato l’acustica (e spesso anche il liuto) per dedicarsi con perizia alla musica rinascimentale, lasciando tutti di stucco. Ma ha anche ideato un gioco di ruolo: lui è il menestrello in leggings, la futura sposa Candice Night la sua dama e il pubblico la corte danzante. Tutti in costume, come in Non ci resta che piangere. Da allora, complici le esplicite prese per il culo dei critici, non parla più con la stampa rock. Io però ci provo nonostante si dica che Ritchie sia succube non solo della compagna, ma addirittura della futura suocera. Non si sa mai e infatti, siccome non è prevedibile, il giorno prima del concerto che tiene a Milano, arriva un fax che dice: «Sì!». Per cui dopo un’esibizione divertente – e nel consueto clima folle – attendo fuori dai camerini la chiamata. Quando è il momento la prima sorpresa: il chitarrista non è più in calzamaglia e stivaloni, ma è vestito da calciatore della Germania, con tanto di scarpini. Non scherzo. Candice invece, è ancora in costume e presenzia, regalandomi una serie di scambi dialogici degni di una Casa Vianello medievale. Vi risparmio tante ciance, ma Blackmore adora Bob Dylan, Zidane e purtroppo difende Bush. Vado poi dritto alle polemiche con la stampa che non gli perdona di aver abbandonato l’hard rock e lo demolisce puntualmente da anni a ogni disco che pubblica. Azzardo che i nostalgici siano loro, non lui. Ritchie diventa rigido e scandisce le parole una per una, temo che s’incazzi: «Questo È Corretto Al Cento Per Cento». Pfuii… «Ma non m’importa che ci trattino male. Se c’è un brutto pezzo su di noi non m’interessa leggerlo. Se è buono… beh, sono cose che so già. Sono annoiato da interviste sul rock, metal, l’hard… preferisco parlare di altre cose». Allora rilancio: è vero, come hanno scritto, che a casa ti piace passare il battitappeto? «Beh, è vero!». Interviene Candice: «È per questo che mi piace!». Ma perché, tutto ciò? «Sai, nel 1981 viene a trovarmi a casa il mio batterista dei Rainbow. Stavo passando il battitappeto e lui c’è rimasto male: “Ma tu sei una rockstar!”. Tre settimane dopo siamo in tour e in albergo decido di spostare il letto dalla parete. Ho il sonno leggero e da quel lato c’era casino. Quando sposti un letto in albergo, sotto c’è un mondo. Vivo. E allora ho passato il battitappeto e ovviamente in quel momento è arrivato il batterista… e da allora la voce è girata…». Da qui in poi è tutta discesa e allora mi permetto: suonare musica del Rinascimento non è una fuga dal presente? «Sì, certo. Abbiamo tutti fantasie. La mia è di essere ubriaco nel quindicesimo secolo. Non mi piace il mondo di oggi. Musicalmente fa schifo. Mi piace ascoltare musica antica, non la radio». Candice elabora: «E poi, la fuga dal presente… c’è chi va allo stadio, chi passa le ore sotto una macchina a riparare il carburatore… a noi piace andare in giardino, con la luna piena e un falò e suonare musica romantica, con gli amici, nella natura. È una fuga, certo, ma dal PC, dal cellulare…». Ma perché, lo avete? Candice chiarisce: «Solo per le emergenze, io. Lui no, figurati». Chiudo con la più banale domanda, che in tempi di disagio esistenziale mi illumina sempre un po’: alla fine, cosa vi rende felici? Di nuovo la compagna: «A me, piantare fiori in giardino». Ritchie è più raffinato: «A me piace lamentarmi. È un passatempo inglese: sono felice quando mi lamento, è catartico, terapeutico. Sai, in America (dove vivono, N.d.C.) con il politically correct è impossibile farlo. A me piace dire ciò che penso. E quindi lamentarmi». Chiude Candice: «E quando comincia vado in giardino a piantare fiori!». Non esistessero, due così, non ci sarebbe sceneggiatore capace di inventarli. (Live, 16/9/06)

ddv5913Caimano597 – Paura! Il caimano di Nanni Moretti, Italia 2006
Film temuto. Io a Nanni ho voluto bene. Perché godevo colpevolmente compiaciuto delle gomitate complici, delle strizzate d’occhio… e gli ho perdonato anche i morettismi, quei discorsi tra noi. E vabbeh, è la sua cifra. Se non ti piace, non guardarlo. Però negli ultimi tempi mi sembrava che si fosse persa un po’ la misura e questo film – tra dichiarazioni di vario genere e aspettative della stampa – mi faceva molta paura. Una scommessa rischiosa che non volevo veder perdere. E invece, vi dirò, il film mi funziona eccome. La costruzione è azzeccata e Moretti scioglie la tensione con la sua ironia. È un atto d’accusa, certo, ma non c’è piagnisteo, semmai ferma incazzatura. E non credo abbia spostato d’un voto il confronto Prodi/Berlusconi (i voti semmai li hanno spostati altri, ma questa è una storia di cui mai nessuno vi renderà conto, neanche la magistratura). Silvio Orlando è bravissimo, Margherita Buy inaspettatamente perfetta e se la cavano bene anche tutti gli altri. Invece orrenda e spero non premonitrice la scena finale. (Dvd; 22/9/06)

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(Continua – 59)

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