solidarietà – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 16 Aug 2025 20:13:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – pt.3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/mutualismo-autodifesa-lavoro-sociale-il-caso-delle-pantere-nere-pt-3/ Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85575 di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente. Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale. L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni [...]]]> di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente.
Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale.
L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni pantera.1
Ma era anche un aspetto facilmente demonizzabile dai media e respingente per la parte più moderata degli afroamericani. I programmi sociali erano fondamentali nell’immediato soprattutto per colmare questa lacuna.
Se nella strategia tali programmi dovevano rappresentare delle infrastrutture di resistenza per affrontare la guerra, nonché dei germi di organizzazione collettivista della società; nella tattica essi erano fondamentali al consenso.
Attraverso le mense e gli ambulatori le pantere non erano solo dei militanti armati che proteggevano dalla polizia e dai razzisti, ma coloro che si caricavano sulle spalle i bisogni concreti della società nera. Che nutrivano i bambini e curavano i malati. Lancia e scudo.
Ogni madre o padre del ghetto poteva riconoscere in loro quelli che al mattino davano la colazione ai figli prima della scuola, che nel pomeriggio gli permettevano di avere davvero un’educazione completa tenendoli fuori dalla strada e alla sera li tenevano al sicuro.
Questa ricerca del consenso, di per sé necessaria ad ogni partito, diventava via via più necessaria man mano che la repressione si stringeva attorno al BPP.

Tanto il partito cresceva, tanto la pressione degli apparati si faceva feroce, più acuta di giorno in giorno.
Da minacce, molestie e arresti arbitrari si passò rapidamente ad una vera e propria offensiva militare coordinata dal FBI: vengono infiltrati decine di provocatori e informatori, i militanti di spicco sono incarcerati in massa, vengono uccisi in scontri a fuoco o in veri e propri omicidi mirati, le sedi sono attaccate, date alle fiamme o distrutte con esplosivi.
Anche i programmi sociali vengono sabotati: poliziotti disturbano le colazioni per bambini, commercianti che forniscono risorse vengono minacciati, le tipografie sequestrate, addirittura si progetta di avvelenare il cibo che le pantere distribuiscono nei quartieri.
È una guerra totale e sporca, condotta fuori da qualsiasi parametro e controllo legale: il famigerato programma controinsurrezionale COINTELPRO di cui nell’immediato non si sa nulla ma che emergerà nel medesimo 1971, quando verranno alla luce una serie di documenti sequestrati in un blitz di cittadini in una base federale della Pennsylvania.

Quando si parla della brevissima stagione delle Pantere e della loro metodologia politica bisogna tenere sempre a mente che tutta la vita del BPP è stata condizionata pesantemente dal dover fare i conti con questa repressione barbara.
Nel sabotarne il cammino, il COINTELPRO ha viziato pesantemente la dialettica interna, spingendo una parte delle Pantere a radicalizzarsi ulteriormente spingendo per una prassi più insurrezionale (coloro che, dopo la scissione, daranno vita al Black Liberation Army), e portando un’altra parte più “moderata” ad arroccarsi sulla via elettoralista e l’incremento dei programmi sociali (questa sarà la parte che avrà la guida del partito, con scarsi risultati fino al suo scioglimento).
Nessuno dei due elementi poteva bastare a sé stesso senza il suo contraltare: venuta meno la loro compresenza, tutta la strategia ha finito per crollare su sé stessa.

È probabile che in ogni caso, anche senza il peso della repressione, le Pantere non sarebbero riuscite a fare il definitivo salto di qualità; ma c’è un episodio significativo, che illumina il senso della vicenda: nel 1969 Fred Hampton, giovanissimo dirigente del BPP di Chicago e plausibile successore di Newton, appena 21 anni, viene ucciso nel sonno durante un raid della polizia nel suo appartamento.

Tralasciando gli inquietanti dettagli sul suo omicidio, non possiamo fare a meno di notare come gli apparati non persero un momento a spezzare la prima vera possibilità di balzo in avanti che si era presentata.
Hampton infatti era il leader di una delle sezioni più forti del partito e soprattutto architetto di una strategia innovativa; non solo era riuscito a tenere in equilibrio il lavoro sociale e le armi, ma aveva superato la tradizionale base di riferimento.
Alleandosi con la League of Black Revolutionary Workers, sindacato degli operai neri, era riuscito a garantirsi una testa di ponte all’interno del settore delle fabbriche, fondamentale nella città, era la prima pantera ad affrontare in modo esplicito, seppure abbozzata, la contraddizione capitale-lavoro ed il ruolo dei sindacati.
Non solo, facendo leva sulla composizione delle bande giovanili, era riuscito a politicizzarne diverse e a portare attraverso queste l’esempio del BPP nelle altre comunità svantaggiate: portoricani, bianchi poveri del sud, messicani. L’agglomerarsi di partiti simili (Young Lords, Young Patriots, Brown Berets ecc.) in una alleanza (la Raimbow Coalition, poi ripresa anni dopo in chiave elettorale dal reverendo Jesse Jackson) faceva di Hampton la possibile guida definitiva del BPP e il detonatore di un’offensiva congiunta dei segmenti di classe finora tenuti separati dalla linea del colore.
Venne ammazzato per prevenire lo stabilirsi di una strategia unica per un fronte allargato con reali possibilità di vittoria.

Per concludere, l’analisi delle pratiche politiche del BPP2 non può esimersi dal partire dagli elementi fondamentali che l’hanno generato e che ne hanno determinato lo sviluppo. Abbiamo qui portato brevemente alla luce i tre nodi determinanti: la strategia (e l’immaginario) politica, la comunità storica d’appartenenza e la contingenza politica.
Più esplicitamente, le forme di lotta ed organizzazione delle pantere possono essere lette solo considerando A) il loro inserirsi in una strategia di lotta anticoloniale novecentesca, la guerra popolare, che prevedeva istituti di sussistenza dell’avanguardia rivoluzionaria e dei suoi territori; B) l’innestarsi all’interno della tradizione nera che, dalla schiavitù in poi, ha sviluppato forme di cooperazione mutualistica per sopperire agli scompensi della segregazione; C) la loro valenza di strumento di propaganda e consenso, tanto più necessario quanto più era forte l’attacco repressivo cui erano sottoposte.

Nota a margine.

Spesso e volentieri nei movimenti occidentali degli ultimi vent’anni3 , una certa dose di entusiasmo si accompagna all’adozione di pratiche politiche, sopperendo spesso a una lacuna di visione strategica, ossia la capacità di vedere lontano e inserire le singole pratiche all’interno di un percorso articolato, mutevole e non lineare.
È così che ciò nasce come tattica finisce per essere strategia, da mezzo a fine; ciò che era secondario assume l’importanza della parola d’ordine.
Allo stesso tempo questo si accompagna ad un innegabile senso orientalista: lotte distanti geograficamente e culturalmente da noi vengono assunte come modello senza considerarle nella loro specificità.

È stato così per le comunità zapatiste, per il Rojava dei kurdi. Lo è anche per le pantere nere ed il BLM.
Spesso non si considera la cultura indigena e la dimensione coloniale del sud del Messico, oppure la turbolenza geopolitica che ha investito il popolo kurdo nel terzo millennio; dei loro contesti dove la civiltà tardocapitalista non ha imposto il controllo né la sussunzione pervasivi assunti in Europa, né la centralità assunta dallo stato sociale qui (anche nel suo smanetellamento); solo in minima parte si guarda a come si siano dati in condizioni di frattura o insufficienza dell’ordine statale sui propri territori.4
Soprattutto non si considera il loro essere dotarsi di strutture organizzative pensate per agire e guardare sul lungo periodo; laddove in Europa si è assistito piuttosto all’esplodere ciclico di mobilitazioni popolari anche importanti, al fiorire di piccoli gruppi ed esperienze, ma solo in minima parte alla costruzione di strutture politiche durevoli e articolate.

In questa adozione quasi spasmodica di linee frammentate il mutualismo è tornato alla ribalta come uno degli ultimi ritrovati, trasmutato da mezzo a fine.
Questo in parte è spiegabile con la lunga presenza di pratiche sociali simili, specialmente nei movimenti di derivazione libertaria e orizzontalista; in parte con la necessità, dopo la fine del movimento operaio storico, di riadattare strumenti per una soggettività orfana.

Ecco che si sono assunte le categorie dei movimenti extraeuropei per colmare un’insufficienza tutta occidentale, con la tendenza molto occidentale di poterle utilizzare a prescindere dalla loro genesi.
E questo è tanto più evidente se si pensa che allo stesso tempo si è andata dimenticando la dimensione europea del mutualismo, altrettanto lunga e profonda.
Se il socialismo è un prodotto della cultura europea dell’800, questo non è nato semplicemente dentro la mente geniale di Marx e Engels.
Quello che è emerso nella prima internazionale e nel Manifesto è il picco di un percorso di lungo periodo che lì trovava compimento e si evolveva in qualcosa di altro.
Un percorso disordinato e contraddittorio dove filantropia, aspirazioni nazionali, rivolte locali e tutti i processi materiali e simbolici innescati dalla resistenza all’estendersi della rivoluzione industriale finivano per agglomerarsi in un’opera di categorizzazione teorico-politica.

Furono non pochi i tentativi di dotare la nascente classe operaia di istituti di sopravvivenza e opere mutualistiche. A volte da parte degli appartenenti alla classe dirigente, animati da spirito filantropico e sentimento cristiano; altre volte da aggregati popolari in autonomia (senza dimenticare che tra Rivoluzione Francese e Manifesto del Partito Comunista corrono appena cinquant’anni).

Questa eredità verrà raccolta dai partiti socialisti e poi da quelli comunisti. Si articolerà in una fioritura di progetti diversissimi tra loro che copriranno praticamente tutto lo spettro delle attività umane. Scuole per i figli degli operai, orti per i loro quartieri, casse di assistenza reciproca, cooperative di lavoro, centri ricreativi.
I partiti presero in carico tutte le esigenze della classe, spesso attraverso articolazioni associative piuttosto che direttamente, ma nel cammino verso “il sol dell’avvenire”, utilizzarono il lavoro sociale per popolare e dare profondità al mondo che incarnavano.
Far parte di un partito socialista significava, per un operaio, essere partecipe di un vero e proprio universo materiale e simbolico.

Il tempo lungo della storia ha disegnato un percorso estremamente ricco e sfaccettato, lo ha portato al suo apice e poi al suo declino.
Durante il suo corso, ha condizionato lo sviluppo delle nazioni innervandole di uno Stato Sociale che altrove è impensabile, nonostante i pesanti attacchi del neoliberismo.
Intanto, svanito il sogno rivoluzionario, quelle classi dirigenti che avrebbero dovuto gestire il mondo socialista, si sono convertite in ceto amministratore della miseria presente.

Tutto ciò non vuole essere in alcun modo una riproposizione nostalgica di una tradizione ormai bell’e morta; né tantomeno si cerca di svilire le esperienze rivoluzionarie extraoccidentali, che anzi hanno rappresentato il maggior terreno di innovazione e sperimentazione degli ultimi sessant’anni.
Piuttosto vogliamo qui spingere verso un metodo di analisi, di interpretazione della realtà che, con qualche approssimazione, possiamo definire come “storicizzare i processi politici” per orientarne la prassi.
Se non consideriamo l’onda lunga da cui proveniamo non possiamo interpretare la realtà, ogni innesto che verrà tentato si svilupperà su un terreno arido e sarà quindi sterile, incapace di mettere radici.

Parte 1 qui
Parte 2 qui


  1. Ribadiamo la specificità dell’uso delle armi nel programma del BPP, mai utilizzate in una pratica offensiva ma come elemento anzitutto simbolico di propaganda e in secondo luogo come strumento di difesa in caso di attacchi di polizia e suprematisti. 

  2. Ma analogamente vale per l’analisi di qualsiasi fenomeno politico. 

  3. nello specifico possiamo parlare di quelli italiani ma crediamo che qualcosa di simile sia vero per la restante parte del mondo in cui siamo inseriti 

  4. guerra civile siriana, narcoguerre e debolezza endogena dello Stato messicano alla sua periferia. 

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Linee di sangue e solidarietà dalla Drina al Giordano. https://www.carmillaonline.com/2024/07/29/linee-di-sangue-e-solidarieta-dalla-drina-al-giordano/ Sun, 28 Jul 2024 22:15:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83743 Di Jack Orlando

C’è un sole alto nel cielo di mezzogiorno e specialmente a luglio picchia forte. Nonostante la zona sia incassata in una geografia di montagne dai boschi fitti, la temperatura è quella di una fornace e le migliaia di lapidi bianche, disposte in file perfettamente ordinate, riflettono la luce rendendo l’atmosfera ancora più inabitabile. Il cimitero è il Memoriale di Potočari, un piccolo insediamento appena sotto la Drina, il fiume che fa da confine tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, attualmente compreso nei territori della cosiddetta Repubblica Srpska.

Nella prima metà degli anni ’90 il villaggio è stato la sede [...]]]> Di Jack Orlando

C’è un sole alto nel cielo di mezzogiorno e specialmente a luglio picchia forte.
Nonostante la zona sia incassata in una geografia di montagne dai boschi fitti, la temperatura è quella di una fornace e le migliaia di lapidi bianche, disposte in file perfettamente ordinate, riflettono la luce rendendo l’atmosfera ancora più inabitabile.
Il cimitero è il Memoriale di Potočari, un piccolo insediamento appena sotto la Drina, il fiume che fa da confine tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, attualmente compreso nei territori della cosiddetta Repubblica Srpska.

Nella prima metà degli anni ’90 il villaggio è stato la sede di un compound dei caschi blu dell’ONU: nella sanguinosa deflagrazione seguita alla disgregazione della Jugoslavia, Potočari era designata come Safe Zone, un luogo protetto dove poter stare relativamente sereni mentre tutto intorno infuriava la morte.
Il compound, installato dentro una vecchia fabbrica dismessa, ospitava operatori umanitari, traduttori, profughi; era protetto e amministrato da un contingente di soldati olandesi.
Potočari è un nome sconosciuto ai più, ma dista solo sette km, circa due ore a piedi, da Srebrenica.
È in questa safe zone che nel luglio 1995 vennero massacrati quasi diecimila civili inermi, per mano delle milizie cetniche e dell’esercito serbo-bosniaco del generale Ratko Mladjc.

Ventinove anni dopo lo stabilimento che alloggiava i caschi blu è un museo e di fronte, attraversando la strada, è stato eretto il Memoriale dove ogni anno le salme cui si è riusciti a dare un nome vengono inumate. La cifra di 8372 morti è ancora provvisoria dopo sei lustri.
La mattina alla vigilia dell’anniversario il cimitero è ancora quasi vuoto, si aggirano alcuni cameraman e giornalisti, qualche giardiniere, ogni tanto parenti e sopravvissuti.
Le lapidi sono una legione di piccoli obelischi bianchi dall’apice a cupola, scendono dalla collina e si allungano a valle lungo la strada, file strette e ordinate col volto rivolto verso Srebrenica, o magari più giù verso La Mecca, la direzione è la stessa.
Ogni tomba reca il nome e l’anno di nascita del defunto, non c’è bisogno di esplicitare quello di morte, in cima è incisa in arabo Al-Fatiha, prima sura del corano, e l’epitaffio “Non sono morti, vivono ma non potete sentirli”.

Tra questi marmi vaga una donna bassa, sui cinquant’anni, capo coperto e grandi occhiali da sole.
Attorno alle spalle porta una kefiah con la bandiera palestinese, ha l’aria assorta e trattiene un nodo alla gola.
Si chiama Fatmira e qui ha sepolto il suo primo marito e la sua prima figlia, vive da allora negli Stati Uniti dove è riuscita a rifarsi una vita e una famiglia, ma torna ogni anno in questo stesso periodo. Più che dalla guerra è da una ferita insanabile che ha cercato rifugio.
Alla domanda del perché porti, qui e in questo giorno, una bandiera palestinese risponde che “È come rivedere un film, o un incubo. Quando si vedono le immagini dei corpi sulla strada o degli sfollati che vivono accampati tra tende e macerie… Noi quelle immagini le abbiamo già viste e non sullo schermo; sappiamo molto bene cosa stanno vivendo quelle persone”.

Prima della guerra nella zona di Srebrenica vivevano circa quarantamila persone, nella stragrande maggioranza musulmani. Già nell’autunno del ’95 erano andati via quasi tutti, un altro capitolo della diaspora balcanica; ora la popolazione è crollata sotto le diecimila unità, buona parte serbi ortodossi sfollati dal sud dalle milizie croate.
Altre comunità che hanno conosciuto la pulizia etnica e la deportazione che però risignificano il nuovo spazio secondo proprie logiche identitarie. Un territorio di piccole zone omogenee sclerotizzate in una pace tesa, dove la convivenza interetnica rimane difficoltosa.

La sera stessa al cimitero di Potočari arriva la Mars Mari, la marcia della pace che ogni anno ripercorre a ritroso la fuga disperata e fatale di una colonna di civili che tentava di mettersi in salvo dai soldati cetnici.
Migliaia di persone che marciano a piedi, altre che arrivano correndo in maratona da Vukovar, o in bicicletta, bande di bikers e colonne di quad.
È un rito di massa che fonde la dimensione politica del ricordo a quella esistenziale della veglia funebre, la gravità della consapevolezza al caos di una festa di paese; l’energia che si accumula nelle comunità in determinati momenti si riversa sul reale in un caleidoscopio di fenomeni.

Sui petti di ognuno e nei cesti di anziane signore ai bordi della strada spiccano dei piccoli fiori bianchi dalla corolla verde, tessuti all’uncinetto o di piccole perle. È il simbolo creato dalle Madri di Srebrenica in ricordo del genocidio.
La marcia è trapuntata in tutta la sua lunghezza da bandiere e striscioni, emblemi di clan o di unità paramilitari, bandiere nazionali della Bosnia-Erzegovina o, ancora di più, dell’antico Regno di Bosnia (lo scudo coi gigli entrato poi nello stemma della Armija bosniaca). Alcuni portano la bandiera della Turchia, che negli anni ha spinto la sua immagine di mediatore e ricostruttore nella zona balcanica; il legame di fede compensa il fatto che Erdogan faccia molti più affari in Serbia che qui.
Ma soprattutto sono i quattro colori palestinesi i veri ospiti della marcia.

Le persone sfilano con maglie e bandiere della Palestina, con la kefiah sul capo; anche i fiori ricamati di Srebrenica spesso ne prendono i colori.
La solidarietà confessionale è un dispositivo potente del mondo islamico, ed è sempre stata uno dei fattori di mobilitazione internazionale al fianco del popolo palestinese, radicata nel sentimento popolare e nelle politiche estere degli stati. Ma qui c’è qualcosa di differente: un immediato senso di identificazione lega questa gente alle sofferenze in corso dall’altro lato del mediterraneo.

Quella sensazione di deja-vù, di film già visto (o vissuto), avvicina la Drina al Giordano.
È qualcosa che ripetono tutti. Una ragazza appena ventenne, che quest’anno seppellirà le spoglie degli zii, appena riconosciuti, aggiunge che “la vera differenza è la tecnologia: qui le milizie venivano armate di fucili e coltelli, uccidevano persone che avevano fisicamente davanti e nessuno di loro da quel momento poteva dirsi estraneo a quel che faceva. Alcuni lo rivendicano tutt’ora, altri sono stati travolti dalla propria coscienza, qualcuno si è tolto la vita per i sensi di colpa, qualcun’altro ha testimoniato ai processi della Corte Internazionale.
Israele invece distrugge tutto con aerei, droni e missili; per la maggior parte delle morti di Gaza nessuno si sentirà responsabile, i soldati che hanno ucciso lo hanno fatto dentro stanze lontane dal campo di battaglia, su poltrone comode, come se giocassero alla playstation. Se nessuno di loro sente il peso delle sue azioni, come potrà domani fare i conti con la storia? Come potrà mai rimettere in discussione quanto accaduto?”

L’ONU è morta a Sarajevo è il titolo di un vecchio libro-denuncia che racconta le mancanze e le colpe della comunità internazionale. È un titolo azzeccato, la mattanza bosniaca si consumava mentre le Nazioni Unite e l’Europa si stracciavano le vesti e organizzavano conferenze infruttuose, i cosiddetti sforzi della comunità internazionale lasciavano ai cecchini campo libero per sparare sui civili mentre si cercava una quadra che accontentasse tutti.
Tra le condanne del tribunale internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia, ne figura anche una per l’Olanda: non solo i suoi soldati incaricati di tutelare la popolazione non hanno protetto nessuno, assistendo a deportazioni ed omicidi ma, su pressione del generale Mladic, consegnarono ai militari serbi trecento civili tra uomini e ragazzi, mandandoli a morte certa.
La comunità internazionale non era lontana in quei giorni di luglio, era lì a cinquanta metri dall’orrore e non ha mosso un dito.

Un giovane uomo, con la scritta Free Palestine sulla maglia azzurra scolorita, in piedi nel museo/ex-compound osserva il disegno di un casco blu su cui campeggia la scritta bianca UNhelpful: “Lo sapevano. Tutti sapevano che sarebbe successo ma non hanno voluto fare niente. Srebrenica è stata venduta e il nostro sangue è servito alle cancellerie europee per chiudere le trattative. Parlavano di pace ma non hanno salvato nemmeno una vita. E oggi è lo stesso in Palestina, lasciano massacrare quella povera gente solo per convenienza politica, per non esporsi. Avvisano Israele di non abusare della sua forza ma non fanno nulla per impedirlo, quando è lo stesso governo israeliano che parla di pulizia etnica. È evidente a tutti che sia in corso un genocidio, come per noi, ma tutti fingono di non capire”.

E in effetti come ieri Milosevic, Karadjic e Mladic facevano orecchie da mercante ai richiami dell’ONU,  prendevano in ostaggio i caschi blu e si facevano scudo di una retorica paranoide e suprematista; oggi Netanyahu, Ben Gvir e compagnia cantante abbaiano contro ogni risoluzione del Palazzo di vetro accusando chiunque di antisemitismo e, per rendere più chiaro il concetto, tirano colpi d’artiglieria sulla sede dell’UNRWA e le ambulanze della Mezzaluna Rossa.

Intanto, per una di quelle coincidenze della Storia, mentre al tribunale dell’Aja si apre la possibilità a che si riconoscano le azioni di Israele nella Striscia di Gaza quali atti di genocidio e, di conseguenza, si avviino processi contro i suoi responsabili politici; a New York nel maggio di quest’anno è stato riconosciuto definitivamente quanto accaduto a Srebrenica effettivamente come genocidio.
Un atto che arriva quasi trent’anni dopo i fatti, una nuova generazione è cresciuta intanto, fuori dai giochi della guerra ma dentro i suoi strascichi. Ancora devono passare anni prima che il rimarginarsi delle ferite, nei tentativi di convivenza, riescano ad allontanare una politica di nazionalismi che non accenna a lasciare la presa. Ma un processo di riappacificazione intercomunitaria rimane a detta di tutti l’unica via possibile per chiudere quel conto lasciato in sospeso e prevenire nuove tragedie.

E a Gaza, quando anche quest’ennesima barbarie terminerà, qualcuno dovrà pagare per le morti e le distruzioni; consapevoli che nemmeno la pena più grave per ognuno dei colpevoli potrà rendere giustizia per questo orrore.
Né tribunali né cancellerie potranno risolvere drammi che hanno radici profonde, e infatti seguitano a paventare soluzioni che nulla risolvono.
In terra di Palestina non si vede quel ginepraio di fratture che hanno spezzato in mille segmenti la società jugoslava: l’ostilità è chiara, verticale, il rapporto coloniale è essenzialmente un rapporto a due.
Non di meno sarà quel piano di riconciliazione comunitaria che, in un tempo che oggi appare impossibile, seppellita una ideologia mortifera come quella sionista metterà fine al saccheggio, alla violenza e ai muri, ricucendo il territorio in un’unica entità, che sappiamo non porterà il nome di Israele, né la guida dei suoi sanguinari condottieri.

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Economia di guerra / 3 – Fase due: incubo sulla città contaminata https://www.carmillaonline.com/2020/04/29/economia-di-guerra-3-fase-due-incubo-sulla-citta-contaminata/ Wed, 29 Apr 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59702 di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo. Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione [...]]]> di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo.
Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione della pandemia ha generato un nuovo decreto presidenziale, pasticciato e, a molti tratti, incomprensibile. Che però conferma almeno una cosa: l’effettiva data di nascita della classe dirigente italiana.

Classe dirigente, politica ed economica, che nei decenni intercorsi dalla nascita della Repubblica ha cercato di darsi sempre nobili origini, sia che si trattasse di farle coincidere con il Risorgimento, con la Resistenza oppure con con il dibattito costituzionale intercorso nel biennio 1946-47. Mentre in realtà di tutt’altro si tratta, perché le mosse di questa classe dirigente concordano esattamente con quelle messe in atto l’8 settembre 1943. Una classe dirigente divisa allora e divisa oggi che concorda su un solo punto: colpire e schiacciare i lavoratori, i proletari e i cittadini. Destinati ad essere sempre, oggi come allora, abbandonati davanti al pericolo, da governanti in fuga e vili, capaci soltanto di cercare rifugio dietro alleati più potenti (ieri gli anglo americani o i nazisti tedeschi, oggi l’Unione Europea, i regimi autoritari caratterizzati dal nazionalismo oppure gli Stati Uniti di Trump), in grado di giustificare e appoggiare la repressione di ogni iniziativa di classe.

Nel caos di ordinanze, divieti, concessioni e regolamenti vari è chiara solo una cosa, che d’altronde era chiara anche prima: la priorità resta sempre il profitto e quindi l’unico motivo valido per uscire di casa è lavorare. Come se il Covid, al tavolo tra governo e parti sociali, avesse dichiarato di astenersi dal contagiare i lavoratori durante l’orario di attività1.

Per il resto, il distanziamento sociale permane pressoché invariato per tempi medio-lunghi. Oltre alle scontate ripercussioni sulla vita sociale e relazionale di tutta la popolazione e dei suoi “congiunti”, questa situazione apre scenari di profonda trasformazione delle nostre città e delle forme di vita e accumulazione che le attraversano.

Emerge adesso, come una delle contraddizioni centrali, la questione dello spazio pubblico e della sua agibilità: l’attraversamento delle città e l’accesso alle sue infrastrutture viene ora ridotto all’osso, come fossero un corridoio di connessione tra la casa e i luoghi di lavoro e approvvigionamento. Uno spazio svuotato quindi di ogni connotazione sociale e che, pertanto, mette in crisi tutte quelle articolazioni del mercato che ne permeano lo svolgimento quotidiano.
Per essere più chiari: quanti esercizi commerciali tra bar, ristoranti, pub, botteghe e piccoli negozi che vivono proprio di quel flusso, e che costituiscono una fetta enorme dell’occupazione italiana, possono vivere o anche solo sopravvivere di asporto e giravolte tra un’ordinanza e l’altra (con le loro immancabili multe, ammende e chiusure)? Quante di loro, già nell’immediato, dovranno liberarsi dei loro dipendenti per ridurre i costi di gestione?

Ecco servito un primo terremoto sociale: presumibilmente una fetta molto importante della sempreverde classe media italiana è ora sull’orlo di un precipizio chiamato proletarizzazione. Negozi chiusi con gestori e dipendenti costretti a trovarsi un nuovo sgobbo in un mercato del lavoro asfittico e reso ancora più stretto da una compressione dei consumi provocata dall’abbassamento dell’occupazione e delle retribuzioni. O, ancora, negozi indipendenti che per sopravvivere entrano nella filiera di quelle catene di franchising che possono ora fare la parte degli squali in un mare di pesciolini smarriti. In un caso o nell’altro, a lavoro perso o lavoro sotto nuovo padrone, un grosso pezzo di Italia domani si riscoprirà proletaria, forza lavoro che vende tempo e fatica al migliore offerente. Le serrande chiuse non si conteranno, quelle che porteranno nuove insegne, identiche tra loro, saranno sempre più comuni.

Probabilmente è finito il sogno dell’autoimprenditorialità per quella massa di persone che avevano deciso di vivere dei frutti del piccolo commercio. Rimane, ben più misera, la realtà dell’autosfruttamento implicito nello strato basso del popolo delle partite Iva, come manodopera senza sindacato e senza tutela pronta per un mercato del lavoro più feroce di prima.
Tra loro si troveranno anche le migliaia di nuove leve di corrieri, riders, facchini e fattorini, nuovi operai massa delle piattaforme di e-commerce e delivery, che correranno per le strade delle città a rifornire i consumatori di quei beni che non saranno più sugli scaffali del negozio, ma a portata di click e stretti nei loro imballaggi. Una figura finora relegata al rango di “lavoretto” da studente, che diventa ora una prospettiva di occupazione stabile.
Di una stabilità fatta di cottimo, rischi non assicurati, corsa alle briciole e arroganza padronale, di invisibilità nei tavoli di trattativa dei sindacati, una forma di sfruttamento d’avanguardia che si riverserà presto nello spazio di quei “garantiti” che credono ancora in una qualche forma di equità e tutela sociale.

Come il lavoro, lo spazio pubblico delle città è privato ulteriormente della sua linfa vitale e reso ancor di più terreno di caccia per i grandi capitali. Nulla di sconvolgente in realtà. La crisi non inventa quasi nulla, i processi erano in nuce o già in moto, più semplicemente si è schiacciato forte sul pedale dell’acceleratore.
Stanno prendendo forma nuove fratture, nuove condizioni di vita, nuove forme di sfruttamento e nuovi soggetti prodotti dal movimento del capitale che si rinnova e prende le forme del suo attuale contenitore pandemico.
Nuove forme di lotta e nuovi nemici ci sentiamo di aggiungere.

Ci si pongono davanti lavoratori insindacalizzabili che hanno come controparte diretta piattaforme informatiche che se ne fottono di qualsiasi mediazione, lavoratori che dagli uffici sono stati relegati in casa, atomizzati e ultraprecarizzati e con il costo di manutenzione del proprio lavoro sulle spalle, una classe media sventrata e al collasso, un corpo sanitario che dopo essere stato incensato vedrà una scure di tagli alla spesa abbattersi sulle loro condizioni lavorative, una torma difficilmente quantificabile di disoccupati e sottoccupati con un accesso scarso o nullo alle risorse e al lavoro.
Quali forme di lotta e parole d’ordine emergeranno in seno a questi soggetti è ancora tutto da scoprire, quel che è certo è che si rende necessaria una nuova composizione di classe in grado di muovere un conflitto a 360 gradi a quest’ennesima ristrutturazione emergenziale del capitale e che un terreno di lotta comune si darà già nell’attraversamento dello spazio pubblico e dell’accesso alle risorse che esso conserva. L’eterno conflitto tra capitale e lavoro che i padroni hanno buttato fuori dalla porta, bisogna ricacciarglielo dentro dalla finestra.

È necessario cioè dare battaglia nei nodi dell’accumulazione frammentati nelle città e nei loro bordi: nei luoghi di lavoro dove ancora si concentrano i corpi e le merci, fabbriche uffici o magazzini che siano, è da trovare il primo terreno di lotta e organizzazione; fuori, agli angoli delle strade dove sostano i rider o nelle case dove si lavora al pc, è necessario riorganizzarsi e trovare altrettante forme di blocco del flusso di merce.
Ma soprattutto, un piano di ricomposizione che si dà oggi per queste figure e che incide proprio sull’accumulo di capitale, è quello del reddito indiretto, della distribuzione della ricchezza; nessuna campagna su fantasmatici redditi universali, ma battaglia per l’appropriazione dei beni: dal cibo alla casa, dai vestiti alla salute, dal consumo di socialità all’istruzione, se tutto è stato messo a valore e ci viene imposto di pagarlo, tocca riprenderlo con la forza. Questa decennale opera di messa a valore della vita ha trasformato la città in merce, allora è venuto il momento di espropriarla. Questo significa riprendersi lo spazio pubblico: agirlo per impossessarsi della ricchezza prodotta, torcerlo da luogo di mercato a base d’organizzazione politica. Costruire sulle necessità di vita la linea di rottura.

L’autorganizzazione per fare fronte ai bisogni reali deve quindi uscire definitivamente, una volta per tutte, dall’alveo della solidarietà umana e iniziare a darsi una sua forma politica e antagonista, e per farlo non può prescindere dalla verità del vecchio slogan “riprendersi la merce”: solo mettendoci in condizione di prendere i beni lì dove sono, di imporre le priorità della vita su quelle del profitto, possiamo costruire una forza reale che non è solo mutualità, ma guerra di classe e crescita delle opportunità, nonché una prospettiva e un’attitudine adatta a tutti quei soggetti che fino a ieri la spesa potevano farla e che oggi non si vogliono certo rassegnare al pacco alimentare.
E se le manifestazioni e gli assembramenti sono vietati per limitare il contagio, se gli scioperi ledono l’irrinunciabile interesse nazionale, praticare rotture del dispositivo e recuperare una tendenza all’azione autonoma e anche illegale diventa più un’ovvia necessità che una enunciazione. E qui la radicalità trova il suo terreno di coltura e la creatività popolare il suo campo di sperimentazione.
È necessario allora sgomberare il campo dalle ambiguità in via preliminare e sganciarsi fin d’ora dalla retorica dell’unità nazionale che tutela solo i grandi affari: non possiamo negare la realtà della pandemia in virtù dei diritti individuali, ma di certo dobbiamo rompere con l’immobilità imposta da divieti la cui indecifrabilità fa il paio con l’abuso di potere.

L’aumento vertiginoso dei casi di arbitrio poliziesco e di violenze gratuite delle forze dell’ordine sarà certo figlio diretto di un caos giuridico, ma configura la nuova forma di rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. In barba tanto ai garantisti democratici quanto ai fan della divisa, quello che la popolazione civile sperimenta oggi, è il volto della democrazia riservato finora agli antagonisti, agli ultras, ai migranti e ai marginali. Il nemico interno non è più un’esigua minoranza. Il nemico si annida in chiunque si muova in strada (o anche tra le mura domestiche, perché no?), in chiunque incappi negli spazi in cui l’arbitrio dello Stato può agire il suo pugno di ferro. Questa è la nuova configurazione dell’ordine pubblico democratico. È anche qui che la radicalità deve e può crescere. Poche lagne, non si pianga sulle botte della polizia, si riconosca una volta per tutte allo Stato il diritto a esercitare la violenza (che poi, tanto, non chiede mica il vostro permesso) per riconoscere finalmente il nostro diritto all’autodifesa e all’autonomia d’azione.

È finalmente arrivato il momento di finirla con i politicismi, con le figure sociali astratte, con le battaglie di principio; il nemico sta superando l’impasse ed è già passato all’offensiva e sotto attacco ci siamo tutti. Non c’è più spazio per moltitudini cognitarie, fratellanze e favolosità varie; è di fame e freddo, di sangue e merda che si parla adesso. E chi pensa ancora di poter stare a fare le sue disamine di lana caprina, mentre c’è la tempesta fuori dalla sua porta, o è un ottuso o è in malafede, in ogni caso non è qualcuno a cui prestare l’orecchio.

La normalità di ieri è bella che morta e un abisso si apre davanti a noi, è ora che lo si capisca bene, e non si creda nemmeno di essere arrivati alla fine della Storia, alla resa dei conti. Niente è finito e niente finirà mai da solo: una nuova normalità, peggiore di quella di ieri, può mettersi comoda tra i nostri giorni e assuefarci di nuovo al suo triste spettacolo. L’unica possibilità che abbiamo adesso è tuffarci dentro l’abisso e liberare un maelstrom che inghiotta questo presente, con le sue normalità ed emergenze, una volta per tutte.


  1. Come ha affermato Paolo Giordano nell’editoriale del Corriere della sera del 27 aprile, La fase 2 e noi:

    “Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati. Il giorno precedente 32. Ieri, in Piemonte […] i nuovi infetti confermati erano 394. Nella Lombardia limitrofa 920.
    Però apriamo. O meglio, iniziamo ad aprire, perché lo fanno anche gli altri, perché si avvicina l’estate e sotto sotto speriamo che il caldo ci dia una mano; perché ci auguriamo di aver imparato una serie di norme e di mantenerle a lungo, perché il virus forse, chissà, si dice, è diventato meno aggressivo. In realtà, abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo.

     

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Sull’epidemia delle emergenze/ Fase 5: i movimenti sociali al tempo della quarantena https://www.carmillaonline.com/2020/04/01/sullepidemia-delle-emergenze-fase-5-i-movimenti-sociali-al-tempo-della-quarantena/ Wed, 01 Apr 2020 21:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59070 di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

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di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

Abbiamo proceduto ad analizzare, allora, come questa crisi metta in discussione e demolisca molti degli assunti e delle posizioni consolidate fino a ieri; una catastrofe che non ha risparmiato alcuno spazio dell’agire umano e politico: dalle relazioni internazionali, al controllo sociale, alle relazioni, alla geopolitica, alla guerra o all’accumulazione di capitale. Tutto viene tritato a grande velocità e tutto, altrettanto velocemente, si rinnova buttando via ciò che è obsoleto.
Crediamo che i movimenti sociali non siano estranei a questo processo e che, certamente, non possano esserlo (chi ne rimane al di fuori, d’altronde, è più cera da museo che essere vivente). È all’analisi di questo altro elemento che vorremmo concentrarci adesso.

Nell’ultima settimana abbiamo assistito ad un rapidissimo espandersi del contagio a livello europeo e internazionale, con una forte accelerazione di processi geopolitici ed economici che sembravano premere ormai da un po’(qui).
Se per molti governi europei il caso italiano ha fatto in un certo senso scuola, sembra che anche i movimenti abbiano guardato all’Italia per elaborare le proprie risposte.
La reazione maggioritaria delle strutture politiche del Bel paese è stata quella di mettere in moto una grossa serie di piccole o grandi opere di solidarietà dal basso e mutuo appoggio; un’operazione importante di messa a sistema di quelle pratiche mutualistiche, che si erano da anni accumulate come patrimonio dell’autorganizzazione e dei centri sociali, dentro lo scenario di una crisi sanitaria e di un confinamento sociale inediti. A ruota sono seguite operazioni simili negli altri paesi, elemento che diventa allora di non secondaria importanza nel guardare i fenomeni in atto.

Se da un lato possiamo dire che la capacità di risposta autonoma e dal basso ai bisogni sociali sia un tassello essenziale della strategia antagonista per come la conosciamo, dall’altro non possiamo che rilevare come spesso questa risposta assorba la totalità dell’impegno non solo della prassi ma anche dell’orizzonte teorico di queste strutture.
Sembra, quindi, che l’ipotesi del conflitto venga allora definitivamente espulsa dal campo delle possibilità: nella tutela dei soggetti più fragili e nel lavoro di cura, il corpo militante si mette al servizio di una collettività da cui si era ritrovato ormai estraneo, e che attraversa ora andando a riempire i vuoti lasciati dalla macchina statale neoliberista. Ma se diamo per assodato il concetto per cui, al tempo del libero mercato, chi può essere messo a valore allora può beneficiare della macchina capitalistica mentre chi è inutile si arrangi da sé per non crepare; un lavoro di cura della fragilità finisce per essere sussidiario alle articolazioni assistenziali dello Stato e rischia, infine, di fare da agente pacificatore: gli “angeli che portano la spesa” vanno allora a spegnere o lenire quella frustrazione da cui può, in prospettiva, accendersi la miccia della rabbia sociale. Non è un caso che nell’ultimo decreto presidenziale, del 27 marzo, che è andato a rincorrere una tiepidissima ipotesi di insorgenza urbana, si sia fatto esplicitamente appello alla “catena della solidarietà”, o che diversi servizi televisivi abbiano lodato le gesta di questi giovani generosi, tacendo la loro provenienza dai famigerati centri sociali abusivi.

Non solo, nello schiacciarsi su questo volontarismo, si finisce per perdere di vista una tempesta che si avvicina a passi sempre più spediti: quando la quarantena sarà finita, quando si cercherà di tornare alla normalità dopo questa sospensione della vita, le città non saranno più le stesse. La loro fisionomia resterà invariata magari ma la loro sostanza, il tessuto vitale e le loro possibilità saranno ridotte in macerie. È un domani molto vicino quello in cui si inizierà a sanguinare per la disoccupazione, per il carovita, per la crisi degli alloggi, per i nuovi tagli fatali allo stato sociale. Ma a forza di lenire i graffi di oggi, non ci si accorge degli sventramenti che ci attendono; il rischio è quello di seguire una logica dei due tempi per cui oggi si temporeggia, domani si agisce; ma il tempo dell’azione non è rimandabile, i bastimenti vanno approntati quando la tempesta è in avvicinamento, non quando si scatena e sbalza i marinai fuori bordo, ad annegare tra le onde di una conflittualità che non si è saputo leggere.

Si differenzia in tale contesto, però, l’approccio di chi, dichiarandolo, organizza attività di sostegno alla popolazione per contrastare quell’opera della protezione civile e dei militari che portando aiuti si presentano con volto amico alla popolazione, poiché è proprio con queste strutture militari e paramilitari che si giocherà anche lo scontro per l’egemonia politica e sociale. La penetrazione del ‘repressore buono’ nelle menti oltre che nei quartieri proletari va denunciata sin da ora, non quando spareranno sui cortei, caricheranno i picchetti operai e faranno i rastrellamenti per le strade.

Parimenti, vediamo un’altra sensibilità che, anche quando non esclude l’ipotesi mutualistica, è più attenta al fronte che si sta costruendo e ai campi d’azione che già oggi emergono. Una sensibilità che però è spesso immobile ed incapace di agire. Nell’indicare la centralità del reddito per tutti, nel denunciare la colpevole inadeguatezza del sistema sanitario o la criminale carenza di misure di supporto alle fasce basse della popolazione piuttosto che l’infamia delle associazioni padronali, certamente si è colto nel segno dell’indicazione.
Ma un’indicazione senza prassi incisiva è poco più che uno di quei buoni propositi da capodanno la cui immancabile fine è il dimenticatoio di fine gennaio.
E se certo le condizioni ostiche della quarantena non aiutano lo sforzo d’immaginazione militante nel cercare altre pratiche, sempre quell’espulsione del conflitto come possibilità concreta sembra essere alla base di un raggio d’azione limitato alle campagne social, ai meme, al mailbombing, alla sensibilizzazione, o agli ambiziosi quanto velleitari annunci di scioperi degli affitti.

Altre esperienze, possono essere quelle attuate, ad esempio, a Milano, Varese, Genova, Trento e in Valle di Susa che hanno ripreso l’antica pratica dei tazebao e degli striscioni, con parole chiare su chi siano i responsabili di questa strage in corso, con testi semplici, comprensibili, richiedendo diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, denunciando la militarizzazione del territorio, lo smantellamento della sanità, evidenziando in modo esplicito la farsa di un governo che punisce le passeggiate e tiene aperte le fabbriche, che dona elemosine illuso di prevenire possibili sommosse, saccheggi e rivolte.
Semplici tazebao che invitano chi li condivide a riprodurli, diffondendoli così sulle mura dei quartieri e nei piccoli paesi di montagna … un modo per rendere tutti protagonisti, senza chiedere adesioni a forze politiche, un modo per prepararsi, per metter fieno in cascina .

Come ancora diversa può essere considerata l’iniziativa nazionale del 1° Aprile: con striscioni e battiture dai balconi e con fuochi nelle valli alpine per sostenere le detenute e i detenuti e chiedere amnistia e indulto per tutte-i. Diverse dal mutualismo caritatevole e importanti perché indicano forme, tutte da inventare nel periodo della quarantena, e che possono coinvolgere tutte/tutti: battiture, tatzebao, canzoni di lotta cantate dai balconi invece degli inni nazional-popolari, parlare con i vicini per costruire rapporti di complicità necessari oggi, fondamentali per il domani. Come avviene a Torino in alcuni quartieri operai.
Queste esperienze, seppur non estese come sarebbe necessario, indicano un modo per lottare anche dentro l’isolamento sociale prodotto dalla quarantena e per non agire solo sul piano virtuale.

Nulla è da escludere in una fase di sconvolgimento come questa, tutto è da rilanciare e nulla da lasciare al caso, ma ancor più centrale è la necessità di guardare all’esperienze in corso, alle tensioni, spesso sotterranee che si muovono sotto il cielo, comprendere come per la guerra che verrà ogni elemento utile vada incastonato nel mosaico di una strategia rivoluzionaria ancora tutta in divenire.

Un dato interessante che ci sembra di cogliere, per quel che riguarda le reti di solidarietà , più all’estero che dalle nostre parti a dire il vero, è come esse siano sorte del tutto o quasi al di fuori degli ambiti di movimento1 e come esse inizino a masticare temi prima appannaggio dell’habitat militante che ora diventano urgenza collettiva, come il reddito o l’affitto, ma restino sostanzialmente impermeabili al linguaggio politichese che tuttora le porta avanti. E se il rent strike2 passa sotto traccia, nondimeno ci si organizza autonomamente per autoriduzioni collettive o, più placidamente, si smette di pagare l’affitto al padrone di casa.
Una serie di smottamenti che interessano soprattutto quelle aree metropolitane, patrie dell’atomizzazione capitalistica, in cui le fragilità si ammassano più numerose e lo Stato lascia scoperti e abbandonati migliaia di individui per limitarsi a gestirne le escandescenze e proseguire il solito scorrimento delle merci. Le metropoli, o meglio i loro margini, iniziano a brontolare e rivendicare sommessamente il proprio spazio sulla scena. Un sussurro, per ora, ma che minaccia di essere presto un grido.

Un’altra indicazione feconda ci viene invece da quei territori, come l’Euskal Erria, dove le organizzazioni antagoniste e una certa cultura politica hanno storia e radici forti, dove quindi la prassi militante sembra riuscire ad intercettare l’autorganizzazione spontanea e diffusa e agire in sintonia con essa. Lì, dove le reti di mutualismo spontanee sono nate in ogni quartiere o cittadina senza reciproco coordinamento, incontrando spesso la capacità tecnica dei gruppi militanti, è emersa un’ipotesi di avanzamento del discorso politico relativo al contropotere territoriale fondata sul concetto di autodifesa e sostanziata tramite un doppio fronte, di lotta e di cura3.

Vi sono, poi, luoghi dove il conflitto è da anni già luogo di ‘conflitto in armi’ , di spazi dove le esperienze rivoluzionarie hanno il controllo di parti del territorio e di fronte a questa epidemia, prodotta dal tessuto sociale, economico e produttivo del capitalismo, hanno dovuto porsi la questione di garantire la difesa delle proprie zone e delle proprie comunità, sapendo assumersi tutte le responsabilità del caso nei confronti della catastrofe generata dal modo di produzione avverso.
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Nel Chiapas, di fronte alla pandemia Covid-19, con le parole del subcomandante insurgente Moisés, l’EZLN ha dato disposizioni perché tutti i municipi autonomi e le organizzazioni amministrative aderenti alla lotta zapatista dichiarino l’allerta rossa, impediscano l’ingresso nei loro territori agli estranei e adottino misure igieniche straordinarie.
Come spiegano gli zapatisti, questa scelta non è dovuta solo alla pericolosità del virus bensì anche all’irresponsabilità dei vari governi del pianeta, tutti intenti a fornire dati e informazioni molto discutibili (se non addirittura falsi) finalizzati al controllo sociale e non alla reale difesa della salute pubblica.
Questa scelta che all’apparenza potrebbe sembrare una sospensione della battaglia in corso deve proseguire anche in questa situazione, trovando i modi necessari pur nelle condizioni attuali che impongono provvedimenti sanitari (qui).

Nella Siria del Nord, invece, mentre la Turchia approfitta del virus per colpire l’Amministrazione autonoma del Rojava continuando gli attacchi militari e togliendo l’acqua ai profughi e ai residenti, il Consiglio Esecutivo del Rojava ha posto in atto (a partire dal 21 marzo) misure di divieto di spostamento senza autorizzazione, la chiusura dei confini, la chiusura di negozi e scuole, il distanziamento e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, e esonera dal lavoro il 40% dei lavoratori dei panifici (attività essenziale in quelle zone per poter sfamare la popolazione) e di altre attività, arrivando anche a dover chiudere le ‘tende del commiato’. Misure drastiche, ma che rappresentano l’interesse collettivo.

Il Rojava ha anche adottato misure di distanziamento, in una situazione di vita comunitaria e quindi molto dificili da realizzare, non imponendolo in modo militarista come nel nostro paese, bensì tramite l’appello dei vari feriti di Kobane e delle grandi battaglie di questi anni e appellandosi all’autodisciplina rivoluzionaria, un tema che andrebbe ripreso con chi in Italia grida allo scandalo di dover stare in casa non per porlo come contraddizione con le fabbriche aperte, non per denunciare le angherie di militari e polizia contro una solitaria corsa o passeggiata, ma finendo, anche non consapevolmente, col contrapporre la libertà individuale all’interesse di classe e collettivo. Così, se nei paesi capitalisti, nel ventre della bestia, bisogna denunciare l’utilizzo del distanziamento a fini repressivi e nella logica dell’emergenza, va al tempo stesso ripreso il concetto di disciplina rivoluzionaria, di rinuncia individuale per gli interessi collettivi della vita e della comunità, utile già oggi ma fondamentale per il domani.

Ma proprio perché si tratta di un’esperienza rivoluzionaria, quella del Rojava, si trova con poche strutture, attrezzature e strumenti sanitari a causa di un duro embargo e del non riconoscimento da parte dell’ONU e, di conseguenza, non riceve aiuti alcuni per la popolazione (come i kit per rilevare il virus, le mascherine e i respiratori), il che dimostra, una volta di più, come solo la solidarietà rivoluzionaria può sostenere queste esperienze.
Altro che versare i fondi per la protezione civile, le ASL, la Caritas ecc.… Oggi è necessario praticare l’internazionalismo e quindi di sostenere con casse di resistenza le varie esperienze rivoluzionarie e di mutuo soccorso, soprattutto da costruire nelle fabbriche e sui territori, poiché in questo modo si costruiscono rapporti concreti per un’alleanza comune contro il capitalismo.
In questo senso l’esperienza in Francia della ZAD dI Notre-Dame-des-Landes che ha portato le proprie autoproduzioni alimentari alle varie lotte presenti in Francia, vale di più di mille dichiarazioni di principio sui sacri testi.

In altri termini, dove la gestione autoritaria ed emergenziale dello Stato semina dispositivi di contenimento che facilmente saranno convertiti in strumenti repressivi all’occorrenza, molto raramente corrisponde un contrappeso che va incontro ai bisogni generati dall’epidemia. È lì che si generano le fratture ed è lì che si inserisce il militante per convertire una ferita in una carica sovversiva.
D’altronde la natura di classe di questo sistema viene a galla in ogni piega di questa emergenza e disvela tutto l’orrore e l’insostenibilità a cui il quotidiano ci aveva abituati. Il sostegno alle grandi aziende e le briciole alle famiglie, la cassa integrazione pagata dallo Stato e le ferie forzate dei lavoratori, le fabbriche che restano aperte e gli operai costretti ad ammalarsi dentro i reparti, i medici che crepano di malattia e superlavoro negli ospedali pubblici mentre le cliniche private intascano soldi. Nessuna di queste cose passa inosservata agli occhi di chi vive dal basso questa società e per i più ottusi, che ancora nutrono buonafede verso questo sistema, ci pensano i portavoce del governo a togliere ogni dubbio, con la loro retorica di guerra che sempre più prende i contorni di minacce velate a chi avesse in mente di alzare la voce e pestare i piedi, o con il loro darwinismo sociale che innerva tanto i discorsi quanto le misure. Non sono vite quelle che si vogliono tutelare ma forza lavoro, carne da cui estrarre valore. L’alternativa resta sempre una: la nostra vita o il loro profitto.

È solo a partire da questo assunto, ormai visibile a chiunque, che è possibile cogliere il senso pieno della sfida attuale, su cui possiamo seminare il germe di una incompatibilità sistemica in grado di seminare gli scontri di classe che verranno.
È su questo assunto che l’indicazione dei padroni e degli imprenditori come vampiri e assassini è diventata chiara e assumibile da chiunque, creando una linea di spartizione tra chi ci è amico e chi no nell’ora del bisogno, intrecciandosi alla voce di quegli operai che spontaneamente hanno incrociato le braccia per dire che non erano disposti a morire per un salario di merda.

Ed è sempre qui che la problematica del reddito, che coglie l’antica quanto principale contraddizione del capitalismo, non è più soltanto una velleità, ma l’esigenza di milioni di persone cui il blocco dell’economia pone il serio problema di cosa mettere in tavola la sera. Un problema che non può più essere una richiesta velleitaria o riformista. Ma deve diventare uno dei cardini di un agire antagonista: se lo Stato non è in grado di provvedere ai nostri bisogni e questo mercato ci esclude da un reddito allora ci si deve organizzare da soli per ottenerlo. Dalle assemblee sui luoghi di lavoro, già fin da ora e dopo la riapertura delle aziende, al picchetto e il blocco della fabbrica che non è stata chiusa da un’ordinanza; dalle assemblee e i convegni territoriali da convocare subito, a partire dalle aree più colpite, dopo il parziale ritorno alla normalità all’autoriduzione dell’affitto e delle bollette nella loro insostenibilità, la richiesta oppure l’imposizione autonoma di un calmiere dei prezzi contro il carovita e lo sciacallaggio in atto fin dall’inizio della pandemia.

Ognuno di questi atti, organizzati o meno, politicizzati o meno, andrà nella direzione di riprendersi pezzi di reddito e di vivibilità in seno a questa catastrofe; il compito del rivoluzionario non è fare una campagna su una o l’altra di queste cose, ma fondere spontaneità e organizzazione, pratica e discorso. È la nostra stessa possibilità di vita che difendiamo e nulla ci legittima più di questo nel forare ogni dispositivo. La questione del mutualismo e della presa in cura della comunità, d’altronde, non può essere slegata da un discorso simile e non può che essere strumento di radicamento e costruzione di contropotere autonomo nei quartieri e sui territori, realizzando articolazioni sociali di un discorso politico più complessivo e di rottura.

Quella della cura collettiva è una pratica che non può essere mossa dalla generica solidarietà (cosa buona e giusta, la solidarietà, ma non è mai stata motore di processi rivoluzionari), ma dall’obbiettivo di costruire un rinnovato rapporto di forza, in vista degli sconvolgimenti che verranno, all’interno di un territorio. Quest’ultimo, nella sospensione della normalità, assume un rinnovato valore strategico ed è all’interno di questa situazione imprevista che, specialmente nell’atomizzato ambito metropolitano, possiamo legare i fili delle nostre possibilità. Chi oggi distribuisce la spesa alimentare dovrebbe porsi in prospettiva il problema di bloccare il flusso delle merci, di redistribuire il reddito indiretto, di scioperare, di indicare il nemico e di legarsi all’amico prima estraneo, tutto nel tentativo di costruzione di una forza in grado di smantellare ogni pezzo dell’attuale sistema di dominio.

Nulla oggi può essere lasciato intentato, nulla deve essere abbandonato al caso. Si buttino a mare gli ideologismi inutili e le formule stantie, è di prassi forte e teoria laica che abbiamo bisogno. Dobbiamo necessariamente cogliere, per dirla con Fanon, l’importante nel contingente.
Si prepara oggi uno scenario che forse mai più ci sarà dato di rivivere: in queste intemperie si colga l’occasione di liberare la prassi politica e la società dalle ragnatele del passato o ci si lasci morire.


  1. Un esempio è il caso della società inglese che, da iperatomizzata, scopre la comunità come ambito di forza http://commonware.org/index.php/neetwork/929-pinte-e-pandemia 

  2. https://www.thestranger.com/slog/2020/03/27/43264462/so-you-want-a-rent-strike  

  3. https://eh.lahaine.org/auzo-elkartasun-sareak-larrialdi-egoeraren  

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Un’umanità che resiste https://www.carmillaonline.com/2019/01/11/unumanita-che-resiste/ Thu, 10 Jan 2019 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50524 di Paolo Lago

Ai margini di una grande città, un porto della Francia del Nord, c’è un’umanità che resiste. Siamo in un quartiere povero e i rapporti umani fra le persone sono ancora veri, reali, genuini. I protagonisti di questa vicenda sono Marcel Marx, un ex scrittore bohémien che fa il lustrascarpe alla stazione, sua moglie Arletty, la fornaia, la fruttivendola, la barista. Essi trascorrono una vita semplice, povera, perduta nel ripetersi sempre uguale dei giorni fra difficoltà quotidiane. Ma questa ripetitività è toccata da una forma di magia che avvolge di grazia [...]]]> di Paolo Lago

Ai margini di una grande città, un porto della Francia del Nord, c’è un’umanità che resiste. Siamo in un quartiere povero e i rapporti umani fra le persone sono ancora veri, reali, genuini. I protagonisti di questa vicenda sono Marcel Marx, un ex scrittore bohémien che fa il lustrascarpe alla stazione, sua moglie Arletty, la fornaia, la fruttivendola, la barista. Essi trascorrono una vita semplice, povera, perduta nel ripetersi sempre uguale dei giorni fra difficoltà quotidiane. Ma questa ripetitività è toccata da una forma di magia che avvolge di grazia irreale i duri problemi della vita di tutti i giorni. Un delicato affresco di questa umanità varia e resistente è tratteggiato, con tenui pennellate poetiche, in Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film di qualche anno fa ma che risulta essere oggi molto attuale perché affronta in modo netto e rigoroso la problematica delle migrazioni. Il personaggio principale della storia, Marcel Marx (il cui nome, probabilmente, non è stato scelto a caso dal regista) si imbatte casualmente in Idrissa, un bambino africano ricercato perché si tratta di un immigrato illegale, sfuggito a una retata della polizia. Senza pensarci due volte, il lustrascarpe nasconde il bambino a casa sua e si dà da fare, spendendo anche i suoi ultimi risparmi, per aiutarlo. Idrissa, infatti, si era imbarcato illegalmente ed era stato nascosto dentro un container insieme ad altri migranti (famiglie e donne incinte) perché voleva raggiungere la madre a Londra. Scoperto nel porto di Le Havre, riesce a sfuggire alla polizia e a nascondersi. Insomma, nella Le Havre del film c’è una città ‘normale’, un reticolo geometrico di strade eleganti e palazzi, contornati dal lusso e dalla tecnologia e c’è una città ‘magica’, irreale, quasi un pazzo fumetto scaturito dalla fantasia di un sognante disegnatore. A completare il quadro di questo universo magico c’è il commissario Monet (anch’egli con un nome quasi ‘parlante’) che potrebbe in apparenza sembrare un rigido funzionario di polizia, grave e serioso, ma in realtà la pensa esattamente come Marcel e come gli abitanti del quartiere. Sarà lui, infatti, a permettere, alla fine, la fuga di Idrissa, mentendo ai suoi colleghi poliziotti. Nel mondo poetico tratteggiato dal film, Monet è un altro elemento resistente, il sabotatore delle griglie del controllo inserito all’interno dell’apparato di potere.

Idrissa è subito accolto e aiutato dai vari personaggi del quartiere che creano intorno a lui una vera e propria rete di solidarietà attiva. Mentre Marcel è impegnato a aiutare il bambino, sua moglie Arletty si ammala di una malattia incurabile e viene ricoverata in ospedale. Marcel Marx, allora, sarà occupato, un po’ come il suo omonimo più famoso, da una parte nel cercare di far valere i diritti degli ultimi, i migranti, nella sua volontà di aiutare il bambino, dall’altra, invece, nelle strazianti manifestazioni d’amore per la propria compagna, ammalata e prossima alla morte. Grazie ai contatti messi in moto da Marcel e al denaro da lui speso, Idrissa riesce a comunicare con suo zio e, alla fine, a imbarcarsi per raggiungere la madre. Dopo che il sistema di solidarietà attiva ha funzionato nel migliore dei modi, il commissario Monet scopre il bambino sul peschereccio e, contro ogni aspettativa degli spettatori, comunica agli altri poliziotti di aver già effettuato la perquisizione e di non aver trovato nessuno. Così Idrissa potrà partire e Monet e Marcel se ne andranno insieme al bar, a bere come vecchi amici. Sembra un miracolo, non c’è che dire, ma non è tutto. Arletty, dopo una nuova visita da parte dei medici, è inspiegabilmente guarita e viene riportata a casa da Marcel e, in conclusione del film, come un miracolo nel miracolo nel miracolo, il ciliegio del giardino fiorisce.

Probabilmente non c’è niente di miracoloso: l’unico miracolo è la volontà umana, l’aver messo in atto un sistema di solidarietà resistente contro le dinamiche del potere e delle leggi disumane. Non c’è niente di miracoloso nel quartiere di Le Havre dove vivono i personaggi, non c’è niente di miracoloso nell’aiuto reciproco e, infine, non c’è niente di miracoloso nei ‘sabotaggi’ di Monet. Tutto avviene come una normalità, come se fosse semplicemente giusto così. Perché, a pensarci bene, tutto ciò che è deciso dal potere, oggi, in Europa e in Italia, in fatto di migrazione, va contro i più elementari e ovvi diritti umani. Basti solo pensare alle navi umanitarie, cariche di esseri umani bisognosi di cure mediche, abbandonate in balia delle onde, che vengono rifiutate dai porti europei come le rinascimentali “navi dei folli”, barconi carichi di malati mentali abbandonati al mare e ai fiumi da una società che temeva la follia e la voleva segregare. Ciò che viene negato, come in una grande dittatura globale, è il diritto alla migrazione dei popoli, migrazione che c’è sempre stata e che fa biologicamente parte della specie umana e, oggi più che mai, dell’assetto geo-politico mondiale. Come afferma Emmanuel Mbolela, autore del libro Rifugiato. Un’Odissea africana, tradotto recentemente da Agenzia X, in un’intervista a Marc Tibaldi pubblicata su Carmilla, viene privato il diritto alla libertà di migrare, di spostarsi, di creare nuovi flussi e congiunture umanitarie.

Nel film di Kaurismäki, l’accendersi di questo spirito di solidarietà crea un mondo ‘magico’ e sublimato, in cui i personaggi si muovono, appunto, come nel “realismo magico” di Carné e Prevert. Quello attraversato da Marcel e dagli altri personaggi è un mondo parallelo a quello irreggimentato del centro cittadino moderno e tecnologico, un universo dove ci si sposta su vecchie, incantate automobili e corriere, e dove nei bar si può ancora ritrovare amicizia e sincerità. Si tratta di un mondo, del resto, che si ritrova anche in altri film del regista finlandese: si può ricordare Ho affittato un killer (I hired a Contract Killer, 1990) o Leningrad Cowboys Go America (1989) in cui, contro l’ostilità del mondo esterno, cruda e razionale, si crea una irrazionale, inspiegabile e magica solidarietà fra diverse solitudini, abbandonate a se stesse.

Si tratta di un universo simbolico riproducibile e ricreabile anche ai giorni nostri, con i più svariati mezzi, contro la meccanica della sorveglianza e della cattura, contro la disumanizzazione in favore di una legalità fascistoide sbandierata da vuoti simulacri di potere. E, questo potere, nel film sembra simbolicamente rappresentato dal poliziotto che, in nome delle leggi anti-immigrazione, vorrebbe sparare a Idrissa mentre fugge dal container, prontamente bloccato da Monet (“ma sei pazzo? È solo un bambino…”). Sembra che gli apparati di potere, oggi, come quel poliziotto, abbiano dimenticato l’umanità in nome di una meccanizzazione e disumanizzazione derivata dalla legge e dall’ordine, nonché dalla paura (il bambino fuggitivo, infatti, nei giornali dell’altra Le Havre, quella irreggimentata nell’ordine, viene descritto come un pericoloso terrorista armato): sparare a un bambino migrante che vuole raggiungere la madre, chiudere i porti e rifiutare tanti esseri umani in pericolo di vita, abbandonandoli al mare e alle burrasche. Ma forse, anche oggi, l’insegnamento del resistente lustrascarpe Marcel Marx può avere un valore enorme. Perciò, umanità resistenti di tutto il mondo, unitevi.

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Il femminismo delle Zingare e la costruzione di coalizioni https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/il-femminismo-delle-zingare-e-la-costruzione-di-coalizioni/ Fri, 14 Dec 2018 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49834 di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro [...]]]> di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro tra biografie, lotte, percorsi di liberazione» Federica Giardini

«Corradi denuncia la retorica razzista dell’anti-zingarismo (rom-fobia), mettendo in luce la potenzialità radicale della coalizione e della solidarietà tra attiviste/i di genere rom da diverse collocazioni geopolitiche oltre i confini dello stato-nazione. Un contributo originale agli studi critici della razza e della colonialità in Europa» Chandra Talpade Mohanty

In che modo si sviluppa una coscienza di genere in un contesto in cui il ruolo della donna ha un’importanza fondamentale per la sopravvivenza della comunità stessa? Quali tratti distintivi ha il femminismo delle zingare rispetto a quello di altri gruppi sociali? In quali paesi il fenomeno appare più presente? Queste sono alcune delle questioni di cui tratta il libro di Laura Corradi pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti – Gypsy Feminism. Intersectional Politics, Alliances, Gender and Queer Activism (Routledge, 2018) – e in uscita proprio in questi giorni in edizione italiana nella collana “Relazioni pericolose” di Mimesis edizioni.

La comunità zingara è «la più demonizzata d’Europa, soggetta a costanti e ripetute stereotipizzazioni, oggi nuovamente assurta a capro espiatorio, in particolare a causa delle politiche neoliberali e della crisi economica» (p. 119); non a coso l’anti-zingarismo risulta oggi «l’unica forma di razzismo socialmente accettata in Europa» (p. 120). È a partire da tale contesto che, prendendo in considerazione il punto di vista e le sfide delle attiviste zingare, Corradi affronta un fenomeno sociale scarsamente conosciuto in Europa come il femminismo delle donne rom, gitane e traveller, focalizzandosi sulle soggettività che producono saperi e lotte contro il sessismo, il classismo, la rom-fobia, le espressioni di anti-zingarismo tutt’oggi radicate nel tessuto sociale.

L’apertura del volume è dedicata ad alcune riflessioni terminologiche non di poco conto visto che definizioni e categorie non sono mai neutre e da questo punto di vista la parola “Zingara/o” non fa certo eccezione. Introdotto nel XV secolo il termine viene utilizzato ancora oggi per designare genericamente chi ha vita nomade e nell’immaginario collettivo si è sedimentata l’idea che vuole le Zingare come rapitrici di bambine/i e ladre, propense a prostituirsi e madri del tutto inaffidabili e gli uomini come individui violenti e stupratori. Il termine, pur essendo spesso utilizzato come insulto – «sinonimo di vagabondo, pigro, sporco, incapace di lavorare, inaffidabile, falso e astuto. Essere Zingari nelle società occidentali rappresenta un’alterità radicale» (p. 19) – può dirsi oggi un termine conteso: si può criticarne il ricorso in quanto su di esso si è sedimentato un senso spregiativo, ma si può anche decidere di ricorrervi nonostante il retaggio negativo. «La parola è stata rivendicata da ricercatrici/ori e attiviste/i di diversi gruppi etnici e non etnici allo scopo di rendere possibile la comprensione e la valorizzazione delle differenze interne – nella consapevolezza di essere accomunati dallo stesso tipo di oppressione. Infatti, tutti i popoli Rom, Sinti, Manouche, Kalé, Yanish, Gitani, Camminanti, Gens du Voyage e Traveller sono stati chiamati Zingari e hanno affrontato l’anti-zingarismo e le persecuzioni» (p. 20). Oltre che per tali ragioni Corradi sceglie di ricorrere alla parola “Zingara/o” anche per un motivo di natura politica: «questa parola indica un crocevia di lotte collettive in parte condivise, un luogo comune a partire dal quale costruire alleanze» (p. 20).

La studiosa-attivista segnala come a livello istituzionale in Europa esistano due diverse tendenze: se da una parte il Consiglio d’Europa mantiene una distinzione tra termini diversi, paesi come la Francia e l’Italia tendono invece a raggruppare le diverse definizioni. Entrambe le opzioni mostrano elementi di contraddittorietà: il mantenimento delle distinzioni, apparentemente più corretto, potrebbe però rafforzare le divisioni, mentre il raggruppamento delle differenze in un unico termine potrebbe dar luogo a un rafforzamento del senso di appartenenza a una sfera comune facilitando coesione e alleanze.

Nel volume viene evidenziato come durante il processo di allargamento europeo si sia attuata un’importante e netta cesura: «il discorso politico sulle comunità zingare occidentali è diventato marginale, mentre le nuove narrazioni sulla situazione delle/dei Rom nei paesi dell’Est hanno catalizzato l’attenzione. La designazione “Zingara/o” è stata usata “come ponte” tra le due comunità fino a quando non è stata tracciata una linea politica di divisione, che nel discorso e nella pratica istituzionale ha separato […] le comunità zingare e nomadi occidentali dalle comunità rom orientali» (p. 22.) Si tratta di una scelta volta ad attuare una frammentazione funzionale al dominio. «Zingari e Nomadi venivano lasciati da parte come “gruppi non etnici”, mentre le popolazioni Rom venivano categorizzate come minoranza da rispettare e proteggere» (p. 22). Lo stesso ricorso all’etichetta «di un gruppo sociale come “minoranza”», ricorda Corradi, «non è al di sopra di ogni sospetto. Il termine richiama l’idea di minore, minuscolo, insignificante, trascurabile o inferiore; esso appartiene alla cornice cognitiva dominante che svaluta gli oggetti della pratica definitoria. Il fatto che ci si riferisca a ogni gruppo di persone di colore come a “minoranze” occulta il fatto che nel mondo le persone bianche sono una minoranza rispetto alle persone di colore». (p. 22). «La Dichiarazione di Strasburgo del 2010 ha optato per identificazioni su base etnica come Rom o Sinti e la maggior parte degli Stati membri ha adottato la stessa politica. In Italia, l’Ufficio nazionale contro il razzismo vieta l’uso del termine “Zingare/i”, ignorando le comunità e i gruppi di ricerca che tentano di praticare una riappropriazione semantica della parola […] D’altro canto, assistiamo a una riedizione dell’impiego negativo della parola “Zingara/o” come epiteto offensivo da parte di gruppi politici di destra e razzisti» (pp. 22-23).

Parte della debolezza del termine “Zingara/o”, sostiene la studiosa-attivista, deriva dal fatto che esso è il risultato di un processo di alterizzazione ovvero della definizione di un gruppo da parte del gruppo dominante in cui spesso si ricorre a termini inferiorizzanti, in questo caso la definizione deriva dalla volontà delle popolazioni sedentarie di indicare come estranee quelle nomadi. Consapevole delle ambiguità dei termini e del loro «essere oggetti contesi in termini di significato, e della loro funzione politica in quanto significanti» (p. 24), scrive Corradi, è pur vero che se da un lato «la definizione di chi sia “Altro” è una prerogativa di chi ha potere, la ri-definizione diventa una attività autopotenziante per le categorie oppresse. La decisione di intitolare questo libro Il femminismo delle Zingare può essere letta come espressione di fiducia verso il potenziale sovversivo di ri-significazione delle parole inteso come atto politico in divenire. La produzione di contro-definizioni può avvenire attraverso un’inversione semiotica dei significanti dispotici, come è avvenuto in passato nel caso di parole come Freak, Fag, Dyke e, la più nota di tutte, Queer» (p. 25).
A proposito di linguaggio, il ricorso della comunità zingara a termini come Gagé per indicare le persone che non ne fanno parte può essere letta come una forma di autodifesa contro chi ha «il potere di definire ed esercitare la supremazia», si tratta di una «una pratica importante in termini di costruzione di contropoteri semiotici all’interno della comunità e nei rapporti con le molteplici agentività politiche esterne, aventi diversi gradi di prossimità» (p. 26).

Dopo le precisazioni di carattere terminologico, il libro prosegue con una ricostruzione storica e sociale utile a comprendere tanto la situazione che oggi vede le Zingare in Europa strette tra razzismo, sessismo e povertà, quanto «alcune battaglie di genere e le sfumature di un patriarcato profondamente radicato, che ha resistito al cambiamento sociale, sopravvivendo come forma anche opposizionale alle diverse persecuzioni sofferte dalle comunità nel corso della storia» (p. 29). Inaugurata nel Medioevo, la mostrificazione dell’alterità ha probabilmente raggiunto il culmine durante l’Inquisizione e, sostiene Corradi, buona parte dell’armamentario di stereotipi contemporaneo sembra riprendere quanto si è sedimentato in quell’epoca.

È forse utile riportare qualche dato. «In Europa, la comunità rom costituisce ufficialmente la più grande “minoranza” etnica: si stimano circa 12 milioni di Rom con lingue e tradizioni simili. La comunità rom, specie nell’Est europeo, è una parte sostanziosa della popolazione comunemente definita “zingara”. Le persone zingare, probabilmente sottostimate, sono quasi 20 milioni sparse in 66 paesi del mondo. Più di 10 milioni vivono in Europa, escludendo le comunità zingare della Russia (circa un milione di persone) e quelle della Turchia, che potrebbero ammontare a 5 milioni […]. In Europa, le comunità zingare, gitane, Gents du Voyage e Camminanti vivono nei paesi dell’area mediterranea: Spagna, Grecia, Francia, Italia. Mentre le/i Traveller risiedono nel Regno Unito e in Irlanda. I paesi orientali, Ungheria e Albania, e gli stati balcanici della Romania e della Bulgaria ospitano invece la maggioranza delle/i Rom» (p. 30).

«La prima legge contro la comunità zingara fu emanata in Moravia nel marzo del 1538. Nello stesso secolo, la corona inglese emanava una serie di leggi antiegiziane per espellere o uccidere gli “Egyptian”, da cui Gypsy. Per molti secoli la comunità zingara è stata perseguitata, spesso a causa di sentenze dei tribunali cattolici dell’Inquisizione, specialmente in Italia e in Spagna. Intere comunità zingare rom furono costrette alla schiavitù nei Balcani, e oltreoceano ridotte in catene insieme alle popolazioni africane e ai nativi-americani – messi ai lavori forzati nelle colonie inglesi. L’apice della persecuzione si raggiunse nel XX secolo con il Barò Porrajmos (letteralmente “Grande divoramento”) nazista, risultato della combinazione tra spinte etnocide e propositi genocidi» (p. 34).

Durante la Seconda guerra mondiale circa mezzo milione di Rom, Sinti e altri gruppi zingari sono stati sterminati nei campi di concentramento nazisti e altrettanti morirono a causa delle persecuzioni. Si stima che in Europa circa tre quarti del popolo rom sia stato sterminato in epoca nazi-fascista. Se nella Spagna franchista la lingua romanés finì addirittura per essere vietata, sono parecchie le parti d’Europa in cui le persone zingare sono state discriminate e si deve attendere il 27 gennaio 2005, data dell’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite volta a commemorare tutte le vittime dell’Olocausto, che si ha a livello istituzionale il riconoscimento della persecuzione subita dalle comunità zingare. «In questa data, le persone rom uccise durante il Porrajmos sono ricordate e onorate da tutte le comunità. Nei contesti dell’attivismo si celebra anche l’anniversario della insurrezione zingara di Auschwitz-Birkenau del 16 maggio» (p. 35). Se in Europa il Porrajmos è poco riconosciuto, e ancora meno si è al corrente degli episodi della Resistenza zingara, ciò è in buona parte dovuto alla sistematica cancellazione della memoria funzionale alle «tendenze politiche etnocide e svolgono un ruolo importante nel rendere invisibili la storia e l’agire politico delle comunità zingare» (p. 36).

I rapporti di Amnesty International evidenziano le violazioni dei diritti umani subite dalle donne rom a causa di discriminazioni di etnia e genere e alcune ricerche europee indicano come il numero di persone che manifestano pregiudizi verso altri gruppi etnici sia il doppio rispetto a quanti hanno pregiudizi verso le/gli omosessuali. «Il fenomeno dell’anti-zingarismo ha ricevuto l’attenzione dei media solo in seguito agli incendi dei campi, dopo attacchi neofascisti e xenofobi in alcune circostanze istigati da politici. Talvolta gli assalti coinvolgono coloro che abitano nelle vicinanze dei campi, spesso persone di classe bassa afflitte dalle condizioni degradate del quartiere, dall’abbandono delle istituzioni, dalle condizioni di pericolo per la salute pubblica» (p. 39). Non è infrequente che dopo qualche atto criminale raggruppamenti fascisti e razzisti si adoperino per istigare le frange urbane più vulnerabili a individuare nelle comunità zingare un capro espiatorio.

«A livello sociale, Zingari, Rom e Traveller sono spesso rappresentati in modo idealizzato, le comunità sono viste come luoghi in cui il tempo e lo spazio non sono merci e possono fungere da struttura per il legame collettivo. Le persone gagé possono leggere le relazioni interpersonali zingare come “non capitalistiche” a causa della grande importanza data all’amicizia, alla convivialità, alla reciprocità, al sostegno e ad altri valori non materiali. Eppure, queste culture sono rappresentate dai media mainstream come brutali e materialiste, caratterizzate dall’avidità per l’oro e da un’eccessiva preoccupazione per il denaro. In questo caso, le persone gagé sottovalutano l’insicurezza economica in cui di solito vivono le persone zingare, che solitamente non possiedono beni immobiliari o altre garanzie. L’insicurezza economica spiega il fatto che le famiglie diano ancora oggi particolare importanza a beni e oggetti di valore che siano trasportabili, quando diventa necessario andarsene» (pp. 41-42).

Nel primo capitolo – Tradizioni patriarcali e ricerca intersezionale femminista – la studiosa-attivista si sofferma su alcune ricerche-azioni femministe contro la violenza domestica nei campi e nelle comunità zingare. «Le ricercatrici hanno raggiunto risultati significativi adottando una metodologia partecipativa, intersezionale e non eurocentrica» (p. 48). Tra le istituzioni promotrici vengono citate il Segretariato Gitano in Spagna e la Fondazione Brodolini in Italia.

«Progetti come Empow-air considerano la violenza un elemento strutturale delle società dominate dagli uomini a livello globale: “non esiste paese al mondo in cui le donne siano libere dalla violenza”. Tutte le società tendono a negare, legittimare o minimizzare la violenza contro le donne e questo contribuisce a mantenerle in una posizione subalterna. Ciò avviene anche nelle comunità zingare, sebbene la cultura non rappresenti in sé una spiegazione dell’esistenza del patriarcato, mentre è utile a capire i modi specifici in cui si articola ogni patriarcato. La ricerca-azione Empow-air ha dimostrato la necessità per l’attivismo di genere e per le femministe di concentrarsi su tutti i tipi di violenza che le Zingare devono fronteggiare oggigiorno, a partire da violenza di stato, molestie della polizia, attacchi di rom-fobia, sgomberi forzati dai campi, forme materiali e simboliche di razzismo istituzionale. Una pratica discorsiva sulla violenza in famiglia dovrebbe superare le resistenze e i comportamenti difensivi di donne e uomini di diverse età e status per le/i quali parlare di abusi domestici è ancora un tabù. La denuncia legale intentata dalla vittima è percepita come violazione della solidarietà di gruppo e causa la perdita di prestigio e d’immagine dell’intera comunità. Per queste ragioni, le/ gli attivisti gagé (non zingare/i) devono possedere competenze culturali, abilità, sensibilità e inclinazione per gli scambi interculturali; devono impegnarsi in una decostruzione costante dei propri privilegi in quanto Gagé, dei propri pregiudizi e comportamenti “da bianchi”. La Weltanschauung (visione del mondo) prodotta dalla cultura egemone, viene solitamente vissuta come “naturale” e influisce sul modo di percepire le altre culture. Il movimento femminista delle donne bianche aveva ritenuto politicamente importante la denuncia pubblica della violenza di genere, mentre le donne di colore e le comunità oppresse hanno dimostrato in molti casi che per loro è più utile un approccio diverso. La creazione di progetti di empowerment sensibili alle differenze etniche ha consentito la creazione di spazi sicuri dove poter parlare di questioni intime, sessualità, verginità, matrimoni precoci e molestie. Così sono emersi nuovi modi di affrontare la violenza domestica e sessuale, la formazione di gruppi di pressione tra pari per delegittimare il maschilismo, i comportamenti prevaricatori e gli stereotipi sessuali sulle donne nei discorsi tra soli uomini e negli spazi omosociali, tipici della mascolinità dominante» (pp. 48-49).

Nel secondo capitolo – Vent’anni di femminismo e attivismo di genere – Corradi prende in considerazione alcuni esempi di diffusione di una coscienza di genere, di nascita di gruppi reti di donne zingare e di forme specifiche di femminismo. «La libertà che negli anni Settanta il vento femminista ha portato con sé e che ha rimodellato le società dell’Europa occidentale sembrava non avere scosso le famiglie rom. Tuttavia, durante gli anni Novanta, dopo la riunificazione della Germania, fioriscono nuovi gruppi di donne zingare » (p. 62).
In particolare come esperienza transnazionale di successo viene indicata la rete International Roma Women Network le cui «attiviste, mettendo in discussione simultaneamente razzismo e disuguaglianze di genere, si impegnano a sensibilizzare sulle difficoltà e sui pregiudizi che le Rom affrontano sia nella società dello spettacolo sia nelle comunità rom tradizionali. La Roma Women Network è un modello di pratica femminista intersezionale guidata da Rom in collaborazione con non Rom, particolarmente utile per la costruzione di alleanze» (p. 70). Corradi sottolinea anche come «non tutte le attiviste rom impegnate nelle questioni di genere si definiscono femministe; alcune danno priorità alla lotta antirazzista o all’orgoglio etnico e sostengono i diritti delle donne solo su alcuni argomenti specifici. Oggi, le attiviste di genere rom possono articolare le loro problematiche sia nell’ambito dei diritti umani delle donne sia in quello del femminismo globale» (p. 70).

Se il Terzo capitolo – Femminismo rom – è dedicato all’analisi di alcuni scritti collettivi sul femminismo rom pubblicati su riviste internazionali, il Quarto – Decolonizzare teoria e pratica femminista – si apre con le riflessioni della sociologa maori Linda Tuhiwai Smith che sottolinea come «la produzione di conoscenze accademiche, saperi e prassi di ricerca» risulti ancora decisamente «influenzata dalle priorità e dai valori europei nati durante l’Illuminismo. Alla base della supremazia culturale euro-atlantica risiede la nozione di scienza fondata sulla razionalità, ritenuta forma superiore di conoscenza, a discapito di esperienza e intuizione. La persistenza dell’egemonia occidentale trova radici nel costrutto gerarchico che distingueva i colonizzatori dai colonizzati, le persone bianche dalle non-bianche, i sovrani dai subalterni e, all’interno di tutte queste categorie, le donne dagli uomini» (p. 85).
Negli ultimi decenni numerose ricercatrici e attiviste sono giunte a condividere la necessità di decolonizzare il sapere, la teoria e anche il femminismo. Corradi ricorda come «le donne zingare, le donne nere, indigene, aborigene e maori hanno messo in discussione l’uso della parola “femminismo”. Ciò che si può ritenere una tematica o una lotta femminista varia notevolmente in base al contesto culturale. […] Di fatto, mentre alcune attiviste di genere e donne leader si definiscono femministe, altre non amano l’espressione femminismo, che può apparire antagonista o minacciosa agli uomini e alle donne della propria comunità. Alcune attiviste di genere percepiscono il femminismo come storicamente legato all’eredità e al lessico delle donne bianche; in passato il termine implicava un rischio di sovra-determinazione, l’imposizione di una progettualità non condivisa» (p. 86). Il capitolo indaga pertanto le modalità di ricerca e di attivismo femminista in grado di fare i conti con tale complessità.

Il Quinto capitolo – Gypsy queer – affronta le condizioni e le aspirazioni delle persone queer. Se in generale «le persone che mostrano preferenze sessuali o identità di genere “non conformi” tendono a essere escluse dalla famiglia e dalla comunità» (p. 96), ciò, sostiene Corradi, accade anche nelle comunità zingare. «L’identità di genere e l’orientamento sessuale sono argomenti delicati, nel contesto culturale rom e gitano, difficili da ricostruire storicamente, perché mancano le fonti» (p. 96). A partire dal particolare tipo di identità gypsy e queer, Corradi ricorda come «essendo collettività senza stato, sia le persone zingare che le persone queer non hanno paese, eserciti o confini stabiliti. Le bandiere zingare, come le bandiere queer, rappresentano luoghi dell’anima. Nella lotta del popolo kurdo di Rojava sono emerse teorie politiche sul superamento dello stato, forma storicamente obsoleta, a favore di federazioni di comunità di gruppi etnici e religiosi diversi. Tali idee di democrazia diretta e di autogoverno sono state messe in pratica da donne e uomini kurde/i in una situazione di resistenza drammaticamente difficile, contro lo stato islamico (Daesh) e la politica fascista e genocida della Turchia. L’interesse internazionale per il federalismo democratico della Federazione Rojava nella Siria del nord può essere spiegato grazie all’accento posto sull’interculturalità, l’inter-confessionalità e l’impegno a superare costituzionalmente le disuguaglianze di classe e di genere. In effetti, il Rojava Social Contract (Carta costituente della Federazione), firmato da diversi gruppi etnici, esige cooperazione, diritti delle donne e valorizzazione delle diversità. Potrebbe diventare fonte di ispirazione anche per le comunità zingare apolidi, per lo sviluppo dell’autogoverno e di nuove alleanze» (p. 107).

Il Sesto capitolo – Invisibilità accademica, epistemologia zingara e importanza del meticciato – è dedicato alla necessità di «decolonizzare la conoscenza e disconnettersi dalla cultura dominante» visto che «la maggior parte degli studi rom sono ancora controllati da studiosi/e bianchi/e non rom, che le università sono ancora luoghi coloniali, appannaggio delle classi benestanti, dove le élite culturali e le gerarchie accademiche difendono i loro privilegi» (p. 112).

Nel Settimo capitolo – Body politics, media-attivismo e riappropriazione dei significati – l’autrice-attivista, vista la portata della cultura visuale sulla società attuale, si sofferma sull’importanza che, nell’ambito della politica del corpo, riveste per le femministe il monitoraggio e l’analisi dei contenuti dei media. Il capitolo si sofferma, inoltre, sulla creazione da parte femminista di «nuovi media in grado di produrre conoscenze, idee e immagini» ricordando come la riappropriazione del corpo, «dopo la schiavitù e la persecuzione, l’annichilimento e l’inferiorizzazione delle persone zingare [abbia] un notevole peso anche da un punto di vista semiotico» (p. 120). Pertanto, suggerisce Corradi, il «fiorire di reti di donne zingare e di blogger femministe e attiviste di genere» (p. 120) deve essere assolutamente essere percepito come importante indicatore di un cambiamento in atto. «Nell’ambiente artistico le immagini stereotipate di donne e uomini zingari e gli standard di bellezza ufficiali vengono rifiutati e prende piede, a più livelli di coscienza ed espressione, una ri-significazione autogestita e liberatoria del corpo zingaro, dalla danza al teatro, dall’arte di strada alla fotografia. L’oppressione materiale e semiotica vissuta dalla comunità zingara ha prodotto una ri-significazione di segni, gesti e oggetti di riconoscimento: vestiti, capelli, e gesti. Rivendicarli ha l’effetto di ri-nobilitare un intero processo di adattamento a condizioni avverse» (pp. 123-124).

In conclusione, il volume realizzato da Corradi analizza «il contributo del femminismo delle Zingare mettendo in luce alcune idee, progetti, forme di azione, esperienze e conoscenze elaborate nella specificità dei margini rom, gypsy e traveller, dove nascono nuove prospettive epistemologiche al crocevia fra razza/etnia, genere, classe, età, sessualità, status, religione e diverse abilità. Il femminismo delle Zingare è utile per riflettere in modo inclusivo sulla società, su teorie e metodologie di ricerca-azione, sulle politiche antirazziste e sulle alleanze fra comunità oppresse » (p. 129). «Il protagonismo etnico e non-etnico delle Zingare ha riconfigurato l’agentività politica e l’attivismo di genere, dando vita a varianti geografiche in rapido mutamento. In questa rinascita sociale delle comunità rom, gitane, sinte e traveller, l’emergere del femminismo delle Zingare costituisce un momento di autoriflessione all’interno delle comunità e aiuta a costruire ponti verso il mondo esterno, processi cruciali in un momento in cui le comunità vengono sottoposte a varie forme di controllo» (p. 130).

Corradi individua tre fattori che rendono significativa l’azione femminista zingara. Il primo ha a che fare con l’incremento dei fenomeni di antizingarismo e dii attacchi razzisti/xenofobi. A tal proposito i media insistono spesso nel denunciare il permanere delle comunità in uno stato di arretratezza culturale e tendono a sfruttare i casi di violenza di genere «per spettacolarizzare un evento e rappresentare gli uomini rom come brutali, criminalizzando l’intera comunità» (p. 130). Secondo Corradi il femminismo delle Zingare permette di mantenere «la direzione del cambiamento verso il rispetto per le differenze, l’empowerment e la coesione sociale nelle comunità e insieme facilita la comunicazione con il mondo esterno sulle questioni di genere» (p. 130). Il secondo fattore per cui il femminismo delle Zingare risulta fondamentale «riguarda la consapevolezza culturale della complessità dei processi alla base della formazione dell’identità, accompagnata da una diversa considerazione per le opere d’arte e la musica, le memorie e il linguaggio, nonostante il rischio di mercificazione cui sono esposti gli artefatti culturali. Anche in questo caso, considerata la costruzione di genere delle pratiche di lavoro, dei segni etnici e delle identità sociali, le femministe zingare offrono utili strumenti di autoriflessione e forme decisionali partecipative, una volta chiarito che le identità (e tutto ciò che esse producono sul piano materiale e simbolico) non sono in vendita» (p. 130). Il terzo fattore per cui «il femminismo delle Zingare si rivela essenziale consiste nel fatto che nessuna comunità può superare un’oppressione secolare conservando forme di assoggettamento interne. Il contributo dell’intelligenza e dell’abilità delle donne nella vita sociale e nei processi decisionali collettivi, così come nelle famiglie, è una risorsa vitale per la piena fioritura di una primavera zingara (Roma Spring). Lo stesso si può dire per le pratiche inclusive che riguardano coloro che vengono percepite/i come “diverse/i”. La lotta per il rispetto sociale non può venire vanificata da atteggiamenti marginalizzanti all’interno delle comunità. Le persone zingare queer non meritano l’esclusione né l’umiliazione, devono essere accettate come componenti della famiglia e del gruppo di pari» (p. 131).

Il femminismo delle Zingare, dunque, secondo Corradi, «offre la possibilità di allargare le prospettive in termini di intersezionalità a coloro che hanno a cuore la lotta contro tutte le disuguaglianze sociali. Esso è fonte di ispirazione per la sua capacità di costruire coalizioni, grazie alle particolari qualità di resilienza sviluppate in diversi paesi europei e al transnazionalismo che le donne rom, sinte, e traveller incarnano. Le loro prospettive sono importanti sia per qualsiasi discorso politico sul superamento dello stato sia nel dialogo tra femminismi etnici e non etnici, nei “sud del mondo” come ovunque. Il femminismo delle Zingare trascende i confini, sfida i pregiudizi geografici occidentali e gli atteggiamenti eurocentrici partendo da un punto di vista molteplice e mutevole, quello di un “quarto mondo” recente ma con radici antiche» (p. 131).

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Cronaca dal terremoto a Città del Messico https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/cronaca-dal-terremoto-citta-del-messico/ Wed, 20 Sep 2017 19:59:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40787 di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni [...]]]> di Perez Gallo 

[Cronaca da Città del Messico, pomeriggio del 19 settembre. Ancora si scava e si cercano persone vive tra le macerie, le vittime del terremoto del 19 settembre, di 7,1 gradi Richter, nel centro del Messico sono 225 secondo la protezione civile ma le cifre vengono aggiornate continuamente]

Scrivo a caldo. Perché non riesco a dormire. O forse perché solo così riesco a tenermi nella mente le cose più orribili che ho visto in vita mia. 19 settembre 1985: un terremoto devastante distrugge Città del Messico. 19 settembre 2017: 32 anni esatti dopo, un altro terremoto devastante distrugge Città del Messico. La ricorrenza è stata la prima cosa notata e sottolineata da tutti dopo che per un minuto, o forse un minuto e mezzo, in ogni caso un tempo che ci è sembrato un’eternità, ci ritroviamo in strada, spaesati, confusi, spaventati. Proprio per la ricorrenza, in mattinata, c’è stata una prova antisismica: dei miei amici che studiavano in biblioteca, all’UNAM, sono stati fatti uscire. Nemmeno 3 ore dopo, alle 13.15, ci stavo per andare anch’io all’UNAM, mi stavo giusto preparando. Alle 14 avevo un’assemblea degli studenti di posgrado (master e dottorato) in preparazione per la manifestazione per Ayotzinapa del 26 settembre (sì, settembre è un mese funesto per questo paese disgraziato); alle 16.30 era previsto, a scienze politiche, un incontro con Raúl Zibechi… E invece, d’un tratto, le finestre di camera mia sbattono forte, fortissimo. “Cazzo, ma oggi tutto sto vento non c’è…”. D’improvviso mi precipito fuori, in cortile. Dall’altro lato della casa fanno la stessa cosa i miei coinquilini Hektor e David: “no mames, lo sentiste?”. Schizziamo in strada. Le case della via ondeggiano, si aprono e chiudono a fisarmonica. Tutto il vicinato è in strada. Mando immediatamente un messaggio vocale ai miei, per avvertirli che c’è stato un terremoto, che riceveranno presto la notizia dai giornali, e che sto bene. Un messaggio identico lo avevo mandato la sera del 7 settembre, ma stavolta non si invia, non c’è linea. I cellulari non vanno, non va internet, è saltata l’elettricità, in tutta la città. Una città da 20 milioni e passa di abitanti è totalmente al collasso.

In fondo alla strada, vediamo che dei vicini hanno acceso una radio, l’hanno messa sul cofano, e si sta raggruppando un po’ di gente lì intorno. Andiamo anche noi. Dicono che l’epicentro sia a Puebla, e che la scossa è di 7.1. Merda… Poi viene fuori che l’epicentro è nel Morelos, ma vicino alla frontiera con Puebla: ancora più vicino a noi…
Visto che si sta raggruppando tutto il vicinato, ansioso per i propri cari (un signore ci dice che nel terremoto di 12 giorni fa era morto un suo zio), decidiamo di tornare a casa e preparare un café de olla per tutti, nell’attesa di informazioni. Fino a quando non le avremo, infatti, si può fare ben poco. La linea internet si recupera per alcuni minuti, tempo di mandare qualche messaggio. Poi si perde di nuovo. Nelle varie chat non rispondono all’appello gli amici Bogart e Tonantzin, e qualcuno sta iniziando a pigliarsi male. Poi la connessione si perde di nuovo. Solo molte ore dopo sapremo che stanno bene pure loro. Iniziano ad arrivare informazioni: è crollato un supermercato a Tasqueña e una scuola in Divisiòn del Norte angolo con Calzada de las Brujas. Optiamo per la scuola: recuperiamo 5 litri d’acqua, dei caschi da bici, e delle mascherine, e poi con un compa del barrio ci avviamo tutti assieme in taxi. In strada si va a passo di lumaca, le vie principali sono completamente intasate, e il fatto che i semafori non funzionino per nulla non aiuta. A un certo punto decidiamo che è più comodo a piedi, e ci mettiamo a correre, alternandoci con la tanica d’acqua.

(nella foto: escuela colegio Enrique Rebsamen, Città del Messico, si riportano 21 bambini morti e 4 adulti, una trentina sono “non localizzati” per cui continuano le ricerche)

Avvicinandoci si vede come la situazione si fa tesa: los topos, brigate specializzate in questo tipo di aiuti, corrono a perdifiato nelle loro moto, la gente accorre, e corre, da tutte le parti. Una ragazza si mette in mezzo alla strada e urla a tutti di recuperare materiale, qualunque tipo di materiale. Di fianco a noi c’è un ferramenta, vuoto. Gli prendiamo in “prestito” una sega. Chiediamo ai vicini e ci danno una corda. Ricominciamo a correre. Poco a poco dei motociclisti ci danno dei passaggi, e da lì ci perdiamo definitivamente. Nel momento in cui scrivo non ci siamo ancora ribeccati.
All’arrivo sul posto il caos regna. Ci sono già migliaia di persone, e barricate che impediscono di entrare nella via della scuola perché è già congestionato. Non c’è polizia, qualunque istituzione è perfettamente assente. C’è solo il pueblo, tanta gente generosa e di buona volontà. A me e tanti altri che sono rimasti fuori ci tocca recuperare materiale in giro: corriamo un paio di vie di lato, che ci sono le transenne di un cantiere. Vanno giù di volata, manco si stesse facendo un riot. E magari si stesse facendo un riot…

Ad aiutare ci sono tutti, donne uomini vecchi bimbi. Ognuno fa quel che può. Tiro in mezzo due ragazzini un po’ spaesati e andiamo assieme a cercare altro materiale. I vicini in poco tempo ci danno pale, secchi, corde, e così fanno con tante e tanti altri. Lasciamo due spicci alla gente che recupera materiale medico in farmacia e ci catapultiamo sul posto. Ci fanno passare e arriviamo fino all’esterno della scuola, o meglio dell’ala della scuola che è completamene venuta giù. Di mezzo riconoscibile c’è solo l’ultimo piano, il quarto se non ricordo male, che poggia, dal lato in cui sono, su un’automobile distrutta, i piani sotto si sono completamente sgretolati. L’automobile, per di più, ha l’allarme spianato, cosa che ostruisce i tentativi di sentire se qualcuno da dentro sta gridando aiuto. Ci vogliono troppi minuti prima che qualcuno non riesca a spaccare il cofano a picconate tanto da far smettere l’allarme. Inorridisco. Però per un attimo, perché guardandosi intorno si vede che c’è ben poco tempo da perdere per inorridirsi. Mai come questa volta penso che ogni piccolo gesto, ogni secondo, è prezioso. Quello che è difficile, in quel delirio, è capire cosa è utile fare, considerando che tutto ciò che non è utile è d’impiccio. Mi affanno a trasportare cose, cose, cose di qui e di là: acqua, secchielli, picche, pale.
Finisco non so come su un altro lato della scuola, quello che da verso il cortile. C’è una totale congestione tra un paio di ambulanze e un trattore che sta provando a buttare giù il muro del cortile per permettere alle ambulanze di entrare. Mentre il trattore e una dozzina di persone pensa a buttare giù il muro, afferro una pala e con tanti altri spalo come non ci fosse un domani le pietre del muro che crolla, mentre altra gente porta secchi, e poi ne porta ancora ancora ancora. Vengo distratto appena un secondo da una donna che urla disperata, inconsolabile. Qualcuno mi dice che ha un bimbo sotto le macerie. Non ho mai visto tanto dolore atroce sul volto di una persona. Immagino mia madre quando ha visto la sua prima figlia morire nella culla a due mesi. Ma poi l’adrenalina ha il sopravvento e ricomincio a spalare. Carichiamo i pezzi di muro sul trattore e, dopo un tempo che sembra interminabile, mi ritrovo all’interno del cortile. Stavolta l’ala della scuola distrutta la vedo dall’interno.
Anche nel cortile centinaia, forse migliaia di persone. Finalmente il governo pare essersi svegliato, e cominciano ad arrivare in forze la polizia federale e la marina militare. Facendo più danni che altro, in realtà, perché in termini di aiuto concreto fanno ben poco, e le poche cose buone le fanno eseguendo gli ordini di chi si sta facendo il mazzo da ore. Ma il loro ruolo è, come sempre, controllo e ordine, per cui incominciano a incordonarsi per impedire ad altre persone di entrare. A un certo momento vedo un federale correre con un mitra puntato: io e il mio vicino ci guardiamo, e ci domandiamo quale razza di idiota può mettersi a correre con un’arma in quella situazione.
Vedo che quello che più si richiede è di tagliare dei pali di legno in varie misure, per fare delle specie di treppiedi che reggano quel che resta della scuola mentre protezione civile (o qualcosa del cenere) e cani si mettono a cercare nelle macerie. Creiamo una piccola equipe e ci mettiamo a misurare pali e tagliarli con una sega elettrica. Ogni tre per due parte il grido collettivo e un coro di braccia in alto: “silenzio!”. Sono i ripetuti tentativi di sentire le urla da dentro. In quei momenti la sega elettrica deve tacere e ci diamo il cambio con la sega normale. Noto subito come sia impedito in questo genere di cose e lascio l’incombenza ad altri. Ogni tanto si sente un urlo di gioia: vuol dire che è stato salvato un bimbo!
Io incomincio ad avere giramenti di testa: sono stanco, ho mangiato poco, sono teso. Vago qualche minuto nel nulla e poi capisco che in quelle condizioni non servo a nulla, quindi faccio per allontanarmi. Esco dal cortile in direzione delle ambulanze e vengo sommerso dalle grida: “serve insulina! Servono bombole d’ossigeno, bombole d’ossigeno!”. Mi dirigo fuori e incomincio a urlare alla gente di cercare un ospedale, perché solo lì si trovano le bombole d’ossigeno. Qualcuno dice che ce n’è uno a quattro isolati e ci mettiamo a correre. Per strada in tanti si uniscono fino a creare un gruppo di 20-25 persone. Correndo, passiamo davanti a un altro edificio completamente pericolante. Arriviamo finalmente all’ospedale, chiediamo ste benedette bombole e ci fanno fare una trafila estrema: un’infermiera dice a un’altra di portarci al primo soccorso, questa prova a contattare i superiori che non si capisce ma sembrano irreperibili. Nel frattempo altri 20 tra medici e infermieri se ne stanno con le mani in mano e con la faccia da ebete. Una dottoressa particolarmente arrogante ci intima di sederci. Sederci!? Non ci possiamo credere. Dopo dieci minuti buoni, e quando le nostre insistenze arrivano al colmo, spunta fuori un responsabile che ci dice che non ci possono dare bombole perché non ne hanno un numero infinito. Che vogliamo fare, l’ospedale è privato e ci manca solo che regala delle bombole d’ossigeno! Per loro il terremoto, alla fin fine, è profitto. Manca poco e scoppia una rissa. Io minaccio personalmente di denunciarlo se non ci da delle bombole in quel preciso momento. Poi rifletto su quanto ridicola sia la mia minaccia nella capitale mondiale dell’impunità. Per tutta risposta il dottore mi dice che devo essere io responsabile di riportargliele dopo vuote. Un tipo si inalbera e dice: “il responsabile, semmai, è Peña Nieto!”. Dopo un’incazzatura collettiva che la metà basta ci danno finalmente due (DUE!!!!) bombole d’ossigeno e un po’ d’insulina. Insistiamo perché vengano dei pediatri e dobbiamo quasi fare a botte perché lo accettino.
Corriamo come dei pazzi per dare le bombole, e le file di militari incordonati si polverizzano per farci passare. Dico a uno di loro che farebbe bene a mandare una pattuglia in quell’ospedale e a prendergli le bombole con la forza, e lui sembra pure ascoltarmi tutto serio. Quanto mi sento ridicolo…
Stremato, mi metto a cercare da mangiare con due tizi che erano con me all’ospedale, Fabricio e sue figlio Edwin. Non c’è un negozio aperto, niente cibo di strada. Finisce che mi invitano a casa loro, a due isolati dalla scuola, e mi offrono un panino e dell’acqua. Fabricio dice che ha sentito la scossa più forte che nell’85. Sono ormai le sette e mezza ed è da più di cinque ore che sono lì. Sta iniziando a fare buio, e il buio di una città senza elettricità è interrotto solo dalle luci di polizia e ambulanze e dalle centinaia di torce che vengono recuperate da ogni dove, e che diventano rapidamente la necessità più urgente. Ma col buio viene anche il freddo e io sono in canottiera, per cui gentilmente mi regalano una giacca. Mi riavvicino alla scuola: con la giacca in mezzo a tutta quella gente ho un caldo pazzesco, quindi torno fuori, mi metto in strada e comincio insieme ad altri a fermare tutte le macchine che passano, perché vadano a recuperare luci, torce, insulina, dolci calorici. O, se possono passare da un’ospedale migliore, bombole d’ossigeno. In tutte le vie intorno alla scuola siamo migliaia e migliaia: la gente si mette in fila e passa di mano in mano una moltitudine di oggetti di qualunque tipo. A un certo punto corre la notizia che è crollato uno, o forse due edifici, in un viale lì vicino. Con tre ragazzi automuniti decidiamo di muoverci verso di là, che alla scuola c’è un sacco di gente e pare che lì serva più aiuto. Ma nel secondo posto la situazione è ancora più inaccessibile: i federali hanno fatto un gran cordone, una vera e propria barricata, e nessuno si può avvicinare. Ci tocca di nuovo cercare cibo, acqua, luci e materiale medico. Ma è tutto chiuso. Nel frattempo in un rapido momento in cui mi prende internet, ricevo messaggi da decine di persone. Comincio a rispondere ma presto internet finisce di nuovo. E per giunta mi si scarica la batteria. Chiedo a degli sbirri se possono caricarmelo un po’ nella loro macchina e mi viene concesso. Mi raccontano che in città ci sono 38, o forse 41 edifici crollati, e che nella scuola sono morti 10 bimbi e 3 o 4 maestre, ma ci sono ancora parecchi bimbi intrappolati. Il numero, per quel che ho visto, mi sembra basso. Solo ora vedo che le vittime sono 26.
Vado, stremato, alla ricerca di una farmacia. L’unica della zona è completamente illuminata ma chiusa. Ci avviciniamo in 5 o 6 chiedendo di entrare. La farmacista, o la dipendente, o salcazzo cosa, fa spallucce e giochicchia col cellulare. Incominciamo a bussare e sbattere la porta: “non sapete che c’è stato un terremoto!?”, gridiamo tra il comico e il tragico. Si avvicina uno sbirro con il mitra, minaccioso. Ce ne andiamo disgustati: gli ospedali privati vedono il terremoto come un profitto, e lo Stato manda i federali a difendere in armi le farmacie in quella situazione, forse con la paranoia che le assaltino? Dicono che più avanti c’è un supermercato, un Sanborns, il più di lusso del Messico, che ha una farmacia poco munita e dei dolci mediocri carissimi, e ovviamente, per non deludere le attese, fa pagare tutto fino all’ultimo peso. Dopo aver ricaricato ancora un po’ il cellulare nella macchina di un tizio, trovo un’isola in cui va internet, e mi metto a rispondere ai vari messaggi di gente preoccupata per me. Poi porto il mio malloppo di spesa sul posto, prendo un taxi e un paio di passaggi in autostop e arrivo a casa. Noto con piacere che nel mio quartiere l’elettricità è tornata, ma la casa è vuota. David è andato a dormire dalla cugina, Hector e l’altro coinquilino, l’argentino Dardo, sono andati a dare una mano in un altro posto. Indeciso sul raggiungerli, inizio a riscaldarmi il risotto avanzato da ieri e di colpo la luce va via di nuovo. Con il cellulare nuovamente scarico, mangio, mi bevo una birra, e mi sdraio sull’amaca. Sto per addormentarmi che la luce mi riscuote d’improvviso. Apro il pc, rispondo a un po’ di gente e leggo le notizie. E comincio a scrivere queste righe, o meglio queste pagine chilometriche. Nel frattempo Dardo ed Hector tornano, e Hector mi racconta come è andata la sua giornata alla scuola: mi dice che ha tirato fuori una bimba dalle macerie, viva. E che però, quando poco dopo stavano tirando fuori un cadavere vicino a lui, non ha più retto ed è andato a dare una mano da un’altra parte.
Lo sgomento è tanto, e domani non sarà una giornata facile. Tra il 19 settembre 1985 e il 19 settembre 2017 in Messico è stato un susseguirsi, un’escalation, di riforme neoliberiste lacrime e sangue, di assassini di donne perché donne, di aumento della povertà, di furto e devastazione della terra, di sparizioni forzate. Nell’ultimo mese, tra Messico e Caraibi, ci sono stati 5 uragani e due terremoti. “Pobre México, tan lejos de Dios y tan cerca de Estados Unidos”, diceva qualcuno. Domani torniamo a rimboccarci le maniche; e speriamo davvero che da domani cominci un’altra musica.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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Xochiquetzal: casa di riposo per prostitute della terza età in Messico https://www.carmillaonline.com/2015/01/15/xochiquetzal-la-casa-di-riposo-per-prostitute-della-terza-eta-in-messico/ Thu, 15 Jan 2015 05:07:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20072 di Fabrizio Lorusso

casa-xochiquetzal[Questo articolo, con qualche piccola modifica, è stato pubblicato sul numero 20 della rivista IL REPORTAGE con le foto di Giorgio de Carmillis. Le foto contenute in questa versione vengono da fonti web]

Élia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico.  Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico in cui si dedicava [...]]]> di Fabrizio Lorusso

casa-xochiquetzal[Questo articolo, con qualche piccola modifica, è stato pubblicato sul numero 20 della rivista IL REPORTAGE con le foto di Giorgio de Carmillis. Le foto contenute in questa versione vengono da fonti web]

Élia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico.  Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico in cui si dedicava alla prostituzione. Ora siede sul suo letto in una stanzona di Casa Xochiquetzal, nella calle Torres Quintero. Per gli aztechi Xochiquetzal era la dea della fertilità, dei fiori, della bellezza, della gravidanza e del piacere amoroso, mentre oggi, nell’ombelico d’America, a quella divinità precolombiana è intitolata la prima casa di riposo al mondo per prostitute della terza età. La casona-rifugio è costituita da un edificio dell’epoca coloniale, incastonato tra vicoli rumorosi e mercatini affollatissimi, come solo se ne vedono nel cuore della metropoli più grande del mondo, la capitale del Messico coi suoi 25 milioni di abitanti. Ma all’interno della struttura, nel patio centrale e nei lunghi ballatoi, regnano, surreali e indisturbate, la pace e la tranquillità.

Affianco a Élia c’è Berta, una delle sue compagne di stanza, sessantenne della regione di Hidalgo, che è appena uscita dall’ospedale e lentamente recupera le forze dopo un’operazione chirurgica che le ha salvato la vita. Avvicino discretamente la mia seggiolina e ascolto, osservo, registro. “Qui ho la casa e il calore che non ho mai avuto, trovo affetto, comprensione e un senso d’unione”, racconta Élia che, insieme a Berta è una delle nuove arrivate e mi spiega che la sua amica se l’è vista veramente brutta: “Era moribonda, stava per terra, è stata portata in ospedale da alcune assistenti sociali e poi l’hanno accettata qui”.

Élia ha iniziato a fare la prostituta a13 anni e ha smesso poco tempo fa, compiuti i 65. “Dopo i vent’anni ho partorito sei volte, tutti maschi, e il fatto è che nella prostituzione una perde le cautele, resta incinta e poi ai miei tempi bevevo molto, non sapevo mai di chi era il bebè…”, racconta. Élia non ha avuto infanzia né adolescenza e ha iniziato a prostituirsi perché era l’unica possibilità che le era rimasta. “La mia famiglia non esisteva, non c’era affetto, mancava la comprensione del padre e della madre e c’erano solo problemi e violenza, per questo me ne sono andata così”, narra con tono rassegnato.

Berta ha tre figli che ormai non vede più perché si vergognano di lei. “Sono stata trabajadora sexual [“lavoratrice del sesso” in spagnolo] quasi tutta la vita tra le vie Guatemala e Santísima e mi pare proprio di avervi passare di là a voi due!”, esclama mentre scoppia a ridere e con l’indice punta dritto verso di me e Giorgio, il fotografo. Nel deserto urbano, in cui lo stato è assente ingiustificato, gli abitanti delle zone più povere del centro cittadino vivono alla giornata, tra lavoro nero ed espedienti. Quest’oasi chiamata Xochiquetzal è un rifugio sicuro e necessario per le venticinque donne, indigenti e senza tetto, che vi sono accudite. Durante buona parte della vita tutte loro sono state sexo-servidoras, altro termine usato in Messico per indicare la prostituzione. Alcune lavorano ancora, sporadicamente, e mantengono i contatti con qualche vecchio cliente.

La strada è stata la loro casa per decenni. Vengono dai ghetti della Merced, di Tepito, Loreto, la Lagunilla e Granaditas. Sono nomi che non dicono nulla ai frequentatori occasionali di Mexico City, ma che evocano storie d’emarginazione e insicurezza in chi conosce la topografia socioeconomica di questa megalopoli che sa essere contraddittoria ed escludente però anche amichevole e solidale. Infatti, la Casa si mantiene grazie al sostegno del comune e dell’Istituto Nazionale delle Donne, ma il grosso dei finanziamenti arriva da donazioni, dalla partecipazione a concorsi e dalla vendita d’oggetti d’artigianato di cui si occupano la direttrice, Jessica Vargas, le associazioni Mujeres de Xochiquetzal e Semillas, e i volontari che collaborano al mantenimento e alle attività della Casa.

Quattro letti individuali occupano gli angoli della stanzona in cui dormono Élia e Berta. Il calore delle pareti color ambra, i soffitti altissimi e le ampie finestre esaltano la luce del sole tropicale che entra insieme al fievole vocio dei commercianti delle bancarelle. Patricia, un’altra compagna di camerata che si fa chiamare Pato, ha allestito affianco al letto un altare della Santa Muerte, ricco di offerte per quest’icona popolare messicana. “Sono Suo devoto da vari anni, fai pure una foto alla Patrona”, mi dice Pato con la sua voce roca e grave riferendosi alla statua della Santa.

casaxochiquetzal6Gli scaffali sulle pareti ospitano peluche, radio, effetti personali, alcune riviste e qualche vasetto di crema. Pochi oggetti e scarsi capi d’abbigliamento sono tutto ciò che le inquiline posseggono. Ma i beni materiali non sono tutto nella vita. “Qui condividiamo tante altre cose, allegrie, tristezze, pianto, e comunque ci aiutiamo l’una con l’altra, com’è successo per esempio con la compagna malata che tutte siamo venute a trovare e grazie a Dio la stiamo curando”, spiega Élia alzando inavvertitamente la voce. “Negli ultimi anni i soldi non bastavano più perché la prostituzione adesso non è più come una volta: i clienti pagano poco o niente e non ci basta nemmeno ad affittare una stanza per dormire”. Dopo aver passato 53 anni in strada, tra marciapiedi e camere d’hotel, un anno e mezzo fa Élia ha trovato famiglia, comunità e protezione.

Per una scelta della direzione di questa specialissima casa di riposo la discrezione e il rispetto delle inquiline sono d’obbligo. Non ci sono targhe all’esterno del palazzo, né citofoni o cassette delle lettere. L’enorme portone di legno dell’entrata è l’unico elemento distintivo, un varco che fa sparire magicamente i rumori e ferma il tempo. L’oasi è fatta per introdurvici lentamente, per calpestarla in silenzio senza troppi scatti fotografici o parole al vento. “Già verso il 2001 nasce l’idea di creare una casa di riposo di questo tipo ed è Carmen Múñoz, leader delle sexo-servidoras della zona, a lanciare la proposta con alcune militanti femministe e con la scrittrice Elena Poniatowska”, spiega Jessica. “L’amministrazione comunale inaugurò il progetto nel 2006 e il piano prevedeva di ospitare fino a 65 donne, purché avessero più di 55 anni e fossero prive di reti familiari e fissa dimora, ma è stato problematico trovare tutte le risorse e mettere d’accordo tante inquiline così diverse tra loro, così abituate a diffidare delle altre o a competere”, continua Jessica. Per ora, dunque, l’obiettivo è recuperare le risorse sufficienti per prestare servizio a 35 donne, “ma non è facile perché a volte la lotta è per non chiudere piuttosto che per crescere ancora”.

La direttrice è ben consapevole dei potenziali conflitti e dei problemi di adattamento alla vita comunitaria nella Casa, per cui “si fanno riunioni, iniziative collettive, laboratori psicologici e pure corsi sull’igiene, l’alimentazione, la cura personale, la non violenza, le questioni di genere e di equità e l’autostima”, specifica. “Sai cosa succede, quando invecchiano, alle donne che hanno trascorso tutta la loro vita esercitando la prostituzione?”. Partendo da questa domanda, all’inizio del 2014 è stato pubblicato in Messico un libro della fotografa francese Bénédicte Desrus e della giornalista messicana Celia Gómez per sostenere le precarie finanze della Casa. S’intitola Las amorosas más bravas, cioè le amorose più irrequiete o sbarazzine. “Difatti nel 2006, quando la struttura fu aperta, l’idea di fondo era anche quella di stimolare attraverso l’arte e un approccio multidisciplinare una serie di cambiamenti culturali nella comunità e nella società intera”, chiarisce Jessica. Di fronte alla solitudine e alla paura della vita di strada è possibile comunque creare comunità. “Avevo tante compagne con cui si condividevano le notti, il parco e i luoghi dove restavamo e al freddo s’aggiungeva la paura che ci prendessero in giro, che ci picchiassero o che gli sbirri ci portassero in prigione dato che anche loro se la prendevano con quelle della zona”, ricorda Élia.

“Il timore principale di tante anziane che si fermano da noi è di finire in una fossa comune, di essere cremate nei forni della polizia senza che nessuno mai le venga a cercare o gli dia una degna sepoltura”, spiega Jessica, “invece qui i loro familiari possono trovarle o almeno sapere dove sono seppellite”. Tutte le donne della Casa hanno alle spalle storie familiari difficili e, in generale, vengono rifiutate da figli, partner e genitori per via della loro professione, per vergogna e ignoranza. Mi confida Élia: “Un figlio se lo portò via il padre, altri restarono con me ma non per strada, da mia madre, che faceva le pulizie nelle case e ogni venti giorni ci vedevamo”. Solo il più giovane di loro vive a Città del Messico e mantiene i contatti con lei, mentre gli altri sono spariti dalla circolazione: “José Miguel è molto contento perché ha provato a lungo a cercarmi finché un giorno ha saputo che ero qui nella mia nuova casa e ci siamo visti”.

casa-retiro-prostitutas-mexico-0Prima di uscire e dire adiós, Jessica, la direttrice, mi mostra la foto di una donna anziana dallo sguardo intenso e profondo. La parete del suo ufficio è tappezzata di ritratti delle mujeres de Casa Xochiquetzal, di quelle che ci abitano ancora e quelle che non ci sono più. Carmelita, la donna della foto, è mancata due anni fa, all’età di 76 anni. Aveva cresciuto i suoi due figli grazie al lavoro da prostituta. Da qualche tempo si dedicava a vendere dolci per la strada per racimolare qualche soldo e un giorno, mentre lavorava, fu investita da una macchina che le fratturò il bacino. Il primogenito la curò per sei mesi, ma quando fu il turno del figlio minore, questi si tirò indietro. Scaricando la colpa sulla moglie che, a suo dire, aveva minacciato di lasciarlo, abbandonò sua madre a una fermata della metro, come fosse un cane. Dopo essere sopravvissuta tra stenti e carità per qualche settimana in una stazione degli autobus, Carmelita fu accolta nella Casa Xochiquetzal, solo per un po’, prima di morire lontana dalla famiglia ma vicina alle compagne di Casa Xochiquetzal. Dire che la prostituzione è il mestiere più vecchio del mondo significa ripetere un cliché che giustifica i pregiudizi e le generalizzazioni di chi si fa portatore dei “buoni costumi”, ma allo stesso tempo dimentica le lotte, le difficoltà, gli abusi, le imposizioni, le condizioni e le scelte che stanno dietro alle storie personali di ognuna delle donne che si prostituiscono. Da quasi 10 anni Casa Xochiquetzal rompe stereotipi e barriere, esclusioni e solitudini, e rappresenta con dignità la Città del Messico solidale.

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Genealogia di un ologramma: Marcos, Galeano e noi https://www.carmillaonline.com/2014/09/21/genealogia-ologramma-marcos-galeano/ Sun, 21 Sep 2014 00:29:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17591 di Martino Sacchi

Subcomandante-Insurgente-Marcos-ahora-Galeano“Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”

Nel maggio di quest’anno un gruppo di paramilitari uccide in un’imboscata il maestro Galeano, figura di spicco all’interno dell’escuelita zapatista, un progetto che nel corso del 2013 aveva aperto le comunità zapatiste a migliaia di attiviste e attiviste per farne conoscere i [...]]]> di Martino Sacchi


Subcomandante-Insurgente-Marcos-ahora-Galeano“Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”

Nel maggio di quest’anno un gruppo di paramilitari uccide in un’imboscata il maestro Galeano, figura di spicco all’interno dell’escuelita zapatista, un progetto che nel corso del 2013 aveva aperto le comunità zapatiste a migliaia di attiviste e attiviste per farne conoscere i percorsi d’autonomia. Pochi mesi dopo l’attacco paramilitare, esce il comunicato Entre Luz y Sombra (tra la luce e l’ombra) in cui Marcos si destituisce enigmaticamente come portavoce del movimento zapatista, per ricomparire sul palco pochi secondi più tardi come “Subcomandante Galeano”.

Entre Luz y Sombra non è però una semplice commemorazione di un compagno ucciso: parlando di Galeano, il comunicato ripercorre l’intera storia della lotta zapatista. Ripensando a questa storia sembra che, fin dalla presa di San Cristobal de Las Casas nel 1994, Marcos abbia costituito in qualche modo la cartina tornasole di questa lotta: è stato leader militare dell’EZLN, “delegato zero” durante la Otra Campaña (che si opponeva dal basso alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006), è stato a lungo la faccia senza volto che appariva sui media globali e potente simbolo per movimenti politici da tutto il mondo. Eppure, nel comunicato del maggio scorso, il portavoce dell’EZLN dichiara: “se posso definire il personaggio di Marcos, direi senza indugio che è stato una montatura”. Nient’altro che un “trucco”, un “ologramma”, dunque. Ma c’è di più: questa “montatura”, dopo la escuelita, non è nemmeno più necessaria. Affinché Galeano possa continuare a vivere, un altro dovrà morire, e sarà proprio Marcos. Ma attenzione: ciò che la morte si porterà via al posto di Galeano non sarà “una vita, ma solo un nome, poche lettere prive di senso, senza storia propria, senza vita”.

Cosa è cambiato con l’escuelita zapatista? Cosa significa la “morte” di Marcos? Che cosa è Marcos? Per comprendere l’intelligenza politica di una scelta tanto misteriosa si potrebbe quasi fare una genealogia di questo “trucco” chiamato Marcos: cioè una storia dei modi attraverso i quali il movimento zapatista si è letteralmente reso intellegibile a sé stesso e al mondo. Quando gli indigeni occuparono San Cristobal nel 1994 come un “esercito di giganti”, dice il comunicato, “ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio con addosso un passamontagna, ovvero, non guardavano”.

Fu così che questo esercito di giganti si ritrovò costretto a inventare “qualcuno piccolo come loro” affinché attraverso di lui, il mondo intero potesse vederli: “incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”.   E’ una storia vecchia quanto il colonialismo: è la storia che lega capitalismo e modernità in una geografia fatta di centri europei e periferie coloniali, in cui tutto ciò che sta alla periferia esiste solo attraverso le parole di chi sta nel centro. Ma è anche una storia di classe, di “quelli in basso” contro “quelli in alto”, di razza, dei “meticci” e degli “indigeni, e di genere, delle mujeres rebeldes e del patriarcato messicano. Ecco che possiamo porre una prima tesi: ciò che per un certo periodo si è chiamato “Marcos” è stata la mediazione necessaria affinché questa molteplicità di storie divenisse strumento di ribellione per popoli che sono sistematicamente spossessati di ogni strumento: primo fra tutti il linguaggio, la facoltà di parlare ed essere compresi, di denunciare, urlare per dire “non può continuare così”.

Ma se Marcos è questa mediazione, in che senso ora, dopo l’escuelita, non è più necessaria? Per capirlo è utile notare come, facendo questa genealogia dell’ologramma-Marcos, incontriamo due tipi diversi di rotture, di discontinuità, di cambiamenti nel modo in cui lo zapatismo si è presentato nel corso della sua storia.

Ci sono discontinuità verso l’esterno. C’è, ad esempio, un superamento della tradizione avanguardista e guevarista a lungo centrale in Latinoamerica, così come della non-violenza della teologia della liberazione: entrambe tradizioni che hanno influenzato lo zapatismo. In questo senso è anche significativo che l’insurrezione zapatista scoppi nel contesto della sconfitta sandinista nel 1990 e l’affermarsi del capitalismo neoliberale.

galeano vive marcosDall’altro lato, e questo è l’elemento più importante, lo zapatismo ha posto delle discontinuità dal suo interno. In parole più semplici, è un movimento che è stato capace di reinventarsi costantemente, dettandosi da solo i tempi di questo cambiamento. Spesso, qui in Italia, ci interroghiamo sulla difficoltà di uscire da una logica “reattiva” rispetto al potere: notiamo come il nostro mobilitarsi sia spesso la “risposta” a uno sgombero, a degli arresti o a un corteo nazionale di cui, anche quando delle contraddizioni esplodono, abbiamo difficoltà a trattenere la potenza politica. Ecco, potremmo dire che lo zapatismo ha saputo dare una durata a questi momenti di rottura senza per questo rimanere sempre uguale a sé stesso. Ma soprattutto, ha saputo decidere i tempi e gli spazi di questo cambiamento, la sua “geografia” e il suo “calendario”, in maniera autonoma.

Proseguendo nella nostra genealogia, ci accorgiamo quindi che questo processo di cambiamento politico coincide anche con un progressivo decentramento della figura di Marcos che, da leader-simbolo negli anni ‘90 diviene progressivamente marginale: niente più che un “trucco” o “ologramma” dopo l’escuelita di quest’anno. Fare una genealogia dello zapatismo significa dunque cercare di comprendere la relazione tra questi due movimenti: il decentramento di Marcos da un lato, le forme di autorganizzazione dall’altro. E’ attraverso la messa in relazione di questi due processi, quasi due facce della stessa medaglia, che è possibile cogliere l’autonomia zapatista.

Senza entrare troppo nei dettagli, possiamo semplicemente dire che il progressivo decentramento di Marcos corrisponde a un decentramento dell’Esercito Zapatista (struttura tutt’ora gerarchicamente militare) e alla venuta in primo piano della base sociale (della popolazione delle comunità, le cosiddette “bases de apoyo”).

Nel 2003 già nascevano le Giunte di Buon Governo, istituzioni municipali che si prendevano carico dell’amministrazione dei territori occupati secondo il principio del “comandare obbedendo”. Le Giunte di Buon Governo sostituivano gli aguascalientes, luoghi in cui la base sociale incontrava l’esercito zapatista, e ponevano al centro dell’agenda politica le pratiche quotidiane dell’autogoverno nelle comunità. Le Giunte del 2003 sono quindi una delle discontinuità che scandiscono questo doppio movimento dell’autogoverno e del personaggio-Marcos.

Si tratta di un processo che attraversa la storia dello zapatismo fin dal periodo di clandestinità negli anni ‘80, quando un manipolo di guerriglieri marxisti leninisti arrivano nella selva e decidono di imparare dagli indigeni anziché semplicemente “organizzarli”, e che giunge fino a noi e alla escuelita, durante la quale gli attivisti non hanno incontrato i quadri dell’esercito ma proprio la popolazione comune. Nel 2006, con la Otra Campana e la Sexta Declaracion de la Selva Locandona, incontravamo una ulteriore discontinuità: fine di ogni speranza di contrattazione con le istituzioni e sempre più forte legame con i movimenti anticapitalisti globali.

L’escuelita del 2013-14 è dunque l’ultima di queste continue riconfigurazioni del progetto politico zapatista. Si tratta, in sintesi, di un progressivo costituirsi di un soggetto collettivo, dotato di un proprio linguaggio, calendario e geografia, e di cui Marcos è stato tanto lo strumento quanto il prodotto.

Eppure c’è nell’escuelita e nel comunicato Entre Luz y Sombra qualcosa di particolarmente importante, che getta luce su tutte le precedenti discontinuità (ne ho citate alcune arbitrariamente e a titolo di esempio). Anche dopo questa simbolica morte di Marcos e rinascita di Galeano, morte di un nome che troppo a lungo è stato associato a una leadership, è chiaro che la persona-Marcos continuerà a svolgere un ruolo chiave nella lotta del sud-est messicano. Ma ciò che è importante capire è la sostanza estremamente materiale di questo ologramma: i tanti modi verticali attraverso cui lo zapatismo si è rapportato con il potere e con il mondo, avevano sempre delle condizioni di possibilità orizzontali nelle reti di cooperazione e autogoverno che venivano sperimentate nei pueblos della gente comune.

Lo scontro verticale con il potere e con i media che, come si è detto, “sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione”, ha potuto esistere solo grazie a qualcosa che stava fuori da questo teatro mediatico, cioè l’apprendimento quotidiano all’autorganizzazione. Il 21 dicembre 2012, anno della fine del mondo seconda la tradizione Maya, gli zapatisti hanno nuovamente invaso San Cristobal dopo dieci anni in cui poco si è saputo di loro fuori dal Chiapas. Ma a differenza del 1994, l’hanno fatto in silenzio e senza armi.

Questo non è pacifismo, ma la potenza silenziosa di chi sa che ora ha le forze materiali per smettere di parlare il linguaggio mediatico che è stato a lungo costretto a utilizzare per farsi ascoltare. Nella marcia silenziosa, il personaggio-Marcos già moriva, non più necessario: negli anni di silenzio, le pratiche di autogoverno si erano sviluppate. Si trattava ora di mostrare che fuori dai riflettori mediatici un altro tempo di lotta aveva continuato a battere nelle comunità. Si trattava di mostrare ciò che a lungo e in silenzio si andava ancora costruendo, passo a passo, con tentativi e ripensamenti. E così, venne inaugurata una “piccola scuola zapatista”.

Ovviamente uno scontro “verticale” con il potere e i media c’è sempre stato e continuerà ad esserci, come la guerra paramilitare e la morte di Galeano ha mostrato. Ma è sul piano “orizzontale” e quotidiano che la risposta politica viene messa in pratica. L’escuelita zapatista non è stata una piattaforma politica tra realtà di movimento e quadri dell’EZLN, ma un momento in cui gente qualsiasi è stata ospitata in casa da indigeni zapatisti. Anziché scrivere un manifesto politico ci si è sforzati di comunicare tra lingue diverse delle quali, questa volta, lo spagnolo coloniale era quella straniera e i dialetti indigeni quella quotidiana. Si è imparato che “tradurre” è sempre cosa complicata, sia che si tratti di una lingua che di una pratica politica.

Abbiamo lavorato nei campi, letto libri e condiviso il cibo, ma non per imparare un modello di autonomia da esportare nei nostri paesi di provenienza. Al contrario, abbiamo sperimentato la differenza e il duro tentativo di dialogo tra lotte e vite completamente diverse tra loro. Non conosco di nessuna altra rete di popoli in guerra nel mondo intero capace di un simile sforzo umano e organizzativo. Fa sorridere pensare come qualcosa di così vero, così fisico e palpabile, sia stato reso possibile da un “ologramma”, durato vent’anni.

“Avevamo bisogno di tempo per incontrare chi ci vedesse non dall’alto, non dal basso, ma di fronte, che ci vedesse con uno sguardo da compagni”

Ghost Track

[Due segnalazioni di libri sullo zapatismo, usciti in Italia recentemente e complementari. Il primo, di Alessandro Ammetto, osservatore attento della ribellione zapatista sin dai suoi inizi (Ed. Red Star Press, 2014), s’intitola Siamo ancora qui. Uno storia indigena del Chiapas e dell’EZLN ed è tra i testi più completi e dettagliati in circolazione sulla storia del movimento zapatista e sul contesto politico, storico e sociale che ha preceduto l’insurrezione del 1994 e che ha segnato tutte le evoluzioni successive della lotta. Il secondo, di Andrea Cegna e Alberto “Abo” di Monte (AgenziaX, 2014) completa la storia e la arricchisce di testimonianze dirette e recenti. Si basa sull’esperienza della escuelita ma anche sul raccordo di più voci di movimenti, media indipendenti e militanti tra Messico e Italia (tra cui il centro per i diritti umani Frayba, la Brigada Callejera di Città del Messico, Promedios, Centro de medios libres, alcuni storici comitati italiani e artisti solidali come Rouge, 99 posse, Lo stato sociale e Punkreas). S’intitola 20zln. Vent’anni di zapatismo e liberazione. F. L.]

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