soggettività – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 11 May 2025 20:00:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente https://www.carmillaonline.com/2024/12/26/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-3-dal-popolo-al-popolo-il-proletariato-come-classe-dirigente/ Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85443 di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.

Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Una esemplificazione forse eccessiva che, però, aveva alle spalle qualcosa di più di una semplice suggestione. Indubbiamente l’autocrazia ben poteva vantare il suo ruolo reazionario, mostrando in tal modo di essere la miglior garante internazionale di fronte all’idra della rivoluzione così come il movimento populista si mostrava una forza sovversiva tanto determinata quanto indomita. Autocrazia e popolo, in apparenza, sembravano essere realtà astoriche non soggette a quella permanente e radicale trasformazione economica e sociale alla quale, invece, era pervenuta l’Europa capitalista. Ma il capitalismo penetra, proprio per mano dell’autocrazia, anche in Russia.

Quella formazione economica e sociale considerata inamovibile inizia a assumere caratteristiche che, più o meno velocemente, iniziano a mandare in frantumi il mondo di ieri. Lentamente, ma in maniera costante, la questione operaia inizia a farsi strada anche dentro l’impero zarista. Gli stessi populisti, o almeno la parte teoricamente e politicamente più attenta, iniziano a modificare la loro linea di condotta, per questi gli operai e le città cominciano ad assumere un interesse impensabile solo qualche tempo prima, interesse che, però, è ben lungi da comprenderne il portato. Per i populisti gli operai diventano una componente del popolo il quale, nella sua astrattezza, rimane il soggetto storico del movimento rivoluzionario. Allo stesso tempo l’idea che il popolo possa dar vita a un modello economico e sociale in grado di saltare il capitalismo, rimane un dogma pressoché immutato per i populisti. Esattamente speculare a questa posizione conservativa ha preso forma quella progressiva della borghesia, la quale mira a realizzare una rivoluzione di tipo occidentale in grado di liberare il capitalismo dai vincoli in cui il modello autocratico, a causa delle alleanze di classe alle quali è soggetto, lo imprigiona. Lenin si inserisce come un vero e proprio cuneo all’interno di queste ipotesi che non sembrano avere alternative.

Qui il testo di Lukács si fa estremamente interessante e lo è perché, avendo a mente la stragrande maggioranza della pubblicistica sull’operato di Lenin in relazione allo sviluppo del capitalismo in Russia, elimina dall’orizzonte di questo qualunque oggettivismo e determinismo di sorta2. Ciò che Lukács evidenzia è come a interessare Lenin non sia tanto e semplicemente constatare come lo sviluppo del capitalismo in Russia sia ormai diventato un semplice dato di fatto, bensì gli effetti che tutto ciò comporta per la composizione di classe. A partire da un processo oggettivo, lo sviluppo del capitalismo dentro l’intero impero zarista con conseguente sradicamento dei tradizionali rapporti sociali anche nelle le campagne, Lenin giunge a ridefinire il soggetto della rivoluzione, infatti, lui non abiura l’idea di popolo ma la riformula avendo a mente, da un lato la configurazione concreta del popolo dentro la trasformazione capitalista, dall’altro la figura centrale, il proletariato, che nella sua esistenza cristallizza la massima tensione del conflitto.

Lenin separa il proletariato dal popolo per rimettervelo successivamente dentro come forza motrice dell’insurrezione. Su ciò Lukács si sofferma non poco. Perché? In questo modo Lukács mira a combattere due battaglie: da un lato ribadire come Lenin, e con lui la dialettica marxiana, siano del tutto estranee all’oggettivismo e al determinismo in seconda battuta, ed è ciò che gli fa comprendere Lenin sino in fondo, e come per questo a essere sempre predominante sia l’attualità della rivoluzione. Ciò che Lukács coglie, sin dagli anni venti del ‘900 è la distorsione determinista e oggettivista che anche dentro il movimento comunista albeggia prepotentemente. Una distorsione che, soprattutto in occidente, tenderà velocemente a farsi egemone sia nelle tendenze più prossime alla socialdemocrazia, sia in alcune tendenze di estrema sinistra. Per questo soffermarsi su questo passaggio è particolarmente utile. Ciò che, a differenza di quanto fa Lukács, viene solitamente posto in evidenza in relazione al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è la precisa e netta posizione di Lenin contro i populisti, ossia verso la possibilità di saltare la fase capitalista, il riconoscere il carattere progressivo che in ogni caso il capitalismo porta in seno, il necessario appoggio a questo sviluppo e, in contemporanea, l‘organizzazione dei futuri affossatori del capitalismo. In realtà le cose non sono proprio così. Questo è il classico modo proteso a salvare capra e cavoli attraverso il quale l’evoluzionismo socialdemocratico si approprierà di Lenin. Si riconosce il tratto rivoluzionario di Lenin mentre lo si imprigiona nella logica dello sviluppo delle forze produttive. Per altro verso si liquida in poche battute il complesso rapporto di Lenin con il populismo arrivando a ignorare che, se alla sua prima opera di spessore teorico ha dato il titolo Che fare? un qualche motivo ci sarà pur stato3.

Il rapporto di Lenin con il populismo è tutto tranne che semplice e lineare e non solo per le pur non irrilevanti questioni personali che lo legano alle vicende del populismo. Per un verso il suo giudizio è sicuramente spietato. I populisti si pongono fuori dalla storia idealizzando un mondo che non c’è più e su questo Lenin non si fa remora di affondare i colpi verso il loro corpo teorico, però sarebbe intellettualmente poco onesto limitare a ciò il suo punto di vista. C’è tutto un filone del populismo che, rompendo con la tradizione apolitica del proprio passato, inizia a considerare la dimensione politica come ambito dell’attività rivoluzionaria. Sono gli stessi che iniziano a volgere lo sguardo verso gli operai e le città e che, aspetto che catturò non poco l’interesse di Lenin, avevano dato vita a strutture organizzative ferree, centralizzate e, per i tempi, improntate a un certo grado di professionalità. Strutture che avevano fatto il loro punto di forza nell’attività cospirativa e che, a differenza di tutto il filone del populismo educazionista, ponevano il combattimento politico e militare al centro della loro iniziativa. Lenin coglie con lucidità questa spaccatura dentro il populismo e tanto si distanzia dagli educazionisti, che per molti versi possono considerarsi gli antesignani del menscevismo, quanto apprezza il tratto giacobino degli altri. Nel Che fare? l’eredità di questo populismo troverà uno spazio non secondario e Lenin, quindi, non rinnega la soggettività di questa idea, semmai la plasma all’interno di uno scenario storico che aveva spazzato via quegli orizzonti. Puntualizzare questo aspetto non serve solo e semplicemente a ristabilire una verità storica ma significa ricollocare Lenin dentro quella attualità della rivoluzione che l’ortodossia comunista ha teso a cancellare.

Lenin non ragiona come Struve e neppure come Pleckanov che, per molti versi, è del tutto complementare al primo, ciò che gli interessa è cogliere, dentro il processo storico in atto in Russia, il soggetto della rivoluzione e quel soggetto, il soggetto operaio, deve essere organizzato fin da subito sul terreno dell’insurrezione. In Lenin non ci sono, differenziandosi immediatamente sia da Struve che da Pleckanov, due tempi. Non c’è l’ascesa della borghesia, l’instaurazione del suo dominio e poi, a ciclo concluso, il graduale passaggio verso il socialismo: in lui vi è qui e ora, il partito dell’insurrezione. Perché questo partito possa esistere occorre individuare il soggetto della rivoluzione e questo soggetto è la classe operaia, ma fare questo non è sufficiente, perché limitarsi a ciò significherebbe isolarla e condannarla alla sconfitta. Lenin non è il teorico e l’artefice della purezza operaia, ma piuttosto il filosofo del ruolo direttivo ed egemone di questa classe all’interno del processo rivoluzionario4, della quale lui cristallizza il ruolo egemone e la sua funzione dirigente dentro la rivoluzione al fine di farne avanguardia di questa, ponendola alla testa di tutti i subalterni. In questo modo egli lega la classe operaia al popolo ma non al popolo astratto e astorico dei populisti bensì al popolo concreto che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Tradotto in soldoni, nel contesto, significa principalmente legare la classe operaia alla questione contadina la quale, nel frattempo, ha perso del tutto i tratti idilliaci entro i quali aveva continuato a immaginarla il populismo. Lenin frantuma l’idea astratta di popolo e ne estrae la figura operaia non per isolarla politicamente ma per farla emergere come soggetto della rivoluzione. Fatto ciò, costruita l’autonomia politica e teorica della classe operaia, la riconduce dentro il popolo. La rivoluzione è sempre opera di masse subalterne le quali per forza di cose non sono, e neppure possono essere, solo classe operaia. Ciò è fin troppo chiaro a Lenin il quale non ha mai vagheggiato di una rivoluzione operaia pura, infatti, ciò che gli interessa è costruirne l’autonomia politica in modo da consentirle di svolgere sino in fondo il ruolo direttivo della rivoluzione. Le rivoluzioni, da sempre, mettono in moto milioni di individui ben distanti dall’incarnare classi sociali pure e sono sempre opera di quella moltitudine spuria che è il popolo. Lenin, però, rompe con l’idea di popolo per tornarvi subito dopo ma il suo popolo non avrà più nulla di quello immaginato e caro ai populisti, perché esso è l’insieme di quelle forze concrete e reali che daranno, come il 1905 sarà lì a dimostrare, l’assalto tanto all’autocrazia quanto alla grande borghesia e ai proprietari terrieri che hanno importato nella campagna gli elementi propri dell’agricoltura e dell’allevamento capitalisti. Questo il popolo reale, questa la composizione delle classi che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Mentre menscevichi e borghesia si limitano a stare dentro a questo processo Lenin non si rinchiude in ciò. Vi sta dentro, perché è impossibile ignorare quanto la realtà storica ha sedimentato, ma in contemporanea vi è contro. Dentro questa obiettiva trasformazione storicamente determinante, scaglia il treno della soggettività di classe; allo scientismo e al determinismo e all’immancabile immobilismo di classe che si porta appresso, quello dei menscevichi e dei borghesi che arrivano persino a patteggiare con l’autocrazia pur di dar corso allo sviluppo delle forze produttive, contrappone la variabile soggettiva della lotta di classe. La storia è storia di lotte di classe, solo il risultato di questo conflitto determinerà uno scenario storico–politico piuttosto che un altro5. Si sta sicuramente dentro, ma per essere altrettanto sicuramente contro. La dialettica storica è la dialettica del conflitto, la guerra di classe la sua cristallizzazione.

Proviamo a tradurre il paragrafo sul presente. Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera sicuramente non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato per l’impero zarista. La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia è possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia più recente. Ciò che appare per prima cosa evidente è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come stato/nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del ‘900 l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro tornano a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo. Nessuno può esimersi da una presa di posizione in merito. Alla luce di ciò, una rilettura del Lenin di Lukács si mostra più che attuale.

Di fronte a quanto accade, pur con tutte i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il, non meno fantasioso, divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma–stato all’interno della quale erano ascritti e tra l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, stato contro mercato e così via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge.

Esattamente dentro questo passaggio, invece, è possibile cogliere l’attualità del nostro testo. Qui, sulla scia di Lukács, è possibile recuperare per intero il metodo di lettura storico proprio di Lenin rompendo in tal modo l’apparente orizzonte obbligato del presente. Ma ciò cosa comporta? Da dove cominciare? Dobbiamo e soprattutto è possibile essere contro la globalizzazione? Dobbiamo cullarci nel presunto idilliaco mondo di ieri, fantasticandone il restauro o bisogna pensare l’insurrezione nel presente? Ma, ancor prima, sarebbe il caso di chiederci cosa hanno comportato le trasformazioni in atto nei confronti della classe e della sua composizione. In altre parole: chi è il potenziale seppellitore dell’ordinamento capitalistico contemporaneo? Ecco che, di fronte a queste domande, il quadro della realtà storica assume tratti meno obbligati di quanto l’aut aut solitamente presentato ci mostra. L’espandersi globale del mercato sta, di fatto, uniformando sul piano internazionale una condizione proletaria e subalterna impensabile solo poco tempo prima. L’era globale ha fatto saltare la tradizionale suddivisione tra primo e terzo mondo. Oggi questi due ambiti non sono stati azzerati ma, si potrebbe dire, universalizzati. Le condizioni proprie di quest’ultimo sono state importate e poste a regime nel vecchio primo mondo mentre, forme di questo, sono ampiamente presenti nell’ex terzo mondo. La globalizzazione, come è stato ormai ampiamente argomentato (e a ciò necessariamente rimandiamo) ha dato origine a società postcoloniali dove la forma colonia è diventata parte costitutiva e costituente delle stesse vecchie metropoli del primo mondo6. Ciò ha dato vita alla formazione di masse subalterne e proletarie transnazionali omogeneizzate da condizioni di vita e di lavoro sempre più identiche.

Questo proletariato internazionale, queste masse subalterne, sono il popolo concreto con il quale abbiamo a che fare, questo, e non altri, sono i potenziali affossatori del capitalismo dell’era globale. Questo proletariato e questo popolo non ha alcun motivo per guardare con una qualche nostalgia l’epopea passata. Queste masse senza volto non hanno, nel presente, nulla da difendere ma solo da spezzare le catene che le imprigionano. Esattamente a partire da questo dato di fatto il partito può prendere le forme dell’insurrezione del presente, qui e solo qui va posto il Lenin del e nel presente. Dentro questo passaggio si misura l’attualità del metodo leniniano, quindi del partito dell’insurrezione.

(3continua)


  1. Per una buona discussione di ciò si vedano: P. P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, in Quaderni di Movimento operaio e socialista, n. 1, Edizioni Centro Ligure di Storia Sociale, Genova 1974; A. Walicki, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973.  

  2. Bisogna, infatti, non limitarsi, come hanno fatto i deterministi, a considerare il testo analitico Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ma guardare all’insieme della produzione teorico–politica leniniana in merito allo sviluppo del capitalismo. Lì Lenin mostra chiaramente come il determinismo sia qualcosa di assolutamente distante da lui poiché, ciò che realmente interessa a Lenin, è organizzare gli affossatori del capitalismo non cantare le lodi di questo. È la soggettività della classe dentro lo sviluppo capitalista che interessa Lenin e la possibilità che, dentro questo processo storico–oggettivo, si aprono per l’emancipazione dei subalterni. Il Che fare? di ciò ne condensa, a ben vedere, la sintesi ma altri testi, come Le caratteristiche del romanticismo economico; Quale eredità respingiamo, in V. I. Lenin, Opere, vol. 2, Edizioni Rinascita, Roma 1954 sono altrettanto utili al fine di sottrarre Lenin a una lettura oggettivista e determinista.  

  3. Come risaputo Lenin riprese per il suo testo il titolo del romanzo populista di N. D. Černyševskij, Che fare?, Garzanti, Milano 1986. Con ciò Lenin volle dare una palese testimonianza di come, mentre si rigettava tutta una tradizione populista del tutto obsoleta, dall’altra se ne riprendevano le migliori qualità rivoluzionarie. Quella di un Lenin del tutto estraneo al mondo e alla tradizione populista è una leggenda storica dovuta solo all’imporsi dell’oggettivismo e del determinismo dentro il marxismo. Su questo aspetto l’interessante Introduzione di Vittorio Strada al Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  4. Esattamente qua si configura la frattura insanabile con il menscevismo di sinistra di Trockij e la sua Rivoluzione permanente, Torino, Einaudi 1967. Trockij è il vero assertore della rivoluzione operaia pura e ciò non gli farà mai comprendere la relazione complessa e contraddittoria che necessariamente si instaura tra classe operaia e masse subalterne. Le avvisaglie di ciò si erano già mostrate nella sua critica al giacobinismo del Che fare?, Red Star Press, Roma 2022, quando rimprovera a Lenin il legame con l’esperienza giacobina non comprendendo che, proprio dentro quell’esperienza, era compresa in potenza la moderna rivoluzione delle masse subalterne. Come i populisti si inventavano il mondo di ieri, Trockij finisce con l’inventarsi il mondo di oggi e, con ciò, finisce con il perdere la concretezza storica entro la quale si giocano i conflitti delle classi.  

  5. La linea di condotta tenuta da Lenin nel corso degli eventi del 1905 è, al proposito, quanto mai esemplificativa. Il modo e le motivazioni con le quali affronta e argomenta la possibile partecipazione dei bolscevichi a un governo rivoluzionario ne rappresentano un’eccellente cristallizzazione.  

  6. Cfr.: S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2013.  

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L’era degli oggetti e dei desideri elettronici naturalizzati https://www.carmillaonline.com/2023/03/19/lera-degli-oggetti-e-dei-desideri-elettronici-naturalizzati/ Sun, 19 Mar 2023 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76378 di Gioacchino Toni

Nel volume di Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà (Luiss University Press, 2022), in cui si analizzano gli effetti dei videogame attraverso un approccio di stampo psicoanalitico lacaniano, si evidenzia come l’universo videoludico, con il suo immaginario conformista, quando non esplicitamente reazionario, incida sui sogni e sui desideri degli utenti. Secondo Bown i videogiochi non si limiterebbero, dunque, a influenzare i comportamenti, le scelte e le decisioni degli individui, ma condizionerebbero gli utenti generando in essi “nuovi desideri” senza che questi ne siano del tutto consapevoli. Se è pur vero che a [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel volume di Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà (Luiss University Press, 2022), in cui si analizzano gli effetti dei videogame attraverso un approccio di stampo psicoanalitico lacaniano, si evidenzia come l’universo videoludico, con il suo immaginario conformista, quando non esplicitamente reazionario, incida sui sogni e sui desideri degli utenti. Secondo Bown i videogiochi non si limiterebbero, dunque, a influenzare i comportamenti, le scelte e le decisioni degli individui, ma condizionerebbero gli utenti generando in essi “nuovi desideri” senza che questi ne siano del tutto consapevoli. Se è pur vero che a ciò concorre l’intero universo tecnologico-comunicativo contemporaneo, secondo l’autore è però nell’esperienza del gaming che questo diviene manifesto anche dal punto di vista delle implicazioni politiche.

Quando si affronta l’universo tecnologico-comunicativo più sofisticato viene spontaneo domandarsi se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana; ebbene, sostiene Bown, tale interrogativo presuppone che la coscienza umana sia qualcosa di dato una volta per tutte e immodificabile ma non è affatto così, visto che questa si sta sempre più computerizzando.  Ciò che occorre indagare, secondo lo studioso – ed è proprio di ciò che tratta il volume –, è piuttosto «quale forma di coscienza a venire si esprima nella realtà virtuale e nei videogiochi» (p. 29), alla luce del fatto che non sono tanto questi ultimi a divenire come la realtà, ma è questa che si sta trasformando in un videogioco. Anziché preoccuparsi di quanto il computer divenga umano, varrebbe la pena concentrarsi su quanto l’umano stia divendo computer anche a causa della dilagante gamification.

Colossi come Google, ad esempio, stanno sviluppando tecnologie che vorrebbero prevedere dove intendiamo dirigerci sulla base delle nostre abitudini spazio-temporali prospettandoci percorsi da seguire. Se un tempo era l’architettura a porsi come “inconscio della città”, dunque a dettare i percorsi da seguire, ora «questo lavoro prescrittivo, che consiste nello stabilire i “rilievi psicogeografici” della città, è svolto dai cellulari» (p. 34). Sono pertanto gli smartphone a controllare le azioni e gli spostamenti e lo fanno per ottimizzare gli interessi economici disseminati nelle diverse zone urbane.

Transport of London, ad esempio, sta studiando come gamificare gli spostamenti attraverso concessioni premiali a chi asseconda le proposte di tragitto alternativo suggerite. Se di per sé l’idea sembrerebbe rivolta soltanto a rendere più fluido il traffico evitando inutili ingorghi, non è difficile immaginare come ciò possa contribuire a porre le basi di un sistema ludico di “credito sociale” attraverso cui valutare l’affidabilità e l’obbedienza dei cittadini non dissimile da quello cinese tanto denigrato in Occidente. «La “città intelligente” del futuro non preverrà solo gli imbottigliamenti, ma anche tutti gli utilizzi improduttivi o le occupazioni improprie dello spazio urbano» (p. 36), sostiene lo studioso.

Ciò che però dovrebbe inquietare maggiormente, suggerisce Bown, è che applicazioni di questo tipo anziché soddisfare i desideri dell’utente, finiscono per decidere al suo posto ciò che desidera. Lungi dal venirci in aiuto per soddisfare i nostri desideri, gli smartphone finiscono per generarli e organizzarli.

In altri termini, le App predittive dei dispositivi mobili potrebbero essere in grado di portare alla coscienza desideri e pulsioni che sarebbero altrimenti rimasti nel preconscio: questo significa che stiamo cedendo una importante porzione delle nostre capacità decisionali a dispositivi progettati per mappare le nostre azioni e influenzare i nostri movimenti (p. 37).

Come Shoshana Zuboff anche Alfie Bown si sofferma su Pokémon Go, un videogioco free-to-play commercializzato nel 2016, basato sulla realtà aumentata geolocalizzata tramite GPS – sviluppato da un’azienda legata ai sistemi di mappatura satellitare della CIA e di Google – che, nel prevedere la cattura di personaggi virtuali all’interno del mondo reale, indirizza i “cacciatori” verso determinate attività commerciali che ottengono così un maggior afflusso di potenziali clienti.

Dietro alla sua apparenza di innocente intrattenimento ludico, si cela in realtà un sofisticato esperimento di ingegneria sociale, capace di assorbire il “surplus comportamentale” degli utenti che lo utilizzano; il videogioco si rivela insomma una vera e propria “spugna” capace di assorbire una quantità impressionante di informazioni identitarie e comportamentali degli utenti.

Se Zuboff insiste soprattutto sulla capacità delle App di influenzare gli individui nei loro comportamenti, nelle scelte e nelle decisioni, Bown si dice convinto che queste possono generare nuovi desideri negli utenti. Le letture di Zuboff e Bown di Pokémon Go che individuano nel videogioco un efficace strumento di soggettivazione e condizionamento sono state ottimamente approfondite da Matteo Bittanti, autore della Prefazione al volume, nel video A lezione di Pokémon Go. Da A(lfie Bown) a (Shoshana) Z(uboff).

In termini lacaniani Bown individua nell’universo Pokémon «un’animazione che non costituisce l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto del prodotto dal desiderio e sul quale il desiderio può essere proiettato» (p. 38). Se a metà degli anni Novanta “l’oggetto elettronico” poteva ancora essere inteso come “sostitutivo” di un oggetto reale, ora, sostiene lo studioso, questo sembra in grado di agire al pari di qualsiasi altro oggetto “fisico” del desiderio. «Vivere nel mondo degli oggetti elettronici non significa […] dunque accettare copie e simulazioni di oggetti reali, come spesso si crede, ma qualcosa di ben diverso. Vuol dire desiderare seguendo le istruzioni dello schermo, sul quale l’oggetto, nello stesso momento, appare e detta il percorso del desiderio» (p. 39).

Lungi dal “darci ciò che vogliamo”, tali tecnologie sono state finalizzate a imporci perversamente desideri altrui. Attraverso cicli tecnologici di ripetizione sono stati letteralmente riscritti in termini economicisti, egemonici e centralizzati, il «desiderio dell’oggetto, l’esperienza del suo ottenimento e la possibilità di ricondividere il nostro stesso consumo dell’immagine» (p. 41).

L’esempio Pokémon consente a Bown non solo di evidenziare come dietro all’apparente soddisfazione di propri desideri tali sistemi di controllo e manipolazione agiscano per trasformare ciò che si desidera, ma anche come «l’oggetto fisico e il suo desiderio non preesist[a]no alla mediazione tecnologica del desiderio» (p. 43). Far parte della “generazione Pokémon”, afferma lo studioso, significa essere la “generazione degli oggetti elettronici” e prenderne atto potrebbe contribuire ad agire sul terreno del desiderio in maniera sovversiva.

Se l’universo videoludico contemporaneo è dominato da istanze conformiste votate al tradizionalismo più reazionario che alimentano la paura della “crisi” promuovendo l’American way on life, è però l’intera sua storia, sottolinea Bown, ad aver privilegiato tematiche quali l’espulsione degli alieni, il timore del contagio impuro, la difesa dei confini, la conquista colonialista e la costruzione di imperi inducendo il giocatore ad agire istintivamente aderendo acriticamente alle ideologie da essi veicolate.

«Un videogioco non è un testo che richiede di essere letto, ma un sogno che richiede di essere sognato» ma, sostiene Bown, occorre tenere presente che il gioco si presenta come esperienza in cui il gamer ha un ruolo attivo nel determinare gli eventi e, come nei sogni, «buona parte di questa apparente agentività è illusoria», essendo il giocatore costretto a un ambiente e ad una trama dati. «A differenza della realtà, ma ancora una volta come nei sogni, il giocatore può venire trasportato da una situazione all’altra senza preoccuparsi delle leggi del tempro e dello spazio. Come accade nei sogni, alla fine il giocatore torna nel mondo reale, ma le cose non sono sempre uguali a prima che il sogno iniziasse (p. 73).

Il videogioco non è pertanto il sogno di chi lo gioca, ma è il sogno di chi lo ha sviluppato e prodotto e, per certi versi, del contesto cultuale in cui nasce. Visto che gli esseri umani diventano sempre più “macchinici”, sostiene Bown, vale forse la pena di cominciare a chiedersi se i modelli psicanalitici della soggettività debbano continuare a essere utilizzati nelle stesse modalità con cui sono stati utilizziti fino ad ora.

Se Freud sostiene che «il sogno è l’appagamento mascherato di un desiderio infantile represso», nel caso dell’esperienza videoludica, sostiene Bown, si potrebbe dire che «il sogno è mascherato da appagamento di un desiderio infantile represso. Mentre il sogno si maschera d appagamento del desiderio interno o istintuale del soggetto, è in realtà il sogno dell’altro» (p. 84).

I videogiochi, dunque, nella misura in cui sono l’esperienza del sogno dell’altro, possono essere una particolare forma di godimento in cui i desideri dell’altro vengono vissuti – forse solo momentaneamente e inconsciamente – come se fossero i desideri del giocatore. È precisamente questa forma di godimento che può rivelarsi, allo stesso tempo, la più pericolosa da un punto di vista ideologico, e la più sovversiva (p. 85).

Visto che le modalità di godimento offerte dal mondo onirico videoludico mainstream tendono a supportare quell’universo valoriale tradizionalista e reazionario proprio del neoliberismo imperante, occorre domandarsi se i videogiochi, nel loro naturalizzare forme ideologiche di godimento, possano piuttosto perseguire finalità sovversive innanzitutto rendendo manifesta la struttura politica del godimento.

Alla luce del fatto che durante il gioco si viene a creare una temporanea situazione di disconoscimento psicoanalitico in cui il giocatore, pur essendo del tutto consapevole di essersi calato in un universo illusorio, vive l’esperienza giocata come fosse la realtà, Bown ha inteso con il suo libro indagare quali idee politiche plasmino tale «mondo semicosciente, straripante di beni in cui fuggiamo, ma da cui siamo anche formati e strutturati» giungendo a proporre una «teoria di come questa esperienza sia resa possibile e di come possa influenzarci in quanto soggetti» (p. 121).

A quell’universo onirico videoludico capace di dispensare piacere e godimento si accede attraverso sofisticati dispositivi tecnologici che rappresentano secondo Bown l’incarnazione contemporanea della fantasmagoria descritta da Walter Benjamin a proposito della gallerie parigine. Quella proposta dai videogame appare una «fantasmagoria in cui la storia collassa, e in cui si formano nuove relazioni e nuove affinità» (p. 121) che necessitano di essere indagate attentamente.

Il volume di Bown si domanda dunque come si possa diventare un “giocatore sovversivo”. Se nel copione steso nel 1987 da Félix Guattari per il film di fantascienza, mai realizzato, intitolato Un amour d’UIQ, si invocava una “soggettività macchinica” capace di fronteggiare la crisi delle identità prodotta dallo sviluppo tecnologico rendendo di fatto la psicanalisi inutile, André Nusselder (Interface Fantasy: a Lacanian Cyborg Ontology, MIT Press, 2009) sostiene invece l’utilità della psicanalisi, ammesso che questa riesca ad aggiornare la concezione lacaniana della fantasia in relazione al contesto digitale contemporaneo.

Qualche risposta al desiderio di farsi “giocatori sovversivi”, secondo Bown, può derivare proprio dal saper aggiornare la psicanalisi al nuovo contesto, di cui occorre urgentemente prendere atto consapevolmente.

In una società in cui la tecnologia e l’intrattenimento sono inseparabili e pervasivi, una psicanalisi della tecnologia può permettere […] di individuare le nuove politiche del desiderio, del godimento e del piacere. Capirlo è il primo passo per cambiare un mondo in cui – che lo vogliamo o meno – la soggettività viene trasformata dal progresso tecnologico (p. 130).

Evitando le trappole della tencofila e della tecnofobia, al sistema imperante, secondo Bown, non ci si oppone sottraendosi dal cyberspazio ma, piuttosto, portando in esso istanze sovversive. Solo così si può tentare di «influenzare le soggettività macchiniche» in modo da farle «insorgere contro le forze del capitale» (p. 132).

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In viaggio verso Francoforte. Intervista a Giorgio Fazio. https://www.carmillaonline.com/2021/07/27/in-viaggio-verso-francoforte-intervista-a-giorgio-fazio/ Mon, 26 Jul 2021 22:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67317 di Luca Cangianti

Se stringo gli occhi e guardo lo skyline di Francoforte le torri aliene del capitalismo finanziario svaniscono e il Meno si trasforma in uno specchio d’acqua dorato sul quale riposano vascelli venuti da regioni remote. Immagini simili ricorrono in una poesia di Charles Baudelaire (“Invito al viaggio”). Marcuse ne riprese due versi per descrivere, in Eros e Civiltà, un assetto sociale utopico, ma insito nei potenziali di ragione emergenti: “Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, / lusso, calma e voluttà.” Tali visioni sono il frutto della [...]]]> di Luca Cangianti

Se stringo gli occhi e guardo lo skyline di Francoforte le torri aliene del capitalismo finanziario svaniscono e il Meno si trasforma in uno specchio d’acqua dorato sul quale riposano vascelli venuti da regioni remote. Immagini simili ricorrono in una poesia di Charles Baudelaire (“Invito al viaggio”). Marcuse ne riprese due versi per descrivere, in Eros e Civiltà, un assetto sociale utopico, ma insito nei potenziali di ragione emergenti: “Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, / lusso, calma e voluttà.”
Tali visioni sono il frutto della lettura dell’ultima opera di Giorgio Fazio (Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, 2021, € 34,00, pp. 413), un’attenta e aggiornata storia della Scuola di Francoforte, la cui chiarezza non sminuisce la complessità delle tematiche affrontate. La ricostruzione si basa su due piani: l’individuazione di alcuni elementi connotanti il profilo teorico di questi pensatori e una loro segmentazione generazionale. Del primo piano fanno parte: la critica immanente come dialettica tra immanenza e trascendenza, il rapporto, anch’esso dialettico, tra teoria critica e prassi politica, il riferimento a un approccio olistico (più o meno temperato) e a contenuti progressivi iscritti nella tradizione filosofica, il rifiuto della filosofia della storia. Questo profilo filosofico, tuttavia, non è risultato indenne da aporie e contraddizioni che fin dall’inizio hanno dato vita a slittamenti teorici, ripensamenti e cambiamenti d’indirizzo influenzati anche dalle vicende storiche del momento. Alla prima generazione dei padri fondatori (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse), succede così Jürgen Habermas e poi una terza generazione rappresentata dai lavori di Axel Honneth e Nancy Fraser. Infine, con un grande sforzo si sintesi, Fazio offre al lettore italiano una panoramica degli autori e delle autrici più recenti: Wolfgang Streeck, Rahel Jaeggi e Hartmut Rosa. Insomma, un lungo viaggio che parte da Francoforte negli anni ’20 del secolo scorso, attraversa le barricate delle rivoluzioni sconfitte, fa tappa negli Stati Uniti nel dopoguerra e nel ’68 per tornare in Europa a confrontarsi con il boom economico e più recentemente con il neoliberismo.

Giorgio Fazio

Le teorie più audaci mi sembrano nottole di Minerva che spiccano il volo da rovine fumanti. Pensi che sia così anche per le autrici e gli autori di cui ti sei occupato?
La Scuola di Francoforte viene fondata nel 1930, quando ormai cominciava a esser chiaro che l’ondata rivoluzionaria aperta con il 1917 russo non aveva portato il comunismo né in Occidente né, al di là della retorica, in Oriente. Da questo punto di vista bisognava fare i conti con le aspettative disattese dalla vulgata marxista della Seconda e della Terza internazionale: lo sviluppo delle forze produttive e la crisi non generavano di per loro la rivoluzione e tantomeno il comunismo, confermando l’insostenibilità di qualsiasi finalismo e determinismo storico. Da questo punto di vista, per lo meno per la prima generazione della teoria critica, quindi, risponderei affermativamente alla tua domanda.

Come affronta il tema della soggettività e della coscienza di classe la prima generazione?
Se lo sviluppo del capitalismo e delle sue contraddizioni non sono sufficienti a generare la rivoluzione, la soggettività antagonista non può costituirsi come mera conseguenza dialettica del suddetto movimento. Anzi, negli anni ’20 e poi negli anni ’30 del secolo scorso si assiste all’emergere di processi di soggettivazione in senso reazionario anche tra le fila proletarie. Per questo motivo Horkheimer e i suoi collaboratori valorizzeranno aspetti “sovrastrutturali” quali la psicanalisi, la socializzazione primaria, l’arte, la religione, lo sport e il divertimento. In mancanza di un’analisi interdisciplinare su questi versanti, secondo i francofortesi, non si potevano spiegare né i processi di soggettivizzazione né la loro inibizione. In questo contesto il ruolo della teoria critica è smascherare i meccanismi ideologici invisibili, mettendo a nudo i rapporti di dominio sociale.

Penso che metafora architettonica presente in Per la critica dell’economia politica sia stata infelice. In quell’opera Karl Marx sostiene che sulla base economica, con la quale vien fatto coincidere il modo di produzione, si erigerebbe una sovrastruttura ideologica. A parer mio, il modo di produzione non può funzionare senza il suo versante immaginario. Quest’ultimo è parte del modo di produzione stesso. Qual era la posizione della teoria critica in merito?
In effetti la prima generazione dei francofortesi cercò di elaborare una teoria della totalità sociale che andasse oltre l’economicismo e ricomprendesse sfere sia economiche che culturali evitando ogni relazione unidirezionale tra elementi cosiddetti strutturali e sovrastrutturali.

Da Habermas in poi, le successive generazioni di teorici francofortesi hanno mosso ai fondatori la critica di paternalismo. Perché?
Fino a un certo punto la prima generazione si concepì in continuità con la sinistra hegeliana per quanto riguarda il tentativo di mantener vivi – indipendentemente dalle contingenze – i potenziali di ragione iscritti nella tradizione filosofica: progresso, autonomia, libertà. Lo sviluppo delle forze produttive e del lavoro sociale, con le loro potenzialità emancipatorie, avrebbe realizzato quelle promesse filosofiche e fatto saltare la gabbia dei vecchi rapporti di produzione. Dagli anni ’40, invece, viene meno questa fiducia. Lo stesso sviluppo delle forze produttive diventa il bersaglio della critica della ragione strumentale. Da questo momento in poi, tuttavia, la riflessione dei francofortesi comincia a concepire gli attori sociali come immersi in una “società totalmente amministrata” nella quale gli eventi si svolgono alle loro spalle. La riflessività critica degli attori è totalmente soggiogata con approcci sia autoritari (nazismo e stalinismo) che democratici (crescita salariale, sviluppo dei consumi, integrazione). In questo modo il filosofo critico saliva su una torre d’avorio e vi si confinava irrimediabilmente.

Come viene rivalutata l’agency degli attori sociali dalle generazioni successive a quella dei padri fondatori?
Fondamentalmente si sostiene una sorta di olismo moderato che rifugga dalla tentazione di funzionalizzare ogni comparto sociale: ci sono realtà istituzionali che incarnano norme e valori aprendo spiragli nei quali gli attori sociali possono incunearsi e inscenare conflitti. È per questo motivo che Nancy Fraser sostiene che la teoria sociale dev’essere bidimensionale: accanto alla funzionalità sistemica dobbiamo valorizzare il versante etico incarnato dalle convinzioni dei soggetti sociali e dalle loro cristallizzazioni istituzionali.

Un esempio di questo approccio è costituito dagli studi di Axel Honneth.
Questo pensatore parte dagli studi di storia del lavoro e finisce per affermare che i quadri normativi alla base dei conflitti sociali affondano le radici in subculture focalizzate non solo sulla distribuzione della ricchezza, ma anche sull’onore ferito, sulla dignità sociale negata. In questo modo non si nega il versante funzionalistico degli interessi di classe, ma lo si intreccia con le dinamiche morali, “immaginarie”, della richiesta di riconoscimento.

L’alienazione ha un ruolo centrale nella storia della filosofia e in particolare nel filone hegelomarxista, al quale, pur con alcune eccezioni, si può iscrivere la Scuola di Francoforte. In tempi recenti c’è stata una riformulazione critica di questa categoria.
Immagino che ti riferisca a Rahel Jaeggi che esorta a elaborare un concetto di alienazione più raffinato di quello consegnatoci dalla tradizione filosofica. Si tratta di liberarsi dalla falsa rappresentazione secondo cui il superamento dell’alienazione coinciderebbe con riappropriazioni finalistiche di presunte essenze e con la fluidificazione di tutto ciò che è irrigidito, implicito, non trasparente nella nostra vita. Basandosi su studi filosofico-antropologici di autori come Helmuth Plessner, Jaeggi afferma che la soggettività umana è irrimediabilmente affetta da una scissione costitutiva, da un rapporto di estraneità con sé e con il mondo. Si tratta di qualcosa che non può mai essere definitivamente superato. Insomma, i mostri autonomizzatisi dal nostro inconscio, le cristallizzazioni della ricchezza sociale che ci dominano e immiseriscono, sono destinati a risorgere continuamente. Siamo chiamati a una lotta infinita per riappropriarci di ciò che è nostro, ma l’alienazione non è tanto l’estraneo con il quale confliggiamo, quanto l’interruzione di questo processo di appropriazione e quindi del conflitto.

In questi giorni ricorre il ventennale delle giornate del G8 di Genova. Tu prendesti parte a quel movimento. Il pensiero della Scuola di Francoforte è costitutivamente un pensiero del conflitto e della critica del dominio. Studiarne approfonditamente la storia ha aggiunto qualcosa alla riflessione sull’esperienza del 2001?
Il popolo eterogeneo che vent’anni fa confluì a Genova praticava una politica antitetica alla politique politiciènne degli anni ’90. Si andava oltre il mero formalismo elettorale, si sottoponeva a una critica radicale il patriarcato, il ruolo dei mercati finanziari e del debito pubblico, le politiche migratorie ed estrattiviste. Era una politica che voleva ripensare i modelli di civiltà, quelli che Habermas chiamava grammatiche della vita e che Marcuse esortava a scardinare con una rivoluzione culturale creatrice di una nuova sensibilità, una soggettività non amputata, capace di ritessere una trama di relazioni vitali con gli altri umani e con la natura. Tutto il sangue versato e l’orrore di violenza scatenatosi in quei giorni contro i manifestanti non possono cancellare quei bisogni, quelle aspirazioni e quel potenziale di ragione.

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Confini e superamenti. La mobilità umana come terreno di conflitto https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/confini-e-superamenti-la-mobilita-umana-come-terreno-di-conflitto/ Tue, 25 Jun 2019 21:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53341 di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri [...]]]> di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.

Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.

Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).

Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».

Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».

Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».

Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.

«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».

I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».

Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».

Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.

Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.

 

 


  1. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2018 

  2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005 

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Il femminismo delle Zingare e la costruzione di coalizioni https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/il-femminismo-delle-zingare-e-la-costruzione-di-coalizioni/ Fri, 14 Dec 2018 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49834 di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro [...]]]> di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro tra biografie, lotte, percorsi di liberazione» Federica Giardini

«Corradi denuncia la retorica razzista dell’anti-zingarismo (rom-fobia), mettendo in luce la potenzialità radicale della coalizione e della solidarietà tra attiviste/i di genere rom da diverse collocazioni geopolitiche oltre i confini dello stato-nazione. Un contributo originale agli studi critici della razza e della colonialità in Europa» Chandra Talpade Mohanty

In che modo si sviluppa una coscienza di genere in un contesto in cui il ruolo della donna ha un’importanza fondamentale per la sopravvivenza della comunità stessa? Quali tratti distintivi ha il femminismo delle zingare rispetto a quello di altri gruppi sociali? In quali paesi il fenomeno appare più presente? Queste sono alcune delle questioni di cui tratta il libro di Laura Corradi pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti – Gypsy Feminism. Intersectional Politics, Alliances, Gender and Queer Activism (Routledge, 2018) – e in uscita proprio in questi giorni in edizione italiana nella collana “Relazioni pericolose” di Mimesis edizioni.

La comunità zingara è «la più demonizzata d’Europa, soggetta a costanti e ripetute stereotipizzazioni, oggi nuovamente assurta a capro espiatorio, in particolare a causa delle politiche neoliberali e della crisi economica» (p. 119); non a coso l’anti-zingarismo risulta oggi «l’unica forma di razzismo socialmente accettata in Europa» (p. 120). È a partire da tale contesto che, prendendo in considerazione il punto di vista e le sfide delle attiviste zingare, Corradi affronta un fenomeno sociale scarsamente conosciuto in Europa come il femminismo delle donne rom, gitane e traveller, focalizzandosi sulle soggettività che producono saperi e lotte contro il sessismo, il classismo, la rom-fobia, le espressioni di anti-zingarismo tutt’oggi radicate nel tessuto sociale.

L’apertura del volume è dedicata ad alcune riflessioni terminologiche non di poco conto visto che definizioni e categorie non sono mai neutre e da questo punto di vista la parola “Zingara/o” non fa certo eccezione. Introdotto nel XV secolo il termine viene utilizzato ancora oggi per designare genericamente chi ha vita nomade e nell’immaginario collettivo si è sedimentata l’idea che vuole le Zingare come rapitrici di bambine/i e ladre, propense a prostituirsi e madri del tutto inaffidabili e gli uomini come individui violenti e stupratori. Il termine, pur essendo spesso utilizzato come insulto – «sinonimo di vagabondo, pigro, sporco, incapace di lavorare, inaffidabile, falso e astuto. Essere Zingari nelle società occidentali rappresenta un’alterità radicale» (p. 19) – può dirsi oggi un termine conteso: si può criticarne il ricorso in quanto su di esso si è sedimentato un senso spregiativo, ma si può anche decidere di ricorrervi nonostante il retaggio negativo. «La parola è stata rivendicata da ricercatrici/ori e attiviste/i di diversi gruppi etnici e non etnici allo scopo di rendere possibile la comprensione e la valorizzazione delle differenze interne – nella consapevolezza di essere accomunati dallo stesso tipo di oppressione. Infatti, tutti i popoli Rom, Sinti, Manouche, Kalé, Yanish, Gitani, Camminanti, Gens du Voyage e Traveller sono stati chiamati Zingari e hanno affrontato l’anti-zingarismo e le persecuzioni» (p. 20). Oltre che per tali ragioni Corradi sceglie di ricorrere alla parola “Zingara/o” anche per un motivo di natura politica: «questa parola indica un crocevia di lotte collettive in parte condivise, un luogo comune a partire dal quale costruire alleanze» (p. 20).

La studiosa-attivista segnala come a livello istituzionale in Europa esistano due diverse tendenze: se da una parte il Consiglio d’Europa mantiene una distinzione tra termini diversi, paesi come la Francia e l’Italia tendono invece a raggruppare le diverse definizioni. Entrambe le opzioni mostrano elementi di contraddittorietà: il mantenimento delle distinzioni, apparentemente più corretto, potrebbe però rafforzare le divisioni, mentre il raggruppamento delle differenze in un unico termine potrebbe dar luogo a un rafforzamento del senso di appartenenza a una sfera comune facilitando coesione e alleanze.

Nel volume viene evidenziato come durante il processo di allargamento europeo si sia attuata un’importante e netta cesura: «il discorso politico sulle comunità zingare occidentali è diventato marginale, mentre le nuove narrazioni sulla situazione delle/dei Rom nei paesi dell’Est hanno catalizzato l’attenzione. La designazione “Zingara/o” è stata usata “come ponte” tra le due comunità fino a quando non è stata tracciata una linea politica di divisione, che nel discorso e nella pratica istituzionale ha separato […] le comunità zingare e nomadi occidentali dalle comunità rom orientali» (p. 22.) Si tratta di una scelta volta ad attuare una frammentazione funzionale al dominio. «Zingari e Nomadi venivano lasciati da parte come “gruppi non etnici”, mentre le popolazioni Rom venivano categorizzate come minoranza da rispettare e proteggere» (p. 22). Lo stesso ricorso all’etichetta «di un gruppo sociale come “minoranza”», ricorda Corradi, «non è al di sopra di ogni sospetto. Il termine richiama l’idea di minore, minuscolo, insignificante, trascurabile o inferiore; esso appartiene alla cornice cognitiva dominante che svaluta gli oggetti della pratica definitoria. Il fatto che ci si riferisca a ogni gruppo di persone di colore come a “minoranze” occulta il fatto che nel mondo le persone bianche sono una minoranza rispetto alle persone di colore». (p. 22). «La Dichiarazione di Strasburgo del 2010 ha optato per identificazioni su base etnica come Rom o Sinti e la maggior parte degli Stati membri ha adottato la stessa politica. In Italia, l’Ufficio nazionale contro il razzismo vieta l’uso del termine “Zingare/i”, ignorando le comunità e i gruppi di ricerca che tentano di praticare una riappropriazione semantica della parola […] D’altro canto, assistiamo a una riedizione dell’impiego negativo della parola “Zingara/o” come epiteto offensivo da parte di gruppi politici di destra e razzisti» (pp. 22-23).

Parte della debolezza del termine “Zingara/o”, sostiene la studiosa-attivista, deriva dal fatto che esso è il risultato di un processo di alterizzazione ovvero della definizione di un gruppo da parte del gruppo dominante in cui spesso si ricorre a termini inferiorizzanti, in questo caso la definizione deriva dalla volontà delle popolazioni sedentarie di indicare come estranee quelle nomadi. Consapevole delle ambiguità dei termini e del loro «essere oggetti contesi in termini di significato, e della loro funzione politica in quanto significanti» (p. 24), scrive Corradi, è pur vero che se da un lato «la definizione di chi sia “Altro” è una prerogativa di chi ha potere, la ri-definizione diventa una attività autopotenziante per le categorie oppresse. La decisione di intitolare questo libro Il femminismo delle Zingare può essere letta come espressione di fiducia verso il potenziale sovversivo di ri-significazione delle parole inteso come atto politico in divenire. La produzione di contro-definizioni può avvenire attraverso un’inversione semiotica dei significanti dispotici, come è avvenuto in passato nel caso di parole come Freak, Fag, Dyke e, la più nota di tutte, Queer» (p. 25).
A proposito di linguaggio, il ricorso della comunità zingara a termini come Gagé per indicare le persone che non ne fanno parte può essere letta come una forma di autodifesa contro chi ha «il potere di definire ed esercitare la supremazia», si tratta di una «una pratica importante in termini di costruzione di contropoteri semiotici all’interno della comunità e nei rapporti con le molteplici agentività politiche esterne, aventi diversi gradi di prossimità» (p. 26).

Dopo le precisazioni di carattere terminologico, il libro prosegue con una ricostruzione storica e sociale utile a comprendere tanto la situazione che oggi vede le Zingare in Europa strette tra razzismo, sessismo e povertà, quanto «alcune battaglie di genere e le sfumature di un patriarcato profondamente radicato, che ha resistito al cambiamento sociale, sopravvivendo come forma anche opposizionale alle diverse persecuzioni sofferte dalle comunità nel corso della storia» (p. 29). Inaugurata nel Medioevo, la mostrificazione dell’alterità ha probabilmente raggiunto il culmine durante l’Inquisizione e, sostiene Corradi, buona parte dell’armamentario di stereotipi contemporaneo sembra riprendere quanto si è sedimentato in quell’epoca.

È forse utile riportare qualche dato. «In Europa, la comunità rom costituisce ufficialmente la più grande “minoranza” etnica: si stimano circa 12 milioni di Rom con lingue e tradizioni simili. La comunità rom, specie nell’Est europeo, è una parte sostanziosa della popolazione comunemente definita “zingara”. Le persone zingare, probabilmente sottostimate, sono quasi 20 milioni sparse in 66 paesi del mondo. Più di 10 milioni vivono in Europa, escludendo le comunità zingare della Russia (circa un milione di persone) e quelle della Turchia, che potrebbero ammontare a 5 milioni […]. In Europa, le comunità zingare, gitane, Gents du Voyage e Camminanti vivono nei paesi dell’area mediterranea: Spagna, Grecia, Francia, Italia. Mentre le/i Traveller risiedono nel Regno Unito e in Irlanda. I paesi orientali, Ungheria e Albania, e gli stati balcanici della Romania e della Bulgaria ospitano invece la maggioranza delle/i Rom» (p. 30).

«La prima legge contro la comunità zingara fu emanata in Moravia nel marzo del 1538. Nello stesso secolo, la corona inglese emanava una serie di leggi antiegiziane per espellere o uccidere gli “Egyptian”, da cui Gypsy. Per molti secoli la comunità zingara è stata perseguitata, spesso a causa di sentenze dei tribunali cattolici dell’Inquisizione, specialmente in Italia e in Spagna. Intere comunità zingare rom furono costrette alla schiavitù nei Balcani, e oltreoceano ridotte in catene insieme alle popolazioni africane e ai nativi-americani – messi ai lavori forzati nelle colonie inglesi. L’apice della persecuzione si raggiunse nel XX secolo con il Barò Porrajmos (letteralmente “Grande divoramento”) nazista, risultato della combinazione tra spinte etnocide e propositi genocidi» (p. 34).

Durante la Seconda guerra mondiale circa mezzo milione di Rom, Sinti e altri gruppi zingari sono stati sterminati nei campi di concentramento nazisti e altrettanti morirono a causa delle persecuzioni. Si stima che in Europa circa tre quarti del popolo rom sia stato sterminato in epoca nazi-fascista. Se nella Spagna franchista la lingua romanés finì addirittura per essere vietata, sono parecchie le parti d’Europa in cui le persone zingare sono state discriminate e si deve attendere il 27 gennaio 2005, data dell’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite volta a commemorare tutte le vittime dell’Olocausto, che si ha a livello istituzionale il riconoscimento della persecuzione subita dalle comunità zingare. «In questa data, le persone rom uccise durante il Porrajmos sono ricordate e onorate da tutte le comunità. Nei contesti dell’attivismo si celebra anche l’anniversario della insurrezione zingara di Auschwitz-Birkenau del 16 maggio» (p. 35). Se in Europa il Porrajmos è poco riconosciuto, e ancora meno si è al corrente degli episodi della Resistenza zingara, ciò è in buona parte dovuto alla sistematica cancellazione della memoria funzionale alle «tendenze politiche etnocide e svolgono un ruolo importante nel rendere invisibili la storia e l’agire politico delle comunità zingare» (p. 36).

I rapporti di Amnesty International evidenziano le violazioni dei diritti umani subite dalle donne rom a causa di discriminazioni di etnia e genere e alcune ricerche europee indicano come il numero di persone che manifestano pregiudizi verso altri gruppi etnici sia il doppio rispetto a quanti hanno pregiudizi verso le/gli omosessuali. «Il fenomeno dell’anti-zingarismo ha ricevuto l’attenzione dei media solo in seguito agli incendi dei campi, dopo attacchi neofascisti e xenofobi in alcune circostanze istigati da politici. Talvolta gli assalti coinvolgono coloro che abitano nelle vicinanze dei campi, spesso persone di classe bassa afflitte dalle condizioni degradate del quartiere, dall’abbandono delle istituzioni, dalle condizioni di pericolo per la salute pubblica» (p. 39). Non è infrequente che dopo qualche atto criminale raggruppamenti fascisti e razzisti si adoperino per istigare le frange urbane più vulnerabili a individuare nelle comunità zingare un capro espiatorio.

«A livello sociale, Zingari, Rom e Traveller sono spesso rappresentati in modo idealizzato, le comunità sono viste come luoghi in cui il tempo e lo spazio non sono merci e possono fungere da struttura per il legame collettivo. Le persone gagé possono leggere le relazioni interpersonali zingare come “non capitalistiche” a causa della grande importanza data all’amicizia, alla convivialità, alla reciprocità, al sostegno e ad altri valori non materiali. Eppure, queste culture sono rappresentate dai media mainstream come brutali e materialiste, caratterizzate dall’avidità per l’oro e da un’eccessiva preoccupazione per il denaro. In questo caso, le persone gagé sottovalutano l’insicurezza economica in cui di solito vivono le persone zingare, che solitamente non possiedono beni immobiliari o altre garanzie. L’insicurezza economica spiega il fatto che le famiglie diano ancora oggi particolare importanza a beni e oggetti di valore che siano trasportabili, quando diventa necessario andarsene» (pp. 41-42).

Nel primo capitolo – Tradizioni patriarcali e ricerca intersezionale femminista – la studiosa-attivista si sofferma su alcune ricerche-azioni femministe contro la violenza domestica nei campi e nelle comunità zingare. «Le ricercatrici hanno raggiunto risultati significativi adottando una metodologia partecipativa, intersezionale e non eurocentrica» (p. 48). Tra le istituzioni promotrici vengono citate il Segretariato Gitano in Spagna e la Fondazione Brodolini in Italia.

«Progetti come Empow-air considerano la violenza un elemento strutturale delle società dominate dagli uomini a livello globale: “non esiste paese al mondo in cui le donne siano libere dalla violenza”. Tutte le società tendono a negare, legittimare o minimizzare la violenza contro le donne e questo contribuisce a mantenerle in una posizione subalterna. Ciò avviene anche nelle comunità zingare, sebbene la cultura non rappresenti in sé una spiegazione dell’esistenza del patriarcato, mentre è utile a capire i modi specifici in cui si articola ogni patriarcato. La ricerca-azione Empow-air ha dimostrato la necessità per l’attivismo di genere e per le femministe di concentrarsi su tutti i tipi di violenza che le Zingare devono fronteggiare oggigiorno, a partire da violenza di stato, molestie della polizia, attacchi di rom-fobia, sgomberi forzati dai campi, forme materiali e simboliche di razzismo istituzionale. Una pratica discorsiva sulla violenza in famiglia dovrebbe superare le resistenze e i comportamenti difensivi di donne e uomini di diverse età e status per le/i quali parlare di abusi domestici è ancora un tabù. La denuncia legale intentata dalla vittima è percepita come violazione della solidarietà di gruppo e causa la perdita di prestigio e d’immagine dell’intera comunità. Per queste ragioni, le/ gli attivisti gagé (non zingare/i) devono possedere competenze culturali, abilità, sensibilità e inclinazione per gli scambi interculturali; devono impegnarsi in una decostruzione costante dei propri privilegi in quanto Gagé, dei propri pregiudizi e comportamenti “da bianchi”. La Weltanschauung (visione del mondo) prodotta dalla cultura egemone, viene solitamente vissuta come “naturale” e influisce sul modo di percepire le altre culture. Il movimento femminista delle donne bianche aveva ritenuto politicamente importante la denuncia pubblica della violenza di genere, mentre le donne di colore e le comunità oppresse hanno dimostrato in molti casi che per loro è più utile un approccio diverso. La creazione di progetti di empowerment sensibili alle differenze etniche ha consentito la creazione di spazi sicuri dove poter parlare di questioni intime, sessualità, verginità, matrimoni precoci e molestie. Così sono emersi nuovi modi di affrontare la violenza domestica e sessuale, la formazione di gruppi di pressione tra pari per delegittimare il maschilismo, i comportamenti prevaricatori e gli stereotipi sessuali sulle donne nei discorsi tra soli uomini e negli spazi omosociali, tipici della mascolinità dominante» (pp. 48-49).

Nel secondo capitolo – Vent’anni di femminismo e attivismo di genere – Corradi prende in considerazione alcuni esempi di diffusione di una coscienza di genere, di nascita di gruppi reti di donne zingare e di forme specifiche di femminismo. «La libertà che negli anni Settanta il vento femminista ha portato con sé e che ha rimodellato le società dell’Europa occidentale sembrava non avere scosso le famiglie rom. Tuttavia, durante gli anni Novanta, dopo la riunificazione della Germania, fioriscono nuovi gruppi di donne zingare » (p. 62).
In particolare come esperienza transnazionale di successo viene indicata la rete International Roma Women Network le cui «attiviste, mettendo in discussione simultaneamente razzismo e disuguaglianze di genere, si impegnano a sensibilizzare sulle difficoltà e sui pregiudizi che le Rom affrontano sia nella società dello spettacolo sia nelle comunità rom tradizionali. La Roma Women Network è un modello di pratica femminista intersezionale guidata da Rom in collaborazione con non Rom, particolarmente utile per la costruzione di alleanze» (p. 70). Corradi sottolinea anche come «non tutte le attiviste rom impegnate nelle questioni di genere si definiscono femministe; alcune danno priorità alla lotta antirazzista o all’orgoglio etnico e sostengono i diritti delle donne solo su alcuni argomenti specifici. Oggi, le attiviste di genere rom possono articolare le loro problematiche sia nell’ambito dei diritti umani delle donne sia in quello del femminismo globale» (p. 70).

Se il Terzo capitolo – Femminismo rom – è dedicato all’analisi di alcuni scritti collettivi sul femminismo rom pubblicati su riviste internazionali, il Quarto – Decolonizzare teoria e pratica femminista – si apre con le riflessioni della sociologa maori Linda Tuhiwai Smith che sottolinea come «la produzione di conoscenze accademiche, saperi e prassi di ricerca» risulti ancora decisamente «influenzata dalle priorità e dai valori europei nati durante l’Illuminismo. Alla base della supremazia culturale euro-atlantica risiede la nozione di scienza fondata sulla razionalità, ritenuta forma superiore di conoscenza, a discapito di esperienza e intuizione. La persistenza dell’egemonia occidentale trova radici nel costrutto gerarchico che distingueva i colonizzatori dai colonizzati, le persone bianche dalle non-bianche, i sovrani dai subalterni e, all’interno di tutte queste categorie, le donne dagli uomini» (p. 85).
Negli ultimi decenni numerose ricercatrici e attiviste sono giunte a condividere la necessità di decolonizzare il sapere, la teoria e anche il femminismo. Corradi ricorda come «le donne zingare, le donne nere, indigene, aborigene e maori hanno messo in discussione l’uso della parola “femminismo”. Ciò che si può ritenere una tematica o una lotta femminista varia notevolmente in base al contesto culturale. […] Di fatto, mentre alcune attiviste di genere e donne leader si definiscono femministe, altre non amano l’espressione femminismo, che può apparire antagonista o minacciosa agli uomini e alle donne della propria comunità. Alcune attiviste di genere percepiscono il femminismo come storicamente legato all’eredità e al lessico delle donne bianche; in passato il termine implicava un rischio di sovra-determinazione, l’imposizione di una progettualità non condivisa» (p. 86). Il capitolo indaga pertanto le modalità di ricerca e di attivismo femminista in grado di fare i conti con tale complessità.

Il Quinto capitolo – Gypsy queer – affronta le condizioni e le aspirazioni delle persone queer. Se in generale «le persone che mostrano preferenze sessuali o identità di genere “non conformi” tendono a essere escluse dalla famiglia e dalla comunità» (p. 96), ciò, sostiene Corradi, accade anche nelle comunità zingare. «L’identità di genere e l’orientamento sessuale sono argomenti delicati, nel contesto culturale rom e gitano, difficili da ricostruire storicamente, perché mancano le fonti» (p. 96). A partire dal particolare tipo di identità gypsy e queer, Corradi ricorda come «essendo collettività senza stato, sia le persone zingare che le persone queer non hanno paese, eserciti o confini stabiliti. Le bandiere zingare, come le bandiere queer, rappresentano luoghi dell’anima. Nella lotta del popolo kurdo di Rojava sono emerse teorie politiche sul superamento dello stato, forma storicamente obsoleta, a favore di federazioni di comunità di gruppi etnici e religiosi diversi. Tali idee di democrazia diretta e di autogoverno sono state messe in pratica da donne e uomini kurde/i in una situazione di resistenza drammaticamente difficile, contro lo stato islamico (Daesh) e la politica fascista e genocida della Turchia. L’interesse internazionale per il federalismo democratico della Federazione Rojava nella Siria del nord può essere spiegato grazie all’accento posto sull’interculturalità, l’inter-confessionalità e l’impegno a superare costituzionalmente le disuguaglianze di classe e di genere. In effetti, il Rojava Social Contract (Carta costituente della Federazione), firmato da diversi gruppi etnici, esige cooperazione, diritti delle donne e valorizzazione delle diversità. Potrebbe diventare fonte di ispirazione anche per le comunità zingare apolidi, per lo sviluppo dell’autogoverno e di nuove alleanze» (p. 107).

Il Sesto capitolo – Invisibilità accademica, epistemologia zingara e importanza del meticciato – è dedicato alla necessità di «decolonizzare la conoscenza e disconnettersi dalla cultura dominante» visto che «la maggior parte degli studi rom sono ancora controllati da studiosi/e bianchi/e non rom, che le università sono ancora luoghi coloniali, appannaggio delle classi benestanti, dove le élite culturali e le gerarchie accademiche difendono i loro privilegi» (p. 112).

Nel Settimo capitolo – Body politics, media-attivismo e riappropriazione dei significati – l’autrice-attivista, vista la portata della cultura visuale sulla società attuale, si sofferma sull’importanza che, nell’ambito della politica del corpo, riveste per le femministe il monitoraggio e l’analisi dei contenuti dei media. Il capitolo si sofferma, inoltre, sulla creazione da parte femminista di «nuovi media in grado di produrre conoscenze, idee e immagini» ricordando come la riappropriazione del corpo, «dopo la schiavitù e la persecuzione, l’annichilimento e l’inferiorizzazione delle persone zingare [abbia] un notevole peso anche da un punto di vista semiotico» (p. 120). Pertanto, suggerisce Corradi, il «fiorire di reti di donne zingare e di blogger femministe e attiviste di genere» (p. 120) deve essere assolutamente essere percepito come importante indicatore di un cambiamento in atto. «Nell’ambiente artistico le immagini stereotipate di donne e uomini zingari e gli standard di bellezza ufficiali vengono rifiutati e prende piede, a più livelli di coscienza ed espressione, una ri-significazione autogestita e liberatoria del corpo zingaro, dalla danza al teatro, dall’arte di strada alla fotografia. L’oppressione materiale e semiotica vissuta dalla comunità zingara ha prodotto una ri-significazione di segni, gesti e oggetti di riconoscimento: vestiti, capelli, e gesti. Rivendicarli ha l’effetto di ri-nobilitare un intero processo di adattamento a condizioni avverse» (pp. 123-124).

In conclusione, il volume realizzato da Corradi analizza «il contributo del femminismo delle Zingare mettendo in luce alcune idee, progetti, forme di azione, esperienze e conoscenze elaborate nella specificità dei margini rom, gypsy e traveller, dove nascono nuove prospettive epistemologiche al crocevia fra razza/etnia, genere, classe, età, sessualità, status, religione e diverse abilità. Il femminismo delle Zingare è utile per riflettere in modo inclusivo sulla società, su teorie e metodologie di ricerca-azione, sulle politiche antirazziste e sulle alleanze fra comunità oppresse » (p. 129). «Il protagonismo etnico e non-etnico delle Zingare ha riconfigurato l’agentività politica e l’attivismo di genere, dando vita a varianti geografiche in rapido mutamento. In questa rinascita sociale delle comunità rom, gitane, sinte e traveller, l’emergere del femminismo delle Zingare costituisce un momento di autoriflessione all’interno delle comunità e aiuta a costruire ponti verso il mondo esterno, processi cruciali in un momento in cui le comunità vengono sottoposte a varie forme di controllo» (p. 130).

Corradi individua tre fattori che rendono significativa l’azione femminista zingara. Il primo ha a che fare con l’incremento dei fenomeni di antizingarismo e dii attacchi razzisti/xenofobi. A tal proposito i media insistono spesso nel denunciare il permanere delle comunità in uno stato di arretratezza culturale e tendono a sfruttare i casi di violenza di genere «per spettacolarizzare un evento e rappresentare gli uomini rom come brutali, criminalizzando l’intera comunità» (p. 130). Secondo Corradi il femminismo delle Zingare permette di mantenere «la direzione del cambiamento verso il rispetto per le differenze, l’empowerment e la coesione sociale nelle comunità e insieme facilita la comunicazione con il mondo esterno sulle questioni di genere» (p. 130). Il secondo fattore per cui il femminismo delle Zingare risulta fondamentale «riguarda la consapevolezza culturale della complessità dei processi alla base della formazione dell’identità, accompagnata da una diversa considerazione per le opere d’arte e la musica, le memorie e il linguaggio, nonostante il rischio di mercificazione cui sono esposti gli artefatti culturali. Anche in questo caso, considerata la costruzione di genere delle pratiche di lavoro, dei segni etnici e delle identità sociali, le femministe zingare offrono utili strumenti di autoriflessione e forme decisionali partecipative, una volta chiarito che le identità (e tutto ciò che esse producono sul piano materiale e simbolico) non sono in vendita» (p. 130). Il terzo fattore per cui «il femminismo delle Zingare si rivela essenziale consiste nel fatto che nessuna comunità può superare un’oppressione secolare conservando forme di assoggettamento interne. Il contributo dell’intelligenza e dell’abilità delle donne nella vita sociale e nei processi decisionali collettivi, così come nelle famiglie, è una risorsa vitale per la piena fioritura di una primavera zingara (Roma Spring). Lo stesso si può dire per le pratiche inclusive che riguardano coloro che vengono percepite/i come “diverse/i”. La lotta per il rispetto sociale non può venire vanificata da atteggiamenti marginalizzanti all’interno delle comunità. Le persone zingare queer non meritano l’esclusione né l’umiliazione, devono essere accettate come componenti della famiglia e del gruppo di pari» (p. 131).

Il femminismo delle Zingare, dunque, secondo Corradi, «offre la possibilità di allargare le prospettive in termini di intersezionalità a coloro che hanno a cuore la lotta contro tutte le disuguaglianze sociali. Esso è fonte di ispirazione per la sua capacità di costruire coalizioni, grazie alle particolari qualità di resilienza sviluppate in diversi paesi europei e al transnazionalismo che le donne rom, sinte, e traveller incarnano. Le loro prospettive sono importanti sia per qualsiasi discorso politico sul superamento dello stato sia nel dialogo tra femminismi etnici e non etnici, nei “sud del mondo” come ovunque. Il femminismo delle Zingare trascende i confini, sfida i pregiudizi geografici occidentali e gli atteggiamenti eurocentrici partendo da un punto di vista molteplice e mutevole, quello di un “quarto mondo” recente ma con radici antiche» (p. 131).

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Eroi, zombie e migranti https://www.carmillaonline.com/2018/03/11/eroi-zombie-e-migranti/ Sat, 10 Mar 2018 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44201 di Maurizio Marrone

I criteri attraverso i quali siamo soliti definire l’eroe variano, ovviamente, in base al contesto storico, politico e narrativo all’interno del quale egli consuma le proprie gesta. Tuttavia rispettando la ricostruzione di un celebre manuale di sceneggiatura scritto da Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe, egli, da Ulisse sino all’ultimo dei supereroi Marvel, per potersi definire tale, deve intraprendere un viaggio nel corso del quale abbandona un orizzonte di riferimento noto (il mondo ordinario) alla volta di un universo sconosciuto e minaccioso (il mondo straordinario). Molto spesso, a [...]]]> di Maurizio Marrone

I criteri attraverso i quali siamo soliti definire l’eroe variano, ovviamente, in base al contesto storico, politico e narrativo all’interno del quale egli consuma le proprie gesta. Tuttavia rispettando la ricostruzione di un celebre manuale di sceneggiatura scritto da Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe, egli, da Ulisse sino all’ultimo dei supereroi Marvel, per potersi definire tale, deve intraprendere un viaggio nel corso del quale abbandona un orizzonte di riferimento noto (il mondo ordinario) alla volta di un universo sconosciuto e minaccioso (il mondo straordinario). Molto spesso, a nostro avviso, questo errare iniziatico è scandito dal complicato rapporto che l‘eroe intrattiene con la coscienza di sé e con la conoscenza, ovvero con il compimento della propria soggettività. Eppure, in questo sterminato campionario che attinge alla radice stessa del mythos e nel quale Edipo e Luke Skywalker sono funzioni di una medesima struttura narrativa archetipica, l’eroe non sembra aver mai indossato i panni logori dello zombie. E questo perché, seguendo l’interpretazione che Rocco Ronchi elabora della mitologia zombie in un bel libro dal titolo Zombie Outbreak 1, il living dead, il non morto, essendo pura massa informe e priva di mondo, non può mai essere soggetto.

L’origine sociologica del mito zombie è indubbia e se ne trova traccia per la prima volta in The Magic Island2, un libro-reportage del 1929 di William Seabrook. Questa opera, a sua volta, ispirerà il primo zombie movie della storia del cinema, vale a dire White Zombie di Victor Halperin (1932). Secondo la ricostruzione di Seabrook, ripresa poi liberamene da Halperin nel film, gli zombie sono operai agricoli haitiani sfruttati e sottopagati che lavorano la canna da zucchero nei campi e azionano le presse di una gigantesca fabbrica americana chiamata Hasco (Haitian-American Sugar Company). Grazie a una droga particolare, combinata con alcuni riti magici della tradizione vodoo, si provoca in un soggetto una condizione di morte apparente, al risveglio dalla quale, egli si trova in uno stato di coscienza dormiente. In questo modo egli lavora senza nutrirsi e, soprattutto, senza sentire la fatica. La cornice entro la quale nasce e prende forma il primo zombie movie della storia del cinema, quindi, è la fabbrica e all’origine del mito dei non-morti agiscono le categorie di sfruttamento, lavoro salariato, proletarizzazione delle masse contadine e tecnicizzazione della produzione. Lo zombie in sostanza, secondo Ronchi, proviene dal mondo del lavoro ed è un distillato esemplare della nozione marxiana di lavoro astratto. La figura dello zombie, tuttavia, abbandonerà progressivamente il modello haitiano, per acquisire la sua nuova e definitiva fisionomia di living dead, nei film di Romero e in tutta la narrazione post-romeriana. La metamorfosi è notevole: da meno che schiavo a cannibale insaziabile, da pura forza lavoro a compulsione cieca verso quel godimento che, allo zombie haitiano, è precluso per definizione. Sembrerebbe un cambio radicale di paradigma, ma secondo Ronchi, si tratta della medesima metafora che adatta se stessa al mutamento di forma del capitalismo stesso, al suo slittare verso il piano del consumo coatto: “Il proletario insorto che rivendica il proprio diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletario è l’onkos che minaccia il corpo sociale borghese…”3. Onkos (tra i cui significati troviamo quello di “massa”) è un termine che Platone utilizza nel Parmenide come sinonimo di plethos apeiron e sta a indicare l’infinita molteplicità acefala che residua quando i molti perdono il loro rapporto con l’uno; è il nome di un molteplice senza unità, di una massa senza individui. Lo zombie non esiste mai al singolare; gli zombie esistono sempre come gruppo informe che si diffonde come una massa tumorale minacciando il corpo sano della società. Secondo questa interpretazione, quindi, il non-morto non ha alcuna coscienza di sé, dell’altro e del mondo. Egli rappresenta la contraddizione in atto della coscienza e non può mai, per sua stessa natura, vestire i panni dell’eroe.

Esiste tuttavia almeno un esempio in cui questo paradigma viene sovvertito in maniera sorprendentemente radicale: si tratta di un romanzo del 2015 dal titolo La ragazza che sapeva troppo 4. La protagonista è una bambina di nome Melanie che scopriamo essere una living dead di seconda generazione, nata da una madre già infetta. Melanie ha sviluppato col batterio che trasforma gli esseri umani in zombie cannibali (nel romanzo vengono chiamati hungries) un rapporto simbiotico e questo equilibrio coatto preserva la sua coscienza dall’annullamento totale. Melanie, seppur in una forma inedita, è individuo e non onkos. Inizialmente vive segregata in una prigione dove le insegnano a leggere e scrivere per studiarne le reazioni neuro cerebrali e dove una scienziata è pronta a vivisezionare il suo cervello nella disperata ricerca di un vaccino. La bambina è assetata di sapere, conosce la mitologia greca e adora la sua insegnante, ma è totalmente ignara di sé; ancora non sa, infatti, che la sua natura più profonda è dominata da una fame atavica capace di trasformarla in una belva feroce ogni qual volta percepisce l’odore della carne viva. Non sa di essere una hungry. Lo scopre quando la prigione viene attaccata e lei, per salvare la sua insegnante, uccide a morsi un aggressore. Scopre di essere una hungry, ma scopre anche che, rispetto agli altri hungries, è diversa. Perché lei non è puro appetito cannibale; lei è una cosa che pensa, che ha coscienza di sé, del contesto in cui è inserita, e intuisce che questa distinzione originaria rende possibili tutte le altre. In primo luogo la possibilità di scegliere. La domanda su se stessa – che cosa sono – inaugura, quindi, un vero e proprio viaggio di formazione attraverso l’esperienza del mondo che arricchisce l’esperienza di sé e viceversa. Un viaggio durante il quale, gradualmente, impara a controllare il suo appetito e a convivere con gli esseri umani tra le rovine di una civiltà ormai prossima alla fine. Quando però scopre che esistono gruppi autosufficienti di bambini come lei che, anche se in forma pre-linguistica e selvaggia, si sono comunque organizzati in piccole comunità con regole e gerarchie precise, Melanie capisce che il suo viaggio è giunto al temine. Dà fuoco a un arbusto le cui spore, diffondendosi per via aerea, stermineranno l’umanità. Salva solo la sua insegnante che, relegata per sempre in ambiente stagno, insegnerà a leggere e scrivere agli altri bambini come lei.
Come in gran parte della narrazione zombie anche ne La ragazza che sapeva troppo sembra esservi un evidente riferimento alla dialettica servo-padrone di matrice hegeliana: l’onkos, la massa acefala, in qualche modo si evolve acquistando coscienza di sé e, attraverso un vero e proprio processo rivoluzionario, annienta il padrone che, nella figura dell’unica sopravvissuta (l’insegnante), diventa schiavo a sua volta. Si potrebbe però azzardare un’interpretazione ancor più politica dell’epilogo del romanzo: Melanie percorre un cammino eroico progressivo e graduale che le fa acquisire una coscienza individuale come prodromica e propedeutica al raggiungimento di una vera e propria coscienza di classe, quasi in senso lukacsiano; da qui si procede poi alla fondazione di una nuova comunità politica e di un nuovo corpo sociale. Quando Melanie capisce che esiste un gruppo di hungries identici a lei, infatti, elabora in pochissimo tempo la coscienza degli interessi di questo gruppo e il gesto di dar fuoco agli sporangi è il precipitato politico-rivoluzionario di tale elaborazione: spazzando via l’umanità residua, Melanie interpreta e porta a compimento la missione storica della nuova “classe” cui ha scoperto di appartenere.

Rispettando la linea interpretativa sin qui tracciata è possibile individuare una categoria esemplare del panorama geopolitico contemporaneo che sembra trovarsi in bilico proprio tra la funzione dello zombie e quella dell’eroe: la categoria del migrante. A un primo sguardo, infatti, si potrebbe pensare alla massa dei migranti come a uno scarto, un residuo che, nella forma dell’abbandono del mondo ordinario, si ribella al sistema che l’ha generato (o quanto meno tenta di sfuggirvi) e, come organismo ancora indistinto (onkos), ne aggredisce il corpo vivo. La disperazione, ad esempio, è un tratto inequivocabile che accomuna l’appetito insaziabile del living dead e la fame di benessere, o semplicemente di vita, che spinge molti migranti alla fuga; come gli zombie, per altro verso, anche i migranti non sembrano mai esistere al singolare. Le definizioni che li concernono sono sempre e solo articolazioni astratte di un’identica funzione di disturbo che minaccia la presunta solidità del mondo globale eretto a sistema. A ben guardare, tuttavia, la visione del migrante come parte inconsapevole di un organismo indistinto, che agisce come una massa tumorale e accerchia le cellule sane del corpo sociale, è frutto di una lettura auto assolutoria che, ex-post, il sistema regala a se stesso. La spersonalizzazione e la riduzione dell’uno al molteplice informe ci mette al riparo dall’orrore perché ci rende ciechi. Ci impedisce di vedere i disperati che arrivano sulle nostre coste, ma soprattutto quelli che non ci arrivano, annegando in mare o essendo venduti come schiavi in Libia: individui che facevano parte di una comunità, avevano un nome, una storia, delle relazioni sociali, un passato e, solo a volte, un futuro.
Forse dovremmo cominciare a pensare a ciascuno di loro come a un nuovo eroe che intraprende il suo viaggio proprio come se fosse Melanie: costretto a farlo. Intrappolato suo malgrado in un racconto che lo vorrebbe onkos, senza storia e senza volto, eppur capace attraverso la coscienza di sé e dell’altro di varcare la soglia del mondo straordinario e di ricostituire, magari insieme a noi, passo dopo passo, il perimetro di una comunità possibile.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio MarroneGabriele Guerra e Pierpaolo Ciccarelli]


  1. Cfr. Rocco Ronchi, Zombie outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus, 2015. 

  2. Cfr. William Seabrook, The Magic Island, Geroge G. Harrap & Co., 1929. 

  3. Cfr. Rocco Ronchi, cit., p.49. 

  4. Cfr. M.R. Carey, La Ragazza che sapeva troppo, Newton Compton, 2015. Dal libro è stato poi tratto un film dal titolo omonimo, per la regia di Colm McCarthy, uscito in Italia nel 2017. 

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L’identità: un concetto avvelenato https://www.carmillaonline.com/2018/01/28/lidentita-un-concetto-avvelenato/ Sat, 27 Jan 2018 23:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42691 di Armando Lancellotti

Detto approssimativamente: Dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa, che essa sia identica a se stessa, non dice nulla (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.5303)

È cosa facilmente verificabile per chiunque che il concetto di identità sia oggigiorno uno dei più frequentemente utilizzati in tutti gli ambiti del discorso pubblico e questo ha dato luogo ad una moltiplicazione delle sue possibili declinazioni e delle sue differenti accezioni: identità occidentale, europea, nazionale, culturale, religiosa, etnica, locale o regionale, personale ecc. E poco importa se molte di queste espressioni abbiano [...]]]> di Armando Lancellotti

Detto approssimativamente: Dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa, che essa sia identica a se stessa, non dice nulla (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.5303)

È cosa facilmente verificabile per chiunque che il concetto di identità sia oggigiorno uno dei più frequentemente utilizzati in tutti gli ambiti del discorso pubblico e questo ha dato luogo ad una moltiplicazione delle sue possibili declinazioni e delle sue differenti accezioni: identità occidentale, europea, nazionale, culturale, religiosa, etnica, locale o regionale, personale ecc. E poco importa se molte di queste espressioni abbiano oppure non abbiano un senso compiuto che ne permetta un utilizzo valido e pertinente, perché la rivendicazione identitaria sembra essere diventata un’ossessione a tal punto evidente, pervasiva e diffusa da non riuscire più neppure a mascherare le dinamiche che la producono, le esigenze e le difficoltà individuali e collettive che la alimentano. È come se lo sbriciolamento della realtà sociale, politica, economica, lavorativa – conseguenza di un mondo reso globale da un mercato totale in costante corto circuito e aggrovigliato su stesso nel circolo vizioso della riproduzione di iniquità sociale – avesse reso necessario il ricorso a pratiche identitarie, ovvero all’arroccamento difensivo su posizioni identitarie sufficientemente forti per fornire l’illusione di un barlume di sicurezza.

Che si tratti del più volte evocato “scontro di civiltà” o delle baggianate su presepi ed alberi natalizi da difendere da chissà quale nemico come simboli culturali-religiosi; che si parli delle frontiere mediterranee o balcaniche da presidiare per bloccare l’arrivo o il passaggio dei migranti o dei sempre più richiesti interventi politici di esclusione economico-sociale dei migranti stessi e di altre minoranze per la conservazione di un benessere invariabilmente decrescente, tutto ciò lo si fa sempre riferendosi, come base di legittimazione, ad una identità, da rivendicare, da riaffermare, soprattutto da difendere. Ci si definisce, a seconda di casi e contesti, occidentali, europei, cristiani, addirittura anacronisticamente patrioti, italiani o di altra nazionalità, insomma ci si propone come titolari di una identità, che ci determina, ci profila, ci consolida e infine ci contrappone agli altri, ai nemici.

Lo scenario politico poi (e non solo quello italiano), desertificato da una povertà di pensiero mortificante, abbonda di richiami ed appelli identitari, in applicazione della più elementare e banale legge del mercato, quella della domanda e dell’offerta che reciprocamente si condizionano: leader e partiti politici offrono temi identitari ad un’opinione pubblica che li domanda esponenzialmente; domanda a sua volta alimentata da un’offerta crescente e variegata.

Stando così le cose, una riflessione approfondita sul concetto di identità, come quella che propone Francesco Remotti nel suo Ossessione identitaria [Laterza 2010, ripubblicato nella collana Economica nel 2017], risulta particolarmente utile ed interessante. L’autore – antropologo e professore emerito all’Università di Torino – affronta lo studio del concetto di identità con gli strumenti dell’antropologia, delle scienze umane e sociali, della filosofia, giungendo a conclusioni, per sua stessa ammissione, diverse da quelle da lui proposte negli anni ’90 del secolo scorso, quando, in saggi come Contro l’identità [Laterza, 1996], ancora riteneva che l’idea di identità fosse un qualcosa di irrinunciabile e che bastasse attenuarne la forza, evitarne l’uso unilaterale ed invasivo. Oggi Remotti ritiene che si possa, che si debba fare un passo deciso in avanti e in direzione del rifiuto del concetto di identità, del suo definitivo abbandono, a causa della sua “tossicità”; l’identità infatti, afferma esplicitamente l’autore, è una “parola avvelenata” e pertanto socialmente perniciosa e contagiosa.

Le analisi e le argomentazioni di Remotti presuppongono una preliminare distinzione di due piani: quello analitico, delle riflessioni elaborate dagli studiosi delle scienze umane e sociali e quello operativo, dei concreti soggetti ed attori sociali; ovvero il piano della definizione teorica del concetto di identità e della storia dei suoi significati e quello pratico dell’effettivo agire sociale dei soggetti, individuali e collettivi, che attuano logiche e prassi identitarie.

La parola “identità” di per sé è «nitida, limpida, elegante, pulita» (p. X) e queste sue caratteristiche sono forse la conseguenza dell’ambito logico e metafisico in cui essa è stata originariamente elaborata e di quello giuridico ed amministrativo in cui è largamente impiegata. La “certificazione dell’identità” costituisce, infatti, uno degli atti fondamentali previsti dal nostro ordinamento giuridico e quello all’identità personale è considerato un diritto inalienabile dell’uomo. L’assunzione di una identità funge da ancoraggio a qualcosa di solido e stabile, quasi fosse una sorta di declinazione esistenziale e sociale del principio logico di identità e di non contraddizione: ognuno è se stesso e non può essere un altro. Pertanto, in quanto “promessa” di riconoscibilità e stabilità, il concetto di identità parrebbe essere meritevole di giudizio positivo, mentre la tesi di fondo del saggio di Remotti è del tutto opposta.

La negatività del concetto è data innanzi tutto dal fatto che “identità” è una parola ingannevole, mistificante, poiché promette o lascia intendere qualcosa che non c’è e che non può esserci, racconta un mito, un grande mito del nostro tempo. Almeno due – spiega lo studioso piemontese – sono le categorie principali dei miti: quelli che non si preoccupano di dissimulare la propria natura, tanto incredibili e fantasiosi sono le vicende e i personaggi narrati, e quelli che invece «esigono di essere trattati come realtà» (p.XII) e l’identità è uno di questi; il mito identitario è serio, anzi serioso, pretende rispetto e accreditamento di realtà, pur essendo in verità qualcosa di concretamente inafferrabile, indefinibile.

L’identità è un concetto “sostanzialistico”, cioè metafisico in senso classico, perché rimanda ad una sostanza, ad un nucleo originario, stabile e permanente. La sostanza infatti è il fondamento, ciò che permane pur nel variare dei suoi attributi; per l’ontologia classica è il significato più forte dell’essere, «è ciò che garantisce l’identità di una cosa sia nell’evolversi nel tempo e nel mutare delle condizioni, sia attraverso la molteplicità degli oggetti» (p. 26). Dal punto di vista filosofico il concetto trova il suo fondamento logico nel principio di identità e di non contraddizione, che ritaglia, delimita l’identità e la separa dall’alterità, la quale è definita solo relativamente, negativamente ed è allontanata dall’identità a tutela della sua purezza. È l’essere identico a se stesso dell’ontologia eleatica, che relega l’alterità nell’ambito del non essere.

Con la dialettica hegeliana – osserva Remotti – identità e alterità si riavvicinano: nella relazione dialettica l’identico si rovescia nel proprio negativo – l’altro da sé – che però viene riassorbito dallo sviluppo speculativo della ragione dialettica e dalla riaffermazione di una identità non più immobile e statica, ma progredente. Hegel emenda l’idea classica del principio di identità, affermandone l’astrattezza da un punto di vista dialettico: il principio di identità e di non contraddizione è lo strumento con cui opera l’intelletto producendo universali astratti, che solo il lavorio dialettico della ragione, che passa attraverso la relazione con l’altro, con il negativo dialettico, riesce a rendere concreti. L’identità si rovescia nell’alterità e l’Intero (la realtà, l’essere) è processualità storica non fossilizzata in sostanze statiche separate le une dalle altre. «A e non-A si intrecciano e si combinano per formare, a loro volta, altre entità in un movimento trasformativo continuo e inarrestabile» (p. 28). In Hegel l’identità statica è superata dalla convinzione che la realtà sia trasformazione, ma «l’idea di un principio unitario permanente» (p. 28) ricompare sotto la forma della direzione necessaria, che tutto ricomprende, che a tutto dà un senso e che l’Intero segue, realizzando se stesso come Risultato del proprio processo.

Mutatis mutandis, la stessa logica universalistica e necessitante dell’hegelismo sottende anche la dialettica marxista – sostiene Remotti – e così pur «fondando la dialettica su altri presupposti (materialistici invece che idealistici), il marxismo adotta una prospettiva di universalità, la quale giustifica l’inglobamento anche violento delle realtà locali entro un processo storico avente un significato e una destinazione universali» (p. 29).

Quando, a partire dagli anni ‘60/’70 del XX secolo, tramontano prospettive ed impostazioni universalistiche e fortemente generalizzanti, nelle scienze umane e sociali riprende l’attenzione per il concetto di identità, ma non più definito in termini sostanzialistici ed universalistici (non esistono più vie maestre, ma solo deviazioni dall’inesistente via maestra), bensì ripensato sotto la forma dei “soggetti”, individuali o collettivi, che prendono forma in un contesto di concrete e divenienti relazioni sociali e che aspirano ad una identità nella misura in cui sono in grado di richiedere ed ottenere “riconoscimento” dagli “altri”. Una nozione sociologica di identità, quella elaborata dalle scienze umane e sociali del Novecento, ben diversa da quella ontologica classica, ma che comunque richiede un «sufficiente grado di compattezza interna e una soddisfacente definibilità esterna» (p. 34).

È possibile – osserva Remotti – distinguere tra due diverse e fondamentali tipologie di richiesta sociale di riconoscimento, non necessariamente entrambe identitarie. La prima è quella identitaria in cui il soggetto richiede il riconoscimento della sua sostanza, della sua “essenza”; la seconda (riconoscimento non identitario) è quella in cui il soggetto richiede il riconoscimento della sua “esistenza” (diritti, progetti, obiettivi, ecc). Diritti, progetti, obiettivi di vita sono dialettici, mutevoli e precari, possono essere discussi, mediati, corretti in itinere, mentre l’identità sostanziale è un’essenza, pretende di essere riconosciuta come immutabile ed immobile. Essa vuole essere difesa nella sua purezza e percepisce l’”alterità” e l’”alterazione” come pericoli.

Secondo la logica identitaria l’altro è una minaccia anche quando o anche se non compie alcuna azione propriamente minacciosa e occorre liberarsene al più presto, anche preventivamente. L’identitarismo tende a dividere l’umanità in “gli uni” e “gli altri”. E infatti, sostiene Remotti, tra razzismo ed identitarismo non c’è poi molta differenza, perché entrambi si appellano ad una sostanza – prevalentemente biologica nel primo caso e storico-culturale nel secondo (anche se poi le due componenti possono spesso mescolarsi) – ed entrambi si pongono il fine prioritario della difesa della propria purezza dal contagio dell’alterità. Oggi il mito della razza, per ben note ragioni storiche, non gode di particolare fortuna e credito, anche se non mancano di certo e da più parti i tentativi di un suo rilancio e di un suo riaccreditamento nell’ambito del politicamente pensabile e dicibile. Allora a sostituirsi al mito della razza e, potremmo dire, a veicolarlo surrettiziamente è l’altro mito, invece molto in voga, il mito dell’identità, che per giunta non è considerato un mito, ma qualcosa di assolutamente reale.

Risulta, allora, chiaramente giustificata da quanto detto la proposta di Remotti di sbarazzarsi del concetto di identità e delle sue nefaste conseguenze e, sul piano terminologico, di sostituirlo con il concetto di “noi”, ben più concreto, meno velleitario ed assoluto. I “noi” sono da intendersi come soggetti sociali richiedenti riconoscimento, ma non necessariamente un riconoscimento identitario. Tra NOI e IDENTITA’, quindi, vi è differenza. Innanzi tutto i “noi” di cui possiamo fare parte in uno stesso momento della nostra esistenza sono molteplici: famiglia, vicinato, partito politico, classe sociale, fede religiosa, tifo calcistico, scuola, amicizia, ecc e ognuno di questi gruppi si può a sua volta suddividere in “noi” sempre più piccoli e differenziati. Inoltre l’”identità” è qualcosa di astratto, mentre i “noi” sono concreti. In quanto astratta, l’”identità” pretende l’immobilità, l’immutabilità, mentre i “noi” sono fluidi, divenienti, dinamici, situazionali. Il “noi” può essere un concetto poroso, che comprende l’alterità al suo interno, mentre l’”identità” o il “noi identitario” escludono l’alterità e rifuggono l’alterazione.

Occorre, pertanto, ridefinire, proprio alla luce degli sviluppi delle scienze umane e sociali, il concetto di identità, intendendolo non come qualcosa di già dato una volta per tutte e a cui assimilarsi, un qualcosa che pretenda di essere riconosciuto come identico a sé, bensì come il risultato di pratiche ripetute di riconoscimento all’interno di un contesto di relazioni reciproche che fanno dell’identità un qualcosa in fieri, un qualcosa di transitorio ed approssimativo. E questo qualcosa si definisce a posteriori, mai a priori e in quanto meta di approssimazione continua. L’identità va pensata – potremmo dire – come una kantiana “idea della ragione”, il cui uso corretto non è quello assoluto, cioè sostanziale e fondativo, bensì quello regolativo, cioè costituente un’ideale termine di tensione.

Il rapporto con l’alterità, inoltre, è da intendersi come qualcosa di indispensabile per il processo di definizione di un soggetto (individuale o collettivo) in qualche modo identitario, di una società o di una cultura. Si potrebbe dire che l’alterità è complementare e consustanziale all’identità. La “sfera eleatica” che l’identità pretenderebbe di essere mostra in realtà al proprio interno punti di discontinuità, fratture, un alternarsi continuo di pieno e di vuoto.
Per argomentare questa tesi Remotti fa ricorso alla teoria antropologica del “vincolo di particolarità”. «Che si tratti di sistemi, di istituzioni, di costumi, di culture, la convinzione è che essi siano sempre particolari e locali. L’universalità inerisce soltanto all’insieme delle potenzialità iniziali e inespresse, da cui prende avvio qualunque realizzazione umana, qualunque forma culturale» (pp. 10-11). All’interno delle “molteplici potenzialità iniziali” occorre operare numerose scelte, talvolta consapevoli e più di frequente inconsapevoli – quelle «che sono alla base delle configurazioni culturali, e che determinano i caratteri di ciò che si usa chiamare identità, si realizzano [spesso] a livello inconscio» (p. 11) – ma comunque sempre delle scelte che comportano l’esclusione delle opzioni altre, che però, proprio perché fatte oggetto di esclusione, determinano in modo vincolante il profilo di quanto è stato scelto, contribuiscono alla sua delineazione o definizione. Come a dire che una scelta è sempre limitata e limitante, cioè particolare e strettamente legata (vincolata) a ciò che ha scartato.

La consapevolezza delle dinamiche proprie del “vincolo di particolarità” permetterebbe, secondo Remotti, una riformulazione del concetto di identità in grado di mettere in evidenza i tratti di arbitrarietà, relatività, precarietà, incertezza e fluidità della scelta che ne costituisce il fondamento.

«Siamo così (questa – se proprio vogliamo – è la nostra identità), ma avremmo potuto essere diversamente» (p. 12).

L’identità pertanto, pensa Remotti, è un altrove, un al di là e tale deve rimanere. In questo modo si evidenzierebbero gli sforzi che i soggetti compiono per tendere verso la stabilizzazione. Sono gli sforzi che contano ben più del risultato, il quale non è da intendersi come qualcosa di astratto ed inafferrabile quale è il concetto di identità, ma come qualcosa di ben più concreto, seppur di grado inferiore: un po’ di coerenza, un po’ di continuità, un po’ di stabilità. Inoltre se l’identità viene prelevata da quell’altrove utopistico in cui deve rimanere e viene introdotta nell’ambito della concreta esperienza, questo comporta l’abbandono, la dimenticanza di una serie di importanti valori come l’alterità e l’alterazione, importanti tanto quanto quelli di stabilità e coerenza.

Il soggetto (individuale o collettivo) si trova, pertanto, all’interno di una banda di oscillazione i cui estremi sono l’Identità e l’Alterità e si avvicinerà all’uno o all’altro estremo a seconda delle circostanze, delle necessità, dei momenti. Entrambi gli estremi sono pericolosi: quello dell’Identità comporterebbe fossilizzazione ed esclusione di ogni forma di divenire e di dinamismo, quello dell’Alterità comporterebbe il rischio dello sfaldamento e del dissolvimento della soggettività stessa.

Appare chiaro come qui si tratti del ripensamento complessivo dell’idea di identità, che si pone in alternativa al tradizionale modo di intenderla che ne definisce il concetto in termini di necessità e di universalità immutabile; caratteri del concetto di identità che si fondano e si legittimano sulla base di una operazione di condanna e di cancellazione delle possibilità alternative scartate e di successiva ipostatizzazione della scelta operata. In questo modo si disconosce come l’identico e l’altro siano entrambi conseguenze, strettamente apparentate, dello stesso atto, l’atto della scelta che produce la biforcazione identità-alterità.

«Se le scelte sono possibili (non necessarie), se sono particolari (non universali), se sono precarie (non inevitabilmente durature o permanenti), ciò significa che sono anche revocabili. L’alterità è lì, minacciosamente incombente, inquietantemente a portata di mano: non è soltanto il sottoprodotto delle scelte (i suoi scarti), qualcosa che appare o si determina dopo il gesto della scelta; è invece alla radice stessa delle scelte» (p. 13).

Le nostre società, invece, tendono sempre più evidentemente in direzione dell’estremo dell’Identità, così evidenziando – ritiene Remotti – una crescente fragilità strutturale.
«Rincorrendo un sogno impossibile ed irrazionale, quello di afferrare un principio di per sé inafferrabile e inesistente, la cultura identitaria finisce per essere una cultura povera, che per giunta non conosce la sua miseria. In fondo, l’identità è l’ultima risorsa che rimane quando c’è penuria di strumenti per immaginare un futuro diverso, quando si chiudono gli occhi di fronte alle possibilità dell’alterazione» (p.XXV).

Se le scelte che fondano culture, civiltà, società, sistemi ed istituzioni sono inevitabilmente arbitrarie e precarie, allora ciò che si produce è quanto Remotti, diversamente rendendo l’espressione freudiana Das Unbehagen in der Kultur, esprime come “il disagio nella cultura”, applicando però il concetto secondo modalità prese a prestito – dice l’autore – da John Dewey. Per sfuggire a tale disagio, società e culture ricorrono al “camuffamento” della scelta fondativa e della sua precaria arbitrarietà, che viene sostituita da una pretesa necessità di tipo storico o naturale, operazione questa del camuffamento che poi si traduce nella “reificazione” (sopra da noi chiamata ipostatizzazione) dei prodotti della scelta, che risultano essere oggetti a sé stanti, dotati di realtà ed esistenza proprie ed indipendenti dall’atto decisionale da cui conseguono.

«Valori, significati, idee, tutto ciò che è incorporato nelle istituzioni, nei costumi, nella cultura non è più considerato come l’esito di scelte, ma come se avesse una realtà a sé stante, come se fosse una res, una “cosa” a parte rispetto alle possibilità di scelta degli individui. […] La reificazione uccide il senso delle possibilità; sopprime (o tenta di sopprimere) il senso della precarietà» (p. 14) e di conseguenza contrappone la pretesa di “integrità” (e la tutela di essa) alla possibilità di “integrazione”.

Sul piano operativo, infatti, cioè su quello pratico dei concreti attori e soggetti sociali, non su quello analitico degli studi delle scienze umane, permane l’aspirazione alla conquista e alla rivendicazione di un’identità concepita in termini ontologici, essenzialistici, che permetta agli attori stessi di sottrarsi al confronto e all’interazione all’interno dei concreti contesti di relazione sociale e di arroccarsi a difesa di una pretesa propria natura identitaria immutabile ed indiscutibile.

Due, riflette Remotti, sono le categorie principali dei processi di costruzione identitaria, «quella dell’”io” e quella del “noi”, intendendo per categoria dell’”io” i soggetti individuali e per categoria del “noi” i soggetti collettivi» (p. 39). Entrambe le categorie presentano alcuni tratti fondamentali comuni, come, innanzi tutto, il fatto che sia gli “io” sia i “noi” non siano delle entità già date e costituite, che poi agiscono e intrecciano rapporti, ma, al contrario, sono il risultato delle loro azioni e relazioni. In secondo luogo, l’essere sia degli “io” sia dei “noi” è prevalentemente di natura sociale, culturale, storica e in modo decisamente meno importante di natura biologica, anche se questo configurarsi come “artefatto umano” più che come “dato di natura” risulta più evidente nel caso dei “noi”, i quali, inoltre, si presentano in forme e modi estremamente più variabili e differenziati rispetto agli “io”.

Pertanto, dal punto di vista, per esempio, quantitativo, i “noi” possono variare dal limite minimo della coppia di individui al limite massimo dell’umanità intera, passando attraverso un popolo, una nazione, una civiltà, ecc. Inoltre, se l’impostazione tradizionale del pensiero e della cultura occidentali aveva per lo più ritenuto che prima vi fosse l’uomo come individuo, come soggetto a sé stante e poi che questo costituisse una collettività sociale, la filosofia e le scienze umane del Novecento si sono preoccupate di capovolgere il punto di vista, dimostrando che «l’io è un costrutto sociale, un artefatto culturale [e che pertanto prima] vi sono i noi entro cui si costruiscono gli io […], ovvero ancora che prima vi sono le relazioni e poi le entità entro cui esse intercorrono» (p. 41).

Entrambe le categorie di soggetti, però – io o noi – nel momento in cui rivendicano una identità, aspirano alla compattezza, alla eliminazione delle differenze interne, alla costituzione di una unità solida escludente gli altri; l’insistenza o l’ossessione identitarie conducono alla chiusura, alla indisponibilità al confronto e al rifiuto deciso della alterazione, che diviene un vero e proprio tabù: il terrore del “meticciato”.

La scelta identitaria è una scelta per niente affatto necessaria o inevitabile, bensì una scelta – dice Remotti – miope ed impoverente, in quanto si preclude la possibilità dell’arricchimento nel contatto con gli altri, disconoscendo che “noi” e “altri” costituiscono due entità complementari, mai definite o definibili una volta per tutte, ma mobili e simbiotiche, in quanto costituite di materia porosa e predisposta alla trasmissione e allo scambio. Portata all’estremo, una scelta identitaria assoluta conduce all’adozione di logiche di pensiero e di comportamento “totalitarie”, in quanto quello che potremmo definire come un “rischio totalitario” è insito nel concetto di identità, quando interpretato in senso sostanzialistico. Il totalitarismo come regime politico, sul piano ideologico e dell’autorappresentazione, si è sempre richiamato ad un concetto forte di identità, definendo in modo preciso un “noi” identitario, da contrapporre ad “altri” noi, di seguito gerarchizzati e combattuti sia difensivamente sia – più spesso – offensivamente.

Sostiene Remotti che per sfuggire al pericolo di derive violente prodotte dalle logiche identitarie occorrerebbe tenere a mente che «Per loro natura […] i noi sono noi-altri. Di solito, nelle lingue europee questa espressione è utilizzata per segnare ulteriormente la peculiarità e l’esclusività di un noi, il suo contrapporsi agli altri, configurandosi appunto come “altri” nei confronti degli “altri” (il “noialtri” rafforza il senso di identità del noi) […]. [Come a dire quindi che] il noialtri delle lingue europee è un noi-noi. Qui […] vorremmo attribuire all’espressione “noialtri” un diverso significato. Nella sua struttura morfologica l’espressione “noialtri” sarebbe infatti particolarmente adatta per sottolineare non l’esclusività e la contrapposizione, bensì la compresenza e l’intreccio intimo tra le due componenti, quella del “noi” e quella degli “altri”» (pp.49-50).

Sul nesso ricerca-rivendicazione identitaria e violenza, Francesco Remotti scrive alcune pagine davvero illuminanti, con cui concludiamo queste riflessioni sull’odierna ossessione identitaria.

In qualunque contesto o livello si posizioni, ogni noi comporta un qualche grado di violenza dovuto alla distinzione originaria, al gesto di separazione che lo costituisce e lo fa esistere. Ma la rivendicazione dell’identità è un sovrappiù di violenza; è un trasformare la separazione da gesto momentaneo, parziale, provvisorio, revocabile e rimediabile, in una situazione definitiva, permanente, bloccata, irrimediabile. Senza l’ossessione dell’identità, i noi, mentre si separano, si congiungono agli altri: sono noi e altri insieme. L’affermazione dell’identità sottrae invece il noi alle sue implicazioni con l’alterità: invocando l’identità i noi si purificano delle scorie dell’alterità al loro interno e assumono verso l’esterno, verso gli altri, un atteggiamento di radicale, essenziale estraneità. Con l’identità i noi si trasformano in isole, in fortezze, e si armano. Con l’identità i noi sono, divengono o pretendono di diventare “solo noi”, o meglio vogliono essere solo se stessi (A=A) (p. 48).

L’identità è quindi una strategia di difesa, anzi di iper-difesa, cieca ed eccessiva; ma proprio per questo è anche una strategia assai pericolosa, in quanto aumenta a dismisura i pericoli dell’alterazione. […] I “noi” interessati alla propria identità sono molto irritabili, suscettibili e quindi reattivi. I “noi” senza identità […] sono invece molto più tolleranti e molto più disponibili al mutamento […]. In conclusione, i “noi” ossessionati dall’identità sono assai più fragili, e proprio per questo assai più terribili. L’identità infatti non è soltanto una strategia di difesa: fomenta anche strategie di offesa. Ci vuole poco che dalla preoccupazione della propria integrità, dal senso di minaccia per la propria “purezza”, si passi ad una concezione dell’”altro” come un “nemico”, null’altro che un nemico. […] La “fine” dell’altro è la conclusione contenuta fin dall’inizio nella logica dell’identità. […] Fino a che i noi mantengono una certa distanza – una distanza di sicurezza, potremmo dire – rispetto all’ideologia dell’identità, si può sperare che essi non scivolino fino in fondo nel baratro della disumanizzazione dell’altro. Ma se le risorse (materiali e soprattutto culturali) a disposizione dei noi si riducono drasticamente, vi è da aspettarsi che la logica dell’identità invada la mente e il comportamento dei noi. Da questa logica i noi traggono motivi di massima solidarietà interna […] e nello stesso tempo da questa logica i noi sono condotti alla distruzione dell’altro, avendo come obiettivo la soluzione finale: eliminare definitivamente l’altro, affinché finalmente non vi siano più minacce per il noi. La storia del Novecento in Europa e altrove (dalla Germania nazista alle guerre dell’ex Jugoslavia, ai massacri del Rwanda) è una dimostrazione di questa tesi (pp. 98-99).

Per evitare questi rischi e per concludere con un auspicio propositivo, quanto mai adeguate risultano infine queste parole:

Se c’è un rapporto di identità che davvero può essere affermato, paradossalmente questo non è con se stessi, ma con l’alterità. Non solo, dunque, “je est un autre” (Rimbaud): “io è un altro”, ma anche “noi siamo gli altri”. Che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o meno, noi siamo inevitabilmente noialtri (p. 50).

 

 

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L’attualità dell’inattuale nell’eroe della tragedia greca https://www.carmillaonline.com/2017/04/01/lattualita-dellinattuale-nelleroe-della-tragedia-greca/ Sat, 01 Apr 2017 21:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36888 di Pierpaolo Ciccarelli

Edipo ReChi erano gli eroi sulla scena delle tragedie di Eschilo, di Sofocle, di Euripide? Gli eroi erano figure umane che i poeti tragici riprendevano dalla tradizione di miti risalenti a tempi immemorabili. I tragici, infatti, non componevano drammi storici, né mettevano in scena spettacoli che avessero diretto rapporto con la realtà che era per loro contemporanea. Attingevano al mito, a un «mondo magico» che a quell’epoca, l’Atene del V e del IV secolo prima di Cristo, era per lo più conservato nella tradizione dei poemi omerici e della lirica. [...]]]> di Pierpaolo Ciccarelli

Edipo ReChi erano gli eroi sulla scena delle tragedie di Eschilo, di Sofocle, di Euripide? Gli eroi erano figure umane che i poeti tragici riprendevano dalla tradizione di miti risalenti a tempi immemorabili. I tragici, infatti, non componevano drammi storici, né mettevano in scena spettacoli che avessero diretto rapporto con la realtà che era per loro contemporanea. Attingevano al mito, a un «mondo magico» che a quell’epoca, l’Atene del V e del IV secolo prima di Cristo, era per lo più conservato nella tradizione dei poemi omerici e della lirica. Non era più, quel mondo, il mondo attuale. I poeti tragici guardavano all’indietro, si direbbe quasi che evocassero fantasmi, quando nessuno credeva più ai fantasmi. Perché questa attenzione rivolta a un passato oramai trascorso, a un mondo ‘notturno’ che, per l’ateniese illuminato di quell’epoca, era poco più di una curiosità? Perché questa inattualità caratteristica della tragedia greca?

Va notato, per prima cosa, che, nell’attingere al patrimonio della tradizione mitica, i poeti tragici apportavano significative variazioni. Il dramma tragico era una ‘mito-logia’ nel senso letterale della parola, era cioè un logos, un «discorso razionale» che, rivolgendosi al mito, inevitabilmente lo modificava lo «demitizzava», giacché, quello mitico, non era ancora il mondo del logos razionale. La mitologia tragica era infedele al proprio oggetto, non riproponeva il mito esattamente così come è stato tramandato. Il filo della tradizione veniva ripreso, ma per interromperlo. Per questo motivo, ai tragici veniva rivolta l’accusa di essere «mentitori». I tragici mentivano, non, però, nel senso che non dicevano cose vere sulla realtà effettiva. Mentivano perché si rifacevano alla tradizione senza rispettarla, perché inventavano i miti. Mentivano su quelle che, alla loro epoca, erano già considerate favole incredibili, menzogne. Questo singolare mentire su menzogne è essenziale per cogliere il senso della poesia tragica. Fa capire che la tragedia è una forma del tutto peculiare di ‘mito-logia’, di affrancamento dal mito, di «demitizzazione»: è una riflessione sulla demitizzazione stessa. Quelli inventati dai tragici erano miti di demitizzazione, favole che raccontavano vicende di chi non crede più alle favole. Al cospetto degli spettacoli tragici, gli spettatori ateniesi, oramai già demitizzati, erano indotti a osservare il processo mediante cui essi stessi erano usciti dal mito, divenendo così quel che erano in quel momento. L’inattualità dei drammi tragici va perciò considerata una forma di più profonda attualità. La loro — potremmo dire — è l’attualità dell’inattuale.

Proviamo a riflettere, a questo riguardo, su una delle tragedie più note, l’Edipo Re di Sofocle. Si è detto, all’inizio, che gli eroi tragici erano figure umane. Va ora aggiunto che erano esseri umani i quali avevano però un singolare rapporto con il «divino». «Divino» è forse un termine fuorviante, troppo carico di connotazioni derivanti dal monoteismo, estranee al cosiddetto «paganesimo». È quindi più appropriato adoperare l’espressione «demonico». Negli eroi mitici, la sfera umana — rileva un grande filologo classico, Karl Reinhardt — si mostrava in un rapporto di inusuale prossimità alla sfera demonica. Gli eroi tragici erano umani più che umani. Molti di loro erano figli di dei e di esseri umani. Altri erano nati con un destino sinistramente segnato dagli dei: Edipo — aveva detto un oracolo — ucciderà il padre e si unirà alla madre, dando inizio a una sequenza di eventi che si abbatteranno rovinosamente anche sui discendenti di un’unione così empia, Eteocle e Polinice, Antigone e Ismene. Che cosa accadeva agli eroi mitici quando venivano messi in scena dai poeti tragici? Si imbattevano, agendo, in limiti che, anche per essi, esseri umani più che umani, rimanevano insuperabili. La loro inusuale prossimità al demonico, non soltanto non gli consentiva affatto di porre rimedio alle avversità della vita, ma li costringeva a una esperienza dell’irrimediabile che aveva un’intensità sconosciuta ai comuni mortali. Ciò spiega perché gli eroi tragici si venivano a trovare in situazioni estreme, nelle quali nessuno viene normalmente a trovarsi. Chi può mai avere la sventura di uccidere, inconsapevolmente, il proprio padre e, ancora senza saperlo, di giacere con la propria madre? Ebbene, la caratteristica, e tutt’altro che casuale, mancanza di verosimiglianza, o — come dice Albert Camus — l’«assurdo» della situazione tragica è dovuto proprio alla prossimità dell’eroe al demonico. I poeti tragici evocavano i demoni per mostrare come l’eroe venga giocato dal proprio destino: il demone lo spinge a prendere in mano le redini della propria vita e, così, a salvarsi, e, proprio nell’infondergli fiducia nella salvezza, lo conduce inesorabilmente alla rovina.

Richiamiamo qualche sequenza delle vicende dell’Edipo sofocleo. L’eroe entra in scena animato dalla volontà di salvare Tebe dalla peste che sta decimando la popolazione. Nessuno meglio di lui può assolvere a un compito del genere. Non soltanto perché è il re, ma perché, grazie alla sua straordinaria intelligenza, è diventato re – sposando Giocasta, la quale, senza che nessuno dei due lo sappia, è sua madre. Edipo, infatti, era diventato re dei tebani perché aveva saputo risolvere l’enigma della Sfinge che un tempo opprimeva la città. Aveva trionfato su un demone, dando la risposta giusta al suo indovinello. Edipo aveva capito quel che gli altri, comuni mortali, non erano riusciti a capire e che, proprio a causa di questa loro mancanza di intelligenza, erano stati divorati dal mostruoso animale, personificazione della potenza magica. Il sapere di cui Edipo è in possesso è il sapere più importante per gli uomini, il sapere ‘politico’ per eccellenza: egli conosce l’essere umano. Questo è, infatti, il significato non banale dell’ingenua questione posta dalla Sfinge: l’essere che cammina prima a quattro gambe, poi a due, infine a tre, è l’essere umano. Sapendo che cosa questo sia, Edipo libera gli esseri umani dalle potenze magiche che decidono in modo arbitrario e imperscrutabile del loro destino. Edipo è un re razionale, anzi, è re grazie alla ragione. Ebbene, proprio lui che, con il suo astuto sapere, aveva un giorno vinto la sfida col demone — proprio lui sarà costretto a pagare l’eccessiva vicinanza al demonico. Il demone si prende gioco di lui sollecitando, ora, la medesima volontà di sapere che, un tempo, gli consentì di avere la meglio sulla Sfinge. Un oracolo ha infatti detto che la peste è dovuta a un assassinio che è rimasto inespiato: il flagello non avrà fine, se non viene punito chi ha ucciso il re Laio, predecessore di Edipo, e marito di Giocasta. L’oracolo, la voce del demone, incita a scoprire la verità: è proprio uno come Edipo, quindi, quel che adesso occorre. Ma la verità su cui il demone attira astutamente l’attenzione si dimostrerà essere, per Edipo, una verità terribile. Era stato proprio lui, infatti, a uccidere Laio, senza sapere chi fosse, in occasione di una lite, accaduta per caso durante quel viaggio così propizio che lo aveva condotto a Tebe, dandogli modo di mostrare la propria abilità razionale e, così, di ascendere al trono. Ma di ciò, dell’imprevedibile, sinistra coincidenza di fortuna e sfortuna nella concatenazione degli eventi, Edipo non sa. Lo verrà a scoprire, per caso, mentre cerca di venire a capo della crisi che affligge di nuovo la città. A renderlo consapevole delle azioni terribili che egli ha inconsapevolmente compiuto, è, infatti, proprio la sua insistente e metodica inchiesta per scoprire chi è l’assassino. La conoscenza di sé stesso, che si compie mentre egli è intento a salvare sé e i suoi sudditi, lo indurrà infine a cavarsi gli occhi, a privarsi cioè della capacità stessa di conoscere.

È proprio la volontà di salvarsi, la volontà razionale di salvarsi, la razionalità applicata al controllo degli eventi, a esporre Edipo all’irrimediabilità degli eventi stessi. È il rimedio razionale a produrre l’irrimediabile: è questo il terribile gioco che, nella tragedia greca, gli dei di ieri giocano con gli eroi di oggi.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino MontinariMaurizio Marrone e Gabriele Guerra]

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L’eroe dal Texas all’apocalisse https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/leroe-dal-texas-allapocalisse/ Thu, 23 Feb 2017 22:30:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36325 di Maurizio Marrone

apocalisseCormac McCarthy può senz’altro essere considerato uno dei più lucidi e visionari cantori dell’epopea americana contemporanea. Obiettivo di questo articolo è rendere visibile il nesso che lega i suoi due ultimi romanzi, vale a dire Non è un paese per vecchi (Einaudi 2006) e La strada (Einaudi 2007). Tale nesso prende forma grazie alla riflessione sulla figura controversa e contraddittoria dei due eroi tragici che attraversano le pagine delle due opere.

La strada riproduce uno scenario post-apocalittico piuttosto classico nel quale un padre morente e suo figlio si [...]]]> di Maurizio Marrone

apocalisseCormac McCarthy può senz’altro essere considerato uno dei più lucidi e visionari cantori dell’epopea americana contemporanea. Obiettivo di questo articolo è rendere visibile il nesso che lega i suoi due ultimi romanzi, vale a dire Non è un paese per vecchi (Einaudi 2006) e La strada (Einaudi 2007). Tale nesso prende forma grazie alla riflessione sulla figura controversa e contraddittoria dei due eroi tragici che attraversano le pagine delle due opere.

La strada riproduce uno scenario post-apocalittico piuttosto classico nel quale un padre morente e suo figlio si aggirano in cerca di cibo e di riparo, tra le ceneri maleodoranti di un mondo devastato da una catastrofe evocata e mai pienamente disvelata. Entrambi sono aggrappati al massimo che la vita concede loro, vale a dire: legame familiare e lotta per la sopravvivenza. Si tratta del grado zero di un’umanità che ha distrutto se stessa. L’eroe, il protagonista del romanzo, consuma se medesimo nel ripetersi identico di un unico gesto: quello di svegliasi la mattina e di resistere.
In Non è un paese per vecchi, la vicenda è molto più complessa ma sembra rappresentare un lungo prologo che avrà nel romanzo successivo il suo epilogo tanto drammatico quanto ineluttabile. In un Texas sperduto e inospitale ai confini col Messico, Llewelyn Moss, un classico bifolco del Southwest, s’imbatte casualmente nella scena di uno scontro a fuoco avvenuto tra trafficanti di droga. Tra furgoni crivellati di colpi, cadaveri in putrefazione e un uomo in fin di vita che chiede dell’acqua, trova una valigetta piena di denaro che, ovviamente, ruba. Durante la notte, tuttavia, mosso a compassione, torna sulla scena del massacro per portare dell’acqua al moribondo. La dinamica tragica del meccanismo narrativo si mette in moto. Moss incontra i trafficanti superstiti che erano tornati sulla scena per recuperare droga e denaro: comincia in questo modo la sua fuga e la relativa caccia che vede come predatore lo spietato Anton Chigurh, un killer sociopatico che ammazza la gente per il semplice gusto di farlo. Questo tuttavia è molto più di un sicario. È come un angelo sterminatore che uccide chiunque incontri lungo il proprio cammino (un poliziotto, tutti trafficanti di droga, un altro killer assoldato per fermarlo, il suo presunto datore di lavoro, diversi malcapitati e, infine, lo stesso Llewelyn Moss e sua moglie). Chigurh non è solo l’antagonista per definizione; è un buco nero anti-mondo che lacera ogni possibile relazione, metafora e messaggero di un’apocalisse a venire.
Su tutta la vicenda indaga lo sceriffo Bell, un brav’uomo che cerca disperatamente di ricomporre la ferita mortale inferta dal killer al corpo vivo della comunità e del mondo. È lo sceriffo il vero o presunto eroe del romanzo: pur non essendo narrato in prima persona, è contrappuntato da ricordi e riflessioni che ci restituiscono il suo punto di vista. È l’eroe che racconta sé stesso e la sua storia; e che sostanzialmente, affida ad essa (all’epica) e alle proprietà taumaturgiche del racconto e della verità, le sorti di una battaglia ritenuta già persa. Bell, infatti, è sempre un passo indietro rispetto a Chigurh e non può far altro che osservare impotente l’empio spettacolo dei suoi massacri. Solo una volta gli si avvicina e potrebbe catturarlo, ma decide di non affrontarlo, perché ha paura e sa di non poter vincere contro un avversario la cui ferocia è al di la della sua capacità di comprensione. Sente dentro, “più amaro della morte”, il sapore della sconfitta e quindi si arrende; abbandona le indagini e si dimette. I buoni hanno perso e il cattivo se ne va indisturbato.
La resa, tuttavia, non è generata solo dalla consapevolezza di una sconfitta certa, ma anche e soprattutto, dalla presa di coscienza di un’impossibilità: Bell ha di fronte a sé qualcosa che non è più in grado di comprendere, forse neanche di nominare ed è per questa ragione che smette di lottare. È il soggetto che rinuncia a sé stesso e quindi alla possibilità di dare un senso al rapporto tra sé e la realtà.

Pensiamo per un attimo a uno degli archetipi simbolici dell’eroe tragico, vale a dire a Edipo. Egli è costantemente determinato a conoscere e, a dispetto di tutti coloro che tentano di dissuaderlo, non arretra nemmeno di fronte alla possibilità che la scoperta della la verità sia così potente da renderlo cieco. Tale ostinata determinazione è metafora di una soggettività che si spinge fino ai limiti delle proprie possibilità, anche a rischio di venire annientata, cosa che peraltro, come è noto, accade. È chiaro che questo atteggiamento può essere oggetto di diverse interpretazioni. Da una parte infatti Edipo può essere considerato come un eroe in senso illuministico: un paladino della ragione e dell’intelligenza umana, sempre volto alla ricerca della verità. La sua smania di conoscenza però potrebbe essere letta anche come hybris, cioè come la protervia dell’uomo che, incapace di accettare i propri limiti, cercando di oltrepassarli, ne viene travolto e annichilito. In ogni caso non vi è traccia di un soggetto che abdica al proprio ruolo.
Lo sceriffo Bell, al contrario, abbandona la scena e compie la più radicale delle rinunce, cioè proprio la rinuncia alla comprensione e alla conoscenza. L’eroe di McCarthy non è in grado di mettere in moto alcun processo antagonista perché sacrifica l’azione e ogni possibilità di tessere in prima persona le fila del proprio rapporto col mondo. La conoscenza come compito, l’assunzione responsabile della propria soggettività sono demandate interamente all’io narrante perché l’io che agisce è impotente. L’eroe abdica al proprio ruolo e si trasforma nel narratore delle sue stessa gesta fallimentari, perché questa sembra essere l’unica forma di resistenza possibile. Come se nel corso della tragedia, Edipo, invece di lottare per la verità, abbandonasse il proscenio e si unisse al coro. La ricerca di senso non accade più nel rapporto col mondo ma è affidata al racconto che spera di custodirne la verità.
L’effetto di questo slittamento è devastante: il mondo viene spazzato via dall’apocalisse di cui Chigurh è incarnazione maledetta e La strada è l’istantanea di quel che ne rimane: un luogo freddo e inospitale dove l’unico elemento tramandabile è il legame tra un padre e suo figlio.
Eppure questa metafora escatologia trova, proprio nel rapporto di continuità tra i due romanzi, anche una possibilità di lettura differente. Come se tutto si riducesse, in ultima analisi, a un semplice monito. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, ma guai all’eroe che si arrende perché dopo di lui regnerà il nulla. Un padre, un figlio e un mondo in frantumi pronto a divorarli. Guai a rinunciare a cercare un senso nel rapporto tra sé e il mondo (non è forse questo l’autentico compito dell’eroe?), guai ad abbandonare la scena, perché la sola testimonianza non è sufficiente a fermare l’apocalisse.
E infatti ne La strada il rapporto tra narrazione e azione risulta completamente invertito. Padre e figlio che si aggirano tra le ceneri, in costante pericolo di vita, non possono abdicare al loro ruolo. A un certo punto l’uomo dice al figlio: «È così che fanno i buoni, continuano a provarci. Non si arrendono mai». Il bambino più di una volta chiede al padre se loro siano i buoni e se lo siano proprio perché portano il fuoco. Il padre risponde di sì. Il fuoco può senz’altro essere visto come l’essenza stessa della testimonianza, ma, al contrario di ciò che accade in Non è un paese per vecchi, qui quella potenza è evocata come mera chimera consolatoria che permette all’eroe di svolgere il suo compito, cioè continuare a lottare e a svegliarsi ogni mattina per proteggere suo figlio: «Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? L’uomo sputò un grumo di catarro e sangue sulla strada. Alzarmi stamattina, disse.»

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui) e Mazzino Montinari]

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