Socialdemocrazia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 08:00:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

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La lunga notte del capitale: Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2021/12/15/leopardi-la-natura-il-capitale-e-la-lotta-di-classe/ Wed, 15 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69556 di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che [...]]]> di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.
Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.
Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…

Pur facendo sua l’interpretazione poetico-romantica della Natura, in cui questa assume una posizione centrale nell’interpretazione simbolica del mondo e dei paesaggi interiori dell’individuo, Leopardi contribuisce a oggettivarne l’essenza reale in due tra le sue opere più significative: Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), tratto dalle Operette Morali, e La Ginestra o il fiore del deserto (1836), tratta dai Canti e composta nel corso dell’ultimo anno di vita del poeta.

Nella prima delle due opere, di fronte alle lamentele avanzate sulla condizione umana dall’infelice Islandese, che è fuggito dall’ambiente aspro in cui è nato soltanto per finire tra le braccia della stessa Natura nel cuore dell’Africa, ove si è rifugiato, la Natura risponde, senza batter ciglio:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E’ una risposta secca, priva di malevolenza, che indica esattamente la posizione che la “matrigna” ha riservato per la creatura anzi, meglio, per tutte le creature del cui destino non intende assolutamente farsi carico. Di cui, però, l’Islandese non si accontenta, poiché domanda ancora:

Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo?

Cui la Natura non può far altro che rispondere:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

L’indifferenza, la necessità della produzione e distruzione di ogni essere vivente e della materia stessa dominano la logica con cui il povero ed illuso Islandese deve fare i conti. Senza alcuna via d’uscita, come dimostra il finale dell’operetta.
Ancor più vasto è lo sguardo proposto nella Ginestra sulla condizione umana, ma in questo caso, poiché la visione leopardiana è maturata socialmente, all’interno della sua ultima poesia l’autore propone anche una possibile soluzione, senza chiedere alcunché alla matrigna.

Dopo aver descritto il paesaggio lunare e di rovina delle pendici del Vesuvio, su cui sorgevano un tempo le ville dei patrizi romani e pascolavano gli armenti, tutti e tutto spazzato via dall’eruzione del vulcano nel 79 d.C., l’autore dirige immediatamente i suoi strali contro le illusioni che gli uomini, e soprattutto i filosofi fiduciosi nel progresso del suo secolo, hanno contribuito a creare.

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Per poi proseguire, con lo stesso tono:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
[…] Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci dié. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

L’idealismo del secolo sembra voler cacciare, agli occhi di Leopardi, il materialismo degli antichi, riscoperto nell’età della ragione, dall’orizzonte politico-culturale dell’epoca e nel fare ciò illude se stesso e gli uomini tutti di essere in possesso di conoscenze e abilità destinate a far affermare la volontà del singolo sulla Natura e su tutti coloro che allo stesso non vogliono piegarsi.

Superbo e sciocco, sogna e promette la Libertà, ma in realtà vuole solo allontanare da sé la paura di essere scoperto nella sua viltà e debolezza, schernendo e ignorando coloro che si oppongono alle sue vacue ed irrealizzabili promesse.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor […]
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

In quest’ultima parte il poeta delinea quale deve essere il compito di una nobile natura, ovvero quello di rivelare le superbe fole-menzogne che impediscono agli uomini di riunirsi in social catena per ridare vita alla comunità umana, sempre in lotta per evitare di essere dispersa in nome dell’egoismo individuale e dalla propria fragile condizione, nascoste sotto un mare di parole inneggianti (inutilmente e falsamente) alla possibilità, per la miriade di individui in cui la comunità è stata dispersa e frantumata, di raggiungere una personale libertà dal bisogno e dal legame sociale.

Lo sforzo di oggettivazione della Natura e della condizione umana svolto da Leopardi, in antitesi al vano ottimismo borghese, è di portata rivoluzionaria. Qui, in questi versi e nei brani estratti prima dal Dialogo della Natura e di un Islandese, si rivela il vero motivo per cui il poeta è stato relegato, ormai da quasi duecento anni, al ruolo di pessimista, ingobbito dallo studio e quasi accecato dalle letture notturne a lume di candela.

In effetti, di fronte alla menzogna dell’ottimismo capitalistico e borghese, ogni forma di materialismo antico, illuministico o dialettico, appare come una forma di pessimismo o di pensiero negativo. E, in tal senso, la negazione leopardiana della cultura vacua del suo secolo è quanto di più simile alla negazione dell’esistente che sarebbe esplosa nelle lotte di classe di quegli anni e nel passaggio dal socialismo utopistico a quello di Marx ed Engels (anche se scrisse quasi tutte le sue opere prima che Marx avesse raggiunto la maggior età, mentre il Manifesto del Partito Comunista sarebbe stato scritto nel 1848, undici anni dopo la sua morte).

Per questo motivo il suo messaggio, indirizzato per forza di cose ai posteri, ha “dovuto” essere distorto, anche in grazia di una filosofia e cultura cattolicheggiante con cui il filosofo e poeta di Recanati si trovò già in aperta polemica mentre era in vita. Riscoprirlo, pertanto, non significa far opera di restauro di un monumento poetico del passato, ma ritrovare alcuni passaggi fondamentali della critica dell’esistente.

Traslare il discorso leopardiano da quello oggettivante la Natura a quello sul capitalismo odierno significa, infatti, acquisire coscienza del fatto che la fiducia che sembra accompagnare ogni discorso sulla possibilità di miglioramento generalizzato dell’attuale sistema di sfruttamento e accumulazione delle ricchezze private assomiglia sempre più alle promesse del cristianesimo (di vita eterna nell’aldilà) e del positivismo borghese (di crescita illimitata dei benefici effetti dello sviluppo). Promesse che come solo intento hanno quello di far perdere di vista l’essenza ultima e reale dell’attuale modo di produzione dominante.

Sì, perché il capitalismo non ha due facce, una buona e una cattiva.
Anzi, il suo vero volto non corrisponde affatto a uno dei due aggettivi usati.
Come la Natura, il Capitalismo è indifferente alle sorti dell’uomo e del pianeta che abita e che ha contribuito a trasformare. Indifferente non soltanto alle sorti di coloro che subiscono le sue angherie e il suo sfruttamento, ma anche a quelle di coloro che agli occhi dei più sembrano essere i veri profittatori del suo funzionamento: gli imprenditori, i finanzieri, i rentier, i politici e i governanti di ogni grado, risma e latitudine. Null’altro che funzioni, ancor più che funzionari, destinati ad essere travolti anch’essi alla prima crisi economica oppure a causa di una guerra perduta o di un errato calcolo personale e/o politico.

Crisi, guerre, epidemie non sono il frutto di calcoli strategici ben o male eseguiti, di raffinati progetti o di un Great Complotto. No, sono i terremoti, le eruzioni vulcaniche, il manifestarsi dei movimenti geologici e profondi dell’enorme tettonica a zolle costituita dalla corsa continua, ed inesorabile (per nessun altro modo di produzione il detto chi si ferma è perduto è stato così vero) al profitto e alla concentrazione proprietaria. Fin dalle sue origini.

Solo in tal senso e alla luce di ciò è possibile comprendere come per il capitale e i suoi funzionari ogni occasione possa essere buona per estrarre pluslavoro, plusvalore e rendita. Le cieche ruote dell’oriuolo, oggi affiancate da ancor più ciechi algoritmi decisionali e profilativi, girano in una sola direzione, scandendo implacabilmente il tempo di rotazione del capitale, della produzione e se necessario della distruzione di ciò che è già stato prodotto o accumulato (insieme ai suoi momentanei detentori) e ad ogni scatto di lancetta qualcosa può e deve avvenire.

Come affermano Carla Filosa, Gianfranco Pala e Francesco Schettino nella Premessa al loro recente Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione (Lad, 2021), la “realtà” del capitale è indissolubilmente legata

al perseguimento del fine “miserabile” e contraddittorio della produzione di plusvalore, quale unico fine di questo sistema. La involontarietà poi, quella che invece viene moralisticamente scambiata per crudeltà od anche brutalità, sta a significare qui la incapacità, non individuale ma proprio del sistema, a far emergere una responsabilità umana cioè razionale delle azioni impiantate, unicamente soggette invece alle leggi di sviluppo precipue della produzione di merce in quanto valore, e indipendentemente dal valore d’uso, che viene così a costituire uno scarto da non considerare. Ѐ chiaro che i comportamenti individuali degli operatori possano essere repellenti od anche riprovevoli, ma il problema non concerne i molti singoli resi subalterni, bensì la centralizzazione sempre crescente del comando sulla forza-lavoro e la classe che ne gestisce il pluslavoro, secondo modalità, ritmi, efficienza, comportamenti indotti, anche valutabili come criminali e disumani.
[…] Se dunque l’accumulazione decresce anche per la saturazione dei mercati esistenti, si deve intensificare lo sfruttamento sia delle risorse inorganiche sia di quelle animali e umane, tutte eguagliate nell’unica accezione di merce, cioè veicolo di valore. Per promuovere inoltre tali condizioni che svelerebbero i fini indicibili del sistema, questo deve ammantarsi di rappresentazioni ideologiche rassicuranti in cui si proclamano ed esaltano benefici per tutti, nascondendo i danni che da questi si producono, finché non appaia la contraddizione reale, imponderabile o magari anche messa in conto, ma che non dovrà mai intaccare – al momento – i profitti attesi che si appelleranno all’“emergenza”.

E’ soltanto la lotta di classe ad inceppare talvolta il meccanismo ad orologeria di cui nessuno ha però le chiavi ultime. E il ruolo dei rivoluzionari non potrà mai essere quello dei “buoni” che combattono contro i “cattivi”, ma quello di essere “altri” , portatori di un altro paradigma: Alieni che, dopo migliaia di avvistamenti e dopo essere stati toppo spesso negati, demonizzati o ridicolizzati, si manifesteranno con tutta la potenza di una negazione radicale destinata, più che a migliorarlo e renderlo più umano, ad oggettivarlo completamente nel suo essere, per comprenderne a fondo le leggi di funzionamento, il suo corso catastrofico, e accompagnarlo così, nella maniera più rapida possibile, alla sua inevitabile fine.

Un compito non tanto diverso da quello che Keplero, Galileo, Newton e Einstein, insieme ad una miriade di altri scienziati meno noti, si diedero nel cercare di comprendere le leggi di quella Natura e di quell’Universo con cui la specie deve fare i conti fin dall’alba del suo apparire sul pianeta, e che Marx ha continuato in ambito sociale, senza mai pretendere che ogni scoperta o intuizione potesse essere l’ultima e definitiva1.

Mentre ogni piagnisteo sparso sull’autoritarismo, la repressione e il mancato rispetto dei diritti “fondamentali” non fa altro che rinnovare la credibilità delle promesse del capitale e del suo funzionariato economico, politico e culturale: democrazia rappresentativa parlamentare, libertà, uguaglianza e universalità dei diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto alla vita e condanna della concorrenza “sleale” non costituiscono altro che specchietti per allodole. Anche se, poi, gli stessi creatori e manipolatori del meccanismo produttivo e riproduttivo hanno finito col credervi in prima persona.

«Finora – scriveva Marx in una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871- si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo».
Secol superbo e sciocco… oggi oltre tutto rafforzato dal dilagare dei social e del loro sconsiderato uso individuale.

Rincorrere l’emergenza-capitale equivale, soltanto e sempre, a riproporre all’infinito la promessa del miglioramento universale insito nel discorso capitalistico, continuando l’esperienza della socialdemocrazia, e del revisionismo in essa insito, che uno dei suoi principali teorici, il tedesco Eduard Bernstein (1850 – 1932), riassunse in un unico principio: «il movimento è tutto, il fine nulla», poiché l’importante era costituito, a suo avviso, dall’iniziare a riformare e migliorare poco a poco il sistema. Discorso che è continuato fino ad oggi, inficiando di sé, purtroppo, anche tanto “antagonismo riformistico” attuale. Di cui le attuali suggestioni sul tema no green pass costituiscono, oggi, l’aspetto più contraddittorio.

Per contribuire al superamento della prassi e della mentalità immediatista e riformista, è necessario ribadire che la futura rivoluzione dovrà basarsi su un radicale rifiuto del paradigma capitalista ed esprimerne in pieno la negazione. Tema che però, riapre la vecchia diatriba con tutti coloro che ritengono che la semplice negazione dell’esistente non basti e occorra invece proporre iniziative da realizzare subito. Ovvero ancora la riforma dell’esistente per contribuire a mantenerlo ancora in vita.

E’ difficile, per coloro che sentono la necessità di “fare qualcosa subito”, comprendere come la negazione sia già di per sé nucleo programmatico. Se nego, a titolo di esempio, la merce e il denaro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato già introduco, con il loro rovesciamento, il programma di una società altra. Se nego la necessità di continuare a cementificare e plastificare il mondo oppure quella di sviluppare ancor di più la produzione industriale di beni inutili e dannosi, pongo seriamente il tema della transizione ecologica e ambientale. Ma per realizzare tali programmi occorrerà passare attraverso un processo rivoluzionario che distrugga e non rovesci soltanto il paradigma capitalistico e i suoi apparati.

Certo ottenere qualche accordo locale, qualche diritto momentaneo (condito da qualche bella frase fatta) è più semplice. Così come ammantare i discorsi di contenuti politically correct o liberal; motivo per cui continua a trionfare, anche là dove meno lo si aspetterebbe, il conformismo, mentre sarebbe, invece, l’ora di affermare che «il movimento senza il fine non è nulla» e che separare l’azione politica dal fine non fa altro che indebolirla e annullarne l’utilità.

Certo, questa seconda ipotesi è più faticosa, meno immediata e meno soddisfacente sul piano dell’ego. Soprattutto, la negazione, obbliga a prendere atto che i settori che lottano non possono rivendicare soltanto per sé, come propri, i risultati acquisiti. E questa potrebbe nell’immediato rivelarsi un’amara sorpresa per coloro che rincorrono la faciloneria del risultato immediato.

Se gli uomini, come specie, devono riunirsi in social catena, non possono farlo in nome di uno specifico diritto, di classe, genere, generazionale, etnia o nazionalità. Banale errore in cui continuano a cadere tutti i rappresentanti di una singola causa, quasi sempre ritenuta universale, qualunque essa sia.

Errore fortemente rimarcato dal fallimento di tante (tutte?) rivoluzioni “nazionali” che, pur richiamandosi al socialismo sul modello sovietico-stalinista, non hanno fatto altro, in mancanza di un allargamento internazionale dei moti, che portare al potere una classe, un partito o una élite non tanto diversa da quella che governava in precedenza e che, come quella, ha finito col perseguire il proprio arricchimento o quello di una parte del capitale internazionale.

Insomma, se ho subito dei soprusi, violenze e discriminazioni oltre che lo sfruttamento economico e lavorativo da parte del sistema in cui vivo, non posso immaginare di ricreare un sistema a mia immagina e somiglianza che faccia poi pagare ad altri gli errori e i soprusi subiti in precedenza.

Per chiarirere ulteriormente il concetto: la classe operaia non dovrà riprodurre un mondo operaio, in cui le macchine e gli strumenti di produzione saranno esclusivamente nelle sue mani. Dovrà fracassare quel modello e quel sistema di produzione, per liberarsi e liberare la specie insieme a lei, negando, prima di tutto se stessa. Il proletariato nel suo insieme non potrà accontentarsi di riprodurre un mondo “proletario”, ma dovrà autodistruggersi, distruggendo il modo di produzione attuale, come affermano Marx ed Engels in un testo mai abbastanza apprezzato:

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, “nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione”, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da se stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile.2.

E’ importante, oggi come non mai, vista l’immensa ristrutturazione sociale in corso, legata all’impoverimento diffuso su scala globale, l’utilizzo del termine proletariato, perché al suo interno sono racchiuse e comprese tutte le contraddizioni reali; anche se il suo essere dovrà, per forza di cose, passare attraverso una riorganizzazione “politica” interna lunga e, probabilmente, dolorosa.

Infatti, ogni separazione identitaria mina, inevitabilmente, l’unità del colosso e se questa affermazione offenderà la sensibilità di alcuni o molti, pazienza, poiché nel suo essere proletariato lo stesso racchiude in sé tutte le forme dell’emarginazione, della repressione, dello sfruttamento e della discriminazione, che contribuiscono a trasformarlo nella classe universale destinata a seppellire il capitalismo, le sue malattie sociali e pandemiche, il suo Stato e i suoi infiniti ed iniqui apparati, in nome della Gemeinwesen o comunità umana.

La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l’impronta dell’individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto tale stadio da rendere necessario una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l’insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza (Marx).
L’egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante), una morale di tipo egoista, tracciata di quell’umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell’educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica3.

Individualismo dei diritti e delle libertà singole che è prodotto, oltre tutto, dal sistema mercantile che è proprio del modo di produzione e distribuzione capitalistico e che illude costantemente i singoli proponendo loro, e sempre più oggi per mezzo della rete e dei suoi giganti, oggetti del desiderio indirizzati al soddisfacimento illusorio di ogni loro “specifico bisogno”. Come scriveva già Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. […] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari.
[…] E’ così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto prodotta ad arte e di cui, pertanto, il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno4.

E’ dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza, è dall’estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali per problemi che personali non sono affatto. Ed è dall’individualismo di stampo liberale, e dalla sua rivendicazione di un’impossibile privacy nell’era della pervasività dei social, che sorge ogni ulteriore alienazione dalle attività e dalle necessità della specie; ogni ulteriore, illusoria e menzognera spiegazione delle contraddizioni dell’esistente. Perché, in fin dei conti, complottismo e riformismo non sono altro che le due facce di una medesima, fasulla medaglia, che racchiudono entrambe la speranza di cambiare qualcosa, magari soltanto a vantaggio di pochi, affinché nulla cambi.

Con tutto ciò non si vuol affermare che momenti in cui lotte specifiche non possano rendersi necessari e inevitabili, e nemmeno che da tali lotte non possano sorgere movimenti più ampi e vasti, ma soltanto ribadire che il senso ultimo della lotta di classe non può essere riconducibile a specifici diritti, ma soltanto a quello di tutti gli oppressi di farla finita, una volta per tutte, con un modo di produzione iniquo, dannoso e superato. In nome di una Gemeinwesen che non rappresenta altro che la capacità di tornare a riunire la maggioranza dell’umanità nella social catena tanto cara a Leopardi.

Così mentre certuni si attardano a cercar di cavalcare tematiche irrimediabilmente azzoppate, dissertando ancora di diritti costituzionali e libertà individuali, questo intervento è anche dedicato a tutti coloro che, vittime delle stragi sul lavoro o dei licenziamenti dovuti alla delocalizzazione produttiva messa in atto dalle aziende, vivono davvero, quotidianamente e sulla propria pelle, la lunga “notte del capitale”.


  1. Per Marx stesso le riflessioni contenute nel Capitale non dovevano costituire l’immagine definitiva della realtà, ma un modello per meglio comprenderla e contribuire al suo ribaltamento rivoluzionario  

  2. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  3. Amadeo Bordiga, La nostra missione, «L’Avanguardia» n. 273 del 2 febbraio 1913  

  4. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968, pp. 127-134  

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Benjamin, un marxista meravigliosamente arbitrario https://www.carmillaonline.com/2020/12/18/benjamin-un-marxista-meravigliosamente-arbitrario/ Thu, 17 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63852 di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende [...]]]> di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende possibile leggere la sua opera in chiave politica, come fa Michael Löwy in una breve raccolta di saggi recentemente pubblicata in italiano, dal titolo La rivoluzione è il freno di emergenza. Filo conduttore di questo testo, secondo il suo stesso autore, è l’idea di rivoluzione in Benjamin perché è convinzione di Löwy che se si espunge dal pensiero del filosofo berlinese “la dimensione sovversiva, rivoluzionaria, insurrezionale perfino, come purtroppo capita spesso nei lavori accademici, si perde qualcosa di essenziale, di prezioso, di inestimabile”.1 Questo tipo di lettura chiama in causa direttamente il rapporto peculiare che Benjamin intrattiene con Marx. Una peculiarità che consiste, tra l’altro, nel mantenere come parte integrante del suo pensiero quelle componenti filosofico-teologiche maturate prima dell’incontro con il marxismo: l’anarchismo, il romanticismo e il messianesimo ebraico. 

Con il titolo del suo testo Löwy richiama l’attenzione su una delle poche prese di distanza esplicite da Marx da parte del filosofo berlinese: la definizione della rivoluzione come “freno d’emergenza” piuttosto che, marxianamente, “locomotiva della storia”. Questa affermazione può essere legata al fatto che Benjamin è “il primo marxista ad aver rotto radicalmente con l’ideologia del progresso”.2 Per Benjamin, infatti, “la rivoluzione proletaria non è il risultato ‘naturale’ o ‘inevitabile’ del progresso economico e tecnico, ma l’interruzione critica di un’evoluzione che porta direttamente al disastro”.3
Attraverso la lettura di Löwy possiamo capire che questa rottura per Benjamin ha due obiettivi: da una parte, mira a distinguere nettamente il materialismo storico dalle forme tradizionali del pensiero borghese, come lo storicismo tedesco che conferisce alle classi dirigenti lo status di eredi della storia vedendo nelle vicende passate solo una gloriosa successione di successi politici e militari;  dall’altra, vuole criticare la coeva ideologia socialdemocratica che aveva commesso il grande errore di considerare lo sviluppo tecnologico solo dal punto di vista del progresso delle scienze naturali e non del regresso sociale, fino al punto di idealizzare il lavoro di fabbrica, dando luogo alla risurrezione, tra gli operai,  della vecchia morale protestante del lavoro in forma secolarizzata.
La convinzione socialdemocratica di nuotare a favore di corrente è un elemento di forte corruzione degli operai tedeschi. A questo ottimismo ideologico Benjamin contrappone il suo comunismo inteso come organizzazione del pessimismo. Contro la riduzione della società senza classi a puro ideale, compito infinito che predispone all’attesa di una situazione rivoluzionaria che non arriva mai, Benjamin propone l’ipotesi secondo la quale anche il più piccolo istante nasconde un potenziale rivoluzionario, un’ipotesi che presuppone una concezione aperta della storia come prassi umana, ricca di possibilità inattese e inaudite.
Possibilità che, per esempio, emergono tra le barricate parigine del 1830, del 1848 e del 1871 nei confronti delle quali, sostiene Löwy, Benjamin  subisce una vera e propria fascinazione. Le barricate, al di là della loro effettiva efficacia, rappresentano una sorta di luogo utopico, un’anticipazione dei rapporti sociali del futuro, costruito attraverso l’uso da parte dei dominati della geografia urbana nella sua materialità (strade strette, altezza delle case, pavimentazione urbana) in cui un ruolo di primo piano spetta alle donne. La ristrutturazione della città ad opera di Haussmann tra  il 1860 e il 1870 vorrebbe cancellare la memoria collettiva di questa esperienza. Ennesima conferma del fatto che ciò che appare patrimonio culturale, se visto con gli occhi dei vincitori,  rappresenta un documento della barbarie, se ci mettiamo dalla parte dei perdenti della storia. L’abbattimento dei quartieri popolari di Parigi avviene con il pretesto della loro bruttezza e insalubrità, ma il vero obiettivo è fare spazio agli ampi boulevard in cui i cannoni possono più facilmente colpire gli insorti. Un atto di guerra preventiva, diremmo oggi, contro la possibilità stessa del verificarsi di quella sorta di “illuminazione profana” che, secondo Benjamin, si può affacciare sul proscenio della storia con la rivolta degli oppressi.

L’interpretazione della rivoluzione in termini di illuminazione rimanda al messianesimo che Benjamin considera la dimensione più importante della spiritualità ebraica. Nella teologia benjaminiana, però, non esiste un Messia inviato dal cielo. “Il solo messia possibile è collettivo … l’umanità oppressa”.4 Ogni generazione ha un pezzo di potere messianico che deve cercare di esercitare perché le generazioni passate gli hanno assegnato il compito della redenzione: il sacrificio delle generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. Il compito messianico corrisponde allora con la rivoluzione, con l’interruzione di un continuum storico che, con il suo accumulare macerie su macerie, preannuncia l’imminenza di nuovi disastri. Benjamin parla comunque di un potere messianico “debole” perché la redenzione, l’avverarsi dell’utopia rivoluzionaria è soltanto un’incerta possibilità.
Questa utopia, i sogni di un futuro diverso, nascono, secondo Benjamin, in intima associazione con elementi provenienti da una storia arcaica depositati nell’inconscio collettivo. Si tratta della rammemorazione, altro elemento essenziale della teologia secondo Benjamin, che ha per oggetto il matriarcato, il comunismo primitivo, una società senza classi né stato. E si tratta anche del ricordo di un rapporto più armonico con la natura che non sia contrassegnato dall’avidità distruttrice della società borghese, dalla concezione “imperialista” del dominio dell’uomo sull’ambiente naturale. Löwy evoca il rischio che in base a tali concezioni si possa sacrificare l’utopia sull’altare del mito. Ma afferma anche che, a scongiurare questo pericolo, entra in gioco una “dialettica propria del romanticismo rivoluzionario” perché Benjamin sostiene “un ritorno al passato verso un nuovo avvenire, che include tutte le conquiste della modernità dal 1789”.5
In modo simile Benjamin afferma, seguendo i surrealisti, che occorre conquistare per la rivoluzione le forze dell’ebbrezza, il rapporto magico con il mondo, ma aggiunge che mettere l’accento solo su questo lato significherebbe trascurare la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione. In altri termini, secondo Benjamin, occorre ridare spessore sensibile alla rivoluzione senza toglierle la sua virtù emancipatrice. È necessario, per dirla ancora in un altro modo, cambiare la vita, come sostiene Rimbaud, e insieme cambiare il mondo, come afferma Marx. Se venisse meno la tensione dialettica tra questi poli apparentemente inconciliabili scivoleremmo verso un romanticismo reazionario che nutre il sogno impossibile di un ritorno al passato. 

Non a caso la commistione tra arcaico e moderno è anche il tratto caratteristico del nazismo, per Benjamin vero e proprio Anticristo, cioè falso Messia che scimmiotta il vero redentore rappresentato dal socialismo. Sebbene utilizzi un discorso magico, il fascismo è profondamente radicato nello sviluppo moderno. Non si tratta di una parentesi storica che scomparirà con il procedere del progresso. Per vincere fascismo, occorre perciò produrre “il vero stato di eccezione”, vale a dire l’abolizione del dominio, la realizzazione della società senza classi. Il vero Messia trionfa solo quando sconfigge l’Anticristo. Anche “in un momento di pericolo supremo si presenta una costellazione salvifica che unisce il presente al passato”:6 tra le folle asservite dai dittatori Benjamin non dispera di scorgere i nuclei di resistenza formati dalle masse rivoluzionarie del Quarantotto e dai Comunardi.
Di fronte alla minaccia del nazismo, Benjamin, in una lettera del 1938 a Horkeimer, esprime la speranza che l’Unione Sovietica si possa considerare “l’agente dei nostri interessi in una guerra futura” sebbene sia consapevole che si tratti di “una dittatura personale con tutto il suo terrore” che finirà per far pagare un conto salato ai lavoratori. In una lettera precedente, scritta nel 1926 al suo amico Scholem, annuncia di voler aderire al partito comunista tedesco, sebbene non darà mai seguito a questa intenzione. Rimarrà, come egli stesso sostiene, un “osservatore tedesco” in una posizione “estremamente scoperta tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria”. Da una parte, dunque, c’è il suo anarchismo mai abiurato, il suo spirito libertario e romantico, dall’altra, come scrive in un’altra lettera a Scholem del 1924, la sua profonda attrazione per la prassi politica del comunismo intesa “come contegno normativo”. Egli stesso si descrive come un Giano Bifronte, con un volto rivolto a Gerusalemme e l’altro a Mosca sebbene il patto Molotov-Ribbentrop oscurerà definitivamente ai suoi occhi la luce della stella moscovita.

Si può considerare tutto ciò come un atteggiamento ondivago e contraddittorio. Oppure, come fa Michael Löwy, si può sostenere che Giano avrà pure due volti, ma possiede una testa sola. Se questo è vero si può considerare il pensiero di Benjamin come una “variante eretica del materialismo storico” che presta “un’attenzione sistematica e preoccupata per lo scontro di classe dal punto di vista dei vinti – a danno di altri topoi classici del marxismo, come la contraddizione tra forze e rapporti di produzione, o la determinazione della sovrastruttura attraverso l’infrastruttura economica”.7 Quella di Benjamin, in sintesi, è un’“alchimia filosofica” con una “componente esplosiva”8 che mette capo a una reinterpretazione del marxismo “assolutamente eterodossa, fortemente selettiva e talvolta meravigliosamente arbitraria”.9


  1. Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, p 9. Per la la precedente citazione vedi p. 8 del testo di Löwy. 

  2. Ivi. p. 31. 

  3. Ivi. p. 33. 

  4. Ivi. p. 112. 

  5. Ivi p. 66. 

  6. Ivi, p. 106. 

  7. Ivi p. 80. 

  8. Ivi p. 10. 

  9. Ivi p. 8. 

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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Fratture https://www.carmillaonline.com/2019/05/24/fratture/ Thu, 23 May 2019 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52682 di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro. Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso [...]]]> di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro.
Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso da gettare all’opinione pubblica per agitare fantasmi e babau che poi rientrino nel cappello del prestigiatore così come ne sono usciti.
Ma può accadere che i fantasmi escano dallo schermo, si riproducano in un proliferare incontrollato di immagini stereotipate che finiscano poi per narrarsi da sole, per creare da sé la loro realtà fuori dalle mani degli apprendisti stregoni.
Hanno evocato lo spettro della guerra tra poveri, quello del neofascismo, quello dei nazionalismi che schiumano livore ed ora che gli spettri sono stati evocati e vagano tra i vivi, non si sa più come gestirli. Lo specchio della realtà a forza di essere attraversato da immagini frenetiche ha finito per non reggere e inizia a mostrare le sue crepe. Fratture che vanno allargandosi e al cui interno già si scorge il futuro oltre lo specchio.

Le grottesche scene di Casal Bruciato, a Roma, con una dozzina di neonazisti e qualche accolito del luogo che per due giorni tengono ostaggio una famiglia rom intimandogli di abbandonare la casa, hanno campeggiato sui giornali e sulle bocche da talk show per un paio di settimane buone, ma per lo più ci si è limitati a scandalizzarsi davanti ad un subumano che minaccia di stupro una madre di famiglia con una bimba in braccio.
Niente di così speciale, tra l’altro, visto che sono le parole di neofascista: un uomo che, non solo appartiene ad un partito non nuovo alla violenza sessuale, ma che difende le antiche tradizioni del popolo italico, non da ultima quella dello stupro e della dominazione maschile che ha sempre rappresentato uno dei capisaldi della vita sociale del Bel Paese.

Cos’è invece che si è mosso attorno a questo banalissimo coglione? CasaPound, i neofascisti in generale, non sono nuovi ad avventure simili da dare in pasto ai media, specialmente sotto elezioni; è una tattica assodata ed ormai anche un po’ scontata. Osare, fare scandalo e spingere l’asticella del discorso sempre un po’ più a destra; fare notizia per campeggiare sui quotidiani nazionali e dipingersi come grande forza politica, bucare lo schermo per raggiungere nuovi affiliati con le stesse tristi passioni, provocare scompiglio per tastare il polso della situazione e sondare i margini di manovra e soprattutto, apparire, ergersi al centro delle cronache per narrare la propria verità, per dimostrare la propria esistenza e calamitare tutto l’odio e il rancore che albergano nelle metropoli. Creare un precedente che renda tangibile, concreto, ripetibile il messaggio dei figli del nero.

Per quasi 72 ore i camerati hanno stazionato sotto le case popolari minacciando di sfrattare, se non di bruciarla viva, un’intera famiglia di etnia rom, rea di aver ottenuto l’assegnazione di una casa popolare. Persone accusate banalmente di usufruire di un lecito diritto hanno subito una pressione psicologica dura da gestire e dolorosa da metabolizzare nel tempo.
Di primo acchito verrebbe spontaneo domandarsi: ma se non vanno bene nei campi, non vanno bene nelle case, allora bisognerebbe rispolverare le vecchie soluzioni di hitleriana memoria per gli zingari? Ancora non lo si dice apertamente, ma di questo passo, a spingere sempre più a destra la percezione politica e culturale del paese non è lontano il tempo in cui si potrà dire senza timore e con fare guascone che la soluzione sarebbe alloggiare i rom nelle vasche di un saponificio.

Per 72 ore questo teatrino squallido è andato avanti con una nutrita scorta di polizia: un cordone di celere che isolava le tartarughe frecciate dal più folto presidio antifascista e si rendeva spudoratamente connivente di una serie di reati che spaziano dall’istigazione all’odio razziale alla violenza privata, dalle minacce allo stalking. A lasciare perplessi non è tanto la gestione politica della piazza quanto, proprio, quella giuridica.
Ora, non che ci interessi di fare i legalitari, ma è bene osservare e prendere atto delle forme che sta assumendo il rapporto tra il neofascismo ed il potere politico che le forze dell’ordine rappresentano.
Un connubio sempre più stretto ed esplicito in virtù della retorica ben più spinta del sovranismo rispetto al vedo-non-vedo della socialdemocrazia.

Lo si è visto, in maniera più sottile, anche alla Sapienza di Roma dove Roberto Fiore e il suo partito in ansia da competizione hanno voluto far sapere al mondo che esistono ancora, dichiarando platealmente che avrebbero marciato sull’ateneo per impedire un dibattito con quel Nemico d’Italia che è Mimmo Lucano.
Lasciando da parte la magra figura della marcetta dei trenta lombrosiani figuri su di uno spartitraffico a parlare ad un pubblico di camionette, bisogna notare anche qui il sostanziale silenzio accondiscendente a questa manifestazione da buona parte del mondo politico ed accademico, infine trascinato per le orecchie dalla mobilitazione di studenti e professori e costretto a mettersi di traverso fino a far vietare il corteo fascista che, comunque, ha bonariamente sfilato un po’ nascosto e a disagio.
Mesi fa, nella tragica occasione della morte di una ragazza, sempre Forza Nuova aveva indetto un corteo per entrare nel quartiere San Lorenzo a sventolare i tricolori dove prima c’era lo straccio rosso. Una provocazione pesante rilanciata, stavolta, sul terreno di una università dal passato marcatamente antifascista. Provocazione che, come al solito, trova nella polizia il garante (poco garantista però) di quel democraticissimo diritto di consentire a chiunque di manifestare il suo pensiero.
Il vento soffia in loro favore, è il momento buono per osare, per lanciarsi nella mischia, per imprimere a fuoco le loro parole d’ordine ed allargare la loro egemonia.

È da notare, oltre gli equilibri di potere del fronte reazionario, la risposta a queste sortite che è stata prodotta dai movimenti: la reattività alle mobilitazioni neofasciste indica che il livello d’attenzione si è finalmente alzato ed è in grado di produrre controffensive sui territori che coinvolgono soggettività militanti assai diverse e altrimenti inconciliabili.
Certo è che nei quartieri di periferia l’iniziativa e la centralità dell’azione è stata in mano a quelle strutture che del radicamento e dell’azione quotidiana sui territori basano la loro strategia; senza di queste il terreno sarebbe stato sgombro o per lo meno assai scivoloso. L’internità costante ai soggetti di riferimento è uno dei nodi essenziali ma anche, ci si conceda, scontati.
La mobilitazione della Sapienza ha invece mostrato aspetti più interessanti: due migliaia di persone hanno dato vita ad un corteo che in quell’ateneo non si vedeva ormai da anni e che presentava al suo interno una composizione estremamente eterogenea: al corpo militante e dell’associazionismo si è affiancato un numero considerevole di docenti e soprattutto studenti.

È stridente la differenza tra questa partecipazione, probabilmente facilitata dalla figura di Lucano, e la diserzione generale dei momenti di lotta o di socialità autonoma entro lo spazio universitario, ma non solo. Come stridente era anche la differenza di postura tra chi, ormai professionalizzato al rituale della piazza, attraversa il corteo con un fare distaccato e quasi indolente, conscio dell’obbiettivo di impedire la piazza fascista, e la maggior parte degli studenti che vive invece la dimensione di una manifestazione allegra, pacifica, colorata e un po’ ingenua di chi difende la cultura dall’ignoranza, la democrazia dal fascismo.
È evidente allora tanto lo spazio vuoto che il milieu antagonista ha lasciato tra sé e i suoi referenti negli ultimi tempi, quanto il fatto che questa terra di nessuno può essere occupata oggi proprio grazie all’antifascismo.

A sondare le piazze che si sono prodotte in questo uggioso maggio c’è da notare come, senza ombra di dubbio, la marea nera, vuoi reale o pompata dai media, così come le imprese del ministro degli interni, abbiano prodotto una frattura nel tessuto sociale, dividendo tra chi è ormai pronto allo scontro di civiltà (o di barbarie) e chi è legato alle sue tradizioni democratiche (si fa per dire). Ma dal nostro lato della barricata c’è ancora, evidentemente, più materiale di quanto ci si aspettasse.
Se i camerati si sentono forti è in virtù anche della posizione che ricoprono nella strategia salviniana. Ma quest’ultima, finora sembrata uno schiacciasassi in grado di passare agilmente sopra qualsiasi impasse, ha mostrato in questa campagna elettorale il suo essere una tigre di carta.
Salvini è una figurina da social network, poco più che un meme, ed è in quella dimensione che funziona e sa far lievitare i consensi; sul terreno materiale la realtà è invece assai diversa.

Ce lo dicono il comizio sul balcone di Forlì sommerso di fischi e insulti, i pochi contestatori che lo mandano nel pallone a Settimo Torinese, le sue piazze dall’uditorio micragnoso surclassate clamorosamente dalle controinziative antifasciste, la battaglia degli striscioni che infuria sui balconi di mezza Italia, quella dei selfie combattuta a sfottò e baci saffici, Firenze e Napoli che provano a entrare a spinta nella piazza.
È evidente che, uscita dal modo fatato dei social, la punta di diamante del revanscismo italiano ha fatto male i suoi calcoli e si è trovata di fronte più contestatori che followers (d’altronde un follower mette i like ai post, mica scende in piazza).
Ed in mezzo a quelle contestazioni, sempre noi, i cattivi, gli antagonisti, gli autonomi dei centri sociali che tutto l’arco politico vorrebbe vedere estinti una volta per tutte.
Eppure ancora qui, ancora in grado di stare in piazza a seminare zizzania nonostante le ripetute sconfitte, ancora in grado di alzare, almeno un po’, il livello di conflitto.

Tuttavia, nonostante sia questa l’anima dietro le mobilitazioni, il risultato rischia di essere incassato da quella che un tempo sarebbe stata definita, fin troppo benevolmente, socialdemocrazia e dalla sua battaglia di consensi. Ad esclusione di un abbronzato Fassina, di qualche rappresentante dei partigiani e forse di qualche altra anima bella, nessun parlamentare, consigliere, militante di base o altro del PD o della Sinistra si è mai visto in piazza, pena l’esserne cacciato in malo modo; ma è sempre loro l’ultima parola al termine della giornata. Fanno eccezione, notare, le giornate in cui sono volate torce, transenne e manganelli.

Ed è proprio su quest’egemonia del discorso che si apre l’altra frattura, quella essenziale. La socialdemocrazia, anche una volta dismessi i panni del comunismo togliattiano e berlingueriano e indossati quelli delle riforme neo-liberiste, è una vecchia volpe che spinge l’elettore dritto dritto nella sua tana mostrandogli le fauci del lupo sovranista.
Senza stare a rivangare tutti i cadaveri che si porta appresso questa meschina creatura basti, ad esempio, guardare come si strappano le vesti per la maestra sospesa dal scuola per aver paragonato il Decreto Sicurezza alle Leggi Razziali, mentre solo due anni fa invocavano giustizia esemplare per quell’altra maestra che, a Torino, aveva insultato i poliziotti che proteggevano CasaPound caricando selvaggiamente e a più riprese il corteo antifascista, maestra che ha poi perso definitivamente la sua professione per il sollazzo dei salotti bene.
O magari si può parlare di tutti gli striscioni sequestrati, degli appartamenti perquisiti e delle botte gratuite nelle piazze quando parlava Renzi.
Ripetiamolo ancora, qualora non bastasse, fascismo e democrazia sono le due facce della stessa civiltà del dominio, le due teste della medesima Idra.

Allora non ci basta cacciare il PD dalle piazze per toglierci questo vampiro di dosso, che mina qualsiasi possibilità di allargare le fratture della società e vuole far passare l’idea che l’opposizione attiva si faccia a colpi di selfie e umorismo e pace sociale.
È necessario adesso imporre un nuovo ordine del discorso, una differente drammaturgia della piazza.
Bisogna uscire dal campo della democrazia, delle libertà civili e attraversare quello della radicalità rivoluzionaria. Se la mobilitazione antifascista oggi è in grado di rivitalizzare piazze dormienti allora si sia antifa fino in fondo!
Se alla Sapienza gli studenti mostravano una postura simile a quella dei primi licei durante l’onda, vuol dire che si è di fronte ad una tabula rasa, un foglio bianco su cui è possibile disegnare il volto della nuova militanza, quella militanza che viene, figlia del secondo millennio dei nazionalismi e della crisi permanente, della democrazia autoritaria e dell’Occidente che muore.
Tocca tracciare il profilo della nuova resistenza a questo presente iniziando a sfruttare ogni momento in cui è dato a quest’entità di mostrarsi.

Sottrarre l’antifascismo alla “sinistra” e scagliarlo nella direzione del conflitto sociale e della lotta di classe ci impone, ora che i riflettori sono puntati su queste piazze, di attraversarle e dare in pasto alle telecamere qualcosa di indigesto e potente che non possano ignorare.
La narrazione mainstream antifascista è affamata, per ora, di studenti che cantino sorridenti Bella Ciao, diamo loro gli studenti, ma che cantano con un fazzoletto rosso a coprire il volto, che camminano tra il fumo delle torce che fa rabbrividire la buona borghesia pensando agli ultras, che impattano, laddove possibile, sugli scudi dei tutori dell’ordine.

Devono parlare di noi per continuare a esistere, allora che ne parlino, ma le parole le stabiliamo noi!
Muoversi in una piazza con calcolata radicalità e lucida forza per inquinare la narrazione nemica ed iniziare, anche da qui, ad imporre un immaginario irriducibile a questa democrazia.
Tastare palmo a palmo, ogni volta, fin dove può spingersi il nostro agire e quanto sia possibile acutizzare le coscienze. Non bisogna pensare di risolvere il tutto in una nuova estetica del conflitto in cui ci si mette, a favore di telecamera, a rappresentarsi come cavalieri dell’apocalisse quando dietro, assieme al fumo dei lacrimogeni, c’è solo la fumosità del movimento. La telecamera è uno strumento del nemico e non ci si può regalare alle sue fauci ma si deve torcere quest’arma a nostro vantaggio. La nostra è una tradizione partigiana e i partigiani combattono sempre con le armi prese al nemico.

Questa drammaturgia della piazza è un’arte da affinare non perché è in piazza che si vince, ma perché è ciò che ci consente, nel deserto che attraversiamo, di imprimere una percezione del reale nelle menti di chi osserva o attraversa dati momenti, testimoniare una presenza che è altra e forte a dispetto di quanto si dica; inoculare un dato immaginario che faccia presa e sappia plasmare una potenziale soggettività militante. Questo è però solo un piccolo tassello, la reale posta in gioco si trova sul livello dell’organizzazione, della capacità di produrre conflitto e autonomia, dell’inchiesta militante; su quel livello, insomma, che è il lavoro grigio e quotidiano della rivoluzione e che deve oggi ritrovare slancio, passione, attrattiva.
Ogni passo che viene mosso deve contenere in sé la prassi, la teoria, la strategia, la propaganda, l’avanzamento della coscienza, la ridefinizione dei rapporti di forza.
Non dobbiamo combattere una guerra delle immagini, ma dobbiamo sapere che l’immagine produce percezione e cultura. Ed è sul terreno della percezione che si combatte la battaglia preliminare, quella che sottende al grande scontro.
Non c’è politica rivoluzionaria senza cultura della rivoluzione e non c’è cultura rivoluzionaria che non provenga dal livore delle strade.

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Le nuove plebi globali dentro la crisi sistemica https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/le-nuove-pelbi-globali-dentro-la-crisi-sistemica/ Mon, 14 May 2018 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45410 di Giovanni Iozzoli

Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e quello delle nuove masse proletarizzate, che stanno manifestando una confusa e sempre più diffusa repulsione verso ideologie e prassi delle élite, senza che questa ripulsa maturi in direzione di un qualche progetto di alternativa di società.

La prima parte del libro raccoglie spunti di analisi – quasi una narrazione in diretta – che partono dal 2011 e si allungano fino al 2017. Le pratiche di un neoliberismo feroce e pervasivo, sono al centro di ogni riflessione: il loro incunearsi “microfisicamente” nel tessuto sociale, nella vita, nel bios, fino ai grandi scenari macro – la guerra, il ciclo economico, il rapporto finanza/produzione. Una cronaca in tempo reale del disastro della modernità capitalistica, che può essere letta e declinata a vari livelli.

Si può partire da un tema attuale – l’essenza delle ideologie workfare – a proposito della scelta inglese del 2012, di affidare ad agenzie private la gestione dei sussidi e la ricollocazione degli iscritti alle liste di collocamento:

Il principio del workfare (il sussidio di disoccupazione bisogna guadagnarselo, altrimenti si è passibili di sospensioni o decurtazioni dell’assegno) non è certo una novità, ma qui siamo in presenza di pratiche ancora più penalizzanti. Soprattutto perché il compito di gestire questo avvio al lavoro coatto non è affidato alla pubblica amministrazione bensì a contractor privati che funzionano di fatto come agenzie interinali e hanno il potere di decidere come e quando i soggetti “renitenti” siano passibili di sanzione. Per di più questi nuovi schiavi del XXI secolo non sono affatto utilizzati per svolgere lavori di pubblica utilità: puliscono uffici e abitazioni private, con il risultato che le imprese e gli individui presso i quali vengono “comandati” spesso licenziano i lavoratori che svolgevano in precedenza questo tipo di attività. Detto in poche parole: si sfruttano i disoccupati per creare nuovi disoccupati! A questo punto sorge una domanda: esiste una qualche differenza fra queste ignobili politiche e quelle dei governanti inglesi che, fra fine Settecento e inizio Ottocento, costringevano al lavoro coatto i “vagabondi” (cioè i poveri che rifiutavano di sottoporsi al regime schiavistico delle manifatture)? (p. 14)

E ancora, il tema della privatizzazione dell’istituzione carcere:

Da fonti di stampa apprendiamo che alcuni Stati americani avrebbero stipulato con le imprese dei contratti che li obbligano ad affidare alla loro gestione una quantità minima di detenuti. Insomma: le imprese pretendono che tutti i loro “letti” (per usare una metafora sanitaria) siano occupati, in modo da sfruttare al massimo la capacità produttiva della struttura. Naturalmente ciò impegna le amministrazioni pubbliche a condurre politiche ferocemente repressive anche nei confronti dei reati minori, onde poter fornire “carne fresca” ai carcerieri-padroni. (p. 18)

E il dramma sociale della sanità iperprivatizzata:

dopo la bolla del debito immobiliare, scoppiata nel 2008, e dopo quella del debito studentesco, che minaccia di scoppiare nei prossimi anni, sembra profilarsi una bolla del debito sanitario. Dentisti, dottori e altri operatori sanitari, in combutta con le società finanziarie, hanno infatti iniziato a offrire prestazioni a credito ai pazienti che non possono pagare. Chi cade in questa trappola si trova nelle condizioni di dover sborsare per anni rate gravate da interessi degni dei più efferati strozzini (fino al 30%). (p. 19)

Sulla diffusione dei corsi di laurea universitari on-line:

In un momento in cui l’università di massa è al centro di un duro attacco da parte dei governi neoliberisti, i quali, attraverso l’aumento delle tasse di iscrizione e il taglio delle risorse, cercano di ridurre il numero degli iscritti e di discriminare fra università di serie A (per formare le élite) e B (per formare una forza lavoro flessibile, disciplinata e destinata a svolgere attività esecutive e sottopagate), l’informatizzazione dei corsi è uno strumento ideale per agevolare il progetto: 1) corsi online e a basso costo per la maggioranza degli studenti, che così resteranno a casa evitando di creare pericolose concentrazioni umane (notoriamente nido di velleità sovversive); 2) disciplinamento mentale attraverso moduli didattici che incorporano idee e valori precodificati; 3) sontuosi profitti per le imprese che forniranno le infrastrutture hard e soft alle università digitalizzate. (pp. 20-21)

La sezione centrale del libro è dedicata alle trasformazioni del lavoro, dentro la durissima offensiva liberista che in occidente sta ridefinendo il rapporto salariato, i mercati del lavoro, le forme dello sfruttamento e quelle della resistenza sindacale. A tal proposito Formenti commenta la nascita di una grande associazione di tutela del lavoro freelance negli Usa, l’unica organizzazione sociale in rapido incremento:

la Freelancers Union non è un vero sindacato, bensì qualcosa di simile alle vecchie gilde professionali, un organismo che non ha – né rivendica – alcun potere di contrattazione con i padroni, ma serve a raccogliere fondi per finanziare servizi come l’assistenza sanitaria, che resterebbero altrimenti fuori portata per questi lavoratori “autonomi” […] un’alternativa “mercatista” al sindacato tradizionale: la Freelancers Union si concepisce infatti come un’azienda (sia pure non profit) nata per erogare servizi non ai membri di una classe sociale bensì a individui che vengono presentati come “imprenditori di se stessi”. Finché simili equivoci non verranno spazzati via, non ci saranno speranze di restituire ai lavoratori quel potere che, per sua stessa natura, non può essere che collettivo. (pp. 46-47).

E i rischi del “taylorismo digitale”:

Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituita da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie digitali – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le nuove tecnologie – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” in misura non inferiore di quanto la catena di montaggio facesse nei confronti del lavoro fordista. (p. 49)

Per arrivare alla degenerazione estrema delle vecchie figure dello sfruttamento salariato – il lavoro gratuito come estremo adattamento alla nuova organizzazione produttiva:

Finiti i tempi della gerarchia e dell’autoritarismo [Formenti cita tesi in voga nella sociologia del lavoro americana], viviamo in un’epoca in cui la prima preoccupazione dei capi non dev’essere più farsi obbedire, bensì fare in modo che i subordinati siano sempre più autonomi e capaci di decidere da soli. […] Secondo un altro articolo, esiste un sistema infallibile per creare questo clima di cameratismo, familiarità reciproca, condivisione ed entusiasmo per la “missione” comune: basta convincere i dipendenti a svolgere lavoro volontario (e gratuito) nei weekend e al di fuori del normale orario di lavoro. […] Tutto questo mi ricorda la campagna di arruolamento di migliaia di giovani volontari per l’Expo milanese, sedotti dal miraggio di un’esperienza che – garantiscono partiti, media, istituzioni e imprese – potrà offrire loro brillanti opportunità future di impiego. (pp. 57-58)

E sugli scioperi nel settore pubblico, commentando un articolaccio liberticida del «Corriere della Sera», a firma Dario Di Vico:

Il messaggio di fondo – cosa aspettiamo a metterli fuorilegge? – è chiaro, ma vale la pena di approfondirne alcuni aspetti. Partiamo dai titoli. Il pezzo di sinistra, quello che fa la cronaca dello sciopero, inalbera sopra a un titolo a effetto (Città in coda aerei a terra), un occhiello che recita: Lo sciopero delle sigle minori blocca i mezzi pubblici, frase che contiene un evidente paradosso: se le sigle sono minori, come mai riescono a bloccare i mezzi pubblici e a raccogliere elevate percentuali di adesione (a Palermo si è arrivati al 78%)? […] Vedrete che una formula per rendere gli scioperi illegali si troverà. Auspicabilmente con l’appoggio delle sigle confederali [che] esorta Di Vico, abbandonino ogni “pigrizia” e si facciano parte attiva per stroncare le velleità dei sindacatini. Un vero grido di guerra, condito da un appello demagogico agli “interessi dei più deboli” vale a dire precari e partite Iva che sarebbero i più danneggiati da questi scioperi. Di Vico recita questa litania un giorno sì e l’altro pure, come se i precari non fossero il prodotto – e le prime vittime – di quelle politiche economiche di cui lui è uno dei più solerti piazzisti. (pp. 62-63)

Tra l’altro la recentissima produzione normativa della Commissione di Garanzia, sta praticamente azzerando il diritto di sciopero per migliaia di lavoratori del trasporto pubblico locale, nel silenzio generale, come fosse una faccenda irrisoria e non un vulnus decisivo alla Costituzione.

La sezione più dolente – e spietata – è quella in cui Formenti descrive la parabola tragica e suicida di tutte le sinistre occidentali, dalla socialdemocrazia agli “tisprasiani” di ogni sorta. L’essersi candidati a gestire il progetto neoliberista, o aver sostenuto l’utopia di un “altra Europa possibile”, ha prodotto un terreno di macerie nel cuore di quelle società in cui, nei “trenta gloriosi”, era prosperata l’esperienza (e il mito) del patto sociale e del compromesso capitale-lavoro. Al tradimento dei partiti dell’Internazionale Socialista e del mondo progressista, segue, tra il 2016 e il 2017, un domino impressionante di sconfitte elettorali epocali: Hollande, la Brexit, Illary Clinton e Matteo Renzi, tutte tappe di una via crucis delle élite, anche intellettuali e accademiche, che avevano teorizzato per anni la “terribile bellezza e la geometrica potenza” della globalizzazione e delle sue mortifere politiche gestite in salsa social-liberale. E mentre le élite sociali manifestano una chiara incapacità di prevedere e controllare le scelte dei popoli, le sinistre politiche brancolano nel nulla.

In entrambi i casi le élite hanno manifestato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari sporchi, brutti e cattivi che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati, ahimè, dalle sinistre (anche radicali!) che hanno detto che non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba. (p. 78)

Le sinistre “per bene” di ogni risma, negli ultimi anni, risultano scioccate e spiazzate da opinioni pubbliche che sono in totale “dissonanza cognitiva e valoriale”, rispetto alle loro fruste narrazioni. La vittoria di Trump negli Usa fa emergere questo sconcerto; Formenti riprende Mark Lilla e il dibattito tra gli allibiti progressisti americani dopo la vittoria di Trump:

l’ossessione per le differenze identitarie – e la retorica “politicamente corretta” che l’accompagna – che pervade da decenni scuole, media e università americane, scrive, ha prodotto una generazione di progressisti “narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati”. Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e “non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l’economia e i beni comuni” […] Questo atteggiamento ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a ciò che non riguarda i temi identitari (p. 79)

Un panorama di macerie che però non è un vuoto (in politica non esiste questo concetto) quanto piuttosto un campo aperto, attualmente presidiato dalla galassia delle forze populiste. Su questo mondo, Formenti è molto esplicito:

non va dimenticato che il populismo, pur se si dichiara né di destra né di sinistra, è sempre ideologicamente orientato: può produrre ridistribuzione del reddito, solidarietà e amicizia fra i popoli, come è avvenuto per i populismi bolivariani, ma può anche produrre razzismo, nazionalismo e intolleranza, come avviene con i populismi alla Salvini e alla Le Pen. Detto altrimenti: il populismo è oggi il terreno su cui si gioca la sfida di un cambiamento radicale, con tutti i rischi relativi, mentre la democrazia reale3 è il terreno su cui germogliano oppressione, sfruttamento, dominio sulle masse popolari da parte dell’élite economica e politica (p. 77)

Quello di Formenti, in questi anni, è la traiettoria lucida, rigorosa e a suo modo iconoclasta, di un intellettuale che si è scisso definitivamente dal “progressismo”, dai miti “spinelliani”, da ogni idea di “campo democratico”, dal ripugnante “political correct” che diventa linguaggio religioso della modernità e cerca nell’individualismo solipsistico, nel civismo a chilometri zero, in una idea di libertà fondata sull’assimilazione acritica dell’american way of life, una sua qualche ragion d’essere:

è da qualche decennio che gli intellettuali più intelligenti nel campo della sinistra hanno avviato una riflessione in merito al fatto che, oggi, la critica della società capitalistica non può non accompagnarsi a una critica radicale dell’ideologia “modernista” e della sua grottesca variante postmoderna, il “nuovismo” (p. 83)

La raccolta si chiude con una sezione sanamente intitolata “Polemiche”. Qui l’autore sceglie di polemizzare “dentro” al suo campo, quello del pensiero critico. E i suoi bersagli sono certe sbracature “moltitudinarie” che non sanno più leggere la complessità della stratificazione e delle gerarchie di classe, coltivando il mito di una dimensione orizzontale della cooperazione produttiva già pronta per essere rovesciata come un guanto; o contro gli intellettuali radical che guardano al “popolo” come teppa reazionaria che si lascia ammaliare dai pifferai del populismo; o contro la volgarità di coloro che lanciano accuse di “rossubrunismo” ogni volta che si apre una riflessione seria sulle categorie (storiche non metafisiche) della sovranità nazionale. È la parte più densa del libro, quella forse meno accessibile al lettore occasionale, ma anche quella in cui la vis polemica e il solido retroterra di Formenti, gettano legna nel fuoco del dibattito politico e teorico contemporaneo. E Dio solo sa se ce n’è bisogno.

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La rivoluzione non è (soltanto) affare di Partito https://www.carmillaonline.com/2017/07/26/la-rivoluzione-non-affare-partito/ Tue, 25 Jul 2017 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39349 di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il [...]]]> di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.

Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente. La letteratura specialistica e politica, fatte salve alcune opere dovute a protagonisti e testimoni di quell’esperienza (Trockij e Bordiga1 in primis, ma pur sempre segnati dalla necessità di intervenire nelle battaglie politiche e nelle polemiche in corso all’epoca dello loro stesura) oppure allo storico inglese Edward H. Carr, 2 sembra essersi schierata fino ad oggi o sul fronte del rifiuto e della condanna oppure su quello della passiva accettazione, o quasi, di ogni suo aspetto. Fenomeno inaspritosi sicuramente, in ogni senso, a partire dal 1989.

Il testo della Luxemburg fu probabilmente scritto nell’autunno del 1918, mentre l’autrice si trovava in carcere per scontare una condanna dovuta al suo intransigente antimilitarismo. Avrebbe dovuto essere successivamente rivisto, come alcune lapidarie frasi e brevi appunti al suo interno sembrano rivelare ad un lettore attento, ma ciò non poté essere portato a termine a causa dell’omicidio di Rosa, ad opera dei Freikorps di Noske, durante l’insurrezione spartachista di Berlino nel gennaio del 1919.

Rimase inedito fino al 1921 quando Paul Levi, già presidente del Partito comunista tedesco e da questo espulso nel 1920, decise di pubblicarlo, nonostante la contrarietà di amici e compagni della Luxemburg (trattandosi appunto di un testo non rivisto dall’autrice), proprio per contrastare le premesse teoriche della tattica e dell’organizzazione bolscevica e di quella Terza Internazionale che iniziava a richiederne l’applicazione da parte di ogni Partito comunista.3

Forse tale interpretazione servì a far sì che in seguito non solo tale testo, insieme a molti altri dell’autrice, fosse rimosso dalla tradizione e dalla stampa comunista, ma “quando già l’Internazionale comunista cominciava ad agonizzare, fu considerato un merito quello di aver proceduto in Germania alla liquidazione del luxemburghismo nel movimento operaio e nel Partito comunista tedesco”.4

Mentre nella “letteratura” stalinista: ”Alla voce «Luxemburg» dell’Enciclopedia Sovietica si può leggere quanto male abbia fatto alla classe operaia e al socialismo questa povera semi-menscevica, questa intellettuale piccolo-borghese, rea di spontaneismo, di oggettivismo, di meccanicismo, di liquidatorismo”.5 Eppure, eppure…

Proprio nell’incipit del testo ora ripubblicato a cura di Massimo Cappitti, Rosa Luxemburg aveva scritto: “La rivoluzione russa è l’avvenimento più importante della guerra mondiale”.6
Da questa perentoria affermazione la comunista tedesca prende l’avvio per un’analisi sia dell’immaturità del proletariato tedesco che si era lasciato irretire dalle chimere della guerra nazionale che la socialdemocrazia, tradendo anche i più semplici principi del socialismo, aveva travestito da lotta contro l’autocrazia russa e da campagna progressiva di liberazione dell’Europa e dello stesso proletariato russo da condizioni socio-economiche arretrate; sia per una autentica scomunica dei tentennamenti, delle giravolte e degli autentici tradimenti dei compiti dei partiti socialisti che la direzione e i giornali del partito tedesco, con Karl Kautsky in testa, avevano contribuito a diffondere con l’obiettivo di confondere e cancellare la memoria e l’esperienza di classe dei suoi militanti e dei lavoratori tedeschi.

Per fare ciò la rossa Rosa sente la necessità di tracciare un paragone tra le scelte dei rivoluzionari russi dal marzo all’ottobre del 1917 e quella delle componenti più radicali della rivoluzione inglese e di quella francese. L’excursus storico che la porterà ad affermare che “il partito leninista fu l’unico a capire i veri interessi della rivoluzione in quel primo periodo, ne fu l’elemento trainante, in questo senso, in quanto unico partito a fare una politica davvero socialista7 passa attraverso la valutazione delle scelte fatte dai Levellers e dai Diggers nello spingere avanti il corso della rivoluzione inglese, affinché questa non si arenasse nelle trame presbiteriane e monarchiche e, successivamente, attraverso la ricostruzione dell’azione giacobina nello spingere verso una compiuta democrazia la rivoluzione francese.

In entrambi i casi sono proprio le componenti più umili della società sei/settecentesca a spingere in avanti i progressi rivoluzionari. Ad impedire che dirigenze incerte potessero limitare o fare arretrare il percorso rivoluzionario dal suo naturale percorso. Riferendosi alla rivoluzione francese, ma in realtà anche ai compiti del moderno socialismo e alle teorie di coloro che, sia in Russia che in Germania, affermavano che la rivoluzione russa avrebbe dovuto accontentarsi di realizzare una compiuta democrazia borghese prima di affrontare il tema della rivoluzione socialista, la Luxemburg scriveva: “La superficialità liberale nel concepire la storia naturalmente non permise di capire che senza il sovvertimento «senza regole» dei giacobini, anche le prime, incerte e parziali, conquiste della fase girondina sarebbero state sepolte sotto le macerie della rivoluzione, che la vera alternativa alla dittatura giacobina, così come la poneva il ferreo corso dello sviluppo storico nel 1793, non era la democrazia «moderata» ma la restaurazione dei Borboni! La rivoluzione non è in grado di mantenere l’«aureo mezzo», la sua natura esige una rapida decisione: o la locomotiva, pompando a tutto vapore, viene trainata su per la salita della storia fino in cima, oppure, trascinata dalla forza di gravità, rotola indietro fino al punto più basso e trascina irrimediabilmente con sé nell’abisso quanti, con le loro fiacche energie, volevano tenerle a metà strada.“8

Per la teorica tedesca però era “chiaro che non un’apologia acritica, ma solo una critica accurata e riflessiva è in grado di rivelare la ricchezza di esperienze e insegnamenti. Sarebbe infatti una follia pensare che, in coincidenza con il primo esperimento nella storia mondiale di una dittatura della classe lavoratrice, e proprio nelle peggiori condizioni possibili – in mezzo all’incendio e al caos di un eccidio imperialista nella morsa di ferro della potenza militare più reazionari d’Europa, nel pieno fallimento del proletariato internazionale – proprio tutto quanto in Russia era stato fatto e disfatto fosse stato il massimo della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la comprensione delle sue necessarie premesse storiche costringono a prendere atto del fatto che , in condizioni così fatali, nemmeno l’idealismo più smisurato e l’energia rivoluzionaria più impetuosa sono in grado di realizzare democrazia o socialismo, ma solo tentativi impotenti e distorti verso entrambi9

Quali furono quindi i principali elementi “critici” su cui si soffermò all’epoca la rivoluzionaria tedesca?
Sostanzialmente tre: la ripartizione delle terre subito dopo la presa del potere da parte dei soviet e del Partito rivoluzionario, il principio dell’autodeterminazione delle nazioni applicato a partire dalla pace di Brest –Litovsk con cui la Russia rivoluzionaria aveva dovuto concedere ingenti conquiste territoriali alla Germania guglielmina per poter giungere alla fine della guerra e la questione della democrazia interna e dei rapporti tra Partito bolscevico ed esigenze e proposte delle masse rivoluzionarie.

Nei primi due punti, intrinsecamente legati alle parole d’ordine che Lenin aveva lanciato nell’ottobre del ’17 (Potere ai soviet, terra ai contadini e pace ad ogni costo), la Luxemburg intravedeva, nel primo, il pericolo, poi effettivamente verificatosi, che una disordinata distribuzione delle terre dei latifondi avrebbe potuto creare una classe di piccoli e medi proprietari che avrebbero poi potuto opporsi, in nome dei propri diritti proprietari, alla rivoluzione stessa. Con le successive note conseguenze, soprattutto durante la collettivizzazione forzata voluta successivamente da Stalin, la carestia in Ucraina e il massacro di centinaia di migliaia di presunti kulaki (medi proprietari terrieri) negli anni Trenta.

Mentre nel secondo la rivoluzionaria tedesca, sempre nemica di ogni forma di nazionalismo, vedeva la possibilità di una risorgenza nazionalista borghese e piccolo borghese che avrebbe minato sia la fiducia delle masse proletarie nella rivoluzione e nelle sue conquiste, sia il potere stesso della politica rivoluzionaria. Proprio come in seguito gli episodi della lunga e stremante guerra civile avrebbero poi dimostrato (dalla Finlandia all’Ucraina, che per la Luxemburg “non aveva mai costituito una nazione o uno stato”,10 e successivamente con l’argine costituito dalla Polonia del maresciallo Józef Klemens Piłsudski all’avanzata delle truppe rivoluzionarie verso il cuore tedesco del capitalismo europeo nel 1920). Finendo poi, di ritorno, a costituire la giustificazione per l’annessione forzata e l’occupazione militare voluta dalla politica “Grande russa” di Stalin nei decenni successivi alla sua presa del potere.

Ma al di là delle virtù “profetiche” dell’attenta analisi luxemburghiana della situazione “sul campo”, quello che il testo riprende ( e per questo in appendice è stato aggiunto il testo Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, scritto nel 1904, un anno prima della rivoluzione del 1905 e due anni dopo la stesura del Che fare? di Lenin) è la polemica dell’autrice con la concezione esclusivamente partitica e accentratrice dell’azione rivoluzionaria concepita dall’avanguardia bolscevica e da Lenin stesso.

Il partito di Lenin era l’unico ad aver compreso davvero il dovere e l’esigenza di un vero partito rivoluzionario che, con la parola d’ordine: «tutto il potere nelle mani di proletari e dei contadini» ha assicurato il proseguire della rivoluzione.11 Ma tale parola d’ordine era destinata ad entrare presto in conflitto con le decisioni, prese essenzialmente da Lenin e da Trockij, di limitazione delle espressioni di democrazia, a partire dall’affossamento dell’Assemblea costituente,

In primo luogo, a seguito di ciò, il diritto elettorale fu concesso solo a coloro che vivevano del loro lavoro mentre era negato agli altri. Ma “è ormai chiaro – scrive ancora Rosa – che un siffatto diritto elettorale ha senso solo in una società che è anche economicamente in condizione di garantire a tutti quanti vogliano lavorare una vita decente e civile attraverso il loro lavoro. E’ vero anche per la Russia attuale? Con le terribili difficoltà con cui la Russia sovietica – esclusa dal mercato mondiale, privata delle sue principali fonti di materie prime – si deve scontrare […] E’ un fatto che la riduzione dell’industria ha suscitato un massiccio afflusso verso le campagne di un proletariato urbano in cerca di una sistemazione. In tali condizioni, un diritto elettorale politico che abbia come premessa economica il lavoro obbligatorio, rappresenta una misura incomprensibile. In linea generale esso dovrebbe privare dei diritti politici soltanto gli sfruttatori. E mentre le forze produttive vengono sradicate, il governo sovietico si vede letteralmente costretto a lasciare l’industria nazionale nelle mani dei precedenti proprietari capitalisti.12

La tacita premessa della teoria della dittatura in senso leninista-trockista è che il capovolgimento socialista sia una questione per la quale c’è una ricetta bell’e pronta, infilata nella tasca del partito rivoluzionario, che deve solo essere realizzata energicamente. Purtroppo, o per fortuna, non è così […] Quello di cui disponiamo nel nostro programma è un numero esiguo di grandi indicazioni di carattere peraltro negativo, che mostrano la direzione in cui andrebbero presi i provvedimenti […] Del negativo, della demolizione si può decretare, del positivo e della costruzione no […] Solo la vita libera e in fermento inventa migliaia di nuove forme, improvvisa, promana la forza creatrice, corregge da sé gli errori13

Ecco cosa differenzierà sempre il pensiero della Luxemburg da quello di Lenin: la fiducia nell’azione delle masse di cui l’azione del partito deve essere un risultato e non una premessa obbligata. La rivoluzionaria tedesca era convinta che “nelle sue grandi linee, la tattica di lotta della socialdemocrazia non è, in generale, da ‘inventare’; essa è il risultato di una serie ininterrotta di grandi atti creatori della lotta di classe spesso spontanea, che cerca la sua strada. Anche in questo caso l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo storico oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti“.14

Da ciò faceva derivare la seguente osservazione: “Se la tattica del partito è il prodotto non del Comitato centrale, ma dell’insieme del partito o, meglio ancora, dell’insieme del movimento operaio, è evidente che […] l’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare come impregnato non già da uno spirito positivo e creatore, bensì dello spirito sterile del sorvegliante notturno. Tutta la sua cura è rivolta a controllare l’attività del Partito, e non a fecondarla; a restringere il movimento e non a svilupparlo, a strozzarlo, non a unificarlo15

Differenze e polemiche che, però, non videro mai venir meno la stima reciproca tra la rivoluzionaria tedesca e Lenin. Entrambi erano rimasti vicini nella sostanza, soprattutto quando erano stati tra i pochi socialisti contrari al primo macello imperialista; così che se la Luxemburg riconosceva in Lenin tutte le qualità del leader rivoluzionario agitato da una grande passione e da una grande energia, dall’altra il rivoluzionario russo riconosceva in lei lo “sguardo d’aquila” da grande teorica del socialismo.

Grazie dunque a Massimo Capritti e alle Edizioni BFS per averci ricordato, in occasione di questo centenario sotto tono, di quali contenuti fossero intessuti i dibattiti e di quali energie fossero dotati i rivoluzionari di quella stagione gloriosa della storia del movimento operaio.


  1. Amadeo Bordiga: Russia e rivoluzione nelle teoria marxista (autunno1954 – inverno1955), Le grandi questioni della rivoluzione in Russia (1955), La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea (1956) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (aprile 1955 – dicembre 1957)  

  2. La rivoluzione russa, pubblicata in lingua originale a partire dal 1950 e tradotta in italiano da Einaudi nella Collezione Storica tra il 1964 e il 1978, di cui soltanto il primo volume è dedicato alla Rivoluzione mentre gli altri nove ripercorrono il periodo dalla morte di Lenin all’esperienza del socialismo in un solo paese, alla pianificazione economica e ai rapporti con gli altri paesi e gli altri partiti comunisti fino al 1929  

  3. Almeno questo è ciò che afferma György Lukács nelle sue Osservazioni critiche sulla critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute ora in Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978  

  4. Pier Carlo Masini, Introduzione a Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, pag. 81  

  5. P.C. Masini, op. cit. pag. 83  

  6. pag. 7  

  7. pag. 39  

  8. pp. 43-44  

  9. pag. 33  

  10. pag. 58  

  11. pag. 44  

  12. pp. 67-68  

  13. pp. 71-72  

  14. Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pp. 99-100  

  15. Problemi, pag. 101  

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