Slavoj Žižek – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pasolini oggi, fuori dagli schemi https://www.carmillaonline.com/2024/05/28/pasolini-oggi-fuori-dagli-schemi/ Tue, 28 May 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82863 di Paolo Lago

Guido Santato, Pasolini oggi. Studi e letture, Carocci, Roma, 2024, pp. 234, euro 25,00.

Il titolo del recente volume di Guido Santato, Pasolini oggi, appare particolarmente significativo; come scrive lo stesso autore, esso “intende sottolineare da un lato la permanente e straordinaria attualità di Pasolini, dall’altro la necessità di una rinnovata e approfondita lettura della sua opera, estremamente complessa per la sua articolazione multimediale: un’opera che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, al cinema, al teatro, alle traduzioni dei classici, al giornalismo, alla pittura”. L’opera di Pasolini è estremamente poliedrica e complessa e deve essere oggetto di [...]]]> di Paolo Lago

Guido Santato, Pasolini oggi. Studi e letture, Carocci, Roma, 2024, pp. 234, euro 25,00.

Il titolo del recente volume di Guido Santato, Pasolini oggi, appare particolarmente significativo; come scrive lo stesso autore, esso “intende sottolineare da un lato la permanente e straordinaria attualità di Pasolini, dall’altro la necessità di una rinnovata e approfondita lettura della sua opera, estremamente complessa per la sua articolazione multimediale: un’opera che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, al cinema, al teatro, alle traduzioni dei classici, al giornalismo, alla pittura”. L’opera di Pasolini è estremamente poliedrica e complessa e deve essere oggetto di una lettura seria e rigorosa, “rinnovata” e “approfondita”. Pasolini non può continuare ad essere una sorta di “ovetto Kinder della cultura italiana”, come ha scritto Pierluigi Sassetti utilizzando una suggestione offerta da Slavoj Žižek1, un ovetto nel quale ognuno trova la sorpresa che più gli aggrada. Non può essere usato e citato a sproposito da clowneschi politicanti da strapazzo. Una citazione dall’opera di Pasolini dovrebbe essere sempre preceduta da una conoscenza rigorosa e approfondita, mai superficiale: basti solo pensare all’“infame mantra”, come lo definisce Wu Ming 1, su “Pasolini che stava con la polizia e i manganelli”2, emerso anche lo scorso febbraio in merito ai fatti avvenuti a Pisa (giovani manifestanti pro Palestina picchiati dalle forze dell’ordine).

Per affrontare l’opera poliedrica e multimediale di Pasolini, Guido Santato, uno dei massimi esperti dell’autore bolognese, adotta svariati punti di vista. I saggi presenti nel volume – alcuni già editi presso diverse sedi, altri inediti e presentati adesso per la prima volta – intendono sondare diversi aspetti e sfaccettature dell’opera pasoliniana, cercando di abbracciare i più svariati ambiti: la poesia, la narrativa, il cinema, il teatro, financo la musica (di cui Pasolini era appassionato ed esperto). Il primo saggio è dedicato all’importante presenza di Dante nell’opera di Pasolini, da Ragazzi di vita (1955) fino al postumo Petrolio. Lo studioso attraversa l’intera opera pasoliniana sondando il fondamentale ‘sostrato’ dantesco presente in essa, anche negli interventi critici e negli articoli giornalistici. Il secondo saggio analizza invece l’importanza che Erich Auerbach ha giocato per Pasolini, soprattutto per la “mescolanza degli stili” presente nell’intera sua opera nonché per il “realismo creaturale”. Auerbach è l’autore dell’importante saggio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, che rappresenta un fondamentale punto di riferimento per Pasolini in qualunque genere o stile si cimenti.

Diversi saggi presenti nel volume di Guido Santato sono poi dedicati alla produzione poetica in friulano: è necessario infatti ricordare che Pasolini è prima di tutto poeta e comincia la sua attività poetica proprio componendo in friulano. Le poesie friulane rappresentano quindi un’importante chiave di accesso per tutta la produzione artistica successiva. Particolarmente interessante risulta l’analisi condotta dallo studioso su La seconda forma de “La meglio gioventù” (1974) in cui viene sondata la riscrittura che Pasolini attua della sua poesia friulana giovanile nella raccolta La nuova gioventù. Si tratta di una riscrittura ‘in nero’ in cui, al posto dell’idillio, dominano il dolore ed il lutto, in una società dominata dall’abbrutimento dei nuovi consumi che ormai ha perduto qualsiasi caratteristica idilliaca e qualsiasi innocenza.

Il rigoroso excursus attuato dallo studioso attraverso l’opera pasoliniana prosegue con un saggio dedicato alla tragedia Pilade e con un’analisi del tema della tradizione in Pasolini. Interessante è ricordare, a questo proposito, che già a partire da un articolo scritto quando aveva vent’anni, Pasolini “teorizza un uso antitradizionale della tradizione: una tradizione proposta in funzione di un sostanziale rinnovamento rispetto alla cultura ufficiale”. Il saggio successivo è dedicato alla presenza della musica nel cinema di Pasolini, dall’importante funzione ‘sacralizzante’ della musica di Bach in Accattone (1961) fino alle inserzioni di musica etnica e tradizionale, ad esempio, in Edipo re (1967) e Medea (1970). Alla complessa ricezione di Pasolini oggi è dedicato il saggio dal titolo Un grande autore che non ha bisogno della qualifica di “classico”: infatti – scrive Santato – l’edizione di tutte le opere di Pasolini all’interno della collana dei “Meridiani” rischia di trasformarlo in un “classico”, “operando uno slittamento dal piano editoriale a quello della definizione critica”. Però, “l’attribuzione della qualifica di «classico» a Pasolini appare problematica per più ragioni e non sembra poter essere riferita in modo appropriato alla sua opera”. Infatti, “Pasolini è il più anticlassico e trasgressivo fra i grandi autori del Novecento: tende costantemente alla rottura degli ordini formali e delle separazioni tra i generi”.

Dopo un suggestivo saggio dedicato ai (densi) rapporti fra Pasolini e il Giappone (paese in cui lo studioso Hideyuki Doi svolge una rigorosa opera di analisi dell’autore corsaro), Santato avvia una interessante e pionieristica ricerca su Pasolini come possibile “precursore” della “decrescita”. Infatti, soprattutto negli ultimi decenni, “il pensiero di Pasolini è stato ripreso anche nell’ambito della sociologia, dell’economia e del diritto”. Lo studioso osserva che, recentemente, due economisti come Giulio Sapelli e Serge Latouche sembrano aver raccolto a distanza l’appello di Pasolini in tema di sfruttamento operato da uno cieco “sviluppo” capitalistico (opportunamente distinto dal “progresso”). Se Sapelli dedica un interessante e innovativo studio a Pasolini, dal titolo Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Latouche sembra riprendere, nella sua idea di “decrescita felice”, le polemiche pasoliniane contro il modello di sviluppo neocapitalistico. Come scrive Santato, “per Latouche è necessario decolonizzare l’immaginario occidentale che è stato colonizzato da quello che egli chiama «l’economismo sviluppista»”. Si può inoltre ricordare che all’interno della collana “I precursori della decrescita” diretta da Latouche, nel 2014, è stato pubblicato il volumetto di Piero Bevilacqua dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’insensata modernità, nel quale lo scrittore corsaro viene annoverato fra i precursori del pensiero della “decrescita”. Anche lo stesso Latouche, in un volume del 2016, annovera Pasolini fra i precursori della “decrescita felice”. Come nota Santato, “in conclusione, credo che Pasolini possa essere considerato un precursore della «decrescita felice» a condizione di non racchiuderne strumentalmente il pensiero entro gli schemi della stessa. Il pensiero in continuo e spiazzante movimento, la capacità di analisi, lo spirito di denuncia, l’acutezza anticipatrice del Pasolini corsaro non possono essere racchiusi in alcuno schema più o meno preordinato”. D’altra parte, come ebbi modo di scrivere proprio qui su “Carmilla”, sarebbe interessante porre a confronto il pensiero di Pasolini anche con quello di un altro lucido interprete della contemporaneità come Robert Kurz, studioso della Wertkritik (la “critica del valore”), secondo il quale è necessaria un’“anti-modernità radicale ed emancipatoria […] che tagli i ponti una volta per tutte con la storia fin qui data, una storia di rapporti feticistici e di dominio”3.

Dall’analisi di Santato emerge un Pasolini prepotentemente fuori dagli schemi, un autore che non può essere racchiuso e incasellato in pensieri a senso unico: si tratta infatti di un autore “multimediale”, incline alla mescolanza degli stili e dei registri, alla rottura degli ordini formali, all’utilizzo di linguaggi sempre nuovi e sempre diversi. Anche nel saggio che chiude il volume, dedicato all’enorme fortuna che l’opera pasoliniana ha conosciuto in tutto il mondo, emerge il profilo di un autore difficilmente incasellabile in schemi predefiniti. Oggi, in una società digitalizzata e sempre più avviata verso un universo dominato dalle fake news, dall’intelligenza artificiale e dall’irrealtà, fatta di pensieri preconfezionati e di schieramenti obbligati, comprendere e studiare Pasolini – come capiamo dalla lettura di Pasolini oggi – è un sicuro esercizio di realtà, di appiglio a un rigore che sembra perduto, di anticonformismo e di ricerca di luce laddove sembra regnare un indefinito e inquietante buio.


  1. Cfr. P. Sassetti, Post(f)azione, … Per gli eredi … Per coloro che sapranno apprezzare l’eredità…, in A. Guidi e P. Sassetti (a cura di), L’eredità di Pier Paolo Pasolini, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 118. Cfr. anche S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it. Meltemi, Roma, 2004, p. 73. 

  2. Cfr. Wu Ming 1, La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, uscito su “Internazionale” il 29 ottobre 2015. Per avere una visione scevra da idee preconfezionate si invita a una lettura integrale dell’articolo. Cfr. anche Guy van Stratten, Pasolini, il ’68, gli studenti e la polizia, “Codice Rosso”, 2 novembre 2020. 

  3. Cfr. R. Kurz, Ragione sanguinaria, trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 20-21. 

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Armi letali /2: Aggressione militare, difesa della Patria e disfattismo rivoluzionario in un articolo di Amadeo Bordiga del 1949 https://www.carmillaonline.com/2022/06/27/armi-letali-2-aggressione-e-difesa-della-patria-e-della-nazione-in-un-articolo-di-amadeo-bordiga-del-1949/ Mon, 27 Jun 2022 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72465 [In tempi in cui pretesi filosofi “marxisti” come Slavoj Zizek dichiarano che non è di sinistra chi non appoggia l’invio di armi all’Ucraina, potrebbe rivelarsi estremamente utile la rilettura di un testo, apparso per la prima volta sul n° 13 del 1949 della rivista «Prometeo» del Partito Comunista Internazionalista, in cui si dimostra come tanta parte del dibattito contemporaneo, spesso confuso e sconclusionato (soprattutto nel caso in cui si parli di Patria, diritti, aggressione, diritto alla difesa, Nazione e guerra) sia stato ampiamente anticipato e superato da riflessioni che soltanto la solerte [...]]]> [In tempi in cui pretesi filosofi “marxisti” come Slavoj Zizek dichiarano che non è di sinistra chi non appoggia l’invio di armi all’Ucraina, potrebbe rivelarsi estremamente utile la rilettura di un testo, apparso per la prima volta sul n° 13 del 1949 della rivista «Prometeo» del Partito Comunista Internazionalista, in cui si dimostra come tanta parte del dibattito contemporaneo, spesso confuso e sconclusionato (soprattutto nel caso in cui si parli di Patria, diritti, aggressione, diritto alla difesa, Nazione e guerra) sia stato ampiamente anticipato e superato da riflessioni che soltanto la solerte opera di rimozione e censura preventiva esercitata dallo stalinismo togliattiano e dai suoi epigoni (rispetto ai quali Gabrielli e Urso sembrano soltanto dei principianti) ha potuto tener lontano da un pubblico antagonista e antisistemico desideroso di trovar risposte alle necessità di lotta e opposizione poste all’ordine del giorno dalle sempre più pressanti contraddizioni socio-economiche e interimperialiste. Il testo è stato lasciato nella sua integrità, evidenziandone in grassetto le parti più significative, anche per mantenerne intatte l’ironia e lo stile di Bordiga, che mai si era definito filosofo e mai aveva dimenticato l’undicesima tesi di Karl Marx su Feuerbach. Unico nel suo tempo e ancora in quello attuale e per questo ancora ben confacentesi a ciò che contraddistingue generalmente i testi pubblicati su Carmilla. Sandro Moiso]

Aggressione all’Europa

Guerre di difesa e di aggressione, grossa polemica allo scoppio del conflitto europeo nel 1914 su questa distinzione, nei riguardi dell’atteggiamento dei socialisti.
Per i benpensanti è un quesito semplice, al solito. Governo, Stato, Patria, Nazione, Razza, senza andare troppo per il sottile, sono assimilati ad un unico soggetto con ragione torto diritto e dovere, come tutto si riduce alla Persona Umana, e alla dottrinetta sul suo comportamento, pigliala vuoi dalla morale cristiana, vuoi dal diritto naturale, vuoi dall’innato senso della giustizia e dell’equità, e quando si parla più difficile dalla eticità dell’imperativo categorico. E allora come l’uomo giusto e alieno dal male, se assalito, si difende dall’aggressore – lasciando per un momento da parte l’affare dell’altra guancia – così il Popolo assalito ha diritto di difendersi, la guerra è cosa barbara ma la difesa della patria è sacra, ogni cittadino deve democraticamente pronunziarsi per la pace e contro le guerre, ma dall’attimo in cui il suo Paese è aggredito deve correre alla difesa contro l’invasore! Questo vale per il singolo, vale per tutta la Nazione fatta Persona, vale dunque anche per i partiti a loro volta mossi e trattati come soggetti personificati nei loro obblighi, vale per le classi.
Ne venne fuori il tradimento generale del socialismo, il guerrafondaismo su tutti i fronti, il trionfo in tutte le lingue del militarismo. E non meno ovviamente non ci fu guerra che lo Stato e il Governo che la conducevano non qualificassero di difesa.

La polemica marxista naturalmente fu impostata sgombrando il campo di tutte quelle fantomatiche persone ad una testa, a più teste, o senza testa, o senza testa e colla testa altrui sul collo, riponendo al loro posto il carattere e la funzione di quegli organismi che sono le classi, i partiti, gli Stati, aventi una propria dinamica storica per indagare la quale a nulla servono i buoni principii morali.

Si rispose ai borghesi che i proletari non hanno patria e che il partito proletario persegue i suoi fini colla rottura dei fronti interni, cui le guerre possono offrire ottime occasioni; che non vede lo sviluppo storico nella grandezza o nella salvezza delle nazioni; che nei congressi internazionali era già impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si poteva.

Si dispersero in una lunga lotta non solo verbale i falsificatori del marxismo, i quali in vari modi e in varie lingue si provarono a smantellare la teoria che il proletariato può costituirsi in classe nazionale, in primo tempo, solo con l’attuare contro la schiacciata borghesia la sua dittatura, come Marx insegnò, e vi sostituirono l’altra, spudorata, che esso e il suo partito assumono carattere nazionale sol che la democrazia politica e il liberalismo siano stati attuati.

Si chiarì lungamente come siano diversi i problemi delle conseguenze che le guerre, il loro procedere e il loro scioglimento hanno sulle vicende interne e mondiali della lotta di classe socialista e, del comportamento del partito socialista nei paesi in guerra, essendo condizione di ogni sfruttamento di condizioni nuove o di nuove fragilità di regimi, la continuità, la autonomia, la fiera opposizione classista, la disposizione teorica e materiale alla guerra sociale interna, del partito rivoluzionario.

Negata ogni adesione alla guerra degli Stati o dei governi, cadeva ogni discriminazione sulla guerra di difesa o di offesa, ogni scusante che da tali oblique distinzioni potesse sorgere per giustificare il passaggio dei socialisti nei fronti di unione nazionale.
D’altra parte la vacuità dei confronti colla zuffa di due persone sta nella diversa portata dei concetti di aggressione e di invasione. Anche i due mocciosi in rissa badano a berciare che il primo è stato lui, ma quando si invoca la integrità del territorio il caso è molto diverso. Nelle guerre di una volta, e in larga misura nella Prima Guerra Mondiale, la guerra pesava sull’incolumità dell’individuo in quanto soldato spedito a combattere, ma il rischio di morte per il civile lontano dal fronte era praticamente nullo. Se invece un territorio veniva invaso dall’esercito avversario, ecco sorgere il solito quadro della distruzione dei beni delle case dei focolari della famiglia, la violenza sulle donne e sugli indifesi e così via, tutto materiale di propaganda cui si fece largo ricorso per trarre i partiti socialisti nell’agguato. Anche il lavoratore nullatenente, si disse, maturo a lottare per i fini di classe, ha qualcosa da perdere e vede minacciati vitali suoi interessi in senso materiale ed immediato, se un esercito nemico invade la città o la campagna in cui vive e lavora. Deve dunque correre a ributtare l’invasore. Tesi letterariamente robusta. Siamo alla difesa organizzata nel castello dell’Innominato contro i Lanzichenecchi predoni, siamo al ritmo della Marsigliese: ils viennent jusque dans nos bras égorger nos fils et nos compagnes…

In risposta a tante piacevolezze i marxisti stabilirono cento volte che senza affatto rinunziare alla valutazione, critica e storica, dei caratteri distintivi tra guerra e guerra nella loro ripercussione sugli sviluppi delle lotte sociali e sulle crisi rivoluzionarie, tutti questi motivi di giustificazione della guerra, usati al fine di trovare carne da cannone e disperdere i movimenti e i partiti che traversano la strada al militarismo, sono inconsistenti e si distruggono tra di loro. Il motivo abusatissimo dell’aggressione e quello non meno sfruttato dell’invasione possono stare in contrasto. Uno Stato può prendere l’iniziativa della guerra ma, se ha dei rovesci militari, la sconfitta può esporre in breve i suoi territori all’invasore, come dalla già ricordata togliattiana teoria dell’inseguimento dell’aggressore.

Non meno contraddittori sono gli altri famosi motivi tratti dalle rivendicazioni nazionali e irredentiste, e quelli che molti marxisti di bocca buona allinearono per giustificare l’appoggio a guerre coloniali, che valevano a diffondere in paesi “barbari” i caratteri della moderna economia capitalistica. La guerra anglo-boera del 1899-900 fu una palese aggressione, i coloni boeri di razza olandese difesero la patria la libertà nazionale e il territorio violato, ma i laburisti riuscirono a giustificare come progressiva la impresa britannica. Nel maggio 1915 quella dell’Italia all’Austria ex-alleata fu palese aggressione, ma la giustificarono – i vari socialtraditori – col motivo della liberazione di Trento e Trieste e con l’altro della “guerra per la democrazia”, senza imbarazzarsi del fatto che dall’altro lato l’Austria-Ungheria era alle prese con gli eserciti dello Zar.

Un caso classico è riportato nel libro interessantissimo di Bertram D. Wolfe Three made a revolution1, vera miniera di dati storici, con ogni riserva sulla linea propria dell’autore.
Il 6 febbraio 1904 i giapponesi, alla Pearl Harbour, attaccano e liquidano la flotta russa davanti a Port Arthur senza dichiarazione di guerra. Palese aggressione. Dopo il lungo assedio da terra e da mare la cittadella cade nel gennaio del 1905. Lutto nero per il patriottismo russo. Nel Vperiòd del 4 gennaio 1905 Lenin scrive frasi come le seguenti: “Il proletariato ha ogni motivo di rallegrarsi… Non il popolo russo ma l’assolutismo ha subito una disfatta vergognosa: la capitolazione di Port Arthur è il prologo della capitolazione dello zarismo. La guerra è lontana dalla fine ma la sua continuazione solleva ad ogni passo l’inarrestabile fermento ed indignazione delle masse russe, ci porta più vicini al momento di una nuova grande guerra, la guerra del popolo contro l’assolutismo”.

Tutta la questione merita maggiori analisi se si vuol chiarire l’insieme dei problemi sui rapporti storici tra assolutismo borghesia e proletariato, sciogliendo mediante la dialettica marxista la pretesa contraddizione che il citato autore vede tra i tempi storici della dottrina e dell’opera leninista – ci basti ora notare che lo scritto dell’esule isolato vive dello stesso contenuto della gigantesca battaglia rivoluzionaria russa del 1905, sorta dalla disfatta nazionale pochi mesi oltre.

Passano quarant’anni e il 2 settembre del 1945 il Giappone battuto dagli Americani colle atomiche di Hiroshima e Nagasaki capitola senza condizioni. Benché la Russia non abbia dichiarata la guerra ai nipponici che nelle ultime ore, il Maresciallo Stalin dirama un Indirizzo di Vittoria, che testualmente dice: “La disfatta delle truppe russe nel periodo della guerra russo-giapponese lasciò un ricordo doloroso nelle menti dei nostri popoli. Fu una oscura macchia sul nostro paese. Il nostro popolo ebbe fede ed attese il giorno in cui il Giappone sarebbe stato disfatto e la macchia cancellata. Noi della vecchia generazione abbiamo atteso questo giorno per quarant’anni. Ed ora questo giorno è venuto!”.

La suggestiva storia delle adesioni alle guerre fornisce dunque argomenti decisivi in sostegno del disfattismo rivoluzionario di Lenin, della norma tattica che i partiti proletari non possono in questo campo entrare nella via della minima concessione, senza porre la classe operaia alla mercé delle mosse degli Stati militari. Basterà che questi creino con un breve telegramma la mossa irreparabile, perché il pericolo per la nazione il suo suolo e il suo onore sia determinato, ed ogni sensibilità a tali argomenti sarà la rovina del movimento di classe nazionale e internazionale.
Quando l’aggressione italiana del 1915 condusse col rovescio di Caporetto alla invasione, si fece vacillare la meritoria opposizione dei socialisti italiani, nel grido di Turati: “La patria è sul Grappa!” malgrado che il suo fratello intellettuale Treves avesse osato ammonire: “Un altro inverno non più in trincea!”.

Più ancora, gli Stati borghesi e i partiti di governo coniarono la teoria degli spazi vitali, della invasione preventiva, della guerra preventiva, motivandola con argomenti di salute nazionale. Motivi tutti non privi di reale consistenza storica, ma che non devono smuovere i rivoluzionari, come non devono smuoverli i motivi di difesa e di libertà del più candido e innocentino – se ci fosse – dei governi capitalisti. La stessa guerra del 1914, strombazzata aggressione teutonica, fu una guerra preventiva inglese. Ogni governo vede dove vuole i suoi interessi e i suoi spazi vitali; è un gioco di secoli quello inglese di avere le proprie frontiere sul Reno e sul Po, e questo gioco avrebbe salvato tante volte la Libertà, mentre la avrebbe offesa a morte la pretesa di Hitler di avere le frontiere vitali oltre i Sudeti e a Danzica… pochi chilometri fuori o anche pochi chilometri dentro casa, nell’ineffabile democratico capolavoro versagliese del corridoio polacco.

Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.

Nel numero precedente di questa rivista abbiamo del resto chiarito che questo proclamato disfattismo non è grande scandalo, avendolo tutti i nostri avversari, sia sedicenti rivoluzionari che borghesi autentici, in vari casi e luoghi decantato e applicato. Solo che in tutti questi casi il contenuto dialettico del disfattismo non è la conquista rivoluzionaria di un nuovo regime di classe, ma un semplice mutamento di stati maggiori politici nel quadro dell’ordine borghese vigente, e i disfattisti di tal tipo rischiano molte parole e poca pelle per il solo incentivo che un dato regime cadrà solo se sconfitto in guerra, e solo se cadrà si aprirà per essi uno spiraglio al successo personale ed a cariche di potere. Basta loro tanto poco – e sono poi gli stessi gentiluomini dei motivi patriottici nazionali liberi e democratici – per approvare che il paese e la sua popolazione nel senso materiale, e giusta la tecnica moderna di guerra, siano schiacciati da bombardamenti distruttivi e dilaniati da tutte le manifestazioni irreparabili dell’azione bellica e dell’occupazione militare.

Ciò ribadito una ennesima volta, vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell’America per cui si votano crediti militari immensi, si fanno riunioni di Stati Maggiori e si danno ordini di preparazione e dettami strategici a paesi stranieri e lontani. Potrebbe risultare la più nobile delle guerre sotto il profilo dei lodati argomenti letterari, potrebbe riuscire ad avere di contro figure più nere dei Cecco Beppe, dei Guglielmone, dei Beniti, degli Adolfi, dei Tojo, di un rinato con essi Nicola dalle mani goccianti sangue, essa non indurrebbe i marxisti rivoluzionari a dare parole di attenuazione della lotta antiborghese e antistatale, ovunque.

Ciò non toglie diritto ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione di invasione di oppressione e di schiavizzamento di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra eventuale ed ipotetica poiché essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell’attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell’optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.

Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni; e Stalin avrebbe già precisata la cifra in due miliardi di dollari.

Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico – ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti – se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull’Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all’agnello che gli intorbidiva l’acqua pur bevendo a valle. Bianco nero e giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d’acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei night-clubs degli Stati.

Quando i reggimenti americani sbarcarono la prima volta in Francia i tecnici militari risero e gli Stati Maggiori anglo-francesi pregarono di ridar loro subito i pochi tratti di fronte occidentale consegnati, se non si voleva vedere subito Guglielmo a Parigi. I boys, ubriachi allora ed oggi, avrebbero però ben potuto rispondere che c’era poco da sfottere, e vediamo oggi i sorci verdi di un militarismo che surclassa quelli della nostra storia plurimillenaria. Sono i soldi i capitali gli impianti produttivi che contano per fare la guerra; l’abilità militare e il coraggio sono merci in vendita sul mercato mondiale, ricchissimo di superfurbi e di superfessi.

Si vantarono fin da allora di una prima vittoria, arricciarono il naso per aver dovuto uscire, sulla scia degli inglesi, dal loro isolazionismo, si ritrassero dopo aver disegnata una Europa più assurda di quella che, se ce l’avessero fatta, avrebbero disegnata Tamerlano o Omar Pascià. Venti anni di pace erano quello che ci voleva per la preparazione, e la consacrazione alla Libertà super-statuata, di una superflotta una superaviazione e un superesercito. Al servizio della superaggressione.

Nell’intervallo i coloni del Far West si sono anche ripuliti in fatto di alfabeto e hanno perfino studiata la storia, senza rinunziare alla ineffabile comodità di essere senza storia. Al secondo sbarco in Normandia non si sa se Clark o un altro graduato, giunto alla tomba del generale francese che lottò per l’indipendenza americana, ha trovato la frase sensazionale: “Nous voici, Lafayette!”. Ossia siamo venuti per ricambiare la finezza e liberare la Francia.

Ed infatti come a Mosca insegnano nei manuali di storia che Vladimiro Ulianoff detto Lenin chiese ed ottenne dallo Zar Nicola di poter formare un corpo di volontari per correre alla difesa della Manciuria contro i giapponesi, così insegneranno a Washington come il francese Lafayette, nella alleanza di tutte le forze democratiche mondiali capitanata dalla libera Inghilterra, combatté per liberare l’America del Nord, fino ad allora colonia oppressa dei tedeschi, che da allora in tutte le guerre mirano ad attaccarla e riconquistarla. Ed in una prossima edizione può darsi che i manuali yankee parlino addirittura di una lotta di emancipazione coloniale contro il conquistatore moscovita, le cui esose intenzioni di rivincita sono evidenti da quando cominciò col vendersi l’Alaska per poche libbre di oro.

Neanche nella seconda impresa le gesta militari sono state di prim’ordine, ma anche in fatto di bravura di guerra la quantità si trasforma in qualità. A proposito di Clark dicono che proprio in America gli negano la gloria della battaglia di Cassino. Avranno forse scoperto che non vi è mai stata una battaglia a Cassino, e non vi è mai stata una linea Gustavo, come possono attestare poche decine di soldati tedeschi rimasti incolumi e varie centinaia di migliaia di italiani civili bombardati sanguinosamente per cinque mesi, fino a che non si trovarono da fare avanzare alcuni reparti di polacchi, di italiani e, nella direttrice Sessa-Ausonia, di marocchini che si occuparono di violare tutte le donne dai dieci ai settanta anni e qualche altro ancora, agganciando meno deutsche grenadiere di quanti banditi di Giuliano aggancino le forze romane di polizia.

Tra le grandi decisioni del sinedrio americano militare per i fatti di Europa c’è dunque il riarmo italiano. Strana la parte dell’Italia in tutto questo muoversi di colossi, dopo che negli ultimi decenni la potenza demografica non è più il primo fattore di forza militare.
Dopo essere stata nella Prima Guerra sulle soglie di almeno un grande tentativo di disfattismo rivoluzionario, nella Seconda il nostro paese ne ha vissuto in pieno uno di disfattismo borghese.
In sostanza nessuno ha scalzato alle spalle la guerra dei fascisti nel periodo delle fortunate imprese di guerra tedesche. Molti hanno disfattisticamente sperato, ma per fatto personale. Mussolini era tra loro e la voluttà del potere. Qui tutto. Non potevano scalzare alle spalle l’esercito di Benito e di Hitler, standosene alle spalle degli eserciti avversari.
Nell’autunno del 1942 si diffuse la notizia che le forze di sbarco americane, dopo le lunghe discussioni, e reciproche insidie, cogli alleati russi che giorno per giorno si svenavano senza misura sul secondo fronte, erano sulle coste del Marocco, con un chiaro itinerario: il Mediterraneo, la penisola italiana.

Erano tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati allora plaudenti, diretta anche a Mosca. Per grandi specialisti della sensibilità al mutarsi della storia, siete in ritardo oggi nel gridare alla minaccia imperiale e all’aggressione. Sarebbe poco essere in ritardo, siete senza più fiato nella strozza, non potete più risuscitare e mandare in senso opposto i milioni di caduti di Stalingrado. Nessuno vi risponderà.

Quella notizia doveva bastare a prevedere il calvario che avrebbe traversato il paese italiano. A fini di classe, a fini di rivoluzione, il marxista attira sulla zona dove opera anche maggiori cataclismi. Ma qui si trattava di pura cecità. Aveva più senso storico la radio fascista che cantava una canzonetta di propaganda, per trarre acqua al proprio mulino sia pure, ma adatta oggi a passare nelle bocche degli alleati di ieri dell’America strapotente, dei tripudianti per il fallimento della classica contromossa militare italo-tedesca nella Tunisia, garantita in primo tempo alla Francia neutralizzata, contromossa giocata bene tecnicamente dall’ultimo esercito italiano da Scipione in poi (godiamo del fatto che non vi saranno più eserciti italiani senza altri aggettivi, più godremo quando eserciti non ve ne saranno con nessun aggettivo), ma che per lo strapotere dei mezzi accumulati sull’altra riva atlantica in tutta calma, mentre i cadaveri europei si ammonticchiavano davanti al Volga, non evitò la sanguinosa farsa del bagnasciuga.
Godevano del roseo futuro i patrioti, i nazionali, i popolari italiani.

Ma quale era la canzonetta, fascista ma non tanto scema? Ricordava che Colombo era italiano e diceva nel ritornello: “Colombo, Colombo, Colombo, chi te l’ha fatto fa’?”.
Secondo una moda già invalsa, temo forte che Stalin dovrà far scoprire dagli storici di Mosca che Colombo era russo.


  1. traduzione italiana: Bertram D. Wolfe, I tre artefici della Rivoluzione (Lenin, Trozki, Stalin), La Nuova Italia, Firenze 1953, nella collana Documenti della crisi contemporanea  

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Che cosa sono le “Nuvole corsare”? https://www.carmillaonline.com/2022/02/10/che-cosa-sono-le-nuvole-corsare/ Thu, 10 Feb 2022 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70487 di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle [...]]]> di Paolo Lago

[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]

L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle più disparate forme di ricezione e ricodificazione. È nata anche una rivista internazionale, «Studi pasoliniani», dedicata agli studi critici sulle varie espressioni artistiche di Pasolini, dalla poesia alla narrativa, dal cinema al teatro. Come ha sottolineato Tullio De Mauro, Pasolini è probabilmente «il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale nel mondo di oggi»1.

All’interno di questa “multimedialità” dell’opera di Pasolini è possibile incontrare, se così si può dire, una sorta di “narratività primaria”. Infatti, alla base delle singole opere è presente una fondamentale volontà di narrazione: dalle poesie, che spesso si srotolano in veri e propri racconti in versi, fino al cinema e al teatro. Ed è proprio nel solco di questa “narratività primaria” che si inserisce il progetto di Nuvole corsare, una rilettura appunto narrativa (e a tratti meta-narrativa) dell’intera opera e della figura stessa di Pasolini. Ma i racconti qui raccolti non rappresentano affatto l’ennesimo prodotto agiografico; non sono una fra le tante sorprese che si possono trovare nell’«ovetto Kinder» Pasolini2. In Nuvole corsare l’opera e il pensiero di Pasolini vengono trasfigurati in forma delicata e poetica e la sua stessa presenza fisica appare sfumata, inserita in arditi e coinvolgenti giochi metacronici.

L’aspetto dell’opera pasoliniana che è stato prevalentemente recepito dagli autori di questa raccolta è quello legato alla dimensione performativa della provocazione e dello scandalo, all’esposizione del corpo (suo e dei suoi personaggi), all’aspetto più “profetico” e “apocalittico” della sua opera. Quindi, oggetto privilegiato di ricezione è stato sicuramente l’ultimo Pasolini, con le sue disquisizioni sul potere, coi suoi interventi “corsari” sulla società e sulla politica italiana degli anni Settanta. Però non manca neppure, come già accennato, una dimensione più poetica e delicatamente figurale: quella legata alla rappresentazione di personaggi marginali, “dannati” e “perduti”, proprio come i borgatari sottoproletari dei primi romanzi e dei primi film di Pasolini. Nel titolo Nuvole corsare, del resto, sono presenti entrambi gli aspetti. Se le “nuvole” rimandano chiaramente al noto, struggente cortometraggio del 1967 – Che cosa sono le nuvole? –, un vero e proprio film-fiaba in cui appaiono in scena personaggi innocenti e sottoproletari, pur sotto forma di marionette, nel travestimento cinematografico (indimenticabili, tra gli altri, Totò-Jago e Ninetto Davoli-Otello), nell’aggettivo “corsare” è racchiusa la carica polemica e performativa dell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari, di Salò, del postumo Petrolio.

Ed è proprio all’universo sadiano di Salò che rimandano soprattutto due dei racconti che qui presentiamo: La farsa di Diego Bertelli e Possano essere maledetti i miei occhi di Gilda Policastro. Il primo mette in scena un rapporto tra vittima e carnefice che si sviluppa all’interno di un rapporto di coppia: lei impone a lui di eccitarsi guardando dei film porno e a un certo punto, tra i video che dovrebbero servire al compimento di questo rituale erotico, compare anche una scena di Salò. Attraverso questo espediente narrativo, l’autore inserisce nel suo testo, come inatteso pendant del video “scabroso”, dei frammenti che provengono da un’intervista che Pasolini rilascia a Philippe Bouvard il 31 ottobre del 1975, due giorni prima di essere ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il racconto riflette su potere e violenza, temi-chiave in Salò (le cui violenze sono la metafora dell’abbrutimento in cui era precipitata la società dei consumi italiana negli anni Settanta), ma anche sul moralismo che pervade costitutivamente la società borghese e sull’irruzione dello “scandalo”, inteso come il raggiungimento e la consapevolezza del piacere personale in netta contrapposizione con l’idea moralistica del piacere. Il titolo del racconto di Policastro è una citazione testuale da Salò. Nel film, di fronte al pianto disperato di una delle vittime, il carnefice Blangis afferma: «Possano essere maledetti i miei occhi se questa lagna non è la cosa più eccitante che io abbia mai udito». I temi del racconto, scritto in piena pandemia, sono quelli della prigionia, della dittatura e della teatralizzazione delle relazioni di potere. Anche qui viene messo in scena un rapporto di coppia in un momento in cui i personaggi si ritrovano confinati in casa, con una sottile allusione a un preciso periodo (il lockdown della primavera del 2020). Questi due personaggi, non meglio identificati, si trovano a rivestire il ruolo di carceriere e di sottoposto, ruoli tuttavia “dinamici” e suscettibili di un repentino ribaltamento, rispetto al gioco dialettico degli equilibri e delle forze in campo (il ribaltamento dei ruoli è un tema tipicamente sadiano e pasoliniano). Il racconto di Policastro si configura, quindi, come un’altra possibile riflessione sul potere e sulla sua intrinseca violenza simbolica, nonché sulla sua sublime, irriducibile arbitrarietà (motivo, quest’ultimo, che genera un misto di attrazione e repulsione, sia a monte, ovvero in Pasolini, sia negli esiti delle riscritture, nei testi che a Pasolini si ispirano).

Al tema del potere e della violenza, declinato entro una dimensione distopica, rimanda anche il racconto di Elena Giorgiana Mirabelli, Il sarto. In un futuro dominato da un regime oppressivo, il personaggio del Sarto e Tetis (il cui nome è lo stesso di un personaggio demonico di Petrolio) sono coloro che devono infliggere terribili punizioni corporali a chi viola le regole. È ancora una volta l’ultimo Pasolini a essere chiamato in causa, perché, alla fine del racconto, il Sarto pronuncia una frase tratta dall’Abiura dalla “Trilogia della vita”, un testo del 1975, in cui viene formulata l’amara accettazione di un mondo ormai completamente degradato (in una corrispondenza fra l’Italia degli anni Settanta descritta da Pasolini e il distopico mondo futuro in cui è ambientata la vicenda). Tonalità distopiche sono presenti anche nel racconto di Piero Sorrentino, in cui, in un tempo non precisato, a rompere l’idillio campestre di una coppia di amanti irrompe la violenza della macchina da guerra dell’esercito. Non a caso il racconto si intitola Meccanica del freddo e reca in esergo una citazione pasoliniana riguardo alla freddezza con la quale la polizia uccide, a Reggio Emilia, il 7 luglio 1960, cinque operai nel corso di una manifestazione. Come un macchinario perfetto e micidiale, brutale e annientatore, l’esercito irrompe in un lembo di campagna per svolgere le proprie esercitazioni, turbando il silenzio e la pace che i due personaggi si illudevano di aver trovato (lontano dal mondo borghese), e facendo violenza alla natura.

Una riflessione sul potere, non in forma distopica bensì ucronica, è offerta anche da Alessandro Zaccuri nel suo Capo Marrargiu. Il racconto trae il titolo dalla località della Sardegna dove sarebbero dovuti essere imprigionati i cosiddetti “enucleandi” del “Piano Solo”, il golpe ordito dal generale De Lorenzo nel 1964. Nella sua ucronia, l’autore immagina che il Piano abbia avuto successo e che lo stesso Pasolini venga prelevato e condotto in prigionia (negli anni Novanta si venne a sapere che fra i nomi degli “enucleandi” figurava anche il suo). Alla narrazione ucronica Zaccuri unisce il trattato pasoliniano di psicopedagogia Gennariello. Si immagina infatti che il “Gennariello” del trattato sia un giovane carabiniere napoletano di nome Gennaro al quale è affidata la custodia di Pasolini. Quest’ultimo vi compare come personaggio principale del racconto, e al suo interno la riflessione sul potere sembra emergere dalle pagine che Pasolini scriverà in anni successivi al 1964, soprattutto negli interventi degli Scritti corsari sui poteri occulti della politica italiana e sulle stragi di Stato irrisolte e impunite.

Pasolini come personaggio lo si incontra anche nel racconto di Jacopo Narros, Atti relativi alla morte di PPP, nel quale alla morte del poeta viene data un’interpretazione letteraria. L’autore si rifà al Purgatorio dantesco (opera, tra l’altro, insieme a tutta la Commedia, assai importante come fonte di ispirazione per l’intera produzione letteraria di Pasolini, fino a Petrolio), che coincide con il litorale di Ostia, luogo in cui Pasolini è stato assassinato. Gli ultimi momenti della vita del poeta vengono quindi ambientati in questo luogo simbolico, letterariamente così connotato, mentre il titolo del racconto è ripreso da un saggio-inchiesta di Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in cui lo scrittore siciliano si interroga sui molti punti oscuri relativi alla morte, avvenuta nel 1933 a Palermo, dell’autore francese.

Ed è in forma trasfigurata, invece, che Pasolini compare nel racconto di Giorgio Biferali, Finché siamo vivi, nelle vesti di un fornaio di Trastevere. Ma la vera protagonista del racconto è Roma, una città vista attraverso il filtro deformante dello sguardo del protagonista, uno studente di Lettere che sta scrivendo una tesi di laurea su Pasolini. La Roma del racconto appare, quindi, distorta dalla lente “pasolinizzante” dello studente: un personaggio che stravolge, proprio per mezzo della letteratura (che coincide, in questo caso, con l’opera di Pasolini), la realtà che lo circonda, un po’ come l’Encolpio del Satyricon di Petronio, un personaggio “mitomane”, secondo Gian Biagio Conte, che filtra ogni aspetto della realtà attraverso il mito e letteratura “alta”3. Un’allusione a Pasolini personaggio (idolo, icona, maestro di vita, “santino”, ecc.) la ritroviamo anche nel racconto di Ilaria Gaspari in cui la protagonista, un’insegnante di scrittura creativa in una scuola serale per adulti, si imbatte in una sorta di alter ego del poeta e scrittore, «Enrico Pajata, detto Pasolini, meccanico di Ostiense». Il racconto di Gaspari, dopo un sapiente affresco dei personaggi che frequentano la scuola serale, diventa un percorso esplorativo, alla ricerca dei luoghi frequentati da Pasolini, fino alla scoperta finale – vero e proprio colpo di scena – dell’esistenza di un supposto sosia di Pasolini, ancora vivente ai giorni nostri. Sia nel racconto di Biferali che in quello di Gaspari, Pasolini si trasforma in un suo alter ego che, non a caso, è un personaggio appartenente a quell’universo borgataro e sottoproletario cantato e idealizzato dal poeta.

Lo sfondo della Roma sottoproletaria cara a Pasolini è presente anche in Apologia di Giorgia Tribuiani. Il protagonista di questo testo, Nino o Ninetto, rimanda a una figura importante dell’universo pasoliniano, Ninetto Davoli, amico e attore prediletto di Pasolini, chiamato a interpretare personaggi immancabilmente innocenti e indifesi, circonfusi di un’indescrivibile grazia e gaiezza infantile. Il Ninetto di Apologia è un senzatetto, innocente e angelico come il suo omonimo: su di lui grava lo stigma sociale, dovuto a una colpa di carattere sessuale (ha praticato autoerotismo in pubblico). Il tema centrale è il corpo e l’ossessiva ricerca del proprio corpo perduto e delle sensazioni ad esso legate, anche a costo di sconvolgere e turbare il comune senso del pudore e la cosiddetta morale pubblica (che non ha mai esitato a linciare Pasolini come uomo e come artista). Il racconto si dipana in una tenue forma poetica e musicale: è leggibile come l’equivalente di uno spezzone di “cinema di poesia”, e ricorda Il biondomoro, un racconto di Pasolini del 1950 (poi inserito in Alì dagli occhi azzurri), scritto in forma di lunga poesia narrativa.

Un’ambientazione in un universo proletario e sottoproletario contemporaneo, dominato però da una violenza quasi cieca, fa da sfondo al racconto di Fabio Rocchi, La catana. Il protagonista è un personaggio diseredato, squattrinato e trascurato dalla sua famiglia piccoloborghese. In un impeto di rabbia, questi progetta, fantasticando-delirando, una sorta di “vendetta sociale”, che dovrebbe realizzarsi attraverso l’oggetto che dà il titolo al racconto, una affilatissima catana, una spada giapponese con l’impugnatura a due mani. Per questo rituale di vendetta il personaggio sceglie una vittima sacrificale: Stivaletto, il gatto della nonna; la narrazione indugia su una possibile, atroce morte del piccolo animale innocente, che dovrebbe essere inferta, appunto, per mezzo della catana. Vengono in mente gli accenti “pulp” presenti nella descrizione del cadavere di un gatto nel racconto pasoliniano Studi sulla vita di Testaccio (incluso in Alì dagli occhi azzurri).

Un ambiente sottoproletario caratterizzato da cieca violenza è presente anche nel racconto di Simone Innocenti, in cui i personaggi progettano una rapina a mano armata, concepita, anche qui, come forma di “vendetta sociale” nei confronti di una classe di “privilegiati” (gli «statali», che vengono individuati come nemico “borghese”). Lo sfondo sottoproletario e malavitoso affrescato da Innocenti con piglio cronachistico può ricordare certe ambientazioni sociali dei film di Claudio Caligari oppure, su un versante opposto, quelle dei “poliziotteschi” degli anni Settanta. Una violenza generata dalla miseria e da una dura condizione di subalternità sociale, stavolta però nata all’interno della struttura della famiglia, viene tematizzata anche da Serena Penni nel suo racconto Estate. L’autrice sembra caricare di maggiore violenza – rispetto a una sua precedente prova narrativa (Il vuoto) – la raggelante, alienata tensione che, in alcuni contesti, regola i rapporti sociali all’interno della famiglia, a tal punto da trasformare quegli stessi rapporti in una sorta di danza macabra. La violenza sembra emergere in modo gratuito, all’interno dei ricordi che il protagonista – anch’egli un emarginato e un diseredato – sciorina tra gli ombrelloni di una crudele estate a Forte dei Marmi, in un resoconto a tinte fosche che ricorda certe atmosfere tondelliane, in particolare quelle di Rimini, in cui le spiagge adriatiche durante la stagione estiva della metà degli anni Ottanta assumono tonalità apocalittiche. Uno sfondo e una violenza sociale che appaiono lucidamente suggellati da un esergo pasoliniano: una riflessione dello scrittore sulla famiglia come microcosmo inevitabilmente oppressivo, come «nucleo di consumatori», e quindi perno di invidie sociali, triangolazioni e desideri mimetici.

In La struttura interna di Ivano Porpora la presenza di Pasolini emerge in modo inedito attraverso la mise en scène della lettura dei suoi libri. Il protagonista del racconto è un personaggio che si presenta come una scoperta proiezione autobiografica dell’autore; nelle notti trascorse negli stabilimenti e nei campi per la raccolta dei pomodori, nell’estate del 2009, fra immigrati extracomunitari, l’io narrante legge di nascosto, con crescente entusiasmo e partecipazione emotiva, gli Scritti corsari e Petrolio. La lettura di questi testi ha luogo clandestinamente, su uno sfondo sociale dominato dai nuovi sottoproletari – gli immigrati appunto – dei quali lo stesso Pasolini (sempre in Alì dagli occhi azzurri) aveva “profetizzato” l’arrivo.

Alla tematica dell’eros scoperto e vissuto insieme ai giovani sottoproletari, così presente (e pervasivo) nell’opera di Pasolini, si ricollega Soldati sulla luna di Ezio Sinigaglia. Siamo negli anni Sessanta: il protagonista, un giovane ufficiale di leva a Genova, si compra una Cinquecento usata per adescare e portare in giro le reclute. Nel titolo del racconto possiamo intravedere un riferimento al cortometraggio pasoliniano La Terra vista dalla Luna. La dimensione fiabesca, la grazia, la malinconica leggerezza che caratterizzano questo film del 1967 (e, in generale, buona parte della produzione di Pasolini di questo periodo) si ritrovano nel delicato racconto di Sinigaglia, nel quale la Cinquecento si trasforma in una sorta di razzo spaziale che serve a portare i soldati «sulla luna». Ed è proprio lo spazio lunare, vero e proprio spazio “altro”, connotato – da Luciano di Samosata fino al Voyage dans la lune di Georges Méliès – da una dimensione fantastica e fiabesca a trasformarsi, in modo poetico e surreale, in uno spazio dominato dall’eros, dove possono essere liberate le più recondite passioni, le energie sessuali che pulsano nei corpi dei più vitali tra gli enfants du peuple, i soldati di leva, che molto ricordano i “ragazzi di vita”, personaggi-feticcio, in tutta l’opera di Pasolini, soggetto collettivo e al tempo stesso “sistema di personaggi” che viene indagato a tutto tondo – dal poeta, dal narratore, dal regista –, ben al di là del dato meramente sociologico, dall’omonimo romanzo fino a Petrolio. La tessitura narrativa appare inoltre pervasa da una costante dimensione di gaiezza e innocenza: sia il protagonista che i ragazzi si abbandonano all’eros nel modo più naturale e vitale possibile; e sono i secondi, paradossalmente, a regalare al primo frammenti di esperienza e a rendere quindi possibile un percorso di formazione, un’educazione sentimentale anomala (dopo il viaggio lunare, infatti, non si va da nessun’altra parte: questo l’insegnamento del soldatino umbro nel finale del racconto).

Questa dimensione gaia e vitalistica (sia pur venata di malinconia) ha il suo pendant simmetrico nel racconto di Angelo Di Liberto, L’attesa, in cui la passione di un professore – che non a caso si chiama Paolo (nome con cui gli amici sottoproletari si rivolgevano a Pasolini) – nei confronti di un suo giovane allievo (un altro erede dei “ragazzi di vita” pasoliniani, connotato, stavolta, da tonalità gergali palermitane) si riveste di amari e lancinanti sensi di colpa. In maniera più esplicita che nel racconto di Policastro, inoltre, vi è un riferimento al lockdown della primavera del 2020. La figura del professore – che viene additata come capro espiatorio – si configura quasi come una versione aggiornata, come una straniante declinazione contemporanea del personaggio del professor Giubileo, che, in un racconto di Pasolini del 1950 – Giubileo (relitto d’un romanzo umoristico), poi raccolto in Alì dagli occhi azzurri – è costretto, a causa della sua passione per i ragazzi, a lasciare Roma, vista come città oscurantista, «ruffiana e pinzochera».

Nuvole corsare, insomma, grazie alla forma breve, non fa altro che ribadire la stringente attualità di Pasolini: è un omaggio ispirato alla volontà di ricostituire e rivitalizzare quella narratività primaria cui si è già accennato, così forte in Pasolini. E la forza, la grazia, l’irruenza, la bellezza della sua opera vengono rimesse in gioco anche nei meandri più cupi della nostra iper-contemporaneità: minacciose e irrisolte spirali di violenza e ingiustizia sociale, oscuri rigurgiti di fascismo, pervasività del potere, giochi illogici legati al cortocircuito fra potere e paura (come nei momenti più claustrofobici del lockdown), plaghe irrisolte di povertà che, nonostante tutto, riescono ancora a vivere con grazia e dignità. E di tutto ciò parlano queste “Nuvole corsare”, di bellezza e violenza, di dura realtà e fantasia, di tutta quella “straziante, meravigliosa bellezza del creato” che, con le sue mille contraddizioni, affascina e incanta Totò-Jago alla fine di Che cosa sono le nuvole?

 


  1. T. De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in Id., L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 258. 

  2. L’espressione è di Pier Luigi Sassetti, (Post(f)azione … Per gli eredi … Per coloro che sapranno apprezzare l’eredità …, in L’eredità di Pier Paolo Pasolini, a cura di A. Guidi e P. Sassetti, Mimesis, Milano-Udine, 2008, p. 118. Sassetti, sulla scorta di Žižek, osserva che proprio questo sembra essere diventato Pasolini: un contenitore in cui ciascuno si aspetta di ritrovare la sorpresa che più gli aggrada. 

  3. Cfr. G.B. Conte, L’autore nascosto: un’interpretazione del Satyricon, Pisa, Edizioni della Normale, 2007 (prima ed. Bologna, Il mulino, 1997). 

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Il freno è tirato https://www.carmillaonline.com/2020/11/17/il-freno-e-tirato/ Tue, 17 Nov 2020 21:50:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63397 di Gianfranco Marelli

Donatella Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalista, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 61, 9,00 euro; Slavoj Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Milano 2020, pp. 143, 7,99 euro; Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 57, 5,99 euro

“Non siamo né liberi né veri se vero è ciò che esiste libero ciò che si esprime”. Giorgio Cesarano

1 – Sulla stessa barca «Per la prima volta un essere invisibile e ignoto, quasi immateriale, ha paralizzato l’intera civiltà umana della tecnica. Non [...]]]> di Gianfranco Marelli

Donatella Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalista, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 61, 9,00 euro; Slavoj Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Milano 2020, pp. 143, 7,99 euro; Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 57, 5,99 euro

“Non siamo né liberi né veri
se vero è ciò che esiste
libero ciò che si esprime”.
Giorgio Cesarano

1 – Sulla stessa barca
«Per la prima volta un essere invisibile e ignoto, quasi immateriale, ha paralizzato l’intera civiltà umana della tecnica. Non era mai avvenuto – e su scala planetaria. Vecchi dogmi sono stati polverizzati, salde certezze profondamente scosse. Tutto è già mutato: assiomi economici, equilibri geopolitici, forme di vita, realtà sociali» [Di Cesare]. Una constatazione assolutamente condivisibile, con l’aggiunta di un elemento che è mutato ed è in continua mutazione: il linguaggio. Anzi, possiamo osservare quanto il linguaggio sia il virus che radicalmente ha infettato il nostro modo di pensare e di comportarci al punto da proiettarci in uno spazio/tempo diverso dal tempo e dallo spazio cui prima eravamo soliti condurre il nostro tran-tran quotidiano.

Parole quali coronavirus, cluster, indice “Rt”, lockdown, distanziamento sociale, immunità di gregge, sono entrati nel nostro lessico corrente, trasformandolo al punto da conferire ai termini frequentemente utilizzati un significato più cogente: aria, libertà, salute, istruzione, cultura, politica, scienza, religione, guerra… Proprio quest’ultimo – accompagnato inevitabilmente da tutto il corollario bellico: vittima, nemico, trincea, prima linea, coprifuoco – ha acquistato una dimensione così prossima al nostro vivere quotidiano di occidentali, dal momento che la morte per malattia, per fame, per guerra, non è più considerata cosa remota e neppure di casa altrove, poiché ora si inizia a morire anche qui, da noi, come si muore comunemente là, da loro. Non solo. Se nei mesi precedenti la pandemia, le proteste sociali e le dure, violente, lotte per difendere la libertà e reclamare maggiore democrazia contro l’autoritarismo dei loro governi ci parevano lontane e distanti dalle nostre abitudini quotidiane, ora ci troviamo a scendere in piazza e protestare contro la “dittatura sanitaria”, le forme di controllo e contenimento della popolazione – in breve: la ridotta libertà e la limitata democrazia – che i nostri governi hanno imposto come necessarie per far fronte a uno “stato d’eccezione”. Per dirla tutta: ciò che consideravamo esterno e estraneo al nostro mondo non lo è più: ci appartiene e convive assieme a noi; dopotutto, come disse Martin Luther King più di mezzo secolo fa: «Possiamo essere giunti qui con navi diverse, ma ora siamo tutti sulla stessa barca».

Sì, la sensazione di trovarsi sulla stessa barca, affrontando non del tutto preparati la tempesta in atto, ci ha sorpresi. Finora sembrava che tutto funzionasse più o meno bene, e che altre rotte non erano possibili percorrere, pena la rinuncia ai pilastri fondanti le società occidentali: la libertà e la proprietà individuale, l’inarrestabile crescita economica e lo sviluppo tecno-scientifico; insomma il benessere, l’essere un bene tra i beni. Vero, il prezzo pagato e da pagare è notevole; addirittura si corre il rischio che le prossime generazioni difficilmente riusciranno a saldarlo, se da subito non incominciamo a ridurre i costi dell’inquinamento e del degrado ambientale. Ad ogni modo, anche se il senso di questa vita mostra profonde contraddizioni e criticità, finora sembrava avesse superato la fatidica domanda: tutto ciò è sicuro?

Con il sopraggiungere del virus, questo senso di sicurezza in un presente immune dal divenire incerto e pericoloso è venuto non solo a mancare – altre volte nella storia occidentale, epidemie, guerre, crisi economiche, minacciarono tale convincimento – ma ha accentuato la crisi di senso; crisi riguardo al ruolo e al peso che la modernità delle società occidentali ha avuto nel combattere la morte rispetto alla arretratezza in cui ci trovavamo e gli Altri tuttora si trovano. Certo, si può discutere sul fatto se si viva meglio nelle società occidentali, non però sul fatto che si viva più a lungo. Tuttavia, quando il raggiunto sviluppo socio-economico e progresso tecno-scientifico mostra le prime crepe e non è più in grado di produrre la sicurezza attraverso il mito della modernità, non è più possibile “vivere come prima”; il senso della crisi si acutizza, al punto da cercare un senso alla crisi stessa. Ecco, il virus ha mandato in crisi il senso di modernità e imballato il sistema, al punto da obbligarci a chiedere se la modernità abbia ancora un senso, e quale sistema può sopravvivervi senza prima aver trovato un nuovo senso alla vita.

2 – Cosa è già di noi?
Di questa crisi del senso da attribuire alla vita minacciata dalla pandemia, molto è stato scritto. Fra i tanti interventi, le analisi compiute da Giorgio Agamben, Donatella Di Cesare, Slavoj Žižek, hanno il pregio di raggrumare il pensiero critico nei confronti del modello neo-liberista, cercando di cogliere il senso di questa crisi che ha impallato il sistema, al fine di prospettare soluzioni in grado non solo di superare il momento critico per ritornare a uno status quo ante, ma addirittura cogliere l’opportunità di intravvedere nuove possibilità per un radicale cambiamento del nostro modo di vivere, dal momento che “niente sarà più come prima”.

Tratto comune della riflessione compiuta dai tre filosofi è il constatare che se il virus ha tirato il freno a mano alla tecno-struttura che sorregge il sistema economico neo-liberista e messo in discussione la politica delle democrazie occidentali, non solo niente potrà ripristinare le condizioni precedenti, ma da subito pone la scottante questione: cosa è già di noi, del nostro lavoro, dei nostri sentimenti, dei nostri progetti? Sì, perché – come osserva Donatella di Cesare – «l’alba del terzo millennio è caratterizzata da un’enorme difficoltà di immaginare il futuro. Si teme il peggio. Non c’è più attesa, né apertura all’avvenire. Il futuro appare chiuso, destinato nel migliore delle ipotesi a riprodurre il passato, reiterandolo in un presente che ha le sembianze di un futuro anteriore». Di più. Se la nostra società non crede più a nulla se non nella nuda vita, a tal punto che la paura di perderla ci conduce a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche, quello che preoccupa non è soltanto il presente, ma il dopo.

Ed è proprio l’analisi di quando la pandemia incomincerà ad allentare la presa – dal momento che l’obiettivo di contenerla sembra essere l’unica speranza rimasta – che le ipotesi degli autori qui affrontati si differenziano, presentando chi uno sbocco positivo alla crisi in atto, chi una lettura negativa del suo sviluppo, chi invece ne offre un’analisi più sfaccettata. Così, Slavoj Žižek – dopo aver constatato che le misure di lockdown e distanziamento sociale sono provvedimenti non proponibili a lungo termine – individua in una ritrovata «solidarietà e in una risposta coordinata su scala globale, una nuova forma di quello che un tempo veniva chiamato comunismo», pena esser sopraffatti da un futuro distopico, «nel quale restiamo a casa, lavoriamo al computer, comunichiamo tramite videoconferenze, facciamo ginnastica su una macchina in un angolo, ci masturbiamo occasionalmente su uno schermo che mostra sesso hardcore, ci facciamo consegnare i pasti a domicilio e così via». Certo, al filosofo sloveno non sfugge «la suprema ironia del fatto che quello che ci ha uniti e ci ha spinto alla solidarietà globale trova espressione nell’ambito della vita quotidiana nelle prescrizioni che vietano contatti ravvicinati con gli altri o impongono addirittura l’auto-isolamento»; del resto, «non ci troviamo ad affrontare soltanto i rischi virali – altre catastrofi incombono all’orizzonte o hanno cominciato a verificarsi: carestie, ondate di calore, tempeste smisurate ecc. In tutti questi casi, la risposta non è il panico ma il lavoro duro e solerte per istituire un coordinamento globale di iniziative efficaci».

Al contrario Giorgio Agamben, nel descrivere lo stato d’eccezione esercitato dai Governi nazionali nel corso della pandemia – cioè la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali –, sottolinea con forza che il dominio della paura esercitato attraverso l’emergenza sistematica, l’allarme prolungato di rischiare il contagio virale non rispettando il distanziamento sociale, conduce ad avere come unico obiettivo la nuda vita; sennonché, «la nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un Paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?» Pertanto, la preoccupazione non può che riguardare gli strascichi di questo stato d’eccezione, al punto che «come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: i dispositivi digitali si sostituiranno così nelle scuole, nelle università e in ogni luogo pubblico alla presenza fisica, che resterà confinata, con le dovute precauzioni, nella sfera privata e nel chiuso delle pareti domestiche. In questione è, cioè, nulla di meno che la pura e semplice abolizione di ogni spazio pubblico».

In questi mesi sappiamo quanto quest’ultima analisi abbia suscitato alcune perplessità nell’ambiente di una sinistra eterogenea e variopinta, dal momento che – per riprendere la critica condotta da Žižek – «un’interpretazione sociale del genere non fa certo sparire la realtà della minaccia del contagio»; dopotutto l’attuale crisi «ha anche dato un impulso formidabile alla formazione di nuovi modi di solidarietà locale e globale, per di più ha reso manifesta la necessità di sottoporre al controllo anche lo stesso potere. La gente ha ragione a ritenere responsabile il potere dello Stato: avete il potere, ora fateci vedere cosa sapete fare». Tanto più – ribadisce il filosofo sloveno – questo periodo di sofferto lockdown ci può far riscoprire l’importanza dei “tempi morti”, così fondamentali per rivitalizzare la nostra esistenza, al punto da sperare «che una delle conseguenze impreviste delle quarantene da coronavirus nelle città cinesi sarà che alcune persone useranno i tempi morti per liberarsi dall’attività frenetica e pensare al (non) senso della loro situazione». Di certo una lettura che stravolge completamente l’atteggiamento verso la vita necessita uno sguardo inclusivo nei confronti di tutte le altre forme di vita – compresi i virus – da esigere una vera rivoluzione filosofica «se con “filosofia” intendiamo l’orientamento fondamentale nella vita».

Proprio questa visione ottimista non convince Agamben, in quanto tradisce l’incapacità di analizzare i dispositivi di eccezione che sono stati messi in atto e di osservarli al di là del contesto immediato in cui sembrano operare, cosicché «rari sono coloro che provano invece, come pure una seria analisi politica imporrebbe di fare, a interpretarli come sintomi e segni di un esperimento più ampio, in cui è in gioco un nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose». Infatti, per Agamben, il processo attraverso il quale la sicurezza sanitaria, finora rimasta ai margini dei calcoli politici, è diventata parte essenziale delle strategie politiche statuali e internazionali, pone l’urgenza di riflettere se questa specie di «terrore sanitario» non sia altro che l’applicazione di un dispositivo di controllo; dispositivo che si articola in tre punti: «1) costruzione, sulla base di un rischio possibile, di uno scenario fittizio, in cui i dati vengono presentati in modo da favorire comportamenti che permettono di governare una situazione estrema; 2) adozione della logica del peggio come regime di razionalità politica; 3) organizzazione integrale del corpo dei cittadini in modo da rafforzare al massimo l’adesione alle istituzioni di governo, producendo una sorta di civismo superlativo in cui gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e il cittadino non ha più un diritto alla salute (health safety), ma diventa giuridicamente obbligato alla salute (biosecurity)».

3 – Il mondo che verrà
A stemperare tale visione dicotomica del futuro, in cui si contrappongono gli scenari positivi di un nuovo e più inclusivo welfare alla cupa e nefasta prospettiva di un warfare per la sopravvivenza degli “immuni”, ci pensa Donatella Di Cesare che, nel prendere come punto di riferimento la Peste Nera del 1438, suggerisce una riflessione più composta ed equilibrata della pandemia in corso. Ma perché risalire così indietro nel tempo? Perché – argomenta la filosofa – «anche quella terribile epidemia segnò un prima e un poi nella storia. Dai racconti e dalle cronache rimasti trapela la sensazione dei superstiti di essere entrati in un’altra epoca. Il cielo si era chiuso su quella passata. Chi era stato risparmiato dall’apocalisse di una morte nauseabonda e crudele, che aveva mietuto milioni di vittime, un terzo della popolazione europea, si aggrappò alla vita con uno slancio inusitato, un impeto febbrile. Da quella prima epidemia cittadina nacque il mondo civile del Rinascimento. Il nuovo inizio diede il via, però, al contagio dell’arricchimento».

“L’arricchimento” fu così contagioso da trasformare la visione del mondo e il modo d’intendere la vita, al punto che la conquista del benessere divenne il mito della modernità e rappresentò il grande sogno europeo – poi occidentale – della globalizzazione, continuando a prosperare finché il profitto si è rivelato non solo il sigillo dell’ingiustizia, la garanzia della povertà dei più, ma soprattutto la causa del degrado ambientale. «Non deve allora stupire che il termine “crescita” – rimarca Donatella Di Cesare – abbia ormai connotati negativi e, più che al prodotto interno lordo, rinvii a tutto quel che si dovrebbe evitare: crescita di guadagni illeciti, di rifiuti e scorie, di malessere e avvelenamento, di abusi e discriminazioni. Questo non vuol dire caldeggiare e promuovere una decrescita. Forse sarebbe tempo di abbandonare il linguaggio di bilanci e calcoli, deponendo la bandiera della crescita in cui nessuno sembra più credere. È il capitale a produrre la miseria. In uno scenario dove le altre ricchezze sono svuotate di senso si staglia il futuro di una sobrietà conviviale, scevra del superfluo, che porti alla luce i legami altrimenti dimenticati dell’esistenza». In questa prospettiva, la Peste Nera potrebbe divenire monito e presagio della memoria europea al fine di «insegnare che è pur sempre possibile riarticolare le forme di vita, che è necessario chiedersi per cosa vivere in futuro, che è indispensabile guardare a quei confini ultimi che abbiamo disimparato a sognare».

Appare dunque prioritario non solo chiedersi “cosa è già di noi?”, ma immaginare “il mondo che verrà” in modo da riarticolare le forme di vita così da opporsi al realismo capitalista che ha assorbito ogni focolaio di resistenza immaginativa, innalzando e rafforzando muri per nascondere ogni altra possibilità di vita al di fuori di «un presente asfittico di un globo senza finestre che ha preteso di immunizzarsi da tutto ciò che è fuori, che è oltre e altro». Infatti, con la promessa di un divenire senza intoppi, in grado di garantire sicurezza sociale e benessere economico, «ha prevalso la chiusura, ha avuto il sopravvento la pulsione immunitaria, la volontà ostinata di restare intatti, integri, indenni. La xenofobia, la paura dell’estraneo, e la xenofobia, la paura abissale per tutto ciò che è esterno, che viene da fuori, sono gli inevitabili danni collaterali. Prevenire il futuro per evitarlo. In questo regime di polizia preventiva, condannato all’allarme prolungato e al torpore sfinito, ogni alterazione è stata esorcizzata».

In fin dei conti, grazie al virus, l’inautenticità e l’insensatezza di questa vita si è palesata a tutto tondo, mostrando le criticità e le contraddizioni di un sistema neo-liberista ormai costretto a esercitare il potere attraverso l’emergenza sistematica, l’allarme prolungato, in modo che il dominio della paura – la fobocrazia – diffonda il timore, trasmetti l’ansia e fomenti l’odio, al punto che la fiducia svanisca, l’incertezza abbia il sopravvento e il futuro sia tinto con colori cupi. Una situazione che non solo ha messo in crisi le democrazie occidentali, ma ha indotto a credere che di fronte all’emergenza sanitaria soltanto un regime autoritario, come quello cinese, è in grado di controllare l’espandersi del virus e ripristinare la sicurezza fra i cittadini attraverso limitazioni delle libertà che prima non erano disposti ad accettare e che ora vengono imposte in nome dello stato d’emergenza.

Pertanto, oltre che comprendere con lucidità le nuove forme di dispotismo che il nuovo paradigma della biosicurezza ha messo in campo al fine di esercitare un controllo capillare sul cittadino-paziente, più paziente che cittadino, occorre definire le nuove forme di resistenza che potremo opporre. Dopotutto, come ha osservato Donatella Di Cesare, «Il virus imprevisto ha sospeso l’inevitabile del sempreuguale, ha interrotto una crescita divenuta nel frattempo un’escrescenza incontrollabile, senza misura e senza fini. Ogni crisi contiene sempre la possibilità del riscatto. Il segnale sarà avvertito? La violenta pandemia sarà anche la chance per cambiare? Il coronavirus ha sottratto i corpi all’ingranaggio dell’economia. Tremendamente mortifero, è però anche vitale. Per la prima volta la crisi è extra-sistemica; ma non è detto che il capitale non saprà trarne profitto. Se nulla sarà come prima, tutto potrebbe precipitare nell’irreparabile. Il freno è tirato – il resto tocca a noi».

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Chiamate telefoniche – 6 https://www.carmillaonline.com/2020/05/18/chiamate-telefoniche-6/ Mon, 18 May 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60142 di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca [...]]]> di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca quel quid di prosa o anfetamine o vattelappesca. Dico pure che se non leggerete questa sesta chiamata perché siete prevenuti sui complottisti poi ve ne restano solo due (non complottiste, in compenso, ma non è detto, perché una volta che uno dichiara la stima per il mondo complottista ne viene irreparabilmente assimilato), perché l’epidemia sta per finire (con sommo sconforto dei virologi-con-l’agente quelli che si prendono da duemila euro in su a intervista un po’ come le puttane solo che le puttane siccome sono delle gran signore non vendono la scienza ma il proprio corpo) e pure le chiamate finiranno, non mi resta che una settima chiamata dove il protagonista indiscusso è il virus e l’ottava, e ultima, dove i protagonisti sono i morti, ma ciò è pleonastico perché i morti sono sempre i protagonisti, solo chi non ha fatto i conti con la morte non l’ha ancora capito, ed è per questo che si barrica in casa e si barrica la bocca, perché pensa che dalla bocca entri la morte. Invece no: dalla bocca esce la vita. E non è proprio la stessa cosa.

Ma dicevo dei complottisti, ormai, appena leggo o sento qualcuno che ne parla male mi viene da mettere mano alla pistola poi mi ricordo che non ho una pistola e soprattutto che questa (mettere mano alla pistola) è una brutta espressione che mutuiamo da una brutta persona, per cui mi limito a proporre di abolire la parola complottista, come in passato ho proposto di abolire la parola empatia, non significa più niente ormai ripetere a pappagallo complottista, complottista, complottista, oppure, visto che non è il massimo abolire parole, sa troppo da neolingua orwelliana, propongo di mettere un limite al numero di volte che in uno scritto si può usare la parola complottista, non più di due, massimo tre, alla terza scatta la multa (quattrocento euro, la multa per chi andava in giro senza mascherina), anche perché chi usa troppo spesso la parola complottista tradisce di essere egli stesso un complottista, esatto, uno affascinato dal complotto, il complotto di mettere a tacere le capacità narrative del complottista, e poter sostituire la narrazione (mille volte più interessante) del complottista con la sua sterile e prevedibile e conforme narrazione di anti-complottista che legge Repubblica o Corriere. Dimenticando che l’anti-complottismo dell’anti-complottista è esso stesso complottismo, inconscio complottismo ai danni del vessato complottista.

Non so se si è capito ma io i complottisti vorrei difenderli dalle ingiurie di complottismo con la stessa passione con cui mi viene sempre da difendere le persone che subiscono l’accusa di essere schizofrenici. Le persone più insospettabili ci sono cadute, nell’offesa agli schizofrenici. Umberto Eco, una volta, per chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, disse che doveva dimettersi non per il suo eccesso di satiriasi, ma per il suo eccesso di schizofrenia. E’ schizofrenia, puntualizzò, se uno non si ricorda il giovedì ciò che ha detto il mercoledì. Come si può essere governati da uno schizofrenico? Eco non sapeva cos’è (io nemmeno, ma lui molto meno di me, eppure era Eco) la schizofrenia, e sempre Eco è il colpevole di aver dato la stura all’offesa del complottista. In quel libro palloso che è Il pendolo di Foucault, mi pare, è lui che inizia la presa per il culo dei complottisti. Piergiorgio Odifreddi è un altro, era a una trasmissione di Piero Chiambretti, irritato dal mago Otelma (quanto mi sta simpatico il mago Otelma, secondo me è abbastanza complottista pure lui), lo metteva a tacere zitto tu, anzi, zitto lei, che è uno schizofrenico. Proprio così diceva. Il tono voleva essere quello di chi dice lei è un cialtrone, o lei è un buffone, o lei è un mitomane, o lei è un millantatore, o lei è un venditore di fumo, o lei è un guitto; invece disse lei è uno schizofrenico. Gli intellettuali del cazzo che adoperano le categorie psichiatriche, o mediche, per offendere. Un tempo si diceva zitto che sei un mongoloide, o zitto che sei un deficiente, oggi dicono zitto che sei uno schizofrenico oppure dicono zitto che sei un complottista.

Tutto ‘sto preambolo per dire: w i complottisti (fossero anco terrapiattisti, quando vuoi dire che uno è complottista ma di quelli terra terra allora dici che è terrrapiattista, i terrapiattisti sono i più sfigati dei complottisti, e infatti sono quelli che mi sono i più simpatici di tutti) abbasso i burionisti.

*

Complottista secondo me era pure Dario Musso ragazzo drammatico e teatrale di Ravanusa che il lockdown (‘sto cazzo di lockdown non vedo l’ora di dimenticare questa parola) come a tutti gli aveva spezzato la pazienza e inizia a fare video inquietanti in cui si punta un cacciavite alla tempia e incita alla rivolta e pochi giorni prima viene fermato da un carabiniere che assiste allibito a lui che contrattacca gli dice che fare il carabiniere di questi tempi a fermare persone innocenti è una merda e brucia la sua carta d’identità e il giorno del fermo sanitario è in giro nella sua auto con un megafono che incita alla disobbedienza a non abboccare alle favole governative non c’è nessun virus dice, togliete le mascherine riaprite i negozi, uscite… (ora confessate di non averlo pensato almeno una volta pure voi tutto ciò) lo circondano carabinieri e agenti municipali, lui fa un video in diretta in cui prova a mantenere la calma, scende, resta calmo, bravo Dario così si fa, ma non basta perché arrivano tre sanitari uno dei quali ha una siringa, il sanitario non gli va incontro davanti per parlargli no, lo aggira gli punta la siringa, vuol siringarlo da dietro con tutti i pantaloni, stato di necessità diranno poi nel processo che si farà perché si farà ma io dico, dalle immagini, non c’era nessuno stato di necessità, legittima difesa dite? nemmeno, eppure un carabiniere lo prende per le gambe e lo atterra, il sanitario col camice e la siringa lo infila, la donna che fa il video grida atterrita in siciliano lo stanno sedando lo stanno sedando. Finisce il video inizia l’audio, il fratello di Dario, avvocato, prova per giorni a chiamare all’ospedale di Canicattì, al reparto psichiatrico dove Dario è ricoverato in TSO sedato legato cateterizzato ma la dottoressa balbetta, dice non possiamo dare notizie lui richiama e lei dice suo fratello dorme lui richiama lei dice non abbiamo il cordless lui richiama lei dice ho un’urgenza ho un ricovero ora non posso parlare, sono imbarazzato per lei, per questa poverina che senza dignità né etica si schermisce. Dopo cinque sei giorni tali le pressioni, le lettere, le telefonate, ai medici e al sindaco, tra queste quella di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione dii famigliari dei pazienti) o del garante nazionale dei detenuti o di me stesso che provo a parlare invano con la dottoressa che ha sempre un’urgenza e non può rispondere, insomma Dario viene (altrettanto selvaggiamente) dimesso e per fortuna non fa la fine di Franco Mastrogiovanni o Giuseppe Casu o Elena Casetto. Dimesso però con una non diagnosi: Disturbo della personalità non altrimenti specificata. La più inutile e fessa e vaga e debole delle diagnosi psichiatrica. La stessa diagnosi che potrei avere io, o voi, o tutti i complottisti del mondo.

Mi chiama Nicola, il mio amico delle Iene, una iena gentile, Pieruzzo, esordisce col suo accento siciliano, che ne pensi del TSO di quel ragazzo di Ravanusa?

*

Ma io in questo pezzo dovevo occuparmi di complottisti e anti-complottisti, non di TSO illeciti e selvaggi. Per cui cominciamo col primo campione del complottismo mondiale che gira intorno al virus. Lui è quello che aveva in tasca l’Hiv e Gallo (poi stato sostituito da Fauci, il virologo che ora Trump vede come il fumo negli occhi) glielo rubò. Lui è quello che nel 2008 prende il Nobel. Lui è quello che ora è perculato dai medici duri e puri perché ha detto che l’acqua c’ha la memoria (figuriamoci, ridono, gli scienziati, la memoria, l’acqua, e mica c’ha il cervello l’acqua per averci la memoria!) e porta al papa la papaya (la papaya, al papa, e che è, un calembour dello scienziato senex?). Perculato più di Tarro, si capisce, perché almeno Tarro non l’ha vinto il Nobel lui sì e una ventina, o erano trenta?, super scienziati fecero pure una petizione, per fargli revocare il Nobel, ma gli svedesi so’ di parola, se lo danno il super premio è per sempre, poi non lo levano. Eh sì, gli svedesi so’ di parola, se dicono che l’epidemia si affronta senza lockdown, vanno fino in fondo. Oggi mi chiama una fattucchiera dal Molise una che mi ha conosciuto vedendomi nell’olio che galleggia nel fondo di un piatto, dice siccome pure io stavo con l’orecchio pizzato al suolo per sentire da dove arriva la fine del mondo ho incrociato i tuoi pensieri che provenivano dal tuo orecchio adagiato sul pavimento del tuo reparto allora ho pensato che devi assolutamente sentire cosa dice quest’uomo. Attacca il suo telefono a manovella al pc per farmi sentire la voce tradotta di Montagnier.

Non posso vederlo in faccia, quindi non vedo i sui capelli colorati di marrone biondo che un po’ gli fanno perdere la credibilità di scienziato premio Nobel, ma tant’è, l’ha già persa ormai, è bastata la papaya e l’acqua con la memoria, e poi c’avrà uno scienziato il diritto di farsi la tinta oppure no?, o valutiamo uno scienziato sulla base della tinta?, ma a questo punto pure Giuseppe Conte va be’ che non è uno scienziato perde credibilità, se ci basiamo sulla tinta, vero è che la tinta di Conte è più credibile della tinta di Montagnier che dice c’è stata una manipolazione su questo virus, così esordisce l’ottantottenne tinto ormai con un piede fuori dalla scienza, il piede fuori dalla scienza è il piede che ha calato nella fossa, cioè nel mondo dei morti, è per questo che Montagnier, come Tarro, non ha bisogno più di queste sciocchezze tipo le pubblicazioni o i numeri o l’h-index, perché chi è con un piede nel mondo dei morti non crede più né nelle pubblicazioni né nei numeri e l’unico libro che legge ormai è il Bardo Thödröl ovvero il Libro tibetano dei morti perché i morti sono superiori alle pubblicazioni scientifiche e ai numeri che le accompagnano, chi glielo ha detto a Montagnier?, glielo ha detto Cartesio, che dal mondo dei morti gli ha confessato: scherzai quattro secoli or sono, con questa cosa dei numeri, era tutto uno scherzo, e voi ancora ci state credendo. E’ vero, continua il francese, che questo virus deriva dal salto di specie, dal pipistrello, ok ok, ma ci hanno aggiunto un pezzo di sequenza genomica del virus dell’Hiv, il virus dell’AIDS per cui mi hanno dato il Nobel, il Nobel che non m’importa di averlo però è ancora mio, chi ce l’ha aggiunto questo pezzo di genoma? E che ne so. Biologi molecolari. Che minuziosamente, come fossero degli orologiai puntigliosi, hanno fatto questa chimera, perché questo è il coronavirus una chimera, avete presente uno scoiattolo con le zampe di leone? Ecco, una cosa del genere, un virus del raffreddore con l’artiglio dell’Hiv, perché? Chissà, magari volevano fare un vaccino contro l’AIDS, per cui hanno preso piccole sequenze di virus Hiv e le hanno installate nella sequenza genica più grande del coronavirus, dove una catena di RNA ha piccole sequenze di Hiv.

Ma le prove? Gli domandano, le prove? E lui (che con un piede nel mondo dei morti sa che non ha più bisogno di prove) mena il can per l’aia, un gruppo di ricercatori indiani aveva pubblicato le prove, ma gli hanno annullato la pubblicazione. Su 30.000 basi del coronavirus, 1.000 sono di Hiv. Un modo per modificare la sequenza del coronavirus, per farlo riconoscere come Hiv e dunque trovare il vaccino. Molti gruppi hanno fatto la stessa cosa, dice il Nobel quasi morto scomunicato dai colleghi vivi della scienza. Ma come ha fatto a uscire da un laboratorio? I virus a RNA hanno mutazioni continue. Cambiano continuamente. Sanno attraversare le porte, come i fantasmi. Non c’è mascherina o muro che tenga. Ma queste sequenze, alcuni dicono che sono troppo corte, e la sovrapposizione con il RNA dell’Hiv potrebbe essere casuale. Ma sono segmenti importanti, obietta il Nobel tinto come la morte, di quelli che portano informazioni genetiche. La versione della Cina è che viene dal mercato del pesce di Wuhan. E io dico che non è vero, ribatte il vecchio scienziato idolatrato dai complottisti e stimato da quelli che sono i morti. E la versione dell’OMS? Hanno tutti interesse a nascondere la verità, ma vogliamo raccontare chi è l’attuale capo dell’OMS? L’OMS, ora come ora, non mi pare più un organismo super partes, mi sa che non serve più a niente dire ogni volta l’ha detto l’OMS l’ha detto l’OMS, basta vedere come il capo dell’OMS, l’etiope Ghebreyesus si arruffiana col leader cinese Xi Jinping. A gennaio si è addirittura complimentato con la trasparenza del governo cinese, trasparenza! Ma ti rendi conto? Una beffa, per il povero Li Wenliang il medico morto di covid-19, minacciato di non parlare dell’epidemia, o per l’altro medica Ai Fen, che aveva accusato il regime cinese di censurare l’epidemia ritardando le misure, pure lei fatta sparire per settimane. Perché l’OMS non è super partes? Perché nel 2017 si giocò una guerra tra il candidato cinese (l’etiope Ghebreyesus, già legato a Pechino sin da quando era ministro della sanità per il governo etiope) contro il candidato americano. Vince l’etiope, e da allora è al servizio della Cina. Ciò per dire che ormai quel che consiglia l’OMS, a parte le cose ovvie ovvero che camminare è più sano che poltrire e abboffarsi, non è più oro colato. Potremmo pure aggiungere che l’OMS è pagato dal Bill Gates, anzi: è Bill Gates ma… non possiamo, perché se no gli anti-complottisti ridono di noi, e noi non vogliamo che gli anti-complottisti ridano perché ridere fa bene alla salute e gli faremmo solo un favore, un favore alla loro perfidia.

E l’omertà degli stati? In biologia molecolare si possono fare (è sempre Montagnier che parla), attualmente, tutte le costruzioni di virus che si vogliono. Gli USA sono al corrente, ma sono loro che hanno finanziato parte delle ricerche fatte nei laboratori di Wuhan, per cui non è più un affare solo cinese. La natura (è ancora il francese ottantottenne) non accetta qualsiasi cosa. Una costruzione artificiale, chimerica, ha poche possibilità di sopravvivere. La natura ama le cose armoniose. Questo è un virus Frankenstein, che non durerà a lungo. Negli USA ci sono altre mutazioni del coronavirus, sta cambiando il suo codice genetico, ci sono delle delezioni, il tratto che porta la sequenza di Hiv è quello che muta più velocemente degli altri, inevitabilmente andrà incontro a delezioni, un’apoptosi, una auto amputazione genica. Non trovate che sia meraviglioso ciò? Se il potere patogeno di questo virus è legato all’introduzione di queste sequenze Hiv nel coronavirus, e esse stanno staccandosi, non trovate che sia una bella speranza? Bisogna seguire il sequenziamento genetico, ci saranno sempre più virus mutanti inattivi, la gravità dell’infezione si attenuerà, si annullerà.

Ecco perché l’isolamento domestico non è un rimedio. Bravi gli svedesi. E non solo perché non si riprendono il mio Nobel. Che detto tra di noi, non mi potrebbe fregare una ceppa, del Nobel. Sa quando tra poco andrò di là, nel mondo dei morti, del Nobel quanto gliene potrà importare? Di una sola cosa gli potrà importare, ai morti: sei stato un bravo medico oppure no? Sa quanti sono i bravi medici da diecimila anni a questa parte? Una decina, Cristo, Semmelweis, Basaglia, mica sono tanti… i medici, quasi tutti, non sono mai eroi, sono sempre colpevoli… se vuoi essere innocente non devi fare il medico… va be’, per concludere, io credo che il virus si distruggerà da solo. Ma ripeto: è stato un errore etico associare il Covid all’Hiv. Non lo ammetteranno mai, ma è avvenuto questo.

*

La fattucchiera molisana mi dice ti sento scettico dottore, non t’ha convinto forse Montagnier? Mi meraviglia che nemmeno tu abbia capito che quello che ci ammazza non è il virus ma il terrorismo mediatico a cui siamo sottoposti. La paura di morire viene somatizzata dai polmoni. L’informazione, reiterata ossessivamente, si incista nell’inconscio e (un po’ come negli anni 90 avere il test Hiv positivo equivaleva a una sentenza di morte) oggi un tampone positivo al covid-19 (che non significa niente) su una persona asintomatica o con una piccola sintomatologia influenzale, mettiamo che è uno molto impressionabile, attiva il contrario dell’effetto placebo, l’effetto nocebo, tu mi insegni che esso atterrisce tutto l’organismo, che si predispone a morire. E’ su questo principio d’altronde che noi fattucchiere molisane tiriamo il malocchio ai malandanti, e funziona, quanto più il malandante è un tipo impressionabile, tanto più facilmente si ammala. Le difese immunitarie crollano, i polmoni collassano e trattengono liquidi (ecco la polmonite interstiziale). Ecco perché bisogna spegnere televisione e smart phone e non leggere nemmeno i giornali. Per fare il vuoto nella testa, eliminare questa reiterata informazione tossica, essa sì immunodepressiva. E trasgredire assolutamente (fai bene tu dottore a correre, mica sei fesso) il lockdown, in tutti i modi, uscire, prendere il sole, respirare aria pulita, fare esercizio fisico. Ciononostante, dottore, non basterà, perché prima o poi, tutti, compreso Bill Gates, dovremo pur morire.

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Mi chiama Jack, il virologo dissenziente, il triste figuro, lo vogliono ricoverare. Per tutto il lockdown il servizio psichiatrico si era scordato di lui. E lui si era scordato di loro. Si erano reciprocamente scordati. E vivevano bene così. Finito il lockdown, superato il 4 maggio, i servizi si sono ricordati di fare l’appello dei pazienti in carico, dei collaborativi e dei riluttanti. Ce l’ho mi manca ce l’ho mi manca. Jack mancava all’appello. Pronto siamo la psichiatria, deve fare il depot. Non voglio fare il depot. Allora c’è il ricovero.

Dice mi stanno venendo a prendere. Prima che mi prendano per ricoverarmi mi ascolti. Un amico che non vuol rivelarsi ma che lei conosce molto bene (Cafiero jr) mi dice di raccontarle questa storia qua, lui non la chiama di persona perché si scoccia che lei poi nella chiamata telefonica che senz’altro scriverà lo faccia apparire come il paranoico complottista della situazione, mi dice pure di dirle che lo sa pure lui che il complottismo è un genere letterario che ora va per la maggiore, ma mi dice pure di dirle che questo genere letterario da due secoli almeno poi inevitabilmente ci prende, insomma la storia è questa poi veda un po’ lei, ne faccia l’uso che vuole, tuttavia mi domando perché lei senta il bisogno di questa penosa mise en abyme (per evocare Gide che lei immagino non abbia mai avuto il buon senso di leggere, vero?) per raccontare tutto quanto, seppur in pochi purtroppo, cominciano a pensare o pensano già da tempo. Non mi pare che qui siamo tutti paranoici o, almeno finora, non tutti (io sì ma molti altri no) abbiamo una cartella psichiatrica nel cassetto che comprovi ciò. È che qui ci facciamo delle domande, ci interroghiamo, cerchiamo di capire che dove ci sono in gioco montagne di soldi e interessi economici non può esserci imparzialità nel fare informazione, né tantomeno numeri statistici… Il grande sonno non è solo il titolo di un romanzo di Chandler ma è quello che quasi tutti gli italiani stanno vivendo adesso, obnubilati dalle onde elettromagnetiche delle paraboliche delle emittenti televisive.

Mi dispiace che quelli che non si adeguano o obbediscono vengano etichettati come paranoici, psichiatrici o compagni di merende dei terrapiattisti.
Fatto questo preambolo vengo al dunque.

Il mio amico dice che Trump sta facendo cose grosse, mai fatte da nessun presidente prima (forse iniziate da JFK). Da noi non ne parla nessuno. La situazione mondiale è questa. La divisione oggi non è più tra razze, non è più tra nazioni o stati, ma solo tra i due Cappelli, o se vogliamo tra due fronti massonici che si stanno facendo la guerra con la scusa di questo coronavirus a cui credono ormai solo gli allocchi. Tutte le notizie del mio amico sono direttamente consultabili, quindi prima di classificarle e bollarle nella categoria delle cospirazioni fantasiose, si tolga lo sfizio di leggere il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal; oppure ascolti i tg americani più recenti, cosa verrà a sapere, anche lei per la prima volta visto che la stampa italiana è zitta e muta su questo fronte, verrà a sapere di arresti di medici dell’università di Harvard, perché? Per aver fatto sfuggire a settembre il virus da un laboratorio americano, virus che solo in un secondo momento per una serie intricatissima di fughe che non sto a dire anche perché non lo sa nessuno nemmeno il virus c’è da scommetterci che se lo ricorda, anche perché nel frattempo è mutato mille volte e come lei sa i virus non hanno memoria se no che virus sono? Insomma, il virus in un modo o nell’altro sarebbe arrivato a Wuhan. Charles Lieber, chimico di Harvard esperto di nanomateriali e sviluppo di applicazioni in medicina e biologia, è stato arrestato il 28 gennaio. L’accusa a Lieber è di aver ricevuto centinaia di migliaia di dollari dalla Wuhan University of Technology e accettato di gestire un laboratorio per essa.

Quindi ricapitoliamo: qui dottore ci sono due fronti massonici che si stanno contrapponendo e presto o tardi ci toccherà decidere con chi stare a meno che lei non voglia dimettersi dal suo inutile lavoro che è tutta una copertura lo sappiamo non abbocca più nessuno ormai di noialtri scrutatori di complotti, he he, a meno che dico lei non voglia dimettersi passare in clandestinità e organizzare la resistenza anarchica planetaria, voglio dire un terzo minuscolo ma significativo fronte, altrimenti dovrà scegliere se stare coi Cappelli Bianchi che rispondono al movimento conosciuto come Q, tra le cui fila troviamo Putin, Xi, Trump, il defunto Kennedy, suo nipote Robert Kennedy jr ma pure Bob Dylan e udisca udisca Giuseppe Conte l’avvocato de noartri, insieme a tanta altra bella gente. E questi pensi un po’ sarebbero i buoni, perché i cattivi sono la fronda nota come Cabala o Deep State di cui Shiva è stato uno dei pochi a parlare (ecco, si potrebbe mettere con Shiva a organizzare la resistenza, lui sarebbe la mente e lei il braccio, insieme sareste perfetti). Insomma, questa fazione, i cattivoni, sono inclini a fare cose molto molto brutte bruttissime che per telefono è meglio non dire dato che senz’altro il suo telefono da qualche tempo è sotto controllo io infatti non la chiamerò più qui al telefono dell’ospedale se lo tenga bene a mente.

Comunque i mammasantissima del deep state sono ovviamente i Rothschild, i Williamsburg, i Rockfeller, ma pure i Clinton, e i Bush ma perché no Obama, e ecco che arriviamo a Bill Gates e consorte che tanto hanno a cuore la vaccinazione planetaria e il loro minuscolo tatuaggio quantico, e gente celebre come Tom Hanks e cantanti per niente mistiche nonostante il nome come Madonna e mi fermo qui perché sento la sirena dell’ambulanza che sta per arrivare a prendermi e devo scappare dalla porta di servizio che dà sul parco dell’Insugherata. Questa è gente che controlla Hollywood e tutta la produzione filmica mondiale e tutte le televisioni del pianeta e tutta l’informazione, ecco perché pure in Italia non c’è Fazio non c’è Mentana non c’è fino all’ultimo giornalista del giornalino parrocchiale che si possa permettere anche solo di accennare a queste cose perché sarebbe sommerso dal coro: complottista! Ma oltre alla società dello spettacolo e dell’informazione fanno parte dei cattivoni pure le banche centrali che ricattano bellamente gli stati vedi FED e BCE, ma ecco che il nostro eroe Trump che ti fa? Nazionalizza la FED alcune settimane fa liberando gli americani dal cappio al collo di questi strozzini! Ma lo vede allora che ha ragione quel lacaniano con la tosse di Slavoj Žižek quando dice che il virus per eterogenesi dei fini ci regala un nuovo comunismo? E chi se lo poteva immaginare che Trump facesse scelte comuniste? E come mai secondo lei i nostri tg non riportano queste notizie? E come mai secondo lei i nostri tg non hanno parlato degli arresti che stanno avvenendo in America in merito all’affare coronavirus? Perché i tg appartengono al deep state! Ecco perché. E perciò ai tg non fanno piacere certi arresti. Perché secondo lei adesso fanno la nuova normativa anti fake news? Secondo lei le sue chiamate telefoniche su Carmilla contro informative e in odor di complottismo dureranno ancora a lungo? No. Appena sarà in vigore la normativa anti-fake lei sarà oscurato al pari dell’ultimo terrapiattista con un blog di quattro lettori.

La narrativa è questa: il deep state ha sguinzagliato il virus, scatenando una campagna terroristica sulle televisioni e sugli smart phone per mettere in ginocchio i servizi sanitari, chiudere le persone due mesi agli arresti, scioccarle insomma, se la ricorda la teoria di Noemi Klein sul dottor choc? Lo psichiatra che elettroscioccava i pazienti per un mese per poi ricostruirne la personalità? Ebbene è proprio ciò che è stato fatto su base planetaria, ci hanno fatto l’elettrochoc per due mesi, spaventati, tolto memoria delle libertà, di modo che dopo saremo cittadini mansueti e proni a ogni loro decisione, e quali saranno i prossimi atti? Ma la vaccinazione di massa, obbligare il pianeta a vaccinarsi per ridurre la demografia planetaria. Si ricorda il pallino di Malthus: e mica possiamo far accomodare tutta l’umanità alla mensa dei ricchi? No. Chi è ricco mangia chi è povero è giusto che crepi per fare spazio a una umanità ridotta all’essenziale, un’umanità dei migliori. Ma pensi, non piacerebbe anche a lei abitare un pianeta senza avere tra le palle un miliardo di indiani un miliardo di cinesi e africani e altri miserabili che credono in dei assurdi e nell’oltre vita? Bene, pensi allora uno ricco sfondato come Bill Gates quanto gli scoccia dividere il pianeta con lei con me con l’africano che si imbarca per affogare con il cinese che si mangia i cani con l’indiano che si inchina alle vacche col mussulmano che vela o infibula sua moglie eccetera, potrebbe abitare questo pianetino meraviglioso come duemila anni fa insieme solo agli eletti, a qualche milione di persone ben distribuite tra i continenti senza fare assembramento, senza folla, ah che spazio finalmente, la solitudine, la solitudine di dio, a questo aspirano. Ecco perché la demolizione demografica tramite vaccino è sempre stato un loro pallino. Per cui da una parte cattivoni con delirio di immortalità del deep state dall’altra i meno cattivoni ma comunque non proprio degli stinchi di santo dei cappelli bianchi, che da sessant’anni lottano per riprendere il potere che con la morte di JFK hanno perduto.

Questo per darle un assaggio ora infilo l’ultimo gettone per dirle addio, non so se sarò ancora in grado di telefonarle. Ci pensi. Si informi. Decida se appoggiare i cappelli bianchi oppure iniziare la resistenza anarchica planetaria. Cazzo stanno sfondando la porta. Scappo. Addio.


[Chiamate telefoniche precedenti]

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Podemos, il capitalismo e la fine del mondo https://www.carmillaonline.com/2015/07/25/podemos-il-capitalismo-e-la-fine-del-mondo/ Sat, 25 Jul 2015 20:30:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24058 di Fabio Ciabatti

podemos“Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?” Questa frase non è stata pronunciata da Frank Underwood in una puntata della fortunata serie televisiva House of Cards, ma da Pablo Iglesias, leader di Podemos, la formazione politica spagnola erede del movimento degli Indignados. La citazione è presa da un discorso – pronunciato in un’assemblea a Valladolid (vedi qui la sintesi) – in cui si fa uno sconcertante elogio di un realismo politico a dir poco spregiudicato.

A scanso di equivoci [...]]]> di Fabio Ciabatti

podemos“Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?” Questa frase non è stata pronunciata da Frank Underwood in una puntata della fortunata serie televisiva House of Cards, ma da Pablo Iglesias, leader di Podemos, la formazione politica spagnola erede del movimento degli Indignados. La citazione è presa da un discorso – pronunciato in un’assemblea a Valladolid (vedi qui la sintesi) – in cui si fa uno sconcertante elogio di un realismo politico a dir poco spregiudicato.

A scanso di equivoci il ritorno di un orientamento realistico, dopo anni in cui la sinistra non istituzionale si è limitata a un approccio meramente etico o a un velleitarismo estremistico, può essere un fattore positivo. Soprattutto perché significa tornare a confrontarsi con il tema del potere e della sua conquista da parte di un partito che rappresenta una delle novità di maggior rilievo nel panorama politico europeo e che ha comprensibilmente suscitato molte speranze e simpatie. Ma il potere rimane una brutta bestia: troppo spesso chi crede di averlo conquistato ne rimane invece soggiogato. Per questo occorre chiedersi se l’estremo pragmatismo professato da Iglesias sia coerente con il radicalismo esibito dal suo partito.
Torniamo dunque al discorso che abbiamo citato in apertura e che continueremo ad analizzare in questo articolo. Con chi se la sta prendendo Iglesias? Lasciamogli ancora la parola: “Potete avere le migliori analisi, comprendere le chiavi di lettura dello sviluppo economico a partire dal sedicesimo secolo, capire che il materialismo storico è la via da seguire per capire i processi sociali. Ma a che cosa serve se poi ve ne andate in giro a urlare in faccia alla gente ‘siete proletari e nemmeno ve ne rendete conto’? Il nemico non farebbe altro che ridervi in faccia … Perché le persone, i lavoratori, continuano a preferire il nemico a voi”.
Tutto il discorso è impregnato da un tono di feroce sarcasmo in inquietante continuità con il clima culturale che ha pervaso gli ultimi trent’anni di neoliberismo teso a dileggiare e a distruggere sin nelle fondamenta ogni approccio classista alla politica e all’interpretazione delle dinamiche sociali. Certo, il bersaglio esplicito di Iglesias è il settarismo di ultrasinistra, ma, date certe caratteristiche di Podemos, sorge il legittimo dubbio che si tratti di un bersaglio di comodo per raggiungere trasversalmente un altro obiettivo: ridicolizzare chi fa un cattivo uso di un armamentario teorico-politico per delegittimare tout court l’armamentario stesso. Non sorprenderebbe visto quanto dice Iglesias a proposito delle prossime elezioni spagnole, cioè che “la battaglia si giocherà intorno alla questione centrale: continuità o cambiamento” (Pablo Iglesias, “Podemos,’la nostra strategia’”, Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2015, p. 7).
Consideriamo una delle caratteristiche più controverse dal partito di Iglesias: l’affermazione del superamento della dicotomia destra-sinistra (sostituita da quella basso-alto che comunque fa leva su molti dei temi classici della stessa sinistra). Da una parte abbiamo a che fare con la condivisibile volontà di prendere le distanze dalla discreditata sinistra spagnola, soprattutto con riferimento al Partito socialista. Dall’altra, a mio avviso, quest’approccio può portare all’affermazione di una logica politicistica, legata a una mera contingenza che rifiuta di essere appesantita da zavorre identitarie o teoriche. Se l’unica cosa che conta è il successo, le occasioni che si presentano giorno dopo giorno vanno prese al volo, costi quel che costi. “Il nostro principale obiettivo… sono le elezioni generali di quest’autunno. Dunque, ogni decisione, ogni situazione deve essere analizzata alla luce di questo appuntamento elettorale” (ivi).

Pablo Igesias, leader di Podemos

Pablo Iglesias, leader di Podemos

Purtroppo l’elogio del successo ci porta a dimenticare che ci può essere qualcosa di peggiore della sconfitta. Come scrive Alain Badiou “La lotta ci espone alla forma semplice del fallimento (l’assalto che non ha successo), mentre la vittoria ci espone alla sua più terribile forma: ci rendiamo conto che abbiamo vinto invano, che la nostra vittoria apre la strada alla ripetizione e alla restaurazione… Per una politica di emancipazione, il nemico che deve essere temuto maggiormente non è la repressione per mano dell’ordine stabilito. Esso è l’interiorizzazione del nichilismo e la crudeltà illimitata che può venire con la sua vuotezza” (Alain Badiou, L’hypothèse communiste, Lignes, 2009).
Esistono molteplici e illustri esempi nella storia del movimento operaio di volontaria condivisione della sconfitta: da Marx che, dopo aver frenato, appoggia pubblicamente la Comune di Parigi nonostante la consapevolezza della sua ineluttabile disfatta, al ben più tragico destino di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che decidono di condividere la sorte segnata della rivolta spartachista.
Il punto è che si può decidere di condividere la sconfitta, anche fino alle più estreme conseguenze, qualora ci si senta parte di un corpo collettivo, di una comunità di destino, accettandone tutte le implicazioni. Il sentimento dell’appartenenza di classe può essere definito proprio in questi termini, anche se sarebbe inutile nascondersi che questo sentire negli ultimi trent’anni si è ridotto ai minimi termini nel mondo occidentale. Ma non perché siano venute meno le limitazioni che derivano dall’appartenere alle classi. Tutt’altro: la mobilità sociale in questi anni è diminuita fortemente. Quella che è venuta meno è la fiducia nella possibilità di modificare collettivamente il proprio destino. Tale speranza non può prescindere dalla capacità di metabolizzare collettivamente le sconfitte e di viverle come fallimenti momentanei, parziali, che possono dare il la a nuove battaglie per conseguire in prospettiva la vittoria. La sconfitta può essere infatti un momento rivelatore: al di là degli errori soggettivi, essa, come ci ricorda Slavoj Žižek, ci mette di fronte al sistema come totalità e ai limiti concreti che esso ci impone, agli oggettivi rapporti di forza.

La convinzione che le classi non esistano più ci separa dunque dal senso di condivisione di un destino. Ciò può condurre all’assolutizzazione della logica meramente politica e al mero elogio del successo. Non a caso Iglesias non fa mistero di ispirarsi a un pensatore come Ernesto Laclau, per il quale la razionalità politica sembra agire in una sorta di caos primordiale in quanto presuppone un sociale antagonistico caratterizzato da un’insopprimibile eterogeneità. In qualche modo per Laclau vale quanto sosteneva Margaret Thatcher: “la società non esiste”. Soltanto che mentre per la Lady di ferro esistevano solo gli individui e le famiglie, Laclau concepisce una molteplicità di gruppi che si costituiscono, si alleano e si contrappongono secondo logiche meramente politiche. Presupposta una pluralità di gruppi sociali con richieste tra di loro in conflitto, la costituzione di un popolo, l’atto politico in senso proprio secondo Laclau, avviene attraverso la costruzione di una catena di equivalenze tra le diverse domande insoddisfatte che, di fronte a un potere istituzionale ostile, costituisce una frontiera antagonistica dicotomica. L’elemento decisivo per l’unificazione delle domande è comunque l’emergenza di un significante vuoto, termine lacaniano con cui Laclau intende una domanda particolare che in maniera contingente assume il valore dell’universalità: possiamo parlare di un’idea forza sufficientemente ambigua da poter essere interpretata in modo compatibile con le differenti domande, ma capace di suscitare un investimento affettivo sufficientemente forte da supportare un’articolazione egemonica. La politica di classe di ascendenza marxiana altro non sarebbe quindi che una delle possibili costellazioni egemoniche affermatesi nell’ottocento e nel novecento. Di conseguenza non è in alcun modo necessario cercare di riprodurla o attualizzarla alle presenti condizioni storiche.
In sostanza per Laclau la società non può essere oggetto di totalizzazione (in questo senso anche per lui la società non esiste). Potremo dire anche che non è possibile rappresentare la società nel suo complesso come un sistema organico con le sue leggi di sviluppo, tali da definire a priori, per quanto astrattamente, interessi comuni di classe e potenziali alleanze. Laclau infatti sostiene che, in senso proprio, non si può parlare di capitalismo quale realtà oggettiva: di fatto “il ‘capitalismo’ è una costruzione del movimento anticapitalistico” (Ernesto Laclau, La ragione populistica, Laterza, p. 226).
Ha un che di paradossale affidarsi a un pensiero che nega l’oggettività del capitalismo quando questa s’impone trionfalmente, con poche eccezioni, come minimo da trent’anni; quando decenni di vittoriosa lotta di classe dall’alto della borghesia hanno peggiorato nettamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici senza riuscire ancora a soddisfare la necessità di sfruttamento del lavoro da parte del capitale – perché questa è oggettivamente senza fine. Lo scoppio di una crisi capitalistica devastante nonostante il trionfo della borghesia ci ricorda ancora una volta che il sistema si scontra con le sue contraddizioni oggettive o, per dirla con Marx, che il limite del capitale è il capitale stesso.
Assumere fino in fondo questi dati significa comprendere che ogni ricerca del compromesso con il capitale si muove su un terreno quanto mai fragile e che, oggi più che mai, occorre prendere di petto la logica del sistema nel suo complesso. Un obiettivo da fare tremare i polsi, di fronte al quale spesso ci si rifugia in una sorta di rimozione che impedisce di vedere e tematizzare la realtà per quello che è. Ma ogni rimozione ha il suo prezzo: ciò cui si nega l’esistenza continua a sussistere indisturbato e viene assunto implicitamente come dato di fatto non trascendibile. A tal proposito Žižek afferma: “La politica post-moderna ha sicuramente il grande merito di ‘ripoliticizzare’ una serie di domini prima considerati ‘apolitici’ o ‘privati’; ma resta nondimeno il fatto che ciò, in realtà, non ripoliticizza il capitalismo, in quanto il concetto e la forma del ‘politico’, entro cui tali politiche operano, sono fondate sulla ‘depoliticizzazione’ dell’economia” (in Judith Buthler-Ernesto Laclau -Slavoy Žižek, Dialoghi sulla sinistra, Laterza, p. 99).

podemos-syriza-venceremosDopo questo lungo giro teorico, torniamo al discorso di Iglesias citato in apertura. “Pensate che avrei qualche problema ideologico nei confronti di uno sciopero selvaggio di 48 o di 72 ore? Neanche per idea! Il problema è che organizzare uno sciopero non ha nulla a che fare con quanto grande sia il desiderio mio e vostro di farlo. Ha a che fare con la forza dei sindacati, e sia io che voi siamo insignificanti in materia… In questo paese ci sono solamente due sindacati che hanno la capacità di organizzare uno sciopero generale: la CCOO e la UGT [sindacati “confederali” spagnoli – ndr]. Mi piacciono? No. Ma così è come stanno le cose, e organizzare uno sciopero generale è molto difficile… La politica non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile. Terribile. Ed è per questo motivo che dobbiamo parlare di unità popolare, ed essere umili”.
Il discorso di Iglesias è ancora una volta ambivalente. Da un parte abbiamo, di nuovo, a che fare con un sano realismo; dall’altra, il realismo rischia di trasformarsi in una rinuncia ad aggredire il fondamentale nodo dei rapporti tra capitale e lavoro. Se siamo ininfluenti su questo piano, come dice Iglesias, dislocare la prassi politica interamente sul piano dell'”unità popolare” (il popolo di Laclau) e, in ultima istanza, su quello della contesa elettorale, è la risposta giusta? Non è un caso che Podemos preferisce parlare della Casta piuttosto che del capitalismo. È vero che la versione podemista delle Casta ha una caratterizzazione politico-economica, mentre quella grillina ha una connotazione esclusivamente politica. Ma si tratta di un mero cambio di linguaggio ai fini dell’efficacia comunicativa? Oppure abbiamo a che fare con un sostanziale cambiamento concettuale che porta a rimuovere il problema dei problemi, ovvero il capitalismo?
“Qualcuno una volta ha detto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, ci ricorda Fredric Jameson (New Left Review, n. 21, maggio-giugno 2003, p. 76). Lo stesso vale anche per una delle più radicali espressioni della politica contemporanea europea? A tale proposito, al di là di ciò che questo partito dice di sé, può essere utile guardare a quello che effettivamente fa, prendendo in considerazione le forme organizzative scelte, perché queste hanno un forte legame con gli obiettivi concretamente perseguiti. Anche da questo punto di vista Podemos ha una connotazione ambivalente. Da una parte il partito di Iglesias, “accoglie molto dei modelli politici dominanti: marketing, comunicazione, leaderismo, maggiore attenzione ai media che al radicamento territoriale, un uso quasi ‘aziendale’ della Rete che allarga le possibilità di partecipazione (a colpi di click) della base, rendendola però quasi del tutto ininfluente sulle decisioni del vertice” (Loris Caruso, “Più di Podemos vince il modello Barcellona”, il manifesto, 25.5.2015). Si tratta insomma di un modello costruito per vincere le elezioni, ma difficilmente adatto per realizzare, una volta al governo, cambiamenti veramente radicali. D’altra parte, lo stesso Podemos nelle elezioni amministrative che lo hanno visto vittorioso grazie alle coalizioni elettorali con i movimenti sociali, ha adottato una forma organizzativa che non rifiuta del tutto questi meccanismi presi a prestito dai modelli politici dominanti, “ma li integra con ciò che essi escludono: la mobilitazione, il conflitto, il radicalismo, la centralità del sociale, il coinvolgimento attivo e costante della base già militante e di quella potenziale” (ivi).
Personalmente dubito che i due modelli possano essere meramente giustapposti. L’oggettiva difficoltà di riprodurre sul piano nazionale quello che è riuscito a livello locale conferma la problematicità di questo meccanico accostamento. Molta strada si dovrà ancora fare per trovare delle soluzioni soddisfacenti a questo problema. Ma non partiamo da zero. Credo si possa dire che le sperimentazioni più avanzate sul terreno della sinergia tra forze politiche, sindacali e movimenti sociali si trovino nell’America Latina degli ultimi vent’anni. Sarà forse un caso che proprio lì si è cominciato parlare di Socialismo del XXI secolo iniziando a prefigurare, pur tra mille incertezze e difficoltà, la fine del capitalismo, piuttosto che la fine del mondo?

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