Sionismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La retorica della prevaricazione nel passaggio tra vecchio e nuovo antisemitismo https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/la-retorica-della-prevaricazione-nel-passaggio-tra-vecchio-e-nuovo-antisemitismo/ Wed, 04 Jun 2025 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88324 di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

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di Fabio Ciabatti

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che “il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale” (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.
Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione “guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni”, 1 rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa. 

Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma  l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, “tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde”.2 In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.

Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo. 

Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista3. 

Chi invece aspira liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolsceviche nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta. 

E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.

Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.4

Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico “il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah”.5 

Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Allianche (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituisco la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition

Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orban. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orban sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.
La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream”.6 Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune. 

Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance “è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa ‘cosmopolita’ dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo”.7 In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.
Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.

Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario8.


  1. V. Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, p. 42, edizione Kindle. 

  2. Ivi, p. 56. 

  3. Ivi, p. 26. 

  4. Ivi, pp. 32-33. 

  5. Ivi, p. 55. 

  6. Ivi, p. 100. 

  7. Ivi, pp. 77-78. 

  8. Ivi, p. 104. 

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 8 https://www.carmillaonline.com/2025/02/22/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-8/ Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86852 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Rinascite e apocalissi (1916-17)

Il capitolo XIII inizia con Sephardi, Swammerdam e Pfeill che discutono di temi arcani a casa del primo. Eidotter è stato liberato ed è tornato al suo spaccio di alcolici, mentre Haberrisser dovrà affrontare il giorno seguente la dura prova della sepoltura di Eva. Swammerdam spiega però di non preoccuparsi che la strana serenità dell’ingegnere lo abbandoni: “Eidotter direbbe che i lumi in lui sono stati spostati”. Turbati dalla serenità di Swammerdam, gli amici ricordano le frasi che il calzolaio assassinato aveva detto prima di morire, prevedendo la propria fine con gran lucidità: il mistico spiega che proprio il ricordo di tale verace estasi spirituale gli permette di rileggere quella notte in modo sereno. Del resto la vita dopo la morte spettante alle due vittime è una condizione, non un luogo, così come la vita sulla terra. Sephardi è chiamato nell’altra stanza da una telefonata, e il mistico continua a bassa voce, per il solo Pfeill: a suo dire in paradiso ci sarebbero solo le immagini di persone e cose amate, non quelle reali – ma sa che Sephardi aveva amato Eva e dunque non vuole strappargli l’illusione di un incontro con lei nell’aldilà. Il dottore rientra, e manifesta al mistico il suo stupore che riesca a “dominare il dolore attraverso la pura conoscenza”, mentre lui con argomentazioni filosofiche non ci riesce: Swammerdam ribatte che Sephardi parte dal pensiero, di cui in segreto diffidiamo, non dalla “Parola Interiore” – che pur avendogli parlato di rado ha illuminato la sua intera esistenza. In qualche volta gli ha offerto profezie: anzitutto, per suo

 

intervento una giovane coppia avrebbe avuto accesso a una via spirituale rimasta sepolta per millenni e destinata a rivelarsi a molti nel tempo a venire. È la via che dà alla vita il suo reale valore, e un senso all’esistenza. Questa promessa è divenuta l’essenza della mia vita.

 

Della seconda profezia preferisce non parlare, lo prenderebbero per matto, ma potrebbe riguardare Eva, mentre la terza non interesserebbe loro. Su queste tre nutre tale certezza da non essere in grado di dubitarne, pur non avendo mai goduto di visioni. Sente comunque la presenza di Qualcuno accanto a sé, “immenso e onnipotente”, non spera di vederlo ma spera in Lui. E aggiunge: “So che un futuro terribile, sconvolgente si sta avvicinando; prima arriverà una tempesta come non se ne sono mai viste”. Non gli importa se ne sarà coinvolto anche lui, ma è felice che quel tempo giunga. Gli amici rabbrividiscono. Non poteva sapere dove Eva fosse, ma solo che sarebbe venuta: e così sa che non è morta, “La mano di Lui la protegge”. Gli amici possono ribattere sconvolti che il feretro è già in chiesa e l’indomani verrà sepolta: ma se persino fosse sepolta mille volte, o se lui tenesse in mano il teschio di lei, sa che non è morta… Così, quando il mistico se ne va, Pfeill commenta che è matto.

Sfuggendo al poliziotto appostato in seguito agli ultimi fatti, Usibepu penetra in chiesa dal lucernario della sagrestia. In chiesa, Eva giace composta e coperta di rose bianche, attorniata da alti ceri. Usibepu si aggira colpito dalle statue, fino a fermarsi triste accanto alla defunta, stordito dalla sua bellezza, e le accarezza timidamente i capelli. Non capisce perché davanti a lui si fosse spaventata così tanto: le altre donne, nere o bianche, “che aveva desiderato erano sempre state orgogliose di appartenergli” e con nessuna aveva dovuto ricorrere alla magia Vidû – “Lei sola no!”. L’aveva cercata invano notte dopo notte, e prende a ricordare la lunga strada seguita fin lì dall’Africa, dove un commerciante inglese l’aveva attirato a Città del Capo promettendogli di farlo diventare re degli Zulù, poi la nave su cui era giunti ad Amsterdam, la troupe del circo dove era stato arruolato per sfruttarlo, “la città di pietra in cui il suo cuore si consumava di nostalgia; e nessuno che capisse la sua lingua”. Carezza un braccio di lei con espressione desolata, per amore di lei ha perso il suo dio: “Perché fosse sua aveva invocato il terribile Souquiant, l’idolo serpente dal volto umano, e così aveva messo in gioco e… perso il potere di camminare sulle pietre incandescenti”. Scacciato dal circo e senza un soldo, sul punto di essere rispedito in Africa, aveva vagato cercandola: e il dio serpente “gli era apparso un’unica volta in sogno, e con un ordine atroce: evocare Eva nella casa di un rivale. E soltanto ora riusciva a rivederla, in chiesa, morta”.

Non capisce peraltro il senso delle statue all’intorno, divinità bianche di cui ignora i nomi segreti per poterle invocare: ma devono anche loro saper fare risorgere i morti, altrimenti Zitter Arpád da chi ha ottenuto la capacità di conficcarsi i pugnali in gola? Non riesce a entrare in collegamento neppure con una Madonna nera, e si rannicchia ai piedi del catafalco intonando il canto funebre degli Zulù. Alla fine si alza e avvolge l’oggetto più prezioso che ha, una piccola collana fatta di vertebre di regine strangolate – un feticcio sacro portatore d’immortalità – attorno alle mani giunte della morta. Tanto, “Eva non poteva entrare nel cielo dei neri né lui nel paradiso dei bianchi!”. Ma poi avverte un rumore, un tremolare delle candele e si nasconde dietro la colonna.

Al posto del cero è ora apparso un trono di pietra, dove siede, di altezza sovrumana, un dio egizio con la corona piumata. Di fronte a lui un uomo con la testa di ibis, e ai lati della bara due figure con teste rispettivamente di sparviero e di sciacallo. “Lo zulù intuì che erano venuto a giudicare la morta”. Poi appare la dea della verità con un copricapo a forma di avvoltoio e prende il cuore della giovane ponendolo su una bilancia: le figure ai lati gestiscono la pesa, il cuore di Eva risulta pesare molto più della statuetta di bronzo sull’altro piatto, la figura con testa d’ibis scrive su una tavoletta di cera e il giudice dei morti stabilisce che “ha raggiunto la terra della verità e della discolpa”, per cui “Si desterà quale Dio vivente”. Poi le divinità scompaiono ed Eva scende dal feretro: i ceri si mutano in figure brune con fiamme alte sul capo, e richiudono la bara vuota.

L’inverno ha percorso l’Olanda, ma la primavera non giunge, come la terra non riuscisse a ridestarsi. In un clima sempre più angosciato, si blatera di fine del mondo. Hauberrisser si è trasferito in campagna in una casa isolata che forse era in origine una tomba megalitica, e che ha adocchiato al ritorno dal funerale di Eva. Il concetto di dolore dell’anima gli è divenuto incomprensibile e prova quasi orrore di sé.

Una sera, mentre medita sulla possibilità che l’umanità risorga dalle ceneri come una Fenice, pensa all’apparizione di Chidher Grün che ha detto di essere rimasto sulla terra per “dare”: lui, al contrario, si tiene gelosamente le proprie acquisizioni interiori, al punto che gli amici lo pensano lì intento a piangere. Esclude di tornare in città e mettersi a predicare, la gente non capirebbe: e decide di proseguire il manoscritto con gli insegnamenti e rimetterlo nella nicchia della propria precedente abitazione.

Lo indirizza dunque “Allo sconosciuto che verrà dopo di me!”. Mentre, dubitoso sullo sviluppo del testo, cerca la custodia fatta confezionare in argento per il medesimo, gli capita tra le mani il teschio di cartapesta comprato più di un anno prima alla “Bottega delle Meraviglie”: il mondo gli appare come un gran negozio pieno di cianfrusaglie. Persino di fronte al corpo di Eva gli era parso si trattasse di una statua di cera, una completa estranea. Ma il se stesso inginocchiato davanti al letto era solo un’ombra sorridente: gli stessi amici e le persone al funerale gli erano apparsi ombre, così come il carro, le corone, il cimitero… Da allora sa di aver superato la soglia della morte: resta sveglio vedendo il suo corpo dormire, ma se riprende a vedere coi suoi occhi tutto gli pare triste. Se poi torna a staccarsene, vive una situazione singolare:

 

Supponi di trovarti in un cinematografo – col cuore esultante per una gioia recentissima – e di vedere sullo schermo la tua immagine che passa di dolore in dolore e crolla al capezzale di una donna amata – e tu sai che non è morta bensì a casa ad aspettarti; supponi inoltre che quell’immagine, con la tua propria voce prodotta da un apparecchio sonoro, lanci grida disperate di dolore. Questo spettacolo ti coinvolgerebbe?

Certo, il paragone è debole; ti auguro di farne esperienza personalmente.

Sapresti allora, come lo so io, che esiste una possibilità di sfuggire alla morte.

 

Nuovo riferimento al cinema nell’opera di Meyrink, il passo la dice lunga sul gusto melodrammatico della produzione espressionista…

Se poi non può ancora vedere Eva, sa che non è morta e li separa un altro piccolo passo, una parete sottile. E ammonisce di guardarsi dagli insegnamenti degli spiritisti: “Per fortuna non sanno chi sono realmente quelli che accorrono ai loro richiami. Se lo sapessero ne proverebbero orrore”.

Per giungere dagli Invisibili, occorre diventare invisibile, e chi è partito cieco dalla terra non raggiunge l’aldilà ma vaga in una dimensione di sogno popolata da ombre. Immortale è solo chi si è risvegliato, “Sopra di lui non c’è nessun Dio”: per questo la loro via è detta pagana, e considera come una semplice condizione in cui trasformarsi quel Dio che i devoti adorano. Dunque le preghiere andrebbero rivolte al proprio Sé invisibile…

Scritto tutto quello, Hauberrisser si alza, ripone in fretta i fogli nella custodia, e nella luce dell’alba si avvia per portarli al vecchio alloggio – però poi decide di seppellirli lì intorno, sotto un melo in fiore. Solo allora corre verso la città, preso da una grave preoccupazione per i propri amici. L’aria è calda, calma e asciutta come prima di un temporale. Ma col far del giorno il cielo muta aspetto, le nubi si torcono come vermi giganteschi; “Incubi vorticanti con le punte verso l’alto, simili a immensi calici rovesciati, dondolavano appesi nel vuoto; volti di animali si avventavano l’uno contro l’altro”. Un lungo triangolo nero si leva veloce da sud e per alcuni minuti oscura la luce solare: sono cavallette giunte dall’Africa. La simbolica è quella dell’Apocalisse: le coppe al cap. 16, le cavallette al 9…

Durante il percorso non ha incontrato nessuno, ma alla curva gli appare l’enorme figura di un vecchio ebreo, dai contorni incerti e alla fine quasi trasparente; lo oltrepassa silenzioso e diventa un nugolo di formiche volanti, che può ricordare la forma di un uomo ma poi si dilegua all’orizzonte. È una manifestazione di Chidher Grün? Gli sembra strano.

Ma nel frattempo ha raggiunto il Wester Park e si dirige verso il Damrak in direzione di casa di Sephardi. Ma a causa della folla agitata deve imboccare la Jodenbuurt: e trova una sfilata rumorosa dell’Esercito della Salvezza, poi una quantità di fanatici flagellanti, sbavanti, convulsivi… Neanche i vicoli sono praticabili, e passando davanti alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser trova che è stata rimossa l’insegna e alzata un’impalcatura per il trono del ciarlatano Zitter Arpád. Questi, in mantello d’ermellino e diadema aureolante, getta tra la folla in estasi monete di rame con la sua effigie e invita a gettare “le donnacce nel fuoco” e portare a lui “il loro oro peccaminoso”.

Infine Hauberrisser incontra Pfeill, e continuamente ostacolati dalla folla puntano verso casa di Swammerdam. Ora Pfeill non è più così estasiato dal cialtrone che si fingeva un conte polacco: “Un tipo orribile quello Zitter”, la polizia è impotente contro le sue malefatte, si spaccia per il profeta Elia e si fa adorare: ha portato cortigiane straniere al circo, e fatto aizzare tigri contro di loro, con “la follia del dittatore. Come Nerone…” (consideriamo che queste pagine vengono scritte parecchio prima dell’ascesa di Hitler). Ha sposato una donna e poi per depredarne le sostanze l’ha avvelenata, poi si è giocato i soldi di lei e in seguito ha fatto il medium con gran successo – si tratta in sostanza del solito Tiranno manipolatore d’anime che tante volte incontreremo nel cinema espressionista, e insieme di una Bestia da Apocalisse. Intanto il corteo di devoti eccitati rischia sempre di separare i due amici.

Sephardi però è partito, è “cambiato parecchio” trascorrendo molto tempo con Eidotter, e dice che finalmente ha una missione: in seguito a un’apparizione dell’uomo dal volto verde è andato a fondare uno stato sionista in Brasile, dove sono confluiti quasi tutti gli ebrei d’Olanda. (Va ricordato che alla fine del Golem Hillel partiva per la Palestina, verso Gad, ma il filantropo barone Hirsch vagheggiava a fine ottocento una grande emigrazione ebraica nelle Americhe, e il finanziamento di colonie agricole in Argentina, Brasile e Canada, saldando così il sogno della Terra Promessa con l’utopia rurale americana.) Come “unico popolo internazionale” gli ebrei “sono chiamati a creare una lingua che pian piano diventi il mezzo di comunicazione fra tutti i popoli della terra e in tal modo li avvicini”. Eidotter, quasi sempre in estasi, proclama profezie che si avverano regolarmente, di recente quella “di una terribile catastrofe sull’Europa che aprirà una nuova epoca”, felice di esserne travolto anche lui per poter “condurre nel Regno dell’Abbondanza i tanti che trapasseranno”. Un’idea non così assurda, in città si attende “il diluvio universale… L’umanità è impazzita… Le ferrovie sono interrotte da tempo”. Ma anche a Pfeill sono capitati fatti incredibili…

Quanto a Swammerdam, è in pena per loro, “crede che solo vicino a lui possiamo essere al sicuro”. Una delle tre profezie della sua Parola Interiore gli ha annunciato che lui sopravvivrà alla chiesa di San Nicola: probabilmente spera così di salvare anche loro dalla catastrofe. Ma a un tratto il clamore si fa assordante di voci che gridano al miracolo, “La nuova Gerusalemme è comparsa nel cielo!”, da un abbaino all’altro oltre i tetti, fino alla più remota periferia. Vengono separati e trascinati via dalla fiumana, mentre nell’aria continuano a vorticare “quelle strane figure di vapore azzuffandosi come giganteschi pesci alati”, ma tra le nubi a forma di montagne innevate ecco apparire “il miraggio di una città straniera del Sud”, e se ne vede persino la gente dal volto scuro. Il miraggio dura più di un’ora prima di impallidire: resta nel cielo per un po’ un sottile minareto che infine si dilegua.

Raggiungere casa di Swammerdam è impossibile, e Hauberrisser decide di tornare indietro, in un panorama silenzioso, secco e polveroso percorso da schiere di topi. Nell’aria senza vento che via via si oscura, i canali sono corsi da strisce infuocate, formano gorghi fangosi; ma a un tratto prendono a sorgere come spettri trombe d’aria, dirette verso la città. Madido di sudore, Hauberrisser rientra in casa, non tocca cibo e si getta sul letto.

E arriviamo all’Epilogo, con una notte che sembra non voler finire, il cielo nero anche all’alba, una striscia di luce sulfurea all’orizzonte, le torri lontane di Amsterdam fiocamente illuminate. Hauberrisser punta il binocolo in quella direzione. Lo scampanio ansioso da laggiù ammutolisce, un rombo attraversa l’aria e il pioppo più prossimo alla casa si piega scricchiolando fino a terra. il vento turbina a frustate, poi un’enorme nube di polvere inghiotte il paesaggio, le pale strappate dai mulini vorticano nell’aria: la tempesta geme sulla landa fino a formare un urlo ininterrotto, sempre più violenta. Travi, macerie, muri volano come proiettili davanti alla finestra: e Hauberrisser sta già credendo che l’uragano passi con l’oscurità – il cielo si è fatto grigio argento – quando dal pioppo abbattuto e ormai senza fronde prende a staccarsi persino la corteccia. E lontano, verso Amsterdam, prendono a spezzarsi e cadere prima le alte ciminiere a sud-ovest del porto, poi i campanili. Il vento trascina in volo persino lapidi e croci del cimitero; le travi del solaio gemono, ed è impossibile anche solo abbassare la maniglia della porta della stanza per evitare che la corrente riduca la casa in macerie. Si salva solo perché protetta dalla collina e le stanze sono divise da porte chiuse. Attorno la tempesta soffia via l’acqua dai canali e la sparge nell’aria. Se, come mi faceva notare un’amica, Usibepu è idealmente imparentato con Calibano, La tempesta è qui alla fine e non all’inizio dell’opera, con il ruolo di Prospero suddiviso tra Swammerdam e Hauberrisser. Per contro, una chiesa di San Nicola c’è anche nel Castello d’Otranto, pur non venendo distrutta dal crollo dell’edificio eponimo.

L’ingegnere fissa l’imposta coi chiodi, ma quando osa guardare in direzione di San Nicola dove devono trovarsi gli amici la vede ancora indenne su un’isola di macerie. Si chiede quante città d’Europa siano ancora in piedi, una “civiltà ormai fatiscente si è disfatta in macerie sparse ovunque”. E alla fine recupera abbastanza lucidità da poter capire, domandandosi se abbia dormito fino a quel momento. Inspiegabilmente il melo fiorito vicino a casa sua è ancora intatto: ai suoi piedi aveva sepolto il rotolo di fogli, si tratta forse di Chidher, “l’albero in eterno ‘verdeggiante’”. E un’aria di primavera aleggia sul mondo devastato… Sente la Fenice in sé pronta a spiegare le ali, ricorda quando ha baciato Eva ma ora non avverte più la morte ma un presentimento di vita futura indistruttibile. Ricorda la promessa di Chidher Grün di dare l’amore eterno anche a lui come a Eva…

Certo, molti sono periti nella catastrofe ma non riesce a provare dolore: risorgeranno a una forma diversa fino a raggiungere quella definitiva di “uomo risvegliato”. Anche la natura, come la Fenice, ringiovanisce ogni volta… e a un tratto, avvertendo un lieve respiro carezzargli il volto, si chiede se Eva non sia vicino a lui. “Quale cuore poteva battere così vicino al suo se non quello di lei?”. Mentre avverte nuovi sensi destarsi in sé, supplica sottovoce Eva per un segno, e con emozione immensa sente mormorarne la voce: “Che misero amore sarebbe mai questo se non potesse superare lo spazio e il tempo!” – ora lei attende il risveglio di lui… Tutto, attorno, gli sembra ingannevole e si chiede cosa accadrà al proprio risveglio spirituale.

Il tempo passa, i canali sono vuoti, l’aria è immobile. Ma con il binocolo, nota che in città infuriano ancora dei cicloni, e i due campanili di San Nicola vacillano, poi uno crolla e l’altro è proiettato in aria “vorticando come un razzo” per poi schiantarsi. Hauberrisser atterrito pensa ai propri amici, ma poi realizza che Chidher deve averli protetti. La campana della chiesa si frantuma in distanza, lo spostamento d’aria giunge fin lì (ovviamente la scena non va letta in termini naturalistici) e si ode nella stanza la voce di Chidher Grün. “Le mura di Gerico sono cadute […] Egli si è destato dal regno dei morti”. Poi silenzio, il pianto di un bambino e infine alle pareti disadorne della stanza – sorta di tomba per una morte simbolica – si sovrappongono come coesistendo in un’altra dimensione quelle di un tempio egizio con figure di divinità. I sensi si risvegliano potenziati:

 

A poco a poco capì di aver toccato quel traguardo che è lo scopo segreto di ogni esistenza umana: essere cittadino di due mondi.

Di nuovo il pianto di un bambino.

 

Eva non aveva detto di voler essere madre al suo ritorno? Trasalì per lo spavento.

La Dea Iside non teneva forse in braccio un bambino nudo e vivo?

Levò lo sguardo su di lei e la vide sorridere.

La Dea si mosse.

 

E mentre l’immagine del tempio si fa sempre più nitida, Hauberrisser riconosce Eva in Iside, è lei “madre del mondo” e gli appare nel suo sembiante terreno. Chiamando il nome dell’amata, nella stanza che torna a emergere la stringe a sé e le copre il viso di baci. Restano abbracciati davanti alla finestra guardando verso la città morta, e nella testa di Hauberrisser echeggia la voce di Chidher Grün, forse profetica della nascita di un figlio alla coppia ricongiunta: “Aiutate le generazioni future, come faccio io, a costruire un nuovo regno sulle rovine del vecchio, […] affinché giunga il momento in cui anch’io potrò sorridere”.

 

La camera e il tempio erano ormai ugualmente nitidi.

Come Giano bifronte, Hauberrisser poteva ora guardare contemporaneamente nel mondo dell’aldilà e in quello terreno, distinguendone ogni più piccolo dettaglio:

 

adesso era “di qua” e “di là”,

un uomo vivo.

 

Permettendo alla coscienza di raggiungere il punto d’illuminazione e cancellare i limiti, l’iniziato dovrebbe cioè operare il passaggio da dualità e separazione di opposte polarità a un’unità profonda, con il trionfo di “Nozze chimiche” tra Re e Regina. Questo finale, che riconduce idealmente al racconto coevo La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo e alla dignità di poter porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba, dice parecchio delle riflessioni che Meyrink sviluppa all’epoca.

Qualche appunto merita il tema del “verde”, di antica tradizione simbolica e alchemica in associazione con la figura misterica che conduce un gioco allegro nella pagine dell’opera. Il volto verde che qui vediamo figurare sul corpo di un uomo o invece di un serpente richiama anzitutto il Chidher (o Chadir, El-Chidr, Al Khadir, Al Khidr) della tradizione islamica, citato nel Corano (sura 18, 58-91).

 

Benché servitore di Dio, egli è protagonista di diversi misfatti, e quando Musa (Mosè) gliene chiede la ragione, Al Khidr gli risponde: “Tu non puoi insistere con me; quel che faccio, non è di testa mia. Dio mi ha dettato queste azioni biasimevoli per evitarne di peggiori”. Nell’enciclopedia dell’Islam (1913) vengono riportati altri dettagli quantomeno inquietanti: “È tuffandosi nella sorgente della vita che egli avrebbe acquisito il colore verde e di conseguenza il nome…”l

“Egli era seduto su di una pelliccia bianca e questa divenne verde”. La pelliccia è la Terra quando fa maturare i germi e diventa verde dopo esser stata disseccata. Secondo Umara è stato detto ad Al Khadir presso la sorgente di vita: “Tu sei Chadir e là dove i tuoi piedi la toccheranno la terra diverrà verde”. [Jean-Jacques Mathé, Il simbolismo ermetico, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Questo Chidher, chiamato anche Huzur nelle tradizioni esoteriche dell’Islam, è sempre stato assimilato all’Ermete Trismegisto egiziano. Nel romanzo di Meyrink, il parallelismo viene espressamente stabilito col profeta Elia e l’evangelista Giovanni, ed anche con l’immagine dell’“Ebreo errante”; ed il possessore della Faccia Verde viene così designato come “l’uomo archetipico”, o come il solo essere veramente vivente.

Come il profeta “verde” dell’Islam ha bevuto dell’acqua della vita e morirà solo al suono della tromba del Giudizio Universale, così il colore simbolico di San Giovanni è il verde e, secondo una tradizione, egli deve restar vivo sino al ritorno del Messia. Ma anche Elia può comparire in qualunque momento quale invitato alla sera del Seder e, come San Giovanni con la sua Apocalisse, viene ritenuto l’annunciatore di un grande Giudizio di Dio prima del regno del Messia.

Tuttavia, è particolarmente importante il fatto che Chidher sia sempre considerato come il compagno e lo ierofante di un atto di resurrezione mistica, mentre San Giovanni, autore del Vangelo esoterico [sic], svolge un ruolo corrispondente nelle tradizioni gnostiche; infine, la letteratura cabalistica della mistica ebraica fa differenza tra gli autori ai quali il profeta Elia sarebbe apparso e quelli i cui scritti si baserebbero sul solo intelletto umano.

Per ragioni di atmosfera poetica più che per il suo sapore esoterico, Meyrink ha aggiunto a questo personaggio di Chidher-Elia-San Giovanni quello dell’Ebreo errante. Le descrizioni talvolta dettagliate dell’apparenza esteriore dell’Ebreo errante lo hanno aiutato non soltanto a fornire un’immagine precisa del possessore della Faccia Verde sin dalla sua prima apparizione, ma gli hanno anche conferito la possibilità di distinguerne convenientemente gli aspetti positivi e negativi: l’aspetto positivo risalta quando la Faccia Verde si presenta, come nella rappresentazione classica dell’Ebreo errante, con una banda nera sulla fronte sotto cui si cela, secondo Meyrink, il segno della vita. Nell’aspetto negativo, il volto è velato e la fronte si rischiara della luce di una croce verde. L’attrazione poetica del personaggio dell’Ebreo errante è stata così forte per Meyrink che egli in origine voleva intitolare il suo romanzo L’Ebreo errante.

La Faccia Verde del primo uomo immortale, cui Meyrink aggiunge anche alcuni tratti del culto del serpente Vidu degli Zulù, le concezioni di un circolo di mistici cristiani, un simbolismo cosmico della natura e le tradizioni egizie, svolge in effetti un ruolo essenziale nel romanzo, perché come in tutti i romanzi di Meyrink non è l’evento esteriore ad esser descritto, bensì l’evoluzione interiore dell’eroe, e questo con un rigore idealistico caratteristico di Meyrink in particolare e dell’espressionismo tedesco in generale. Uno dei personaggi espone la sua dottrina: dobbiamo porre il pensiero al di sopra della vita; l’evoluzione intellettuale dell’eroe principale sin dalla prima intuizione e dalla prima percezione e fino a compimento della propria realizzazione mistica costituisce l’idea direttrice. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

[…] in ogni opera, Gustav Meyrink identifica un essere vivente con un personaggio che ha cessato di esistere, che è vissuto in un tempo passato e tutte queste vite, per quanto un po’ diverse l’una dall’altra, formano un’entità spirituale appartenente ad un essere unico, che ci si rivela sotto molteplici sfaccettature.

Ed infatti, il cosmo non è forse formato, in un preciso istante, di presente, passato e avvenire? In questo rigido blocco, l’avvenire è costituito di elementi già vissuti. [Jean-Pierre Bayard, Aspetti del pensiero iniziatico di Gustav Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Fuori da mille equivoci, l’esoterismo del Volto verde sta in questo, e non assomiglia in nulla ai corti orizzonti di piccoli razzisti in cerca di potere magico-politico, ma guarda a un’esperienza di crescita interiore. Mistica cristiana, ebraica, islamica; yoga; sapienza egizia, africana – il risultato è una grande avventura esistenziale sincretista, aperta a varie “sofie” e con un inatteso rispetto – inatteso data l’epoca e il contesto – di mondi e profili altri come quello di Usibepu.

Per Pfeill il Volto verde è uno spartiacque della coscienza umana, e la stessa esperienza interiore viene condivisa da quanti siano maturi per riceverla; per Sephardi non è importante che si tratti di un essere e una forma di comunicazione provenienti dall’esterno o invece di qualcosa di totalmente interiore, per la difficoltà di discernere tra pensiero e comunicazione. Ma è con il povero Eidotter che si capisce meglio come il Volto verde – Elia –permetta di conoscere il più alto grado di iniziazione e una vera modificazione della personalità. Negli ultimi capitoli, poi, diverse prospettive illuminano spiegazioni ai processi evolutivi in scena, con una spiegazione quasi junghiana sul risveglio e la realizzazione dell’Io invisibile e una prospettiva profetica di apocalisse e rinnovamento. Il numero e la densità delle metafore e delle espressioni immaginose, ma soprattutto la loro profondità, offrono a questo romanzo una connotazione molto particolare. Fondamentale è l’accettazione della legge della mortalità, e merita su tema citare le parole di Marcel Béalu:

 

Che l’accettazione sia puntellata o no dalla credenza in una problematica vita eterna, è proprio a questa sola speranza terrestre che alla fine si accosta Meyrink. […] Certo, vi è confusione, farragine, ebollizione verbale in questi libri, il cui intreccio tende talvolta al melodramma. Spesso ci troviamo più vicini all’autore de L’Ebreo errante [inteso qui come feuilleton di Eugène Sue] che a Kafka (che pure ne subì, a quanto si dice, l’influenza). Questo genere di letteratura non è certo adatto ai raffinati. Non sono tanto le qualità dello scrittore […] che ammiro in Meyrink, bensì la gravità, la serietà delle preoccupazioni, l’essenza del pensiero. Se non siamo sicuri di trovarci di fronte a uno “scrittore” così come lo intende la crema intellettuale di questo paese, siamo certi di essere alla presenza di un uomo che possiede un’“anima”, il che è mille volte più raro. Intendo con “uomo che possiede un’anima” chi non ha vergogna di provare sentimenti comuni a tutti gli esseri e conserva uno spirito inquieto per i propri destini ultraterreni, non limitato alla preoccupazione di farsi valere o di assicurarsi una reputazione nel Landornau letterario dell’epoca. Di quest’anima, che raggiunge qui facilmente il patetismo, conserverò soprattutto il bagliore di speranza che compare nell’ultima pagina de La Faccia verde, dopo che gli amanti si sono ritrovati e vi è stata la promessa della futura nascita del figlio […]. [Marcel Béalu, L’angelo è apparso in un calore insopportabile, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Il nodo rilevato da Béalu è particolarmente evidente in un romanzo piuttosto ostico come Il volto verde, letterariamente più povero del Golem e di altri dell’autore a dispetto della lussureggiante ricchezza simbolica, mitica e mistica. Che pure ha i suoi pregi narrativi: l’Amsterdam postbellica richiama in modo suggestivo la Germania dell’espressionismo, e la catastrofe finale che la colpisce – con quella che è stata talora giudicata una soluzione narrativa eccessiva e non felice – mostra non solo una potenza visionaria, ma un nesso suggestivo con tutta un lunga storia del linguaggio fantastico (i crolli del castello d’Otranto, del palazzo Metzengerstein e di casa Usher, quello del castello Dracula previsto nella prima versione del romanzo di Stoker…).

Del resto a scenari apocalittici Meyrink torna molto presto, con un romanzo letterariamente più godibile e di grande potenza visionaria dell’anno successivo, La notte di Valpurga (Walpurgisnacht. Phantastischer Roman) apparso per i tipi Kurt Wolff Verlag, 1917. Praga, 1885 (la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Regno d’Italia è stata siglata da tre anni): in un clima sovreccitato e decadente che suggerisce l’incombere della fine dell’impero asburgico, la notte fatale in cui “si scatenano le forze dell’‘altra sponda’” (come presentava il romanzo la vecchia edizione La Bussola) diventa metafora espressionista di una crisi epocale, apocalittica ma anche propriamente sociale. Già le scene iniziali potrebbero, per giochi d’ombra e di livide luci, per personaggi dal gesticolare grottesco e dagli occhi caricati col trucco a enfatizzare una teatralità isterica e burattinesca, arrivare direttamente da un film d’epoca.

Tutto inizia con un cane – Brock – che abbaia nella notte e un gruppo di vecchi riuniti attorno a un mazzo di carte da whist. Ci sono il barone Costantino Elsenwanger, la contessa Zahradka, l’allampanato medico di corte Taddeo Flugbeil detto il Pinguino dagli studenti dello Hradscin, e ipotizzano che l’abbaiare del cane annunci l’arrivo del Consigliere Gaspare di Schirnding molto occupato a giocare di giorno con i bambini dell’istituto Khoteke – o meglio con le bambine, osserva Flugbeil; “con la gioventù, e basta” ribatte severa la contessa. In effetti il Consigliere arriva, ma il cane continua ad abbaiare. Il gruppo va a cena, commentando con stupefazione che il Consigliere sia sceso in città, varcando il ponte – e se fosse crollato (come nel Golem)? – in toni sovraeccitati che ben rendono un certo clima onirico ed espressionista: il Hradscin, la Città Alta attorno al Castello, è vista come qualcosa di totalmente diverso, letteralmente un’altra città, rispetto a Praga (intesa come Città Bassa). Mentre è quasi surrealistica la confusione della contessa tra le dita dei guanti troppo lunghi della cameriera Bozena – a piedi nudi, secondo il costume dei domestici dei palazzi patrizi di Praga – guanti che dunque pendono nel brodo, e le salsicce della medesima zuppa. In città non scendono mai, come la contessa ancora stizzita che i suoi antenati vi fossero stati giustiziati durante la Guerra dei trent’anni, o molto di rado come il barone, discesovi l’ultima volta un ventennio prima. Ma ormai i prussiani, spiega il Pinguino, da tre anni sono loro alleati contro i russi, la situazione è cambiata…

Terminano cena e si apprestano ad affrontare la solita partita a whist, quando il cane in giardino riprende a ululare. Il Pinguino allora prende a occhieggiare dalla porta sulla veranda e vede un uomo camminare rigido sul cornicione del muro di cinta del parco. All’improvviso la figura sparisce, precipitando tra la vegetazione, e la situazione – sarà un assassino? – scatena il panico: ma il Pinguino mantiene sangue freddo diramando ordini ai domestici, e alla fine lo sventurato ritrovato i piedi del muro viene trasportato privo di sensi nella sala dei ritratti. Lì, tra immagini più o meno inquietanti di antenati nelle tele, la contessa annuncia lugubre che Flugbeil non potrà più salvarlo – come quello con un pugnale nel cuore, e al medico di corte occorre un attimo per ricostruire che lei pensa al figlio trovato pugnalato tanto tempo prima (episodio che non troverà sviluppi diretti). L’infortunato presenta labbra illividite e guance imbellettate in rosso vivo, tali da far pensare a una figura di cera (di nuovo): e la cameriera riconosce in lui Zrcadlo, “lo Specchio”, che vive presso Lisa la boema, in passato “una famosa etera” (spiega il medico) ormai anziana. Vive nella Totenstrasse, la via delle ragazze perdute, e la contessa ordina di chiamarla. Poco a poco l’uomo riprende i sensi e si alza: secondo il Pinguino, si tratta di un caso di sonnambulismo scatenato dal plenilunio. Prova dunque a parlargli: Zrcadlo si sente abbastanza bene da tornare a casa?

Il sonnambulo non risponde, volge lentamente il capo e lo fissa, mentre il Pinguino si chiede dove mai l’abbia visto. È alto, magro, di pelle scura, con capelli lunghi e grigi, il viso lungo e glabro… non proprio il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari (1920, solo tre anni dopo, difficile non pensare a un nesso), ma ci andiamo vicini. Ha guance imbellettate e un mantello di velluto nero, e fa pensare non tanto a un uomo vivo ma alla sensibilizzazione di un’immagine onirica, o a una mummia di faraone travestita da commediante. A detta della contessa, considerando le pupille tanto contratte, il tipo è morto – ed esorta sarcastica il barone Costantino e il consigliere bloccati sulla soglia a venire avanti, “non morde”. Ma udendo il nome Costantino, il sonnambulo è scosso da un tremito e il volto – come per effetto di ossa molli e plastiche – si rimodella via via assumendo i tratti familiari del barone, e cancellando quelli precedenti fino a sembrare un uomo completamente diverso. Come (torniamo al tema espressionista del Wachsfigurenkabinett) fosse rimodellato nella cera. A quel punto si alza e prende a camminare attorno al tavolo, interpellando poi il barone terrorizzato con i toni e la voce del defunto fratello Bogumil – noto peraltro anche al resto dei presenti. A quel punto, come un mimo, Zrcadlo smuove oggetti immaginari per la stanza in modo tanto preciso che gli altri credono di percepirli (fischietta e offre becchime a un uccello invisibile, attinge a una tabacchiera che non c’è, mostra di scrivere una lettera e la depone in un cassetto nascosto – stavolta reale, e ignoto al barone – nella parete, che poi richiude…

Ma dalla porta Bozena, allontanata con il resto della servitù, chiede se possano entrare e introduce una figura femminile alta e snella dall’abito di buon taglio ridotto a uno straccio: appunto Lisa la boema. Settantenne, ma un tempo bella e per nulla imbarazzata, fissa i tre uomini che l’hanno ben conosciuta in gioventù e non la contessa, chiedendo educata il motivo della convocazione. La contessa intuisce i motivi di imbarazzo dei tre amici e, ancora colpita dagli eventi di poco prima indica Zrcadlo: chi è e cosa vuole, è forse malato? Interviene anche il medico, pensa sia un sonnambulo e le chiede di riportarlo a casa con l’aiuto dei domestici. Lisa risponde che sa soltanto che si chiama Zrcadlo e sembra faccia l’attore, gira la notte per osterie a rappresentare qualcosa per la gente. Ma non è chiaro se abbia coscienza di sé, e lei non ficca il naso nella vita degli inquilini. Poi lo richiama con garbo e le prende per mano conducendolo abulico verso la porta: la somiglianza con il defunto barone Bugumil è sparita, sembra tornata una normale coscienza di veglia eppure il tipo non nota i presenti, quasi fosse ipnotizzato. Il medico comprende trattarsi di un essere che può assumere di volta in volta forme del tutto diverse, una sorta di cadavere non decomposto e in balia di influenze invisibili, che si chiama ed è autenticamente uno “specchio”. Poi, fuori dalla stanza avvicina Lisa: andrà a trovarla l’indomani, intende capire qualcosa di più di Zrcadlo. Quindi con gli altri, tutti turbati, riprende a giocare a whist.

Taddeo Flugbeil, celibe impenitente detto il Pinguino, è l’ultimo della sua dinastia di medici di corte: e la sua vita regolatissima è scossa dalle emozioni della serata e dai ricordi giovanili in cui Lisa la boema, al tempo giovane e bellissima, ha avuto parte rilevante. Col risultato di alzarsi troppo presto: ma come ogni anno sarebbe il momento di recarsi in carrozza a Karlsbad (oggi Karlovy Vary) per le cure termali. Di solito parte il primo giugno, ora è il primo maggio e dunque è tempo per prepararsi: il viaggio a piccole tappe, con lo sfiancato cavallo Carletto, può durare settimane. Stavolta Flugbeil non si è curato di staccare dal calendario il foglietto del giorno precedente, 30 aprile, con la dicitura “Notte di Valpurga”: va invece a recuperare l’enorme diario su cui i maschi di famiglia a partire dal suo bisnonno sono usi scrivere, per cercare nelle pagine della propria gioventù il nome di Zrcadlo. Ha iniziato a annotarvi fatti quotidiani tutti i giorni a partire dal suo venticinquesimo anno, e i passi sulla vita amorosa – in realtà pochini – sono cifrati. Ma nulla emerge, e in compenso gli resta un senso di disagio, di fronte alla monotonia grigia della propria esistenza, della cui regolarità altre volte era andato fiero. Ora l’evento della sera precedente ha smosso fastidiosamente qualcosa in lui: come Pernath e Hauberrisser, insomma, un altro uomo in crisi, alle prese con il senso dell’esistenza.

Da un terrazzo dei suoi alloggiamenti a Palazzo Reale prende a scrutare Praga con il suo potente cannocchiale, cercando qualche immagine di buon auspicio: e all’improvviso salta indietro perché si è trovato davanti il volto sogghignante di Lisa la boema, quasi l’avesse visto e riconosciuto. Dopo un attimo di forte impressione, torna a guardare ma gli pare che tutte le persone occhieggiate – tutte estranee – mostrino caratteri di strana agitazione, che gli arriva addosso. Sembra si sia formato un assembramento di popolo… Allora cambia obiettivo e si trova davanti una finestra di soffitta, dove una madre consunta con un bimbo scheletrico gli pone davanti le conseguenze della guerra. Mutando ancora direzione, verso quel che pare l’ingresso posteriore di un teatro, nota il trasporto di un quadro enorme con Dio Padre benedicente.

Rientrato, viene avvisato che il cocchiere Venceslao è pronto e sale in carrozza; ma un tratto ricorda che intendeva recarsi da Lisa la boema. Fatta fermare la carrozza tra le beffe dei ragazzini che a suo beneficio mimano dei pinguini, comunica la cocchiere la deviazione: però no, non verso Totenstrasse – lo corregge il brav’uomo imbarazzato – ma nella zona Nuovo Mondo dove Lisa si è trasferita, una delle vie attorno all’Hirschgraben, con sette casette separate e un muro circolare fitto di disegni sconci. Per non attirare l’attenzione, la carrozza si ferma parecchio prima della casa, e nell’aria primaverile profumata di fiori il vecchio medico sente di aver tradito la propria anima. Le casette sono segnate dall’abbandono e dall’impoverimento legato alla guerra: e giunto all’ultima da cui si alza un filo di fumo, trova infine Lisa alle prese con una zuppa di pane, che gli dà il benvenuto in una stanza lurida e caotica che funge insieme da cucina, soggiorno e camera da letto. Lei lo accoglie cordiale terminando di mangiare ed esprimendo il piacere di vederlo, ma a un tratto abbandona la lingua forbita e passa confidenzialmente al dialetto praghese. Commenta che Flugbeil è rimasto un bel tipo e un vero accidente, sprofonda nei ricordi e raccoglie un ritratto – un dagherrotipo con l’immagine di lui, regalatole più di quarant’anni prima – che copre di baci, e condisce con un balletto. Paralizzato, il vecchio medico osserva tra sé che si tratta di una sorta di danza macabra: e, mentre passato e presente si compenetrano confusamente in lui, si chiede se non sia tornato giovane o invece non lo sia stato mai, e la fanciulla davanti non si sia trasformata una larva raccapricciante… può essere davvero la stessa persona che lui aveva amato? Ma dopo il momento euforico Lisa torna lucida e singhiozzando nasconde il viso tra le mani, così lui torna a perdere la padronanza di sé. Le chiede con gentilezza se le cose vadano così male e se lui non possa aiutarla, ma lei scuote il capo cercando di soffocare i singhiozzi; allora il medico, vincendo il disgusto per quei capelli luridi, le carezza timidamente il capo, cercando di spiegare che è la guerra, porta a tutti la fame… e si sente in imbarazzo, perché il suo tenore di vita non è invece compromesso. Certo, realizza, Lisa non è più un grado di guadagnare… Ma alla sua promessa di aiuto, lei grata gli bacia silenziosamente la mano e rifiuta il denaro, lasciandolo perplesso: è felice che l’antico amante non abbia orrore di lei, trova spaventoso ricordare il passato. Poi gli spiega che vedendolo entrare le è parso che lui fosse ancora giovane e l’amasse – e le succede spesso, e anche quando va in giro dimentica di essere diventata vecchia. Ma poi i ragazzi la deridono… lui la invita a non curarsene, ma Lisa spiega che l’aspetto terribile è dato dallo svegliarsi ogni volta come da un bel sogno. Non riesce neppure più a riordinare la casa, nulla può essere più come un tempo. Gli altri non possono capire… e lì, in quella melma, un giorno forse potrà dimenticare. Quando a Zrcadlo, vorrebbe avere la forza di cacciarlo via.

Flugbeil spiega di esserne interessato in quanto medico, e le chiede cosa sia: lei ribatte che a volte pensa sia il diavolo, salvo poi correggersi con un riso isterico, il diavolo non esiste e quell’uomo è un pazzo o un attore o entrambe le cose. Comunque non è mai in sé, neanche quando gira le bettole; ed è stato lei a truccarlo, per farlo riconoscere quale attore ed evitargli la galera. Il medico riflette tra sé che non può essere il suo amante, e si domanda se lei non viva dei guadagni di lui: la pietà scompare e lo riprende il disgusto. Tanto più che Lisa si è fatta arcigna: lui si congeda, e lei lo saluta acida non chiamandolo Taddeo col suo nome, ma Pinguino.

(8-continua)

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La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

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Il tempo del genocidio https://www.carmillaonline.com/2024/11/15/il-tempo-del-genocidio/ Fri, 15 Nov 2024 22:40:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85392 di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente [...]]]> di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente giusto. 

Allo stesso tempo leggere il contributo di Samah ci rende ancor di più consapevoli del fatto che la solidarietà internazionale verso i palestinesi è quanto mai necessaria ed indispensabile; che la solidarietà verso il popolo palestinese è terapeutica  per tutti noi, è un imperativo morale ed etico, che la loro resistenza  è sostegno ed aiuto anche per noi, e coniugare questi due aspetti può essere un percorso proficuo per mettere fine alla più lunga e sanguinosa occupazione attualmente in corso, la solidarietà rende i palestinesi consapevoli del non sentirsi soli.

La solidarietà ha un potere curativo reciproco.  L’essere impegnata nel campo della psichiatria, Samah dirige l’unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese, fa sì che quanto descritto sia inserito in un contesto storico di quanto avviene. Se vi è ancora bisogno di capire che quanto ci viene raccontato dalla propaganda di guerra: “tutto è iniziato il 7 ottobre” è pura demagogia utile solo a far schierare l’opinione pubblica a sostegno dell’entità sionista delle complicità occidentali, leggere “Il tempo del genocidio” ci permette, con una descrizione lucida, di valorizzare ulteriormente il perché ci schieriamo da una parte, quella di chi non accetta di vivere da schiavi e si ribella, nonostante che Gaza venga lasciata morire. Poco sopra dicevo della sua descrizione lucida, ma mi sento di aggiungere che niente concede. Lei, del ministero della sanità palestinese, non si sottrae, con un notevole pensiero critico, al criticare quanto di negativo si annidi all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, dall’illusione degli accordi di Oslo alla conseguente delusione,  e del vivere quotidiano in Palestina, con il patriarcato, il sessismo, andando al di là dell’occupazione. Un popolo, quello palestinese, che è stretto tra il sopravvivere e la resa all’oppressore. Samah è ben cosciente del suo contributo alla lotta di liberazione e del volerne dare mano.

Samah ci rende chiaro, in tutto e per tutto, cosa significhi Gaza: una prigione a cielo aperto con le sue infrastrutture deteriorate, le strade distrutte, gli spazi abitativi sovraffollati, la povertà, l’anemia, l’insicurezza alimentare, l’assenza di carburante, di elettricità, di assistenza sanitaria, dove dire: “non ci sono luoghi sicuri” è la normalità e nei volti di chi sta sopravvivendo è fotografata la schiavitù moderna, dove si va accentuando il consumo di droghe e l’abbandono scolastico con tutto ciò che comporta, i suicidi in aumento e la perdita di un positivo desiderio tra i giovani. Samah usa la lente della psichiatria per leggere lo stato d’animo degli oppressi, mette mano a Fanon, entra dentro i meandri della salute fisica e mentale dei palestinesi, quello che i palestinesi vivono è un trauma psicologico e collettivo che è il risultato di decenni di oppressione, di violenza, umiliazione, ingiustizia. Detto questo, ovviamente  Samah non può non riconoscersi nel diritto di un popolo occupato a resistere. Un diritto sia legale dal punto di vista della legge internazionale e sia un diritto umano basilare, perché dove c’è oppressione ci sarà sempre resistenza. A proposito di resistenza, Samah evidenzia il significato dello sciopero della fame portato avanti dai prigionieri politici palestinesi come ultimo tentativo di opporsi alla sopraffazione.

L’aspetto che più dobbiamo far emergere dalla lettura di queste pagine, e lo vediamo in questi lunghissimi mesi, è che i palestinesi non si considerano assolutamente vittime ma soggetti attivi e combattenti per la libertà, terminologia che piacerà sicuramente agli statunitensi come il passato ci insegna. Quanto avviene in Palestina non è la «guerra» che ci viene propinata, ma bensì la guerra alla storia palestinese, è parte della guerra alle menti, la continua, e per certi versi silenziosa pulizia etnica per riscrivere la storia. Non è un caso che l’occupazione scelga di distruggere i simboli  che sono psicologicamente importanti per la resistenza e la memoria collettiva, in un odioso tentativo di memoricidio.

Ma l’occupazione non fa uso solo di questo; la fame come arma di guerra; la distruzione delle infrastrutture essenziali, del sistema sanitario, la carestia per compromettere lo sviluppo mentale e fisico dei bambini, le sepolture negate come arma psicologica per immettere una sensazione di impotenza in coloro i quali la subiscono, il sopravvivere che se può sembrare un qualcosa di positivo, in realtà è un qualcosa che trasmette profondo disagio psicologico; la tortura, attraverso le finte fucilazioni, la detenzione in condizioni umilianti e degradanti, la privazione del sonno ecc … con i traumi fisici e psicologici che trasmette per spezzare la resistenza  e creare impotenza,  far perdere la stima di sé e creare un clima di diffidenza all’interno della comunità di appartenenza, il bendare gli occhi non solo per non identificare i torturatori ma come deprivazione sensoriale creando, così, gravi problemi di salute mentale e conseguenze traumatiche de umanizzando la vittima; le punizioni collettive privando la popolazione dei beni di prima necessità.

Quanti immagini abbiamo visto in questi mesi che ritraggono gli occupanti in modalità festeggiante dopo aver compiuto molteplici nefandezze, ebbene non siamo in presenza di killer psicopatici ma bensì di chi prova piacere e/o gratificazione psicologica nel dare ad altri dolore e/o sofferenza. All’inizio abbiamo parlato del 7 ottobre, non potevamo non farlo visto il continuo, assillante martellante, propinare la narrazione di quel fatto; ma se vogliamo dare una corretta lettura di quei fatti, perché non dire che si è passati dall’umiliazione alla vendetta contro tutto ciò che è palestinese. Certo l’esempio è palestinese, ma la lezione non può che essere globale. Quanto avviene in Palestina è una lotta che non potrà che proseguire fino a quando la Palestina non sarà libera ed arrivare a far sì che le tendenze sadiche dell’occupante siano rimosse e trionfi l’umanità di coloro che lottano per la liberazione.

 

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E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

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Andare oltre “l’indicibile” https://www.carmillaonline.com/2024/06/18/andare-oltre-lindicibile/ Tue, 18 Jun 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83106 di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor [...]]]> di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor and the Unfinished Business of World War II”.

Un testo necessario in un momento in cui, a partire dall’operazione condotta dall’Idf nella striscia di Gaza e dal revanscismo dell’ultradestra sionista, qualsiasi critica allo stato di Israele e al colonialismo espansivo sionista è assimilata all’antisemitismo dai gazzettieri di regime e da tutti coloro che ritengono inammissibile l’esistenza di uno stato palestinese indipendente e della stessa resistenza anticoloniale del popolo gazawi.

Il testo non è direttamente collegato agli avvenimenti attuali, ma è ancora utilissimo per destrutturare il discorso sull’Olocausto sviluppatosi non dalle reali sofferenze degli ebrei d’Europa nel corso del secondo conflitto mondiale, ma dalla necessità di rafforzare l’immagine del baluardo costituito da Israele nel medio e vicino oriente a favore degli interessi imperialistici statunitensi e occidentali. Come sostiene l’autore, infatti:

“L’informazione sull’Olocausto”, osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in realtà “un’operazione d’indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del presente”1. […] Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura ideologica dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano negli studi critici sull’Olocausto nazista2. D’altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell’ebraismo e del sionismo.
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura d’inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. “La prima e più importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l’emblema dell’ebraismo americano” fu, come ricorda Jacob Neusner, che “l’Olocausto […] era qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana”3. In un saggio illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la “piccola industria degli agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’ingenuità di zeloti della teologia”2. Il dogma della sua unicità, dopotutto, non ha senso3.

Anche se si potrebbe facilmente provare che «qualunque evento storico è unico, se non altro in virtù del tempo e del luogo in cui accade, e presenta tanto caratteristiche sue proprie quanto tratti comuni ad altri eventi storici. L’anomalia dell’Olocausto consiste nel fatto che la sua unicità è ritenuta assolutamente decisiva […] Come è evidente, i tratti distintivi dell’Olocausto vengono isolati allo scopo di porre l’evento in una categoria completamente separata. »4.

Cosa che si rende particolarmente evidente quando, a causa del furore della difesa dell’unicità dell’Olocausto, si dimenticano gli infiniti tratti di sofferenza e distruzione che potrebbero accomunare il popolo ebraico a quello palestinese proprio in virtù di due tragedie, di fatto, speculari e complementari: la distruzione nazista degli ebrei d’Europa e la Nabka, ovvero la cacciata degli arabi palestinesi dalle loro terre a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 19485.

Ebreo americano e figlio di deportati nei campi di concentramento, Norman Finkelstein è uno storico, politologo e attivista statunitense. Ha compiuto i suoi studi alla Binghamton University di New York, all’École pratique des hautes études di Parigi, conseguendo infine un dottorato in Scienze politiche all’Università di Princeton. I suoi principali campi di interesse sono l’Olocausto e il conflitto arabo-israeliano, due temi strettamente intrecciati tra di loro, rispetto a cui si pone in antitesi. Sostenendo, con vigore e onestà, la necessità di liberare la memoria dell’Olocausto dalle distorsioni che la circondano perché il principale pericolo non viene solo dal negazionismo e dal revisionismo, ma anche dai sedicenti guardiani della memoria che hanno fatto dell’Olocausto un unicum che non può essere sottoposto al vaglio critico e storico.

Come è facile immaginare il suo lavoro di ricerca ha solevato, fin dall’inizio, durissime polemiche e accuse nei suoi confronti anche se è vero che:

fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e di film toccò l’argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un unico corso universitario espressamente dedicato a esso2. Quando, nel 1963, Hannah Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil [La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme] poté attingere solamente a due studi in lingua inglese: The Final Solution [La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945], di Gerald Reitlinger, e The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg3. Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette faticare per vedere la luce. Il suo relatore alla Columbia University, l’ebreo tedesco Franz Neumann, studioso di teoria sociale, cercò di dissuadere energicamente Hilberg dallo scrivere sull’argomento (“È il tuo funerale”) e nessuna università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto. Quando fu finalmente pubblicato, The Destruction of the European Jews6 ricevette poche recensioni, per lo più critiche.
Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli ebrei americani, intellettuali compresi, prestarono poca attenzione all’Olocausto nazista. In un’autorevole indagine del 1957, il sociologo Nathan Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la nascita di Israele) “aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della comunità ebraica americana”7.

Mentre, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, anche in Israele, come ci ricorda uno dei più importanti scrittori israeliani, in un suo romanzo autobiografico8, i superstiti della Shoa erano guardati con vergogna e sospetto, come se potessero rappresentare una macchia per la narrazione trionfalistica dei successi del sionismo in terra palestinese. Come Finkelstein ancora confida al lettore:

Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre (nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra). In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo […] Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, all’infuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto. I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando l’industria dell’Olocausto era ormai consolidata 9.

Forse proprio da questa memoria “personale”, spesso l’unica capace di districarsi tra le maglie dell’ideologia e della retorica istituzionale, deriva la determinazione dello storico ebreo-americano nel sostenere come:

Questo libro si propone di essere un’anatomia dell’industria dell’Olocausto e un atto d’accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che “l’Olocausto” è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di “vittima”, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. […]
A volte penso che la “scoperta” dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei10?

Sullo stesso teme non si è mosso, a livello di indagine, il solo Finkelstein, però.
Anche lo storico e saggista Tom Segev, figlio di profughi tedeschi che vive a Gerusalemme, si è occupato del drammatico incontro tra i superstiti dell’Olocausto e una società, quella del neonato stato di Israele, che andava costruendo se stessa intorno al culto dell’eroismo e dell’”uomo nuovo”ed è andato dimostrando come la pesante eredità della Shoa sia stata manipolata e distorta a scopo ideologico e calcolo politico11.

L’industria dell’Olocausto non indaga soltanto l’uso ideologico fatto dal sionismo colonialista e dallo Stato israeliano, ma anche l’ipocrisia di stati come la Svizzera e gli stessi Stati Uniti nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei e dell’uso postumo della memoria di tale evento e dell’appropriazione indebita dei beni degli stessi operata no soltanto dai nazisti.

Finendo col rivelarsi come un’opera che, a distanza di quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, torna ad esplodere come una bomba tra le mani del lettore, suscitando ancora adesso l’ira di tutti coloro che sulla tragedia dell’Olocausto hanno costruito le basi e la giustificazione delle immani sofferenze di un altro popolo che non ha mai smesso di resistere alla dominazione colonialista, all’ingiustizia e al tentativo di sterminarlo.


  1. B. Evron, Holocaust: The Uses of Disaster, in “Radical America”, luglio-agosto 1983, p. 15.  

  2. J. Neusner (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, vol. II, Gar­land, New York 1993.  

  3. N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 47-48.  

  4. N. Finkelstein, op. cit., p. 48.  

  5. A tale proposito si veda: B. Bashir, A. Goldberg (a cura di), Olocausto e Nabka. Narrazioni tra storia e trauma, Edizioni Zikkaron 2023.  

  6. Oggi disponibile in Italia come R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 3 voll., Einaudi Editore 2017.  

  7. N. Finkelstein, op. cit., pp. 22-23.  

  8. A. Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli editore, Milano 2003.  

  9. N. Finkelstein, op. cit., pp. 17-18.  

  10. Ivi, pp. 15-18.  

  11. T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori editore , Milano 2001 (edizione originale 1991)  

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Il nuovo disordine mondiale 24 / Appunti palestinesi. Di nuovo il fuoco. https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/il-nuovo-disordine-mondiale-24-appunti-palestinesi-di-nuovo-il-fuoco/ Tue, 07 Nov 2023 00:31:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79917 Di Jack Orlando

0. Premessa. Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione. È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola. Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso. Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati. Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre [...]]]> Di Jack Orlando


0. Premessa.
Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione.
È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola.
Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso.
Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati.
Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre un intento combattuto in questi casi. Stretto tra la necessità di tracciare linee e porre punti per orientarsi e la nausea per la marea montante di notizie, perlopiù faziose o monche, che sommerge ogni spazio disponibile, toglie ossigeno e soffoca il ragionamento più di quanto lo stimoli.
Orrore per la pervicace e martellante chiacchiera da bar, piccola e oscena, che divora le possibilità dell’analisi. E necessità di esserci. Oltre il cicaleccio sulle quisquiglie dell’attualità.

Premettiamo che è una presa di parola mossa da cattive intenzioni, quella di chi è seduto avanti al PC, in una celletta degli alveari delle metropoli d’Europa, il culo al caldo come si suol dire. Guardiamo a quello che succede da dietro gli schermi, ci forziamo ad ingurgitare notizie e sottoporci immagini di strazio, tracciando dei fili rossi e cercando di costruire un senso a ciò che stiamo vivendo e osservando.
Prendiamo la parola per parlare “ai nostri”, per ribadire ancora l’ossessione del pensiero politico, per esercizio d’analisi, per andare a scuola dai fatti della Storia nel suo dispiegarsi.

Non scriviamo per prendere posizione. Ma per comprendere, per affilare lo sguardo, scandagliare piste, pescare strumenti per l’azione degli amici in ascolto. Scandalosa osservazione.
Eppure vogliamo sottolinearvela qui, che sia ben chiara. Non ci serve scrivere per prendere posizione perché diamo per scontato, almeno per quel che riguarda noi, qual’è lo schieramento cui apparteniamo.
Siamo, saremo sempre, tra le fila di quelli che sono al servizio dei dannati della terra. Tra uno stato nazione coloniale, razzista e genocida, ed una popolazione in guerra per la propria sopravvivenza abbiamo sempre avuta ben chiara quale sia la nostra parte.
Ergo non ce ne frega un cazzo di sprecare inchiostro per ribadirla, e ancora di meno ci interessa giustificare la nostra posizione, articolare preamboli giustificazionisti a scanso di equivoci, quasi a scusarci per il nostro uscire dai ranghi.

Siamo per gli ultimi, quelli che stanno in basso. Stabilita la nostra parte non ci interessa affatto giudicare dall’alto di una presunta superiorità morale, quella di chi tiene il culo al caldo di cui sopra, quali siano le pratiche di lotta legittime o consone ad una liberazione collettiva.
Ci prendiamo il pacchetto completo.
Riconosciamo primariamente il diritto collettivo all’autodeterminazione: ciò detto su mezzi, tempi e parole della rivolta ha diritto di veto solo chi è letteralmente con i piedi sul campo di battaglia.

1. Questione di sguardi.
Cominciamo da principio. Primo elemento imprescindibile, il punto di vista, la maniera in cui interpretiamo i fenomeni: il 7 ottobre non come tragica e sanguinosa giornata, ma come zenit di un processo politico che vediamo quale catalisi locale di una tendenza quanto meno internazionale.
Organizzazione politica e sentimento popolare, rivolta anticoloniale e passaggio strategico di geopolitica convivono in una giornata dal peso storico.
Hamas ha invaso Israele, ha ammazzato civili e soldati, ha rapito innocenti, ha compiuto una strage… Ha rovinato una festa.
Potremmo anzitutto smettere di ciarlare di Hamas, quale esclusivo attore in campo. L’offensiva è stata portata avanti dalla Resistenza Palestinese tutta (ovvero una rosa di organizzazioni militanti che comprendono, tra le varie, declinazioni differenti di islam politico, laicismo panarabista e marxismo leninismo), che già da anni si è dotata di un Comando operativo unico per portare avanti la lotta oltre le singole fazioni2. Comando unico che già aveva portato ad un livello più alto le capacità di resistenza e che, anche mentre si combatte dentro Gaza, continua a tenere il punto della questione3.

Questo aiuta a comprendere la vastità delle operazioni di guerriglia messe in campo e l’ampia partecipazione anche emotiva della popolazione palestinese. Ma soprattutto impone di smetterla con i distinguo, gli equilibrismi, le dichiarazioni dai guanti di velluto.
Tornando al 2021, segnalavamo come al termine delle ostilità, nonostante il tributo di sangue e nessun avanzamento territoriale, tutta la Palestina celebrò l’evento come una vittoria: una vittoria politica ed esistenziale, la dimostrazione che non solo un popolo recluso e privato dei più semplici mezzi sussistenza potesse ancora imporre la propria presenza al mondo intero, ma che era in grado di tirare su, nei cunicoli delle sue baraccopoli, sistemi di guerra tali da sfidare uno dei più potenti giganti militari del globo.
Una affermazione della vita che passa, paradossalmente, per il sangue.
E difatti ogni volta che Israele ha risposto col terrore e la brutalità che lo contraddistingue, nel tentativo di estirpare la resistenza, non ha fatto che alimentare il fuoco, portare altra gioventù sulla via della lotta.
Se nel 2021 la Palestina ha vinto la sua guerra. Nel 2023 ha sconfitto Israele sul suo stesso campo.

2. Un colpo al cuore del nemico.
Questo è stato il 7 ottobre.
I militanti palestinesi hanno sconfitto Israele in primo luogo perché ne hanno sfondato il dispositivo militare mostrando al mondo, specialmente al mondo del Medio Oriente, che la macchina bellica mostruosa e imbattibile di Israele (e per estensione dell’Occidente tutto) può essere sbaragliata con una combinazione di determinazione ed organizzazione.
L’esercito più potente del mondo è tale solo finché bombarda scuole e ospedali.
È terribile l’umiliazione dei propri soldati decimati mentre tentano di reagire con indosso elmetto e mutande da notte, dei propri mezzi corazzati distrutti e requisiti da contadini in ciabatte. L’invincibilità è una carta che non si gioca due volte.
In secondo luogo hanno inferto un trauma devastante alla psiche collettiva di Israele: uno Stato che tollera con difficoltà anche un solo caduto, figuriamoci quando a morire sono in centinaia, e che è alle prese con una lunga e lacerante crisi interna. È la goccia che fa traboccare il vaso, l’evento che scatena il definitivo attacco di panico.

Sul balletto dei numeri e dei morti eviteremo di tirare in ballo le notizie manipolate quando non inventate, i resoconti di massacri efferati, la pornografia del dolore e della morte violenta, ciò che preme segnalare è come molte delle vittime civili siano cadute nella reazione scomposta, o forse per certi versi intenzionale, delle forze di sicurezza israeliane4, tale per cui sono stati diversi gli attori dentro e fuori Israele a chiedere un’inchiesta che faccia luce su quanto avvenuto, e sul possibile utilizzo del Protocollo Hannibal, che prevede l’eliminazione fisica dei soldati stessi pur di scongiurarne la cattura5.
Dottrina militare alla luce della quale è più facile comprendere come gli ostaggi israeliani non siano in grado di frenare la furia omicida del Tsahal che, alle dichiarazioni da Gaza, ne avrebbe già ammazzati una sessantina sotto le sue stesse bombe.
Oltre a ciò domandiamo soltanto quanto possa essere netta la divisione civile/militare in uno Stato che considera se stesso come una nazione in armi cui ogni cittadino, uomo o donna che sia, deve prestare servizio nell’esercito ed essere perennemente mobilitabile; dove parte delle brutalità peggiori, quali quelle dei coloni, sono commesse da civili armati, con le spalle coperte dalla fanteria in divisa?

Ora, se in un momento di stabilità sociale, Israele è poco in grado di gestire un morto o un prigioniero delle sue fila, in una fase critica come quella che attraversa da oltre un anno, la faccenda è più complicata.
Netanyahu resta in sella solo in virtù dell’emergenza, per i resto è politicamente un morto che cammina, una caduta rimandata di poco ma ormai inevitabile. Lui, come la politica stessa è preso in mezzo tra spinte sanguinarie più esplicite quali quelle dei generali dell’esercito, di cui il ministro Gallan è grottesco portavoce, e più miti consigli quali quelli dell’americano Blinken, preoccupato di una deflagrazione incontrollabile.
Fratture che si approfondiscono giorno dopo giorno dentro la società israeliana che si cannibalizza da sé6, con le famiglie degli ostaggi che premono per una trattativa e vengono accusati di tradimento, con la polizia che reprime violentemente qualsiasi manifestazione di dissenso interno7 nonostante siano sempre di più i cittadini contrari ad una guerra boots on the ground, con la briglia sciolta ai coloni che scaricano sulla Cisgiordania una violenza disordinata che rischia di trascinare loro per primi nel baratro ed il proliferare di video di pessimo gusto in cui si deridono i civili palestinesi massacrati e gli stessi ostaggi8.

Nel momento in cui, tra le macerie di Gaza, inizieranno a cadere i fanti e aumenteranno le coscrizioni, è difficile che il tessuto sociale non si strappi in maniera ancora più irreparabile.
Israele aveva già perso prima ancora di mostrare al mondo il suo vero volto da killer seriale, perché non può resistere alla sua furia imperiale, a costo di sacrificare il suo stesso popolo.
E d’altronde, ogni processo di liberazione antimperialista tende ad una guerra civile che, a vario grado, straborda dalla colonia per riversarsi nella metropoli dominante.

3. Il martirio e la liberazione: nel buttare giù le recinzioni, nell’attaccare i posti militari ed i kibbutz, nell’uccidere e sequestrare militari e civili, occupando porzioni di territorio inviolabile, molti dei militanti palestinesi sapevano che non avrebbero fatto ritorno. Così come sapevano quale sarebbe stata la tragica conseguenza dell’azione. Una partita in più tempi, con la lucida consapevolezza di portarsi sulle spalle una tragedia.
E infatti tutto lo schieramento liberale d’Occidente, che in un primo momento è corso a schierarsi nei ranghi sionisti, anche dovendo aggiustare la propria posizione di fronte agli abominevoli atti e dichiarazioni israeliane non trova di meglio che buttare addosso ad Hamas la responsabilità delle vittime civili palestinesi. Come se fossero le organizzazioni palestinesi a bombardare i propri stessi ospedali.
Una critica che ricorda da vicino quelle che la nostra destra oppone ai fatti di via Rasella, le responsabilità delle rappresaglie dell’occupante buttate addosso ai resistenti. Umanitarismo peloso con l’obbiettivo di disarmare la mano che prova a liberarsi, negare la possibilità di risposta a chi la violenza la subisce quotidianamente e tenta una pratica di liberazione9.
Quello che non si capisce, o che si preferisce tacere, è che un popolo che viene rinchiuso, limitato nei movimenti, espropriato delle proprie terre e case, mutilato nel corpo e nel futuro possibile, ingiuriato, bastonato, rinchiuso e ucciso senza ragione, non può che trovare l’unica forma di vita possibile nella liberazione.

Per settantacinque anni (qualche decennio in più se contiamo gli anni in cui le bande armate di sionisti erano attive prima della fondazione ufficiale dello stato di Israele) i palestinesi si sono visti massacrare quotidianamente, hanno subito la violazione di ogni accordo e ogni norma di diritto internazionale ed il mondo è rimasto muto. Le loro case sono state demolite o occupate e intorno c’era silenzio. I luoghi di culto profanati nell’indifferenza generale; gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani sequestrati di notte nei loro letti, ingoiati nelle prigioni o uccisi con un colpo davanti la porta di casa; ancora il mondo che guarda e tace. Qualche parola di circostanza, qualche impotente biasimo, ma un sostanziale semaforo verde allo sterminio e all’occupazione.
Gli unici momenti in cui il popolo palestinese ha ottenuto qualche tangibile risultato, costringendo il mondo a guardare, sono quelli in cui si è sollevato. Le organizzazioni militanti, le sommosse popolari, le pietre, i fucili e gli esplosivi sono gli unici mezzi con cui la Palestina è riuscita a strapparsi il bavaglio dalla bocca e ha fatto sentire la propria voce.

Ogni volta ha pagato con un pesante tributo di sangue, ogni volta ha sacrificato tanto i civili innocenti quanto gli insorti. E allora lentamente si è diffusa e cementata una ferma volontà di liberazione ad ogni costo.
Di fronte ad una quotidiana ed inesorabile morte collettiva, il sacrificio di sè stessi per la causa dell’autodeterminazione diventa un elemento culturale cruciale che restituisce senso e dignità ad una esistenza lacerata.
Tramite il martirio l’oppresso afferma la propria vita e rivendica la giustezza della propria causa; impone la sua verità al mondo ribaltando di segno la propria fine corporale e facendosi simbolo ed esempio10.

Andando a stringere non c’è scelta per un palestinese che non sia fuga, rassegnazione o combattimento. Se non si comprende questo elemento fondamentale non si può comprendere né come sia possibile una resistenza che dura da tre generazioni, né come possa ad ogni passaggio di fase essere sempre più radicata e potente nonostante il proprio costante dissanguamento. Più violenta è l’azione di Israele più i combattenti aumentano in numero e determinazione, e dalle fionde passano ai Qassam.
Dietro le azioni della resistenza non c’è un manipolo di fanatici ma un intero movimento sociale e nazionale che passa per attraverso tutto il popolo palestinese in patria e nella diaspora11; motivo per cui la volontà di sterminio è tanto radicata nei vertici di Israele: il progetto sionista non può dirsi compiuto finché rimane anche una minima traccia della Palestina, sia essa un corpo o un brandello di terra.

Soprattutto ecco perché l’operazione di terra e l’assedio sono destinati a fallire. I vertici della resistenza lo hanno dichiarato a più riprese fin dal primo giorno12. Non solo sono pronti ad una guerra di lunga durata, ma sono disposti a pagarne il prezzo fino all’ultimo, d’altronde non hanno altre vie. Tsahal e Netanyahu non possono dire lo stesso.

4. Geopolitica e sentimento della decolonizzazione.
Bisogna inoltre inquadrare quanto sta andando in scena dentro una cornice più ampia.
Le ricadute del conflitto russo-ucraino fuori dai confini occidentali, la rovinosa ritirata americana da Kabul, lo sgretolamento della Francafrique; il riallineamento di blocchi transnazionali secondo coordinate inedite e l’inarrestabile declino dell’Occidente sono tasselli di un quadro i cui significanti principali sono tendenza alla guerra e multipolarismo emergente.

Evitiamo di cadere nuovamente dal pero. Si combatte dentro Gaza ma si lotta per l’intero Medio Oriente. L’Asse della Resistenza antisionista conferisce profondità internazionale alla lotta palestinese poiché la natura stessa dello stato di Israele ha al suo centro un progetto coloniale, etnorazzista ed espansionista che non fa altro che mettere in pericolo l’integrità, la stabilità e la sicurezza dei paesi circostanti.
Se l’ingresso delle truppe di fanteria è stato più e più volte ritardato, nell’attesa di una copertura statunitense con uomini, navi e sottomarini nucleari quale forza di deterrenza, è proprio perché dal 7 ottobre stesso questo Asse è attivo sul fronte di guerra in forme differenti13.

Fin dal primo giorno, al confine tra Israele e Libano si è registrata una costante e calibrata pressione di Hezbollah che ha bersagliato le fattorie Sheeba e diversi mezzi e postazioni militari; un esercizio della forza cautamente controllato tale da evitare una escalation ma sufficiente a tenere sotto scacco le forze israeliane distogliendole dal fronte gazawi. Avversario temibile con cui diverse volte Tsahal ha dovuto fare i conti (amari) nonché uno dei più potenti attori politico militari della regione14.
Le forze Houti dallo Yemen hanno manifestato la propria solidarietà attraverso il lancio di missili balistici e droni15, mentre le milizie irachene e siriane hanno ripetutamente attaccato basi e truppe USA16.
L’Iran, considerato centro nevralgico dell’asse, sembra non esporsi sul campo nonostante le minacciose dichiarazioni rilasciate più volte contro i bombardamenti a Gaza e la sfacciata complicità statunitense. Ma più che un disimpegno sembra mantenere una posizione di “garante politico” dell’asse laddove un suo impegno significherebbe la definitiva conflagrazione regionale, mentre un ruolo di mediazione diplomatica, unita ad un coordinamento tattico delle forze ed una alquanto probabile sotterranea attività di intelligence e supporto logistico permette di mantenere una profondità strategica delle potenzialità dell’Asse, coprendolo da eventuali avventurismi sionisti.17.

Un attivismo frenetico che ha spinto la presidenza statunitense non solo a schierarsi immediatamente senza se e senza ma al fianco della “unica democrazia del medio oriente”, anche quando le posizioni e le volontà israeliane rasentano la mitomania e la psicosi omicida; ma ad impegnarsi direttamente nello scenario dispiegando in tempi strettissimi una forza di deterrenza che, lontano dalle roboanti dichiarazioni sugli aiuti all’Ucraina, segna un ben diverso coinvolgimento.
Non è un caso che nelle stesse ore si moltiplichino i segnali di ricerca di una via di fuga diplomatica dal pantano ai confini orientali d’Europa.

Stavolta la posta in gioco è cruciale, il rischio è quello dell’emergere di un blocco di potere indipendente nell’area dell’occidente asiatico che significherebbe per Washington la definitiva caduta d’egemonia globale, attraverso una perdita di controllo dei territori mediorientali. Alla luce di ciò si rende molto più evidente il ruolo geopolitico di Israele quale testa di ponte dell’imperialismo occidentale. Ma nonostante tutto il potenziale militare è evidente l’ansia statunitense di caparsi in fretta fuori da un brutto affare.
Con questi brividi d’ansia possiamo interpretare il frenetico tour di Antony Blinken in giro per la regione a seminare minacce e ipotesi letteralmente di fantapolitica quale quella di mettere in mano, dopo lo sterminio di Gaza, le redini della Striscia in mano all’ANP di Abu Mazen: l’organismo più depotenziato, delegittimato, inutile e detestato dai palestinesi stessi, il cui unico risultato tangibile è quello di frenare le spinte dal basso in Cisgiordania con una repressione delle forze palestinesi e una manifesta impotenza davanti ai soprusi israeliani18.

Ma se la retorica infiammata è moneta corrente nei discorsi dei diversi leader, con sicuramente un maggiore grado di sincerità e coinvolgimento rispetto alle tristi pagliacciate dei politici europei e americani; gli stati arabi, al pari di quelli occidentali, riflettono la volontà e gli interessi delle proprie classi dirigenti, sempre pronte a sacrificare tutto e tutti sull’altare del proprio disegno. Perduto è il popolo che spera nell’amicizia di uno Stato.
Ciò nonostante il riallineamento delle potenze procede parallelo ad un sentimento popolare che in tutto il mondo musulmano (ed in generale nel Sud Globale) vede come sempre più auspicabile l’allontanamento dall’egemonia occidentale e rileva nella causa palestinese la punta avanzata di un processo di liberazione globale.
Le immense piazze turche, gli accesi raduni libanesi e giordani, le manifestazioni oceaniche che dal Marocco al Pakistan non hanno disertato alcun paese della cintura, i ripetuti e diffusi assalti contro ambasciate, consolati e istituti israeliani ed americani si sono succeduti fin dall’inizio e non accennano a diminuire di intensità né di partecipazione19.

Il coro più gettonato nelle strade, accanto a quello per la Palestina libera, è Takbir-Allahu Akbar. Coro che impulsivamente smuove un certo nervosismo islamofobo anche alle più progressiste orecchie bianche ma che, lungi dal rappresentare una qualche improbabile volontà di sanguinaria conversione globale, esplicita una collettiva adesione ad una comunità di destino, quella musulmana, vissuta come unica alternativa politica e valoriale alla subordinazione all’occidente.
No, Hamas non è l’ISIS così come l’islam non è la barbarie jihadista che abbiamo visto all’opera in Siria.
Oggi l’Islam politico rappresenta una galassia di formazioni, prassi e istanze estremamente diverse tra loro, fino ad attraversare organizzazioni laiche e marxiste, accomunate tutte da un minimo comune denominatore: essere le espressioni organizzate della parte del globo che sta in basso. E non intendiamo solo geograficamente 20.

Non molti decenni fa le masse subalterne si rivolgevano al socialismo per cercare una via d’uscita dalla dominazione coloniale. E allora c’era una Russia sovietica pronta a foraggiarne le ragioni e le pratiche. Strumentalmente certo, eppure era un punto di riferimento materiale oltre che ideale; e soldi e armi contano più di attestati di solidarietà quando devi difenderti.
Oggi quello schema è tramontato ed è cambiato il registro, il vessillo verde ha sostituito la bandiera rossa e le parole d’ordine sono diverse, ma ciononostante il moto collettivo indica volontà di liberazione.
C’è un processo decoloniale in corso che parla una lingua diversa dal passato ma non ne ha mutato l’orizzonte, che ci piaccia o meno21.
Contro questa possibilità si scaglia il potere occidentale quando si schiera al fianco di Israele: contro questi popoli si è pronti a scatenare una guerra ben più ampia di quella che ci ha coinvolto con la Russia. Questa è la posta in gioco, ed è ormai inevitabile fare i conti con questa realtà.

5. Il movimento che viene.
Non dovrebbe stupire che la resistenza palestinese è a questi popoli che fa riferimento quando prende parola.
Oltre la diffusa islamofobia occidentale, dovremmo chiederci quanto tempo è che alle nostre latitudini le forze progressiste o rivoluzionarie hanno smesso di interagire con il resto del mondo? Ma soprattutto, quanto tempo è che abbiamo smesso di dimostrare una forza collettiva tale da poter essere considerati come interlocutori credibili?
Il nostro concetto di post-coloniale ha dismesso da un pezzo le lezioni di Fanon e Cabral ed è diventato puro accademicismo imbecille, ergo, non capiamo più un tubo di ciò che si muove fuori dai parametri del mondo bianco, ecco perché ci si sente in dovere di dire “si i palestinesi hanno ragione, però Hamas è cattivo” e via dicendo.
Come se fosse davvero utile o interessante, come lo avesse veramente chiesto qualcuno, di esprimere un parere immancabilmente superfluo e impotente.

Eppure nel ventre moscio di questo Occidente alla deriva si è mosso qualcosa, si è avuto un sussulto di vita che non ci si aspettava.
Davanti all’orrore indicibile che si sta consumando e alla colpevole impotenza delle istituzioni internazionali, nonostante una martellante campagna propagandistica di media e politica, abbiamo assistito ad un proliferare di mobilitazioni ed iniziative di solidarietà con una forza che quasi si dava per estinta.
Si è dato un cortocircuito che ha segnato in maniera esplicita e netta la frattura tra la narrazione dominante e la coscienza popolare; qualcosa che prima era ravvisabile nelle chiacchiere e nei sospiri di rammarico, ma che è venuto a galla con la Palestina, nonostante potremmo leggerci in controluce anche dell’altro.

E così si è disertata la chiamata alle armi in difesa della democrazia, parola completamente svuotata di significato, e si è attraversato le piazze di tutta Europa sfidando divieti e calunnie.
Gli stessi Stati Uniti sono solcati da un’ondata, che vede la stessa comunità ebraica in prima fila, mobilitativa senza precedenti che è arrivata ad occupare Capitol Hill per rivendicare un cessate il fuoco e ha portato oltre trecentomila persone a marciare per le strade di Washington22.

E se quarantamila persone in corteo a Roma sono un evento più che raro oggi, figurarsi il gigantesco serpentone di corpi che ha solcato il ponte di Londra.
Ancora più notevole è il protagonismo delle seconde generazioni, delle gioventù misconosciute delle nostre città, forze che premono per prendere parola e che nell’incontro nelle piazze si dimostrano il nerbo di un movimento a venire; prefigurano l’emergere di contraddizioni rinfocolate e di soggettività da scoprire.

Per farla breve, una così ampia e profonda dimostrazione di sdegno e solidarietà lascia intravedere delle energie vive che agitano le metropoli, ma se la testimonianza e lo sdegno sono sacrosanti, bisogna portare oltre il ragionamento.
Le sirene del potere imperialista urlano di scontro della civiltà e vorrebbero schierarci a difesa dei traballanti ed ipocriti valori atlantici. Tocca oggi disertare questa chiamata alle armi e se saremo i traditori dell’Occidente, tanto meglio, che ha smesso già da un pezzo di garantire una vita decente ai suoi stessi figli.

Per questo la Palestina ci riguarda da vicino, molto più vicino di quanto vorremmo credere. Occorre guardare ai fenomeni senza le lenti dell’universalismo bianco e venefico, ascoltare le voci che il resto del globo urla, tornare a ragionare seriamente di antimperialismo, allargare le alleanze, approfondire le reti di solidarietà e contro informazione, imporre un’agenda che non si limiti all’umanitarismo e rompere un meccanismo che ci trascina sempre più velocemente verso il baratro.

Lo diciamo chiaramente: la soluzione del problema palestinese non può che passare per la distruzione di Israele sionista; assunto che non significa certo buttare a mare o eliminare gli ebrei, ma vuol dire mettere a tacere una volta per tutte l’egemonia di un progetto fascista, genocida e coloniale che è ormai insostenibile per la sua stessa popolazione; ed è proprio dalle forze progressiste di quest’ultima, oggi ridotte a poco più che un lumicino, che verrà la spinta definitiva che potrà aprire la strada ad un reale processo di pacificazione e riconciliazione collettiva.
Ipotesi più volte silenziata ma che da tempo è presente nel dibattito, come dimostrato dall’impagabile lavoro di Edward Said23.

La liberazione della Palestina non è che uno dei passaggi obbligati per rovesciare la tendenza folle mortifera che avvolge in modo sempre più soffocante il pianeta intero.


  1. https://www.carmillaonline.com/2021/05/22/sei-appunti-palestinesi/  

  2. https://bnn.network/world/palestine/palestinian-factions-unite-a-joint-operational-command-to-counter-israeli-actions/ 

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dichiarazione-rilasciata-dalle-5-forze-della-resistenza-palestinese-il-29-ottobre-2023  

  4. https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861 

  5. https://www.slobodenpecat.mk/it/poraneshen-izraelski-vojnik-otkriva-shto-e-direktivata-hanibal/ e https://mcc43.wordpress.com/2014/08/02/idf-soldati-israele-protocollo-hannibal/ 

  6. Ne ha parlato Moiso su queste pagine qualche giorno fa qui https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/#rf1-79758  

  7. https://www.newarab.com/news/israeli-police-attack-anti-zionist-jews-amid-gaza-war 

  8. https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/gli-influencer-israeliani-prendono-in-giro-i-palestinesi-su-tiktok-cosa-sappiamo-su-questo-trend/ 

  9. https://networkcultures.org/tactical-media-room/2023/10/18/from-resistance-to-liberation-how-october-7th-made-palestinians-once-again-protagonists-of-their-own-history-eng-ita/  

  10. Illuminante per questo aspetto, anche se a tratti limitato e generalmente eurocentrico, rimane F. Dei; Terrore suicida. Religione politica e violenza nelle culture del martirio; Donzelli Editore; Roma 2016 

  11. https://www.sinistrainrete.info/politica/26693-leila-seurat-hamas-e-la-societa-palestinese.html  

  12. https://english.alarabiya.net/News/middle-east/2023/10/19/-Israel-is-killing-us-whether-we-resist-or-not-says-former-Hamas-chief  

  13. https://english.almayadeen.net/news/politics/axis-of-resistance-factions-join-forces-against-israel-us  

  14. https://www.youtube.com/watch?v=sPrF6Cqj6mY  

  15. https://www.reuters.com/world/middle-east/israel-warns-possible-hostile-aircraft-near-red-sea-city-eilat-2023-10-31/  

  16. https://thehill.com/policy/defense/4273531-us-troops-in-iraq-syria-attacked-13-times-in-past-week-pentagon-says/ 

  17. https://www.fpri.org/article/2023/10/iran-and-the-axis-of-resistance-vastly-improved-hamass-operational-capabilities/  

  18. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/11/Radio3-Mondo-del-06112023-2a87a96f-b625-4316-81ce-f6643ca14757.html  

  19. https://crisis24.garda.com/alerts/2023/10/mena-pro-palestinian-rallies-likely-across-region-through-november-update-8  

  20. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/  

  21. che poi il processo di decolonizzazione fosse un limpido e lineare cammino delle masse verso il socialismo europeo, è una di quelle cazzate della sinistra bianca che ci risparmiamo di commentare. 

  22. https://peoplesdispatch.org/2023/11/06/300000-march-in-washington-dc-for-palestine/  

  23. https://www.leparoleelecose.it/?p=15641  

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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

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Il nuovo disordine mondiale / 13: Guerra e ipocrisia. Un’invettiva. https://www.carmillaonline.com/2022/05/02/il-nuovo-disordine-mondiale-13-guerra-e-ipocrisia-uninvettiva/ Mon, 02 May 2022 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71645 di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway) “Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal [...]]]> di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.

Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.

Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.

Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.

Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.

Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.

Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.

Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.

Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.

Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.

Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.

Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.

Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.

E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?

Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.

Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.

Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.

Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentalmente quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.

(13 – continua)


  1. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

  2. Si veda: Francesco Borgonovo, Intervista a Toni Capuozzo – «La propaganda non è da una parte sola: il dubbio è un dovere», «La Verità», 28 aprile 2022, p.9  

  3. Si veda, a solo titolo di esempio: La guerra mondiale del cibo. Gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili, «Scenari» n°5, a29 aprile 2022  

  4. Ancora su «Scenari» n°5: Roberto Pretolani, La tecnologia alimentare può salvarci dalle crisi; Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni, Il matrimonio fra genetica e tradizione contadina.  

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Doccia fredda https://www.carmillaonline.com/2018/08/21/doccia-fredda-per-il-perbenismo-democratico-e-di-sinistra/ Tue, 21 Aug 2018 20:30:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47822 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine francese Aimé Césaire può servire, fin da subito, a dare la cifra esatta del ragionamento condotto da Houria Bouteldja sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati, tra bianchi e popoli “colorati”, tra civiltà europea e culture altre. Una autentica doccia fredda, soprattutto per il perbenismo democratico e preteso di “sinistra”, nella soffocante calura di agosto. Ma non soltanto.

Houria Bouteldja è nata in Algeria nel gennaio del 1973, figlia di immigrati algerini in Francia. Figlia di proletari, è la portavoce del Partito degli Indigeni della Repubblica (PIR) ed è una militante anticolonialista che si batte sia per la ridefinizione dei rapporti politici, storici e culturali tra l’Occidente e i paesi e i popoli colonizzati che per quella della condizione delle donne e soprattutto di quelle “indigene” nelle metropoli occidentali. Il suo lavoro di ricerca e la sua verve polemica, in particolare contro l’islamofobia, hanno suscitato numerose controversie che hanno spinto i suoi avversari, spesso provenienti dalle fila della “sinistra” come il quotidiano francese «Liberation», ad accusarla di antisemitismo, omofobia, sessismo, razzismo e comunitarismo.

L’opera, tradotta in italiano da Maria Rita Prette e accompagnata nell’attuale edizione da una preziosa Prefazione della traduttrice e da una Postfazione di Marilina Rachel Veca, è stata pubblicata per la prima volta in Francia nel 2016 dalle edizioni La fabrique (le stesse che hanno pubblicato le opere del Comitato invisibile) e successivamente tradotta in varie altre lingue. Era stata preceduta, nel 2012, da un testo, scritto insieme a Sadri Khiari, intitolato Nous sommes les indigenes de la République, citato più volte nelle pagine del libro.

In realtà il testo attuale costituisce una folgorante, lucida e potentissima intuizione sul cammino della Rivoluzione a venire: una Rivoluzione in cui non si tratterà soltanto di rovesciare un ordine socio-economico e un modo di produzione. Si tratterà, piuttosto, di scardinare l’intero sistema di valori, l’immaginario e la cultura che ne costituiscono i fondamenti ultimi. Non soltanto per le classi dirigenti, ma anche e subdolamente per il proletariato bianco e per gli immigrati e i popoli oppressi.

Un modello culturale che ha fatto della modernità e dei suoi vizi pericolosi l’unico modello di sviluppo sociale. Un sistema di valori religiosi, etici e politici che ha fatto dell’Uomo bianco il centro di un universo cartesiano in cui il motto «Penso dunque sono» nasconde in realtà «Penso come un individuo bianco e quindi sono», contribuendo così a de-umanizzare tutte quelle forme di socializzazione, di conoscenza, di religione e di solidarismo comunitario che caratterizzavano e caratterizzano le culture altre.

Un sistema in cui, come già affermava Jean Genet, occorre uccidere il Bianco che è in Noi. Sia come Bianchi/e che come appartenenti ad altre etnie attirate nel girone dell’Inferno capitalistico occidentale. Sia come semplici appartenenti alla specie umana che come proletari, donne, omosessuali. Ed ebrei, perché, nonostante le stimmate imposte dallo Stato sionista agli appartenenti all’ebraismo, essi hanno già provato più volte nel corso della Storia, e soprattutto nel corso del Novecento, cosa significhi davvero la persecuzione e, allo stesso tempo, il fallimento di ogni integrazione formale, basata sui principi della “grande” rivoluzione francese.
Integrazione che comunque, guarda caso, chiede sempre per prima cosa agli “integrabili” di rinunciare alla propria identità politica e culturale per abbracciare totalmente gli ideali e la cultura dell’Uomo bianco, cristiano, illuminato e moderno.

Un libro che guida il lettore attraverso i labirinti di una presunta modernità, basata principalmente sullo sfruttamento occidentale di altri popoli e di altri continenti; in cui una data, il 1492, può essere ben più significativa, come inizio dello sterminio e dello sfruttamento dei popoli indigeni, di quell’altra, il 1789, con i suoi ideali di eguaglianza, fraternità e libertà presunti universali, ma in realtà riservati ai bianchi, occidentali, europei e nordamericani, anche se più per alcuni che per altri.

Un proletariato bianco, ad esempio, che ha dovuto conquistarsi duramente alcuni diritti che ha creduto essere definitivi, ma che, nella crisi economica e politica dell’Occidente attuale, li ha visti sbiadire nuovamente, se non addirittura scomparire del tutto dal suo orizzonte di vita. E che, proprio per questo motivo, una volta privato, in cambio di quei diritti, di una propria autonomia di classe politica e culturale, si ritrova a rivendicarli sulla pelle degli altri, i non bianchi presenti nella società.

“La dissoluzione della nostra identità ne testimonia. Fino a un po’ di tempo fa sapevamo definire un africano, un algerino, un mussulmano. Il nostro sapere era deciso. Oggi, tutto si confonde […] Che vuol dire «algerino» dopo una guerra civile che ha fatto più di duecentomila morti? Che vuol dire «mussulmano» quando la Mecca è sotto la tutela dei sauditi e l’Islam è minacciato di macdonaldizzazione? Che vuol dire francese quando il popolo è spossessato della sua sovranità a profitto del potere finanziario? Che vuol dire europeo quando i popoli d’Europa non hanno mosso un dito per salvare la Grecia?”1

Una perdita di identità che coinvolge ormai la stragrande maggioranza degli abitanti degli stati occidentali, ma che non può essere certo risolta da un ritorno al nazionalismo e alla sua difesa intransigente. Non saranno i modelli imitativi, come quelli abbracciati dai giovani che si arruolano nelle file di Daesh, in nome di una civiltà scomparsa di cui non sono nemmeno gli eredi, a far superare agli oppressi di ogni genere e colore della pelle l’attuale situazione di malessere economico, psichico e sociale.

No, Houria ci invita a liberarci del peso della bianchità, della sua concezione falsamente razionale del mondo e della convinzione di essere individualmente superiori agli altri e all’ambiente che ci circonda. Ci chiede di tornare alla Natura, di sapere amare come Malcom X chi ci ama e allo stesso tempo a non odiare per partito preso.
Un appello buonista? Tutt’altro, un appello al superamento del presente, che non può essere eterno come i suoi difensori vorrebbero, per costruire identità collettive e sociali nuove, oltre le divisioni di classe, genere, colore, religiose e culturali che ci sono state imposte come modello “unico”. Un invito a combattere con ogni energia fisica ed intellettuale per l’affermazione di ciò che l’autrice definisce un autentico “amore rivoluzionario” che non venga dal cuore, ma dalla comune unità di intenti.

“Ciò che mi piace di Genet è che […] non vi è alcuna traccia di filantropia in lui. Né in favore degle ebrei, né delle Pantere Nere o dei palestinesi. Ma una collera sorda contro l’ingiustizia che è stata loro fatta dalla sua propria razza […] La posizione di Genet cade come una mannaia sulla testa dell’uomo bianco […] Ciò che mi piace anche di Genet è che egli non prova alcun sentimento ossequioso nei nostri confronti. […] Egli sa che tutti gli indigeni che si ergono contro l’uomo bianco gli offrono, simultaneamente, l’occasione di salvarsi. Egli intuisce che dietro la resistenza radicale di Malcom X c’è la sua propria salvezza”.2

Un NOI che non definisce più una comunità etnica, nazionale o partitica, ma un’umanità dolente ed oppressa che deve sapersi liberare a partire dai demoni che abitano il suo immaginario, per ignoranza o per sopruso. Un nuovo internazionalismo che non ha bisogno di appartenenze partitiche per esprimersi, ma dello slancio immediato verso il rifiuto dell’esistente e dei suoi fantasmi. Psichici, politici e culturali.

“Io parlo a due categorie tra voi; prima di tutto ai proletari, i disoccupati, i contadini, i declassati che progressivamente rinunciano alla politica o scivolano inesorabilmente dal comunismo verso l’estrema destra, le minoranze regionali schiacciate per qualche secolo dal centralismo forsennato e l’insieme degli emarginati, che ci amiate o no. In una parola, i sacrificati dall’Europa dei mercati e dello Stato, sempre meno provvidenziale e sempre più cinica.
Poi, ai rivoluzionari che hanno coscienza della barbarie in arrivo”.3

Un testo fondamentale con cui, coraggiosamente e senza pregiudizi, occorrerà saper fare i conti. Che si pone molto al di là e al di sopra delle attuali querelle da filantropi, preti e catto-comunisti sulle migrazioni, il razzismo e le loro conseguenze nel presente e per il futuro. Oltre il femminismo liberale delle donne in carriera e libere di essere sessualmente sfruttate attraverso un’immagine deviata del corpo femminile e del suo utilizzo nell’immaginario collettivo. Al di là di un universalismo dei diritti che confonde coscientemente il sionismo con l’ebraismo e l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, dimenticando e cancellando la lezione del Bund.

E che ancora ci ricorda costantemente la lezione del Black Panther Party e dei nativi americani, la loro testimonianza e le loro innegabili certezze. Così come quella di tutti gli altri movimenti di resistenza contro l’imperialismo e il colonialismo. Di cui oggi occorre, allo stesso tempo, far tesoro e superarne gli elementi di bianchità in essi ancora contenuti.


  1. Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, pp. 109-110  

  2. H. Bouteldja, op.cit., pp19-20  

  3. H. Bouteldja, op.cit., pag. 37  

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