Silvio Trentin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ritratto di Giacomo Matteotti in piedi https://www.carmillaonline.com/2024/05/01/ritratto-di-giacomo-matteotti-in-piedi/ Tue, 30 Apr 2024 22:05:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82276 di Luca Baiada

Stefano Caretti e Maurizio Degl’Innocenti (a cura di / edited by), Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini / Portrait by Images, Pisa University Press, Pisa 2023, pp. 188, euro 30.

 

Quattrocento immagini e alcuni commenti, in un volume frutto di ricerche in Italia e all’estero. Molto viene dall’archivio Matteotti, alla Fondazione Filippo Turati di Firenze. La mostra itinerante Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini contiene quasi tutto il materiale nel volume, più altre fotografie, oggetti, un filmato e un audio di Turati. Chi perde la mostra può rifarsi col libro, ma non vive l’immersione nelle grandi foto e il [...]]]> di Luca Baiada

Stefano Caretti e Maurizio Degl’Innocenti (a cura di / edited by), Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini / Portrait by Images, Pisa University Press, Pisa 2023, pp. 188, euro 30.

 

Quattrocento immagini e alcuni commenti, in un volume frutto di ricerche in Italia e all’estero. Molto viene dall’archivio Matteotti, alla Fondazione Filippo Turati di Firenze. La mostra itinerante Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini contiene quasi tutto il materiale nel volume, più altre fotografie, oggetti, un filmato e un audio di Turati. Chi perde la mostra può rifarsi col libro, ma non vive l’immersione nelle grandi foto e il senso di profondità.

Toccanti, nella mostra, foto e girati coevi. Dopo il ritrovamento fuori Roma, la salma va in vagone merci da Monterotondo al Polesine e il governo cerca di impedire la presenza del popolo. I lavoratori in ginocchio, le donne col fazzolettone, gli uomini col cappello in mano hanno una forza straordinaria; sembrano presagire qualcosa, come animali che hanno fiutato il mattatoio, ma nei volti si legge l’oscura esigenza di una rivincita.

Le immagini nel volume accostano vita privata e pubblica. Più che di vita privata, però, su Matteotti dobbiamo dire vita affettiva, perché dagli scritti e dai fatti emerge un uomo che non si risparmia, che non distingue tra il suo vissuto e ciò che fa per gli altri. Il legame con la moglie, Velia Titta, è intellettuale e morale; insieme, certe lettere hanno una carica erotica travolgente, con pochi paragoni nel Novecento. Un’immagine di Velia, incantevole: ha gli occhi chiusi, sorride maliziosa sotto un largo cappello, l’abito è lungo ma il vento modella il corpo. Dietro, i ferri di un cancello rigano il futuro: vedovanza, persecuzioni per lei e per i figli, fine precoce. Ma qui, a vincere è l’amore.

Anche il legame col partito e coi lavoratori ha una convinzione sentimentale, senza astrazioni. In questa raccolta si legge:

La rilettura attraverso le immagini presenta non poche difficoltà, a cominciare dal rischio di riproporre una visione stereotipata fissata sul martirologio o addirittura sull’aristocratico isolamento del personaggio. A tal fine abbiamo voluto dare rilievo, oltre ai rigorosi studi di diritto penale, anche e soprattutto agli affetti familiari, agli interessi e alle attività nel tempo libero tanto di natura letteraria, artistica e teatrale, quanto sportiva.

Scopo raggiunto, tutto sommato, anche considerando che i curatori riferiscono la scarsità di materiale fotografico sull’impegno nelle leghe, nelle cooperative e negli enti locali. Si è rimediato con manifesti e altro: l’insieme funziona, anche se mette in ombra alcune cose. Per esempio il talento contabile, che nelle verifiche dei documenti preoccupava anche le amministrazioni di sinistra. Il socialista aveva funzioni in municipi diversi e tallonava tutti. Attualizzando: sarebbero bastate poche decine di Matteotti nei posti giusti, negli anni Settanta e Ottanta, a tagliare le unghie a Craxi e alla sua cricca, senza dover aspettare Mani pulite. I giuristi seri è bene ascoltarli prima che averne bisogno dopo, nelle aule giudiziarie, quando i demagoghi ne approfittano.

La contrarietà alla Grande guerra è anch’essa per immagini: foto e manifesti. Matteotti, esentato dal servizio, fu richiamato lo stesso. Si illusero, di fermarlo: in zona di guerra faceva politica. Trasferito in Sicilia (più retrovia di così…), alfabetizzava soldati e bambini. L’intuizione del politico, che era anche giurista ed economista, fu svelta: la guerra avrebbe spostato la ricchezza verso gli abbienti, contro le sudate conquiste del movimento socialista; poi avrebbe favorito le destre armate, e le dure condizioni imposte alla Germania avrebbero contribuito a nuovi conflitti. La consapevolezza che guerra chiama guerra smentiva il mito ingannevole: l’«ultima guerra», lo scontro per la giustizia sociale, la fine del militarismo, la pace perpetua. Matteotti:

[L’internazionale socialista dovrà] tentare o favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, eviti o faccia cessare le opposte violenze e minacce. Dovrà favorire il formarsi di una vera Lega delle Nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali[1].

Tra le fotografie c’è la copertina di Un anno di dominazione fascista, preparato nel 1923 e pubblicato nel 1924, poco prima della morte. In questo volume il prezioso libro non è valorizzato. Peccato.

Un anno di dominazione fascista spazia dal lavoro alla burocrazia, dalla giustizia al sistema tributario, dall’abuso dei decreti-legge alle autonomie locali, dalle forze armate alla contabilità dello Stato, dai lavori pubblici alla scuola, sempre con rilievi circostanziati. L’autore è preparatissimo, convincente. Denuncia anche il rischio di «una riforma costituzionale sul tipo del cancellierato prussiano», e oggi, con gli attacchi alla Carta costituzionale e con la devastante voglia di padrone, quel testo è doveroso.

Attenzione. Nell’edizione originale del 1924 le denunce delle malefatte fasciste (in campo legale, amministrativo, fiscale, militare, contabile eccetera) erano stampate prima, seguite dall’elenco delle azioni squadristiche; per lo più, nelle riedizioni l’ordine è stato ribaltato. Errore, forse inconsapevole complicità, infine conformismo. Ancora adesso l’assassinio, preceduto di qualche mese dalla pubblicazione di Un anno di dominazione fascista, e solo di giorni dal famoso discorso alla Camera, è troppo schiacciato sulla denuncia delle violenze, come se non fossero state già evidenti. Il fatto che i fascisti siano ladri, falsari, corrotti, sfruttatori, eversori, pessimi amministratori scivola in secondo piano. Quel libro del 1924 documenta la realtà così bene che Roberto Farinacci, difendendo uno dei sicari, lo mette fra le colpe di Matteotti, ricorda solo le denunce dei fatti di sangue e invoca per l’assassino l’attenuante della provocazione:

Pubblicò un opuscolo dove aveva elencato le più spudorate menzogne, per far sapere all’estero che il primo anno del governo fascista fu un anno di terrore e distruzione. Questo opuscolo venne tradotto e diffuso con un manifesto in cui il fascismo era rappresentato in un pugno che stringe un pugnale grondante di sangue[2].

Va aggiunto che Matteotti stava lavorando a un approfondimento specifico su affari indicibili, ad alto livello, legati al petrolio, con implicazioni all’estero e con lucro di Mussolini o suoi familiari[3]. Purtroppo Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini non si distanzia dalla versione tralatizia. Il movente per eliminare il coraggioso socialista è stretto in queste parole: «Il 30 maggio 1924, nel celebre discorso alla Camera dei deputati, Matteotti denunciava i brogli e il clima intimidatorio che avevano contraddistinto la consultazione elettorale». Il rapporto col libro del 1924 è tutto qui: «Quando venne ucciso stava attendendo alla stesura della seconda edizione aggiornata, intitolata Un anno e mezzo di dominazione fascista».

Anche un libro per immagini ha i suoi doveri. Le serie causali, in ogni vicenda, sono il punto critico in cui si inseriscono sviamenti e distrazioni: nel delitto Matteotti il nesso fra da un lato denuncia di brogli elettorali e violenze, dall’altro assassinio, è una spiegazione limitata: bisogna inquadrare meglio l’accaduto e farne tesoro. Per combattere i nemici della democrazia bisogna coglierli nelle loro ruberie, nelle rapine contabili e salariali e finanziarie e previdenziali, ai danni dei lavoratori e dei piccoli risparmiatori, come nei loro compromessi spregiudicati. Oggi Matteotti non denuncerebbe smorfie e smanie di chi è al potere; troverebbe e spiegherebbe, per esempio, sia le prove dell’accordo fra la Lega e il partito di Putin, sia quelle della sudditanza alle peggiori scelte della Nato, nel governo e nell’opposizione. Proporrebbe, come dopo il 1918, una giustizia internazionale basata sugli interessi dei lavoratori, cioè una pace costruita sull’equa distribuzione delle risorse, che all’epoca era espressa dalla regolamentazione dei debiti e dei crediti, e che oggi vuole anche attenzione all’ambiente.

L’iconografia personale è varia. Una posa sportiva lo mostra composto ma civettuolo; è su una montagna innevata ma potrebbe essere in salotto o nella pausa di una riunione di lavoro. Nell’istantanea giovanile, in giardino, il ragazzone vuole già dirci la sua su molte cose, ma la convinzione deve trovare i mezzi per venir fuori, e Giacomo non sa dove mettere le mani. Voleva tanto mettersele in tasca, sta per stropicciarsele o per stuzzicarsi le unghie: in questo periodo si sta formando il giurista; la giacca ha qualcosa di sformato, mostra un alone di fatica: è una patina piegaticcia inconfondibile, quella che solo la frequenza di lezioni e biblioteche stinge su un divoratore di libri.

Esiste una fotografia con una consistenza fuori dal tempo, riprodotta su biglietti e manifestini dopo il delitto. È presente anche su un cartoncino indirizzato alla vedova, riportato nel volume. La foto parla di lui e dei compagni che la vollero come icona memoriale. L’uomo sembra intravedere il suo destino e guardare oltre, lontano, dietro chi lo osserva; non so se proprio per questo la fotografia sia stata scelta, dopo, o se invece la scelta abbia impresso sull’immagine un suggello. Leonardo Sciascia nota la particolarità di quel viso, in un altro biglietto, e lo guarda dallo slittamento della narrazione a una vicenda del 1937:

Era un’immagine che, tredici anni prima, giornali, manifesti e cartoline avevano come inchiodato nella memoria degli italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che avevano sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o forse con quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine da vivo la tragica morte[4].

Il dubbio ci dice che i protagonisti dello scatto siamo noi, noi che guardiamo, perché solo noi possiamo porci questa domanda. L’immagine è insieme un ritratto d’autore, un testamento, il rovescio di una foto segnaletica e un atto di accusa.

Preso in un esterno, il politico è consapevole del suo ruolo. Sta riflettendo su un programma, un’iniziativa, e la busta che porta con sé ribadisce la sua attenzione ai dati, alle prove. Non potranno coglierlo impreparato. Stringe le labbra, sa che c’è da gridare e che bisogna farlo al momento giusto. Non farà sconti a nessuno, non si risparmierà, sa bene cosa deve dire e come deve farlo. È talmente forte, determinante nella storia del paese, che qui ha finito per occupare tutto il campo: si intuisce che l’immagine viene da una foto più ampia, che non riesco a individuare. Il ritaglio è anch’esso un fatto espressivo.

Diverso il dipinto di Maria Vinca, delicato ma fuorviante: Matteotti prende un che di fanciullesco e quasi di distratto. L’opera è stata realizzata dopo l’assassinio, e l’insieme, appena velato di garbo e di distanza, coglie solo una parte della personalità del socialista, perché a prendere il sopravvento è un affetto elegante, sincero ma con alcune venature di raccolto intimismo.

Dopo quel ritratto, nel libro, Matteotti sparisce; si ripresenta più in là, trasfigurato. Qui è un eroe, l’aspetto è nobile e triste, lo sguardo è più quello di una vittima che quello di un combattente; i rami intorno sono d’olivo e di spine: pace e martirio.

Nell’ambito della mostra allestita a Pisa, al Museo della grafica, Palazzo Lanfranchi, a marzo c’è stato un incontro su Matteotti giurista, con accademici di alto profilo. L’attenzione alle sue qualità dottrinarie, però, ha trascurato la necessità di smascherare la gentaglia leguleia che avvelenò quegli anni, con conseguenze che si pagano ancora. Qui non colmo la lacuna ma segnalo qualcosa.

Anzitutto viene in aiuto Silvio Trentin, giurista d’eccezione: ha davanti una carriera accademica, ha famiglia, ma nel 1926 si dimette e va in Francia a fare il contadino e il manovale. Trentin è un eretico: rivoluzionario fra i liberali, uomo di legge fra i ribelli. Nel suo La crise du droit et de l’État, del 1935 ma pubblicato in Italia solo nel 2006, condanna i giuristi che chiama «adoratori dei testi»:

Si tratta di interpreti con i paraocchi, il cui campo visuale non oltrepassa mai i limiti arbitrari stabiliti dall’onnipotenza del legislatore di fatto; dei tecnici al servizio dell’ordine contingente che aborriscono l’idea stessa di un vuoto di legalità; degli specialisti fatti e finiti che rifiutano a priori al loro mestiere ogni autonomia anche virtuale, e che si preoccupano solo di non evadere dallo stretto recinto di un codice o di una formula giacché non compete loro discutere il fatto legislativo sottoposto alla loro analisi[5].

Trentin se la prende con un monumento, Santi Romano, e col suo L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e il carattere del diritto, del 1918:

[Sono] aberrazioni alle quali un giurista può essere portato quando, disdegnando ogni controllo della realtà e collocandosi da un punto di vista puramente logico, pretende di spiegare il diritto come un susseguirsi incatenato di deduzioni necessarie. […] È difficile, credo, trovare nella letteratura giuridica un esempio più significativo, più eclatante, di cecità, di partito preso «positivista»[6].

Poi cita un altro barone accademico, il fascista Giorgio Del Vecchio, e conclude il capitolo: «Non esiste prigione in cui si possa rinchiudere lo spirito; non esistono potenza o patibolo che possano giustiziarlo»[7]. Trentin, però, non immagina finestre d’ingiustizia che possano schiudersi sui corpi: da una finestra dell’Università di Roma, facoltà di giurisprudenza, istituto di filosofia del diritto, fondato da Del Vecchio e con una biblioteca intitolata a lui, nel 1997 parte il colpo che uccide Marta Russo, e i due che saranno condannati sono in carriera universitaria, anche come giuristi. Dopo quel crimine, la parte peggiore del mondo giuridico dimentica la giustizia e reagisce al sangue con un groviglio di dottrina cervellotica, coscienza azzerata e cameratismo sottinteso. Proprio il veleno che Matteotti, Trentin e i migliori giuristi del Novecento hanno combattuto.

È un concentrato tossico Alfredo Rocco, presidente della Camera nell’ultima seduta con Matteotti, quella famosa; il socialista viene interrotto e minacciato, ma il servo di Mussolini non si vergogna di suggerirgli i suoi modi abituali, di invitarlo a inchinarsi:

Presidente. Onorevole Matteotti, se ella vuol parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente.

Matteotti. Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente![8].

Più carogna, Vincenzo Manzini. Scrive un saggio sulla recidiva nel 1899; poi Matteotti ne scrive un altro (La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, 1910) e Manzini è cortese come un manganello: «Matteotti si limita a ruminare le idee dello Stoppato [un accademico] in tutto ciò che non costituisce pedestre indagine statistica»[9]. Manzini scende ancora più in basso, perché dopo il delitto scrive una prefazione al testo dell’arringa di Farinacci in difesa di uno degli assassini; vi si legge:

Queste stragi di disinteressati fautori di un’idea [si riferisce all’eliminazione di fascisti], in tempi di roventi lotte politiche, valevano bene l’uccisione d’un deputato, capo-partito, che della politica faceva professione esclusiva, ritraendone onori e vantaggi, e che da se stesso si era posto in condizione di vivere pericolosamente. Ma politica e malafede sono spesso la medesima cosa, e questo spiega il perché della frenetica speculazione sulla morte del Matteotti; morte che si volle considerare, non quale un incerto del mestiere di demagogo, ma addirittura come un attentato contro il popolo[10].

Così sono i giuristi peggiori: in vendita, o schematici, o pietrificati. Matteotti li ha già individuati da vivo e si è posto il problema in linea generale, risalendo la corrente in cerca della fonte torbida: chi è il giurista? come si forma? Domande che ancora adesso non hanno risposte convincenti. Lui va al cuore del problema, preoccupandosi della quantità, quando chiama i laureati in legge «esuberante sfornata annua di giurisperiti»[11], e soprattutto guardando alla qualità:

Quella enorme fabbrica di spostati, che è attualmente la facoltà di legge […], moltiplicata per tutta Italia in modo uniforme, fabbrica così i magistrati, come gli avvocati, come tutti gli impiegati statali, con una cultura che è tutta posticcia, formalistica, proceduristica, anziché cultura di amministrazione, di economia, di geografia, di tutto quello che occorre oggi nelle grandi amministrazioni pubbliche[12].

Per sentire come si lavora per la società, guardando alla sostanza e unendo diritto, contabilità e amministrazione, ecco lui, alla Camera nel 1921:

Alla fine della guerra, quando tutta l’economia nazionale era sconvolta, e quando le entrate non coprivano più le spese, alle vostre amministrazioni moribonde [borghesi e regie] deste la facoltà di far debiti, cosicché tutto il peso ricadde sulle nuove elette. Or devono le amministrazioni socialiste provvedere a codesto sbilancio? E provvedono con tasse sui signori. Ma costoro preferiscono di armare il fascismo, poiché pagare non vogliono![13].

È chiaro. Il fascismo ha una sua coerenza: al padronato conviene pagare gli squadristi per non pagare le tasse. Da ricordare, adesso, se chi è al governo le paragona al pizzo.

Tornando al volume, le vignette sono imperdibili. Per esempio, Mussolini cerca carponi il colpevole e lo trova in uno specchio; oppure, lo spettro di Matteotti, sereno col pugnale nel petto, turba il sonno del dittatore. È riprodotto anche un murale di Diego Rivera; vi si riconosce il socialista in un addensamento che ha l’incalzare di George Grosz.

L’ironia più sferzante denuncia l’ingiustizia, il rovesciamento dei fatti e l’impunità, conseguenze della dittatura, delle manovre mussoliniane e del processo, addomesticato e celebrato lontano, a Chieti. La vignetta ci riporta ai giuristi e l’immagine è accompagnata da queste parole:

Presidente: Giacomo Matteotti?

Matteotti: Presente!

Presidente: Siete accusato di avere col vostro contegno convertita una beffa in una tragedia e di esservi nascosto, dopo il delitto, nella macchia della Quartarella causando grave pericolo al regime.

L’orrore espressionista inchioda i servi togati del potere alle loro responsabilità. Quanto al comportamento dei giuristi nel processo sul delitto Matteotti, comprese ipocrisie e vigliaccherie dei magistrati – ma qualcuno tenne la schiena dritta – , è stato approfondito dalle migliori ricerche[14].

Per spigolare nella formazione del socialista, la raccolta contiene dati sulle letture, e viene voglia di ripercorrerle. Ecco L’impero della morte di Vladimir Korolenko, La débâcle di Émile Zola e le opere di Romain Rolland, compreso il Jean Christophe caro agli antifascisti anche durante la Seconda guerra mondiale[15]. Poi il De rerum natura, e ancora le poesie di Shelley. Sulle letture esistono anche altre fonti, come l’intervento di Matteotti, a sue spese, per la biblioteca popolare di Fratta Polesine[16]. È un uomo profondo, con radici nella classicità e nella modernità. Non sappiamo come si crea una persona così, e le biblioteche non bastano a insegnarcelo. Sappiamo che Matteotti ci manca, e tanto.

 

 

[1] Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli, Roma 2023, pp. 119-120, che cita Giacomo Matteotti, Direttive del Partito socialista unitario, in «La Giustizia», 1923, in Giacomo Matteotti, Sul riformismo, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1992, pp. 362-79.

[2] Roberto Farinacci, Il processo Matteotti alle Assise di Chieti, Società Editoriale Cremona Nuova, stab. tipografico, 1926, p. 22.

[3] Fa riferimento al petrolio il memoriale di uno dei sicari, Amerigo Dumini, del 7 gennaio 1933, in Paolo Paoletti, Il memoriale Dumini, «Il Ponte», XLII n. 2 (marzo-aprile 1986), pp. 76-93.

[4] Leonardo Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano 2009, pp. 14-15.

[5] Silvio Trentin, La crisi del diritto e dello Stato (tit. orig. La crise du droit et de l’État, L’Eglantine, Paris-Bruxelles 1935), Gangemi editore, Roma 2006, p. 59.

[6] Ivi, p. 6 e pp. 286-287.

[7] Ivi, p. 290.

[8] Giacomo Matteotti, Contro il fascismo, Garzanti, Milano 2019, p. 44.

[9] Giacomo Matteotti, Scritti giuridici, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 2003, p. 11, nota 17, che cita Vincenzo Manzini, in «La Giustizia Penale» XVI, 1910, pp. 1343-1344.

[10] Vincenzo Manzini, prefazione a Farinacci, Il processo Matteotti alle Assise di Chieti, cit., p. IV.

[11] Giacomo Matteotti, Sulla scuola, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1990, pp. 126-127, che cita Giacomo Matteotti, Spunti universitarii, paragrafo Troppi avvocati, in «Critica Sociale», XXIX, n. 11, 1-15 giugno 1919.

[12] Matteotti, Sulla scuola, cit., pp. 214-217, che cita un ordine del giorno, Camera dei deputati, XXVI legislatura, 1ª sessione, discussioni, 1ª tornata del 14 giugno 1922. L’ordine del giorno è approvato, ma in seguito il governo fascista istituisce altre università; Matteotti lo denuncia in Un anno di dominazione fascista.

[13] Intervento del 31 gennaio 1921, in Matteotti, Contro il fascismo, cit., p. 25.

[14] Per esempio, Costantino De Robbio, A margine del processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime, in «www.giustiziainsieme.it», 6 aprile 2024.

[15] La lettera del cecoslovacco Kurt Beer, che pensa al Jean Christophe di Romain Rolland, è in Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, con prefazione di Thomas Mann, Einaudi, Torino 2017, p. 166.

[16] Matteotti, Sulla scuola, cit., p. 24, nota 25, che indica fra gli altri Flaubert, Daudet, Zola, Bourget, Ibsen, Turgheniev, Pirandello, Serra, De Amicis, Beltramelli, Oietti.

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Fresco come la rabbia, è amore alla Gkn https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/fresco-come-la-rabbia-e-amore-alla-gkn/ Sun, 18 Feb 2024 23:05:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81241 di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna [...]]]> di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna ha in eredità dalla madre un cassettone forato da una pallottola indiana, e in un momento forte della storia bacia il foro. La Valle della luna e Il tallone di ferro erano fra le letture della Resistenza, ma adesso sono fuori moda; e pensare che in un racconto di Vasco Pratolini, fra partigiani che parlano di libri, uno fa: «Il tallone di ferro è la Divina Commedia, e che scherziamo?».

Pane, vino e zucchero, in questo libro: il ricordo dei sapori, degli odori. La vita contadina prima dell’industrializzazione. Pane, vino e zucchero è una madeleine dei poveri, come l’odore delle stanze abbandonate, dei fazzoletti piegati nei cassetti, delle lenzuola. Ai partiti della sinistra novecentesca, però, non piaceva l’introspezione. Realismo, ci vuole. Che poi, è un modo per dire che l’anima ce l’hanno solo i padroni e che i proletari hanno i muscoli. Al padrone piace, questo proletario senza l’anima. Ma solo coi muscoli, si progetta poco.

Una delle cose più forti, nell’esperienza della Gkn, è il programma di reindustrializzazione dal basso. Agata se ne accorge. Viene dal mondo contadino, dal campo, però è figlia di operaio e fa l’impiegata; Agata capisce che la salvezza della Gkn è nella modernità. La tecnologia non si ferma, l’idea di piccole patrie arcaiche è assurda e se fosse vera sarebbe autarchia e fascismo. Agata si apre alla vita dopo le manifestazioni, gli scioperi, la vertenza in tribunale, e soprattutto con la fase dei contatti allargati, della socialità diffusa: giuristi, ingegneri, economisti, e poi associazioni e studenti. Un mondo ha pugnalato la Gkn; quindi gli operai, la cittadinanza, il lavoro intellettuale vogliono cambiare quel mondo. Lei si tuffa nella lotta e s’innamora: «Un altro mondo possibile. Non uno slogan utopico, ma realtà cruda, fatta di pelle, sudore, sangue, nervi, orgoglio, storia, visione». E intelligenza, perché stare dalla parte del popolo vuol dire organizzazione.

Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto. Come in amore. Quello di Agata e Lorenzo è alla Gkn. Lorenzo viene dal Sud ed è andato al Nord. La fabbrica dei sogni non lo dice subito, ma quel Nord è Firenze, perché c’è sempre un altro Nord sopra un Sud, e oggi si dice Nord globale e Sud globale, aree senza più neanche confini fisici. E qui ci sono altre prospettive: incrociate, sovrapposte, cioè reali e irrisolte. A Firenze, prima della Gkn, Lorenzo lavora in una fabbrica di borse, nella stanza delle donne. Si accorge che il padrone mette le mani addosso alle operaie, ma anche che la moglie fa finta di niente perché la ditta rende e il marito la porta in vacanza. È un’altra violenza, di genere, ma resta classista.

Sul rapporto fra economia e ambiente la battaglia della Gkn vuole spezzare i pregiudizi. Per questo, dopo una manifestazione Agata sente un vento «fresco come la rabbia giovane, forte come la lotta operaia». La devastazione del territorio va insieme alla distruzione del lavoro, ma dopo che l’individualismo portato dall’ordine borghese ha tolto ai lavoratori i punti di riferimento, li ha resi soli anche nel privato. Adesso sappiamo, però, che per la difesa dell’ambiente c’è chi si ribella. Li accusano di colpire i beni culturali, ma invece colpiscono le loro immagini: gettano colori innocui o sudiciume, ma non sulle opere d’arte, sui vetri che le proteggono. Un mese fa, per esempio, al Louvre hanno versato zuppa sul vetro della Gioconda, e subito il personale di sorveglianza ha isolato tutta l’area con pannelli scuri: l’importante è nascondere, abbuiare l’immagine. Una curiosa simmetria. Colpiscono l’immagine, non i beni. Gli speculatori, invece, svuotano i beni per appropriarsi del valore d’immagine, per mettere le mani su apparenze o rendite di posizione. Così uno stabilimento può diventare sede di tutt’altro, essere stravolto da una ristrutturazione, mutare in location.

L’immagine, certo, ma come? Il libro non si rifiuta di guardare, anzi. Ha una presa quasi cinematografica e si potrebbe farne un girato, magari con un montaggio sincopato, espressionista. La finestra apre sui campi, si vedono cose a occhi chiusi, dalla fabbrica si vedono il centro commerciale, il cinema eccetera. Agata e Lorenzo quando si incrociano si vedono e non si vedono, ma è lui che la accompagna a guardare dentro la fabbrica; gli sguardi dicono i desideri e li nascondono. È lui, a guardare Firenze dalla torre di San Niccolò, coi compagni lassù. Ed è lei, guardandosi nelle vetrate della Gkn, a vedersi bella perché ha fatto l’impensabile: ha parlato in assemblea, che è proprio il momento in cui tutti ti guardano, e se hai qualche problema a esporti, c’è da morire. Come c’è da tremare, a rivolgersi a Lorenzo per parlargli. Guardare una città, guardarsi, guardare dritto chi si ama, essere guardati. Col rovescio oscuro: la città vetrina, Firenze turistificio, la donna oggetto, la donna guardata male o ignorata se non corrisponde al canone estetico.

E sotto lo sguardo? Sotto c’è la pancia. A Lorenzo, quando lavora in mezzo alle donne, arrivano in pancia le risate delle ragazze. Agata crede di avere troppa pancia. Lorenzo da bambino ha preso un pugno in pancia, da grande il licenziamento è un colpo alla pancia. Qualcosa di profondamente fisico. Fa pensare al nesso evidente fra comportamento alimentare e rapporti sociali: l’oppressione produce alienazione e frustrazione direttamente sui corpi. Forse anche quel detto attribuito a Maria Antonietta – il popolo non ha pane, che mangi brioche – , vero o falso, ha sottotesti da decifrare, a proposito di carnalità nelle relazioni di potere. In Toscana si dice «corpo pieno non crede al digiuno». Insomma, la questione del cibo ci parla direttamente – alla pancia, direi – ed è una tappa obbligata della socialità. E Agata coglie presto una grossa vittoria, alla Gkn, proprio a tavola: riesce a mangiare davanti a lui, mentre di solito voleva mangiare sola.

La narrazione spariglia i capitoli con scritti in seconda persona e con «sogni». Non ci credo, però, che siano sogni. A meno che l’autrice scriva quando dorme; e non dico di più per non sciupare la lettura, che altrimenti non fa pro. Invece propongo una riflessione. Nel secondo Novecento c’erano intellettuali che si chiedevano fra loro: come giustifichi la tua latitanza dalla fabbrica? La domanda adesso ha senso soltanto se alla fabbrica si aggiungono l’allevamento intensivo, l’ufficio, il motorino dei fattorini schiavi dell’algoritmo eccetera. Però sarebbe troppo prevedibile chiedersi come si pone, chi fa narrativa, rispetto alla produzione: nel mondo iperconnesso siamo tutti latitanti e tutti troppo presenti.

La forma narrativa incuriosisce, si presta a implicazioni. La Gkn è una struttura produttiva e può svegliare gli appetiti degli speculatori, specialmente immobiliari. Si sente una somiglianza con gli usi predatori della cultura. Una certa narrativa in circolazione, in Italia, è fatta di scheletri di qualcosa, ossami di morto riconvertiti in centri commerciali, dove ognuno ha la sua vetrina, si mette in posa e dà in cambio l’anima. La fabbrica dei sogni fa il contrario: con una storia d’amore inseparabile dal lavoro, Agata l’anima se la riprende. In più è messa in chiaro una parte del lavoro di scrittura, come se si permettesse a chi legge di cercare qualcosa sul tavolo di chi scrive.

Per la Gkn ha importanza il rapporto con le persone del luogo, con la storia locale, col tessuto umano profondo. È un caso, che questa lotta sia in Toscana? Il dubbio è un terreno minato. Qualsiasi prodotto, basta scriverci sopra «Toscana» e vende di più. La Toscana è stata un perno della civiltà ma sta diventando tristemente un marchio caricaturale. La Toscana fu in prima fila nel fascismo e nell’antifascismo. Toscani furono Michele Della Maggiora, primo fucilato dal tribunale speciale fascista, ed eroi antifascisti assassinati dallo squadrismo, come Spartaco Lavagnini; ma anche il più fanatico dei fascisti giustiziati a Dongo, Alessandro Pavolini, fu toscano, come la sua amante Doris Duranti, diva del regime. Toscani furono il vescovo fascista di San Miniato, Ugo Giubbi, e il priore di Barbiana Lorenzo Milani, che in questo libro si affaccia, e sia benvenuto. Insomma, dico il territorio, che poi non vuol dire nulla; meglio, dico le persone, lo spiritaccio, come quello della nonna di Agata, che ride anche da morta.

Qualcosa mi riguarda. Per dare corpo a una produzione che sia al servizio della società ci vogliono anche i giuristi, e io sono un giurista. Ora, giuristi che si opposero al fascismo ce ne furono, con casi eroici come Giacomo Matteotti. Fra loro c’è Silvio Trentin: è talmente bravo che fa l’assistente universitario già prima della laurea; si sposa, ha davanti un carrierone e una vita comoda; arriva il fascismo: lui lascia la carriera e va all’estero con la giovane famiglia, a fare il contadino e il manovale. Lieto fine?

Cammina, cammina e càmmina… – come si dice fra i toschi – arriviamo al 1992: uno dei figli di Trentin, nato nell’esilio, che si chiama Bruno ed è giurista anche lui, firma gli «accordi di luglio», pietra miliare della disfatta del salario, cominciata molti anni prima. È la rivincita del capitale. Il babbo di Agata dà le dimissioni dalla Cgil e scrive proprio a Bruno Trentin: «Cancellare la scala mobile significa consegnarci di nuovo alla povertà, al ricatto dello stipendio che non basta mai, significa dover dire ai miei figli che tutto quello che ho insegnato loro non esiste più». Allora. Più la produzione è condizionata dalla tecnologia, più ci vogliono regole; ma vatti a fidare di chi quelle regole le scrive, le cambia, le applica, le invoca.

La Gkn ha bisogno dei giuristi, ma il punto resta: cos’hanno da dire gli scrittori a proposito del lavoro intellettuale applicato, quando chi lavora in fabbrica, negli uffici, nella logistica ha bisogno di contratti, organizzazione, garanzie. Il libro non è sui giuristi, ma nessuno è estraneo a questa storia. E poi, via: se la Repubblica è fondata sul lavoro, è sul lavoro che tutti devono misurarsi. A volte il confronto funziona proprio nelle realtà più vivaci ed esposte: a Roma, dieci anni fa, il Teatro Valle occupato è stato un laboratorio, oltre che di spettacolo e politica, anche di diritto, specialmente sui beni comuni. E anche lì si sono incrociate vite, esperienze. Che si fa?

Come si legge in questa storia d’amore e di molto altro, stavolta c’è di mezzo una fabbrica che «illumina la vita e crea speranza».

 

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Hackerare la verità, la giustizia, la storia https://www.carmillaonline.com/2024/01/02/hackerare-la-verita-la-giustizia-la-storia/ Mon, 01 Jan 2024 23:05:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80581 di Luca Baiada

 

Hacking Justice ripercorre la brutale aggressione contro Julian Assange e Wikileaks. L’arresto, l’asilo nell’ambasciata dell’Ecuador, infine la cattura e la detenzione, ancora in corso, col continuo rischio di consegna agli Stati uniti.

Realizzato dai registi Clara López Rubio e Juan Pancorbo, questo film necessario risente sia di una visione centrata sulla persecuzione giudiziaria, sia della presenza del giurista Baltasar Garzón. Anche se è uscito qualche anno fa, vale la pena tener presente Hacking Justice e farlo circolare di più, in Italia. Qui, per ora, ha avuto una diffusione limitata, grazie a intellettuali e militanti che organizzano proiezioni.

Tra [...]]]> di Luca Baiada

 

Hacking Justice ripercorre la brutale aggressione contro Julian Assange e Wikileaks. L’arresto, l’asilo nell’ambasciata dell’Ecuador, infine la cattura e la detenzione, ancora in corso, col continuo rischio di consegna agli Stati uniti.

Realizzato dai registi Clara López Rubio e Juan Pancorbo, questo film necessario risente sia di una visione centrata sulla persecuzione giudiziaria, sia della presenza del giurista Baltasar Garzón. Anche se è uscito qualche anno fa, vale la pena tener presente Hacking Justice e farlo circolare di più, in Italia. Qui, per ora, ha avuto una diffusione limitata, grazie a intellettuali e militanti che organizzano proiezioni.

Tra i punti di forza, un’adesione rigorosa ai fatti e l’utilizzo di girati di varia provenienza: video militari rivelati da Wikileaks, interviste, registrazioni delle telecamere di sorveglianza dentro l’ambasciata e filmati giornalistici davanti alla sede, in una strada londinese diventata un luogo effervescente, un ritrovo di attivisti e persone solidali. Con questa tecnica, di verità trasversale, l’occhio segreto e quello pubblico si alternano; lo sguardo dell’assassino, quello del secondino e quello di chi invoca giustizia contribuiscono alla documentazione.

I punti deboli sono comuni al grosso della produzione culturale su Wikileaks: una lettura cronachistica, un punto di vista preciso ma basso, appiattito. Si sente uno schiacciamento della storia su un modello «guardie e ladri»; viene voglia di un’interpretazione più generale, di uno scatto energico, di un colpo d’ala. Eppure, gli elementi per leggere meglio in filigrana la vicenda ci sono.

La scelta di dare spazio all’ex magistrato spagnolo è interessante soprattutto per la sua storia personale, che è uno spaccato forte di come si intrecciano la questione della giustizia e quella della democrazia. Garzón diventa celebre per le indagini sul crimine organizzato, sulla corruzione e sui crimini contro l’umanità (in Italia, per aver cercato di investigare su Silvio Berlusconi), ma osa anche toccare il tabù nazionale della Spagna: il franchismo, la repressione, le fosse comuni. Viene fermato e deve lasciare la magistratura.

Un filo nero lega il crimine predatorio e quello di fascismo; le violenze si intrecciano, si susseguono, si travasano l’una nell’altra; il potere criminale della dittatura, quando prevale il modello democratico, si frantuma in crimine di sopraffazione e di rapina, pronto a riaggregarsi, a rimettere insieme i frammenti, a indossare di nuovo la divisa quando la democrazia si eclissa. Anche in Italia lo squadrismo reclutò avanzi di galera, che alla caduta del regime transitarono, attraverso il fascismo di Salò, nella delinquenza e poi nell’impresa delittuosa autoriciclata.

La presenza di Garzón, che diventa un punto di riferimento per i difensori di Assange in sede legale e in ambito mediatico, parla da sé. La sua notorietà fa effetto: è ben presente la memoria dell’impegno sui crimini delle dittature in Sudamerica. Poche cose riassumono l’importanza di Wikileaks, della verità, della trasparenza, come le immagini delle anziane familiari di scomparsi in Cile e in Argentina. Sostano davanti all’ambasciata dell’Ecuador, risolute e pazienti, persino affettuose nei confronti dell’ex magistrato e di Assange; nessuno meglio di queste donne conosce la differenza fra le tenebre della disinformazione, del potere più arbitrario, e la luce del controllo, dell’attenzione pubblica, della vera chiamata alle responsabilità. Per questo sono lì, con semplici cartelli, magari col fazzoletto bianco delle madri dei desaparecidos, di fronte a una sede diplomatica dove un perseguitato paga per la sua coerenza e un ex magistrato, troppo scomodo per la giustizia, adesso fa l’avvocato e lavora per una causa eccezionale. Bene, allora, che nel film compaia anche il brutto muso di Pinochet, e male che il dittatore – con una decisione britannica – l’abbia fatta franca.

Una questione di fondo. Il giornalismo, quello delle grandi testate, ha approfittato del materiale, specialmente del Cablegate, usandolo come serbatoio di dati per rivelazioni quasi sempre frammentarie e povere di ragionamenti profondi. Per il resto, ha trascurato Assange abbandonandolo al suo destino. Le eccezioni a questo andazzo scandaloso sono scarse e non proporzionate alla dimensione storica di tutta la vicenda. Se davvero vale la pena chiedersi qualcosa sui posteri, questi sconosciuti, possiamo domandarci come guarderanno il fatto che si sia aperta davanti a noi un’immensa mole archivistica di storia del presente, una sfavillante caverna di Ali Babà, e la nostra attenzione sia stata così debole da lasciarci spigolare solo la bigiotteria.

Il punto è che il corpo profondo del giornalismo internazionale ha preferito limitarsi alla diffusione di versioni comode, limitate o non troppo imbarazzanti. Eppure, di fronte alla storia Wikileaks è un caso straordinario di affaccio in presa diretta sulla sostanza di come il potere fa, disfa, manipola, legge e riscrive la vita di miliardi di esseri umani. L’affaccio non è obiettivo, certo, perché i dominatori esprimono la loro visione delle cose e i dominati sono trattati come oggetti. Ma il peso enorme della rivelazione resta, ed è bastato a far scattare una dura rappresaglia.

Come si può tradurre, mi chiedo, Hacking Justice? Hackerare la giustizia, craccarla, aprirla, forzarla; ma anche giustizia che altera, che forza, che fa violenza. Non so se sia nelle intenzioni di chi ha scelto il titolo, ma i due significati si sovrappongono, si sorreggono e in un certo senso si risolvono l’uno nell’altro. Con abuso di mezzi polizieschi e penalistici sono stati confezionati addebiti falsi contro Assange, costringendolo a rimanere a Londra, mentre pendevano indagini in Svezia per reati sessuali evanescenti. Da allora ha perso la libertà e la sua vita è stata devastata. L’accaduto ha messo alla prova i sistemi di garanzia in paesi occidentali che ci tengono a passare per punti di riferimento della civiltà giuridica. Dobbiamo dire che quei paesi la prova non l’hanno affatto superata. Accuse assurde possono circolare e produrre danni irreversibili, un uomo può essere inghiottito da una detenzione senza limiti e senza processo. Che all’origine ci siano proprio ombre di reati sessuali è un dettaglio, ma ci dice quanto sia labile e bugiardo l’apparato di false tutele che accompagna le nostre tremebonde società rivendicazioniste, individualiste, eternamente suscettibili.

Per inciso. L’Italia, quanto al trattamento di stranieri per accuse o sospetti provenienti dall’estero, non può dare lezioni; ce lo ricordano i casi di Mordechai Vanunu, Abdullah Öcalan, Abu Omar, Alma Shalabayeva. La loro opinione su Roma non dev’essere esattamente quella di una terra di rifugio. Però in Italia non sarebbe possibile trattenere un uomo, senza limiti di tempo, facendogli aspettare in carcere una decisione sulla sua sorte. Nel film un politico britannico, alla domanda di una militante per conto di Wikileaks, risponde con faccia di pietra che il diritto internazionale non obbliga a porre un limite di tempo al carcere, e insiste sul fatto che le autorità del Regno unito devono ancora decidere. Da noi la Costituzione – già, proprio la Carta su cui la destra ora vuol mettere le mani – dal 1948 dice che la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva (e ci volle il caso Valpreda perché i limiti arrivassero davvero).

Ma ancora sul senso di Hacking Justice. C’è l’altro modo di fare forza, ed è quello che per ora non ha funzionato: malgrado una squadra di esperti legali, la difesa di Assange non è riuscita a strappare un eroe dalle grinfie dei suoi persecutori. Quest’uomo ha messo a nudo crimini sistematici, si vuole fargliela pagare e colpire tutto ciò che rappresenta. Françoise Sironi, in Bourreaux et victimes: Psychologie de la torture, nel 1999, ha spiegato che la tortura trasmette l’intenzionalità di un gruppo in un altro, e che aguzzini e vittime sono interfacce. Ecco: Assange da tredici anni è l’interfaccia che trasmette un messaggio prima al giornalismo investigativo, e a questo punto agli storici e a tutti noi: tacete. In fondo alla provetta di questo esperimento c’è un precipitato amaro. È più facile violare sistemi informatici e ottenere dati segreti, che fare giustizia e salvare un innocente. Se ci chiediamo perché, la questione si intravede profonda, sconcertante.

Wikileaks ha costruito la sua ricerca della verità sulla trasmissione anonima di documenti riservati, ma per lo più da parte di possessori legittimi. Il caso di Manning è quello più famoso. Manning, allora signor Bradley e oggi signora Chelsea, era un militare dell’apparato spionistico. A muovere il leak, il rilascio dei dati, l’emersione della verità, sono la coscienza, lo specchio introspettivo, il fattore umano. La possibilità di trasgredire l’omertà dell’apparato è una valvola formidabile per insidiare sistemi di violenza e di nascondimento apparentemente impenetrabili. Se invece non si riesce a inceppare l’ingiustizia, a disinnescare il falso processo, l’accusa fabbricata, la macchinazione pruriginosa, significa che quella coscienza, quell’introspezione, quel fattore umano non abitano nel mondo del potere organizzato, quindi neanche nei tribunali, o vi si appartano come intrusi malvisti.

Infatti. Manning, poco più che un soldato semplice, dà ascolto al senso di umanità e di giustizia, quando si rende conto che il suo paese si sta macchiando di crimini enormi: invia i documenti a Wikileaks, e sarà il Cablegate. I giuristi al guinzaglio, i politici e gli alti burocrati trattengono Assange dietro le sbarre con argomenti ipocriti, come quelli del politico di Londra pietrificato davanti alla telecamera, che insiste nella sua lettura miope del diritto internazionale chiedendo pazienza, rassegnazione, ubbidienza.

Insomma. Anche in un apparato securitario può esserci una coscienza inquieta che si ribella, ma aprire una crepa nel conformismo dei giureconsulti di corte è più difficile. Quando non hanno il coraggio di drizzare la schiena, i legulei sono un clero che si autoassolve e che fabbrica le colpe degli altri. Clero implacabile contro l’intellettuale, il funzionario, il militare che infrange l’omertà, che strappa la maschera.

Nel 1935 il giurista Silvio Trentin, esule in Francia dopo aver rinunciato a una brillante carriera accademica per non servire il fascismo, in La crise du droit et de l’État (tradotto in Italia solo nel 2006), è durissimo contro i giuristi che chiama «adoratori dei testi» e «giureconsulti agnostici»: «Si tratta di interpreti con i paraocchi, il cui campo visuale non oltrepassa mai i limiti arbitrari stabiliti dall’onnipotenza del legislatore di fatto». Per i fabbricanti di falsa scienza al servizio della persecuzione valgono ancora le parole di Trentin: «Non esiste prigione in cui si possa rinchiudere lo spirito; non esistono potenza o patibolo che possano giustiziarlo».

Forse, a pensarci meglio, c’è un terzo significato di Hacking Justice: giustizia che trasgredisce, che raddrizza i torti perché spezza le regole vecchie per costruirne di nuove.

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