SI Cobas – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 16 Sep 2025 20:30:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fermiamo il genocidio in Palestina! https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/fermiamo-il-genocidio-in-palestina/ Wed, 15 Nov 2023 16:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79979 [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese; e raccogliendo l’invito pressante dei Giovani palestinesi d’Italia a dare maggiore concretezza alla solidarietà con la resistenza del popolo palestinese; il SI Cobas ha deciso di indire per venerdì 17 novembre una giornata di sciopero nazionale nel settore privato, che si pone in continuità con le iniziative contro la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina del 21 ottobre scorso – in particolare con la manifestazione di impronta internazionalista e disfattista tenuta a Ghedi, davanti alla principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana.

Questa decisione di sciopero si ricollega alle prime iniziative contro il traffico di armi per Israele in corso a Oakland, in Belgio, in Australia e, da ultimo, a Genova, e soprattutto alle immense dimostrazioni per la liberazione della Palestina in corso in tutto il mondo. L’invito che essa esprime è a sostenere in pieno, senza tentennamenti di sorta, la resistenza dei palestinesi contro il colonialismo razzista e a pretendere l’immediata cessazione della carneficina portata avanti da Israele con la complicità degli Stati Uniti e delle potenze capitalistiche occidentali.

“I lavoratori e i proletari hanno il dovere di mobilitarsi ovunque possibile – si legge in una dichiarazione del SI Cobas – per fermare questa mattanza, bloccando i principali snodi della produzione, dei trasporti e del profitto, in particolare i traffici di armi e di merci dirette ad Israele.
Contro la guerra, l’economia di guerra e i governi della guerra! Contro il colonialismo sionista! Palestina libera!”.

Il giorno successivo allo sciopero, sabato 18 novembre, si terrà a Bologna (con partenza alle ore 15 da piazza XX settembre) un corteo indetto insieme dal SI Cobas e dai Giovani palestinesi d’Italia, dall’Unione democratica arabo-palestinese, dall’Associazione palestinesi in Italia, dal Movimento palestinesi in Italia, che ha già ricevuto molte adesioni.

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AAA Associazione a delinquere cercasi https://www.carmillaonline.com/2021/03/21/aaa-associazione-a-delinquere-cercasi/ Sun, 21 Mar 2021 22:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65495 di Giovanni Iozzoli

Ed eccoci arrivati al dunque. Molti dei nodi di cui si dibatteva nei mesi scorsi stanno giungendo inesorabilmente al pettine: escono, cioè, dalla dimensione delle ipotesi e delle analisi, precipitando sui famosi “rapporti di produzione” e sulle catene di comando che strutturano la società. Del resto, tutta la decretazione speciale, i coprifuoco, la militarizzazione dei territori, la passivizzazione di massa – l’intero sistema di “prevenzione sanitaria” – non potevano non avere ricadute sul piano direttamente politico. Un primo riassetto riguarda i piani alti; abbiamo un governo di pseudo unità nazionale in cui l’intero quadro partitico è stato azzerato, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Ed eccoci arrivati al dunque. Molti dei nodi di cui si dibatteva nei mesi scorsi stanno giungendo inesorabilmente al pettine: escono, cioè, dalla dimensione delle ipotesi e delle analisi, precipitando sui famosi “rapporti di produzione” e sulle catene di comando che strutturano la società. Del resto, tutta la decretazione speciale, i coprifuoco, la militarizzazione dei territori, la passivizzazione di massa – l’intero sistema di “prevenzione sanitaria” – non potevano non avere ricadute sul piano direttamente politico. Un primo riassetto riguarda i piani alti; abbiamo un governo di pseudo unità nazionale in cui l’intero quadro partitico è stato azzerato, frullato e ricomposto dentro un triste impianto euro-tecnico: l’eutanasia di un ceto politico, di una classe dirigente, di un residuo partitocratico, si è consumata in un lampo, senza emettere un gemito.

Tra le pieghe della società reale stanno invece increspandosi le onde della repressione politica tradizionale: ci riferiamo in particolare all’inchiesta di Piacenza contro i Si Cobas e a tutto il corollario di provocazioni con le quali si sta cercando di schiacciare all’angolo questa esperienza sindacale. Gli esiti dell’offensiva della Procura di Piacenza, sono noti: perquisizioni all’alba del 10 marzo nelle case di diversi operai, sequestri di pc e telefoni, 21 indagati, 5 divieti di dimora, 6 vigliacchissimi avvisi di revoca dei permessi di soggiorno, multe salate per tutti, e due noti dirigenti agli arresti domiciliari. L’accusa, sostanzialmente, è di aver intralciato, mediante una mobilitazione propriamente sindacale, i progetti di ristrutturazione nei magazzini piacentini Fedex-TNT: quindi gli apparati dello Stato a difesa delle strategie di una multinazionale americana. En passant, nelle stesse ore si bastonava il presidio Cobas alla Texprint di Prato – in questo caso la Celere difendeva un’azienda di proprietà cinese, gravata da un’interdittiva antimafia, che ha tra l’altro incassato centinaia di migliaia di euro durante la prima crisi Covid producendo mascherine. Yankee o cinesi vanno bene tutti, purché siano imprenditori – i nostri questori non possono certo essere accusati di sovranismo. Cronache di un mondo rovesciato? No, È il nostro mondo. Altro che Grande Reset: siamo già stati ampiamente resettati e la nuova normalità sarà sempre più questa – banchieri al governo, detenuti morti nelle carceri, sindacalisti coraggiosi arrestati. Non si tratta di un momento di sbandamento o di una fase transitoria.

Che tipo di lettura possiamo dare, di questa nuova stagione repressiva? Innanzitutto è chiaro che si è aperto un cantiere emiliano, che affiancherà stabilmente quello già avviato in Val di Susa molti anni fa. La repressione a questi livelli non può essere dinamica improvvisata. Ha bisogno di un impianto, di metodo, di coordinamento tra apparati di polizia e apparati giudiziari, di continuità di personale, se vuole esercitare il suo fine pedagogico sulla intera società. Questo cantiere repressivo emiliano si occuperà soprattutto di lavoro ed eccedenze sindacali non concertative; le sperimentazioni sono già in corso a Modena, con i suoi maxi processi e, appunto, a Piacenza, nodo nevralgico della distribuzione merci in tutto il nord. Una eccellenza industriale e un grande polo logistico: sarà questo il campo di battaglia su cui si eserciteranno le strategie degli inquisitori. Il “modello emiliano” in decomposizione libera gas mefitici: inchieste, manganellate, arresti e procedimenti giudiziari per larghe platee operaie. È un caso che proprio l’Emilia sia al centro di questo passaggio? L’Emilia che coltiva ancora i suoi rituali fuori tempo, come una vecchia signora che ha visto tempi migliori – la regione in cui si firmano con la medesima disinvoltura, “Patti per il lavoro” e rinvii a giudizio (per chi lavora)? Il modello emiliano è stato spesso additato come modello nazionale in molte cose; perché non potrebbe diventarlo anche nel campo della gestione (repressiva) dei conflitti?

Il dibattito, in questi casi, è aperto: siamo davanti al “semplice” protagonismo di alcune Procure o si possono ipotizzare scenari ancora più generali (e più preoccupanti)? Entrambe le cose. La crisi politica dello Stato e del sistema dei partiti, ha lasciato campo libero all’attivismo di sedi, strutture, pezzi di amministrazione giudiziaria o organi di polizia; il vuoto politico viene riempito dai volenterosi: ad esempio i PM che ammettono candidamente nelle conferenze stampa di aver voluto “lanciare segnali” (attività assolutamente estranea ai loro fini istituzionali) o si arrogano il diritto di rilasciare patenti di legittimità sindacale, rivelano anche dinamiche locali, frammenti “di Stato” che nel vuoto dei centri di indirizzo politico, si autoconvocano per assumere un ruolo guida sui territori.

Allo stesso tempo, è ipotizzabile che qualche progetto più ambizioso, stia incubando ad un livello più generale: qualcosa che provi a spostare l’asticella del disciplinamento sociale ancora più in alto, al di là degli alibi pseudo-sanitari. È probabile che sia già in giro, bello e pronto, un corposo teorema giudiziario, che miri a incasellare il gruppo dirigente Cobas dentro uno schema di associazione a delinquere su base nazionale. Magari questo “malloppo”, costituito dalla solita immensa mole di intercettazioni e ricostruzioni sbirresche, spesso surreali – si possono leggere nei documenti istruttori dei singoli processi locali –, sta già circolando qua e là sui tavoli di qualche Procura di buona volontà, in attesa che qualcuno lo assuma e lo conduca in porto. In questo caso assisteremmo alla miserabile riesumazione – quasi una parodia – dei grandi teoremi politico-giudiziari dei decenni scorsi: anche quelli non pretendevano di incarnare la verità storica, erano solo strumenti di disarticolazione del nemico, di affondo emergenziale dentro un tessuto sociale riottoso, di forzature irreversibili prodotte dentro il corpo stremato dello stato di diritto.

I dirigenti del sindacato Si Cobas dicono che l’aria è pesante come non mai, intorno a loro: lo avvertono in occasione delle iniziative, davanti alle loro sedi o ai loro presidi. La stessa grande manifestazione di Piacenza del 13 marzo, nonostante le regolari autorizzazioni, è stata provocatoriamente rinchiusa dentro un parcheggio, circondata da uno schieramento militare impressionante. Probabilmente qualcuno mirava ad una resa dei conti di piazza, a cui fortunatamente, l’intelligenza politica del corteo si è sottratta. Ma ormai non c’è iniziativa in Emilia – persino in occasione delle conferenze stampa – che non veda una esibizione muscolare delle Questure, in modalità totalmente spropositate. C’è un clima di provocazione “di bassa intensità” che però è costante, come una corda che si sta tendendo. Chi ha le antenne un po’ sensibili, rispetto a questa meteorologia della crisi, avverte l’elettricità nell’aria. Quale momento sarebbe migliore per colpire un’esperienza di sindacalismo eretico? Il lockdown perenne, la sinistra (di ogni sfumatura) squagliata, il consociativismo confederale che vive una pallida stagione di rilancio: oggi puoi arrestare un po’ di gente senza neanche prenderti il fastidio di sentirlo dire al telegiornale. L’asse delle accuse potrebbe essere di tipo “economico-sindacale” – la vostra vertenzialità è estorsiva (quello che si provò a fare nel 2017 a Modena con l’arresto di Aldo Milani); oppure più schiettamente politico – siete un nuovo fronte eversivo da stroncare prima che che sia troppo tardi. O magari un mix delle due ipotesi di reato, tanto per accontentare tutti, nostalgici dell’emergenza e cricche imprenditoriali.

In ogni caso, con una simile pressione addosso, fare sindacato è quasi impossibile: tutto il tuo tempo e le tue energie sono impiegate a rintuzzare colpi e difendere la tua gente, mentre le strategie di accerchiamento anche padronali (vedi l’enorme pressione in molti posti di lavoro per convincere gli iscritti a togliere la tessere ed estirpare gli avamposti sindacali costituiti in questi anni) stanno funzionando a pieno regime. È un problema dei Si Cobas? No. È il “problema dei problemi” che abbiamo tutti in questa fase, movimenti, sindacati conflittuali, scampoli di società civile; e richiama un solo antidoto ed una sola soluzione: rimettere la testa fuori, riassumerci la responsabilità della presa di parola, il dovere dell’esercizio dell’intelligenza critica, l’uscita dalla delega, la messa in discussione delle fallimentari strategie di governance a tutti i livelli, il rifiuto ad intrupparci nelle campagne di “buona cittadinanza” (state a casa, vaccinatevi, lavorate e non vi muovete) a cui ci stiamo assuefando. Molti lo hanno continuato a fare, in questi mesi, ma evidentemente non nella quantità e nella qualità necessaria a incarnare un rifiuto ed un alternativa possibile.

Se provassimo a usare la data del 25 aprile – come già accaduto in stagioni passate –, per innescare una ripartenza necessaria e possibile? Impugnando poche parole d’ordine unitarie, uguali su tutto il territorio nazionale: un appello alle ragioni proletarie della libertà e della vita, al protagonismo di una società esanime che deve risollevarsi; per riconquistare lo spazio pubblico, la visibilità dei nostri corpi, rivendicare i militanti schiacciati dai processi, spegnere gli schermi della “politica a distanza”, con i ridicoli webinar che stanno diventando la tristissima foglia di fico delle nostre impotenze. Un 25 aprile contro la repressione: soprattutto quella che ci stiamo autoinfliggendo. Riflettiamoci – ma non troppo. Il tempo sta scadendo.

Nuove classi dirigenti marciano compatte sulle macerie del nostro vecchio mondo, inalberando i vessilli di Lord Keynes, Milton Friedman e George Orwell – sono tipini pragmatici e usano tutto, alla bisogna. La banalità per cui “ogni crisi è anche un’opportunità”, loro la stanno prendendo maledettamente sul serio.

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Maxiprocessi, zamponi e tortellini https://www.carmillaonline.com/2020/09/04/maxiprocessi-zamponi-e-tortellini/ Fri, 04 Sep 2020 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62618 di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.

I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .

Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.

C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.

Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.

Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.

Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?

200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.

Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è scientifico.

Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti meno di niente.

Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.

Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas –, i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.

Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.

Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.

Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.

Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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