Shel Shapiro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 HARD ROCK CAFONE #5 https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/hardrockcafone5/ Thu, 14 Apr 2016 20:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29537 di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita) Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola [...]]]> di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita)
Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola con le dita, specie se ve ne manca qualcuna: il sacrificio estremo al dio della sei corde.
Ha cominciato il primo chitarrista jazz di fama mondiale, quel Django Reinhardt dalle mani veloci come saette. L’avrete sentito senza saperlo nei film di Woody Allen e in diverse pubblicità, ma la sua faccia tzigana da Nino Frassica non è popolare come meriterebbe. Eppure la chitarra swing gli deve tutto da quando incendiava i club di Pigalle negli anni Trenta. E con l’handicap. Già indiavolato entertainer a diciotto anni, lo zingaro fa vita grama e vive nel suo carrozzone, in un campo di nomadi a Parigi. Una notte casca una candela ed è il disastro: divampa un incendio e Django riesce a fuggire, ma la gamba destra è paralizzata (rifiuterà l’amputazione e userà il bastone tutta la vita) e anulare e mignolo della mano sinistra – quella con cui fare gli accordi – sono gravemente ustionati, rimanendo deformati e inutilizzabili. La testa però è dura e allora Django ripensa la sua tecnica solo in funzione di indice e medio.
hrc502Sorretto dal quintetto Hot Club de France, va veloce come Yngwie Malmsteen plettrando accordi impossibili per i quali ai comuni mortali, di dita, ne servirebbero otto. E non farebbe male anche un’estensione della mano degna di Mr.Richards dei Fantastici Quattro. Django muore presto (a 43 anni), per una congestione. Tipico di chi è quasi bruciato vivo e, da zingaro che suonava la musica dei neri, è sopravvissuto al nazismo.
Grazie a Django non abbiamo solo pletore di jazzisti manouche, ma insospettabilmente anche un rocker che ha fatto la storia dell’hard. Tony Iommi ha inventato i riff massicci dei Black Sabbath e nessun chitarrista metal può prescindere da quel suono cupo e distorto. Per un pelo, però: il giovane Iommi è al suo ultimo giorno di lavoro prima di diventare musicista professionista. Lavora in fabbrica e si occupa del taglio di fogli di alluminio. Esattamente come succede a tappezzieri, falegnami e addetti ai telai meccanici, piagati dalla malattia professionale del dito mozzato, anche a lui basta un attimo di disattenzione e, voilà, sotto la pressa, rimangono le due ultime falangi di indice e medio della mano destra. Lui è mancino e con quelle dita lì, tiene le corde. Dramma. Depressione. Finché in ospedale, un amico lungimirante gli porta a sentire un disco di Reinhardt. Se ce l’ha fatta lui, ce la faccio anch’io, si dice Iommi. Ma come, con due dita mozzate? Tony non è inventivo solo sullo spartito e si costruisce delle protesi di plastica e gomma che attacca ai suoi moncherini. Alle estremità aggiunge delle pezzuole di cuoio, per ottenere il classico tocco della pelle. Certo, la sensibilità è nulla, ma a quella supplisce l’orecchio. E se le corde sono troppo dure, facile rimediare: la chitarra viene scordata, allentandole. E nasce così quel suono profondo e oscuro su cui l’imberbe Ozzy urlacchierà tutta la sua angoscia. Insomma, se non era per il destino infausto, niente doom e rock sepolcrale.
HRC503È andata meglio a Jerry Garcia, l’orso buono hippie, l’interprete carismatico delle epiche (e talvolta un po’ scoglionanti) cavalcate lisergiche dei Grateful Dead, jam siderali dove le dita si arrampicavano sulle corde per delle buone mezz’ore. E di dita gliene mancava pure una. Jerry era un pacioccone profeta antiautoritario e pacifista e nessuno ha mai potuto vederlo mostrare il dito medio perché il suddetto volò via all’età di quattro anni. Colpo d’accetta ad opera del fratello, mentre si tagliava allegramente la legna in famiglia. E vabbeh, s’è detto Jerry, si può arpeggiare anche con quattro dita e l’impronta della sua grassoccia mano destra, senza le due falangi del medio, è diventata il suo emblema anche sulla copertina di un album.
Per tre illustri mutilati, abbiamo rischiato grosso anche con quello che è probabilmente il miglior chitarrista rock dalla morte di Hendrix: Jeff Beck le dita le ha ancora tutte ma per qualche ora ha avuto il pollice destro ridotto come una piadina. Innovatore a qualunque costo, mai adagiato su formule remunerative (pur avendole lanciate lui stesso), ha praticamente inventato l’hard rock con l’album Truth – del quale i Led Zeppelin han preso nota, forse più di una – e poi ha reso il jazz rock palatabile con Blow by Blow, l’unico album del genere che – per arrivare a fine ascolto – non richiede una laurea in astrofisica e due Aulin. Ultimamente sintetizza tutto lo scibile chitarristico su basi ritmiche alla Prodigy o ariose atmosfere sinfoniche, con avare uscite discografiche perché preferisce dedicarsi al suo hobby: Jeff Beck è (stato) un ricco misantropo che vive in campagna, godendo solo delle macchine custodite nel suo garage e passando il tempo a costruirle, ripararle, oliarle e lucidarle.
hrc50trisEd è proprio questa passione che gli ha fatto passare un pessimo quarto d’ora, quando una tavola di quercia, che Jeff usa per coprire la buca nella quale si sdraia per riparare le sue adorate macchinine, gli scivola sul pollice destro con vettura al seguito. Il sandwich tra quercia e chassis della macchina in riparazione gli appiattisce il pollicione come nei cartoni animati. Risultato: falangi spezzate e unghia sfasciata. Che la cosa sia dolorosa lo dimostra il fatto che è una tecnica di tortura consolidata (anche se non per lo stato italiano: vedremo quando ci penserà qualcuno, mah). Ma Jeff non ha nulla da confessare e siccome è un uomo all’antica si beve subito una litrata di whisky per tollerare il dolore. Invece si addormenta e solo alcune ore dopo riesce a raggiungere un pronto soccorso dove lo ingessano, ovviamente in maniera da non compromettere la sua capacità di suonare. Del resto c’è l’illustre precedente di Les Paul (che non è solo una chitarra, ma anche il genio che l’ha inventata): col braccio destro rotto, se lo fece ingessare con l’angolazione giusta per imbracciare lo strumento. Lieta fine: Jeff dopo qualche mese di comprensibile convalescenza torna a suonare meglio di prima.
hrc50bisMa parlando di dita sfasciate, la migliore riguarda un cantante, Ronnie James Dio, peraltro personaggio di tutto rispetto: di età indefinibile (sembra che sia del 1942), era già rugoso a metà anni Settanta e oggi è incomprensibile se sia già iniziato il processo di rattrapimento tipico degli anziani perché è alto quasi un metro e cinquanta (nelle foto coi Black Sabbath post Ozzy, usufruiva di uno spessore a terra per arrivare almeno alle spalle degli altri). Attivo fin dalla fine degli anni Cinquanta è diventato un vero Dio come voce epica dei Rainbow e, dopo la parentesi Black Sabbath, con il suo omonimo gruppo. Il vero cognome è Padovana e il nome d’arte viene da quello di un boss mafioso di Brooklyn che gli piaceva un mucchio, tal Johnny Dio responsabile di chissà quante teste rotte e gente cementata. Ad ogni modo, causa pratiche di giardinaggio estremo, Ronnie James ha rischiato di non poter più fare il gesto che l’ha reso popolare sui palchi di tutta la terra, le corna. Imparato dall’italica nonnina e popolarizzato tra gli yankee come “maloik”, è il suo autentico marchio di fabbrica. Sennonché zappettando in giardino nella sua magione, Ronnie James ha provato a spostare un pesantissimo e infido gnomo in marmo. Che s’è ribellato, è scivolato trascinandosi dietro lo gnomo in carne e ossa e s’è abbattuto sulla sua mano destra, staccandogli l’estremità del pollice. Dio confessa di aver subito pensato: e ora, come farò le corna? Uomo pratico, s’è presentato in ospedale con la mano sfasciata e il pollice mozzato nell’altra. Gliel’hanno subito riattaccato e tutto è bene quel che finisce bene: vedremo ancora Ronnie James fare il maloik. Tiè. (2009)

HRC504Hey Dude: hai presente i Beatallica?
A me le cover band che imitano anche l’abbigliamento, la gestualità e i vezzi di chi omaggiano mettono infinita tristezza. Quando ho visto (a tradimento) gli Stupido Hotel col cantante che introduceva i pezzi con le stesse identiche parole usate da Vasco sui vecchi dischi live, accento modenese compreso, ho avuto il magone per una settimana. Mi danno invece allegria estrema le cover band estrose, che affrontano i classici altrui con uno scatto creativo. Facendo un paragone pittorico: di contadini dipinti da Teomondo Scrofalo son piene le bancarelle, la Gioconda coi baffi di Duchamp è un pezzo unico. Mi divertono i Kiss nani (il nome dice tutto), i Nudist Priest (che suonano cover dei Judas Priest esibendosi nudi), i Gabba (che rifanno gli Abba alla Ramones) e i miei vent’anni sono stati allietati dai Dread Zeppelin, che suonavano cover reggae dei Led Zeppelin con un Elvis impersonator come cantante. Ma il top, oggi, è il riuscitissimo e per niente blasfemo incrocio tra Beatles e Metallica. Prendete le immortali melodie dei primi, come direbbe Mollica, e rivisitatele con le sonorità e il gergo dei secondi: risultato, i Beatallica. Ovviamente un quartetto, coi nomi dei componenti che mixano quelli dei baronetti con quelli dei quattro ex metal kid: Grg Hammetson alla solista, Jaymz Lennfield alla voce e alla ritmica, Ringo Larz alla batteria e Kliff McBurtney al basso. E pensare che tutto è nato per scherzo: per una festa di pesce d’aprile del 2001 viene prodotto un CD con delle cover dei Fab Four come se le avessero suonate i Four Horsemen (che già avevano realmente licenziato due edizioni di Garage Inc., raccolte di omaggi e rivisitazioni di brani altrui). Qualcuno abbocca allo scherzone ma soprattutto qualcuno mette i pezzi in Rete e cominciano downloading e popolarità. A quel punto si pensa a una band vera e dal 2004 si va on the road, con ottimi riscontri in America e Giappone. Ma per arrivare al successo (e al divertente Sgt. Hetfield’s Motorbreath Pub Band, oggi in vendita legalmente) si son dovuti affrontare anche alcuni discreti casini. Quando la Sony ha provato a fermare i Beatallica c’è stata una mezza sollevazione: qui da noi si sono sbattuti i Wu Ming, la nostra migliore band letteraria, mentre oltreoceano Mike Portnoy dei Dream Theater ha messo su il sito savebeatallica.com per dare assistenza legale ed economica alla band, tanto che pure Lars Ulrich ha dato il benestare all’operazione, facendosi perdonare la vicenda (tecnicamente: l’umiliante figura di merda) della causa con Napster. Lo avranno sicuramente convinto l’ascolto di Hey Dude e di I Want to Choke Your Band! (Febbraio 2009)

HRC505In preda al Delirium: Jesaheeeeeeeeel
È il 24 febbraio1972 e 25 milioni di italiani sono davanti allo schermo, rapiti dal Festival di Sanremo. I bambini hanno avuto il permesso: stasera “dopo Carosello” si fa un’eccezione. Mike Bongiorno, con paurosi basettoni, introduce i Delirium sul palco dell’Ariston e una compagnia di venti hippie con caffettani, collane, gilet e flauto magico strega il pubblico col canto corale di Jesahel. Cominciano così i due anni di straordinario successo del gruppo genovese. C’era già stato Il canto di Osanna, ma i Delirium non compongono solo pezzi che avete sentito suonare alla noia dagli scout in gita; nei loro album c’è uno strano impasto di pop, rock, folk e jazz che poi i critici avrebbero chiamato prog. Quando a Ivano Fossati tocca la naja, il gruppo si reinventa con Martin Grice, da Birmingham. Due album e poi i Delirium appassiscono, finché arriva il nuovo millennio e tre superstiti di quella gloriosa formazione decidono di tornare. Il promotore è Peppino Di Santo, grande batterista che fu testimonial assieme a Carl Palmer (di Emerson Lake & Palmer) del primo gong per suonare rock della Paiste. Oggi la reliquia fa bella mostra (e ottimo suono) sul palco dei rinnovati Delirium. C’è sangue fresco ma alle tastiere impazza sempre Ettore Vigo: ha suonato coi Ricchi e poveri e coi fantastici Kim and the Cadillacs (un altro Sanremo, nel 1979, e finalmente un dubbio fugato: la benda da pirata del chitarrista era solo di scena!) e ancora oggi ricama fraseggi jazz o costruisce imponenti architetture sonore col suo organo. Mi racconta di come Bongiorno avesse rifiutato di citare, in quel Sanremo, il Mellotron che Ettore aveva avuto in prestito. L’avesse fatto, gli sarebbe stato regalato: altri tempi, altri sponsor, ma soprattutto un altro Bongiorno. Frontman della band è sempre Martin Grice. Oggi vive dietro Genova, a Sant’Olcese, paesino rinomato per dei salami da urlo. Questo zingaro del rock mi racconta in anglo-genovese del suo arrivo in Italia dopo aver suonato al Marquee coi grandi dell’epoca, da Hendrix ai Faces a Otis Redding. Preso al volo per la defezione di Fossati, prestò sax e flauto alla maturazione definitiva del sound del gruppo, un sound che ancora oggi fa faville. Hanno appena licenziato un ottimo live che ripercorre la storia della band, Vibrazioni notturne, ma in cantiere c’è pure un Delirium IV atteso da più di trent’anni. Vigo, Grice e Di Santo nella vita hanno anche fatto mestieri diversi, ma si capisce che sono musicisti veri quando gli si parla degli incontri che li hanno segnati. Come quello col maestro Severino Gazzelloni che concesse il suo flauto d’oro massiccio al coraggioso Fossati. Andò bene. E risentendoli oggi, è chiaro perché: sono maledettamente bravi. (Aprile 2007)

Private PressingForza Islanda!
C’era una volta, quando ancora batteva il Cuore di Michele Serra, una rubrica utilissima e formidabile: con un riassunto e la pagina citabile, ti permetteva di millantare letture mai avvenute. Oggi, secondo le statistiche, leggere libri è praticamente una malattia rarissima e allora – piuttosto – fa tendenza vantare ascolti musicali remoti. E più sono remoti, più farete bella figura. Grazie a una poderosa menata firmata da Wim Wenders a un certo punto andava la musica cubana. E siamo ancora nel potabile e nel probabile. Poi il grande Kusturica ci ha rimbambito di fanfare balcaniche rubacchiate dal repertorio popolare da quel geniaccio di Bregovic. E infine – e ignoro il motivo – sono arrivati gli islandesi, ‘sti stramaledetti islandesi. Mi hanno intossicato prima coi Sugarcubes; poi, in pieni anni Novanta è toccato a Bjork: sguardo allucinato e manine inquietanti, menava di brutto i giornalisti e girava film folli con Von Trier. Adesso, per darsi un tono, niente fa colpo come proclamare la propria scoperta dei Sigur Rós; “Che pace, che melodie… sembrano i Pink Floyd con una spolverata di Nick Drake!”. Appunto: ho gli originali e dormo benissimo senza ottundenti vari. Che poi a me l’Islanda è pure simpatica (anche i Sigur Rós, via): fino a due mesi prima del crollo dei mercati era un’isoletta tranquilla. Poi è venuto giù tutto quando in qualche posto sperduto nel cuore degli USA un poveretto non ha trovato i soldi per pagare il mutuo. Effetto domino e i numeri, bit immateriali, si sono trasformati magicamente in solenni inculate, fisicissime queste. Ma torno in Islanda, perché nell’isola che era felice senza petrolio, dove son tutte dottir e un golf di lana costa come un straccio di panno, han pure fatto della musica che a me piace: per esempio gli ottimi Svanfridur. Nel 1972 hanno pubblicato un unico rarissimo album, un mischione originale di hard e prog cantato in inglese, con azzeccate intuizione di basso e archi. Proprio niente male. Anni fa, quando Bregovic era il non plus ultra, gelavo la conversazione citando i Bjelo Dugme del 1975, col giovane Goran che svisava blues. Oggi, alla bestia leghista che si lamenta degli immigrati sudamericani cui piace troppo la cerveza, rispondo con i dignitosi equadoregni Mozzarella (giuro). Assaggiati, sono altamente digeribili e, se vi piace il rock FM, valgono la pena. Ma la vera soddisfazione arriva quando saltan fuori i Sigur Rós. Sono troppo avanti: ascolto anche gli Svanfridur, io. (Dicembre 2009)

HRC507Shel Shapiro è immortale, parola mia
Se dovessi elencare tutte le canzoni che hanno reso popolare Shel Shapiro, il pezzo sarebbe già bello e concluso. Ha alle spalle una carriera pazzesca, ricca di collaborazioni, scoperte, produzioni e riconoscimenti (e se dovessi fare tutti i nomi… vedi sopra), ma quando gli parli è sempre rivolto al futuro. La sua autobiografia è uscita l’estate scorsa e fa i conti con una vita, ma senza rimpianti o nostalgie, anzi, ed è tale la tensione verso i prossimi impegni che il titolo è programmaticamente Io sono immortale. Ci sono l’infanzia nella Londra del dopoguerra immersa nello smog, l’arrivo e la liberazione del corpo e della mente grazie al rock, la vitalità ingenua ma sinceramente energica dei Rokes, la tensione politica che è maturata nel tempo, le vicissitudini sentimentali e le gioie paterne, la frustrazione del successo di massa e il passaggio dietro le quinte per dedicarsi alla scrittura e alla produzione negli anni seguenti, rifiutando ad ogni costo la nostalgia televisiva (“piuttosto muoio di fame!”) alla corte di Baudo, Conti, D’Urso & company. La cosa gli avrebbe pur fatto fare qualche soldino ma lo avrebbe anche reso prigioniero di Bisogna saper perdere e delle domeniche pomeriggio via etere assieme ad altre cariatidi. Nel suo libro trovi la Roma dei Sessanta e la Milano dei Settanta solo come un inglese te le può raccontare e scopri anche liason inaspettate (l’amicizia con Mario Capanna) e altre più logiche ma mai sfruttate nel senso deteriore del termine (le sue interpreti Mina, Vanoni e Mia Martini, per dire), tutto permeato da uno humour che non sai se più british o yiddish. Shel è ribelle e capellone “oggi più di ieri e domani più di oggi”: non ha perso alcun entusiasmo e lo dimostra discorrendo davanti a una pasta col ragù e un bicchiere di rosso. Andiamo avanti per ore e confermo: è immortale e la sua saggezza non è data dall’età, ma dalla leggerezza e dall’ironia. Poi è tempo di farla finita, perché questo talentaccio è atteso da delle prove teatrali: già attore per Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate, Shel adesso recita sul palco con Moni Ovadia. Dopo il successo di Sarà una bella società scritto col compianto Edmondo Berselli, è in tour fino a tutto marzo con Shylock: il mercante di Venezia in prova dove interpreta il personaggio eponimo. E non canterà Che colpa abbiamo noi, state sicuri. (Febbario 2011)

(Continua – 5)

Qui altre storie di Hard Rock Cafone

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La guerra delle ombre di Obama https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/guerra-delle-ombre-obama/ Wed, 17 Sep 2014 22:05:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17464 di Sandro Moiso

mickey mouse 6La locuzione latina “divide et impera” è stata per lungo tempo alla base delle politiche di indebolimento degli avversari da parte degli imperi e dei regimi di classe. Gli Stati Uniti, per tutta la durata della loro storia politica, coloniale e imperiale l’hanno tenuta in gran conto, non soltanto per dividere tra di loro i proletari divisi per identità nazionale, colore della pelle e religione sul suolo americano, ma anche per trarre vantaggio dall’indebolimento dei concorrenti europei oppure in America latina, in Medio Oriente, nei confronti dei paesi satelliti dell’ex-Unione sovietica e nelle aree ex-coloniali.

Ma [...]]]> di Sandro Moiso

mickey mouse 6La locuzione latina “divide et impera” è stata per lungo tempo alla base delle politiche di indebolimento degli avversari da parte degli imperi e dei regimi di classe.
Gli Stati Uniti, per tutta la durata della loro storia politica, coloniale e imperiale l’hanno tenuta in gran conto, non soltanto per dividere tra di loro i proletari divisi per identità nazionale, colore della pelle e religione sul suolo americano, ma anche per trarre vantaggio dall’indebolimento dei concorrenti europei oppure in America latina, in Medio Oriente, nei confronti dei paesi satelliti dell’ex-Unione sovietica e nelle aree ex-coloniali.

Ma tale politica, che funziona particolarmente bene soltanto quando gli imperi sono giovani oppure all’apice della loro potenza, sembra aver oggi raggiunto i suoi limiti di reale efficacia poiché le perplessità e le rivalità che l’attuale debolezza dell’impero americano fa sorgere, tra suoi alleati, ex-alleati e potenziali rivali, sembrano condurre sempre di più verso una catastrofe in direzione della quale le incertezze statunitensi sembrano, allo stesso tempo, spingere sia sul pedale dell’acceleratore che su quello del freno.

Mickey Mouse Obama si è trovato a dover gestire, con il ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, quella che agli occhi di gran parte del mondo, soprattutto musulmano, ha avuto tutto il sapore di una sconfitta e, contemporaneamente, iniziative di carattere politico, economico e militare di alcuni alleati che, pur parzialmente concordate, hanno scatenato fattori di rischio che hanno incrinato ancora di più l’effettiva capacità di governance planetaria da parte di Washington.

Tutto ciò che da parte degli infaticabili “democratici” occidentali era stato esaltato nelle azioni e parole del leader americano (ritiro delle truppe, promessa di difesa e sviluppo della democrazia in Medio Oriente) è stato pertanto rapidamente e drasticamente modificato dalla crisi politica ed economica in atto e si è rivelato per quello che realmente era: un pensiero piuttosto vacuo, le cui affermazioni erano dettate soltanto dalla debolezza in cui si trovavano (e tuttora si trovano) il governo della superpotenza wasp (nonostante il presidente di colore) e la sua diplomazia che, nella dinamica della crisi attuale difficilmente riesce a far convivere bastone e carota.
Infatti il bastone non può essere troppo grande e la carota risulta di dimensioni troppo poco appetibili per molti degli attori chiamati in scena.

obama bush Le guerre, come ha ben dimostrato Paul Kennedy in un suo importante saggio (Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti 1989), costano, soprattutto per le potenze il cui corso sta volgendo verso il tramonto. Costano in termini politici, economici, militari e, soprattutto, di immagine. In particolare se non sono vinte rapidamente. E negli annali recenti della storia americana nessuna guerra è stata vinta brillantemente e, ancora meno, in tempi rapidi.

D’altra parte per un colosso come quello statunitense, da anni foraggiato da un sistema di dominio e sfruttamento basato sia sulla potenza finanziaria che su quella del proprio apparato militar-industriale, anche la pace ha un costo. Occorrerebbe, almeno ogni tanto, “saper perdere”. Ma Shel Shapiro e i Rokes non sono certo annoverati tra i consiglieri politici della Casa Bianca.
Anzi, sembra che ad ogni sconfitta segua un periodo di ulteriori involuzioni destinate soltanto a cercare un’ipotetica rivincita militare in altre aree.

Una logica politica più vicina alla mentalità del giocatore accanito che ad ogni perdita è costretto a chiedere prestiti sempre più difficili da rimborsare e destinati ad ingrandirne ulteriormente il debito.
Indirizzandolo verso puntate e giocate sempre più azzardate e rischiose.
E oggi, intorno allo stesso tavolo di casinò, si sono ammassati non solo gli Stati Uniti e il loro sistema economico ed imperiale, ma alcuni dei giocatori più azzardati e “indebitati” (politicamente, economicamente e diplomaticamente alias militarmente) del pianeta.

Pensare che tutto oggi stia seguendo una certa inderogabile logica oppure che tutti gli avvenimenti drammatici che stanno avvenendo tra la Siria, l’Iraq, la Libia e l’Ucraina, passando per quella macelleria a cielo aperto costituita ormai da anni dai Territori palestinesi occupati o stretti d’assedio dagli israeliani, siano ferreamente governati dalla volontà statunitense è un grave errore. Perché non ci permette di cogliere la gravità e le possibili conseguenze dell’attuale momento dell’imperialismo mondiale.

Un’Europa in crisi economica, sociale politica ed identitaria; paesi del Golfo timorosi di finire le riserve petrolifere e di vedere modificati i propri arcaici assetti istituzionali; la Russia di Putin stretta tra delirio di grandezza imperiale e limiti di sviluppo ereditati dal passato; una Turchia avvolta in una spirale di ammodernamento economico e sociale e conservazione politica e religiosa tesi entrambi a garantire l’ordine interno e allo stesso tempo un diverso ruolo degli eredi dell’impero ottomano nella geopolitica planetaria; Israele sempre più schiacciata tra il desiderio di ampliare i propri confini all’infinito e la paura di perdere l’alleato americano: tutti questi fattori concorrono, insieme all’incertezza americana, a creare una miscela fortemente instabile ed altamente esplosiva. Cui, per paradosso attuale, non può nemmeno opporsi una significativa forza antagonista ancora troppo debole e divisa dal trionfo dei nazionalismi e delle identità etniche e religiose e dalle preoccupazioni di carattere economico ed occupazionale.

Lo Stato Islamico ed integralista installatosi a cavallo di Siria ed Iraq sembra, nonostante le atrocità ivi perpetrate, sempre più una parodia di regime del terrore; in cui le immagini delle azioni diffuse attraverso la rete e i network televisivi sembrano rispondere più a logiche dello spettacolo che politiche. E’ però proprio, e sempre di più, la regia di questo teatro del Grand Guignol ad essere nebulosa, evanescente e confusa.

Logiche che sì rispondono alla necessità americana di riaprire un fronte là dove si era appena chiuso, ma, allo stesso tempo, rischiano di riaprire anche questioni delicate ed indesiderate. Come quella curda (che vedrebbe Turchia ed Iran uniti dal comune rigetto di uno stato curdo indipendente), tanto per dirne una. Insieme alla questione dei finanziatori “occulti” del nuovo terrorismo “globale”.

Iniziamo dallo spettacolo in sé. Le immagini delle decapitazioni sono accompagnate, come risposta, dall’uso di aggettivi e sostantivi, indirizzati al fantomatico nemico o a “John l’Inglese”, come mostri, belve, tagliagole, etc. Oppure, ancora una volta, da dichiarazioni sulla nuova minaccia globale che, come ai bei tempi di Saddam, potrebbe ricorrere a terribili armi di distruzione di massa. Ovvero da tutta quella terminologia che serve, in questi casi, a riscaldare gli animi dei benpensanti e i motori dei caccia-bombardieri e dei carri armati.

In compenso le scene di guerra, viste in Tv, non sono adeguate allo sforzo: gente che spara per aria, qualche cadavere qua e là, qualche testimonianza tradotta direttamente nella lingua delle nazioni occidentali, qualche mezzo lanciato in corsa in aree desertiche, qualche altra di mezzi fatti esplodere dai droni o dai missili americani ( che potrebbe provenire da qualsiasi conflitto degli ultimi anni), qualche funerale. Poco, troppo poco per essere un vero kolossal come quello che media e governi ci vorrebbero propinare.

Sia ben chiaro: non si può provare alcuna simpatia o empatia con i militanti delle varie formazioni che si riuniscono intorno allo Stato islamico. Anche se è chiaro che quei militanti, pochi o tanti che siano (volontari delle mille guerre iniziate da quelle balcaniche in poi, sottoproletari delle periferie occidentali stufi della condizione di disagio in cui si trovano a vivere milioni di immigrati di prima, seconda o terza generazione, soldati del disciolto esercito irakeno, sunniti infiammati dalla predicazione di imām radicali in Europa e in Africa) provengono in gran parte da situazioni di disagio e disperazione che sono il risultato delle guerre degli ultimi vent’anni e il prodotto della spartizione imperialistica e capitalistica del globo e del prodotto sociale.

Obama ha chiamato alla mobilitazione generale gli alleati e il dado sarebbe tratto se non che gli alleati, come molti commentatori tendono a sottolineare, sono piuttosto refrattari e recalcitranti ad assumersi decisamente i costi di una guerra che gli Stati Uniti, mai come questa volta, non vogliono affrontare da soli.

Durante il periplo mediorientale il segretario di Stato, John Kerry, ha raccolto l’aperta adesione di dieci paesi arabi favorevoli all’operazione tesa a “distruggere” lo Stato islamico. Questo non significa che siano tutti pronti a mandare la propria fanteria o a bombardare le province siriane e irachene controllate dai jihadisti del califfato autoproclamato da Al-Baghdadi” così scrive Bernardo Valli su La Repubblica del 15 settembre.1 Così alla conferenza di Parigi tenutasi il 15 settembre, dove dei 40 possibili alleati annunciati ne sono intervenuti 30 circa, la disponibilità dei vari governi a condividere i rischi del conflitto contro lo Stato islamico è stata diversa, ed incerta, da caso a caso.

Rischi che non sono soltanto di natura militare. Sul piano religioso o semplicemente emotivo l’alleanza con l’Occidente contro il califfato, sia pur poco credibile secondo le grandi istituzioni islamiche, può urtare la sensibilità di parte della popolazione araba2 In quanto ai dubbi, poi, la stessa Francia, così come altri paesi europei, si è dimostrata incerta sulla possibilità di estendere le incursioni aeree sulla Siria. Più prudenti altri europei che hanno studiato partecipazioni non troppo compromettenti, come il governo di Berlino che ha escluso ogni partecipazione diretta. Mentre la stessa Gran Bretagna ha visto, nei giorni precedenti la conferenza, il governo dividersi tra chi escludeva i bombardamenti in Siria e chi li appoggiava.

Eh sì, perché, guarda caso, un importante pomo della discordia continua ad essere costituito proprio dalla Siria e dal destino futuro del regime di Assad.3 Che, a quanto pare, gli Stati Uniti preferiscono ancora indebolire ed aggredire per fare un piacere all’Arabia Saudita e ad Israele per cercare di indebolire, allo stesso tempo, la presenza russa nel Mediterraneo.

mickey mouse 3 Provare, anche qui, qualsiasi empatia con le politiche di Assad o di Putin è assolutamente fuori luogo, ma, allo stesso tempo, è chiaro che l’ostinazione americana a voler colpire in Siria rivela una parte del gioco mediatico, militare e diplomatico attuale. Alla faccia degli ostaggi, dei cristiani perseguitati, delle minoranze etniche e religiose, delle violenze sulle donne e della salvaguardia della democrazia e della libertà. Ciò che conta continua ad essere contenere la Russia e prepararsi a fronteggiare l’Iran.

Già…gli ostaggi, verso cui sembra volersi estendere il divieto americano ed inglese di trattativa. Anche per quelli europei, francesi ed italiani. Così il sottosegretario agli Esteri Mario Giro, dopo aver dichiarato in un’intervista a Sky Tg24, che “riporteremo a casa gli ostaggi, non importa come“, che qualche sito ha sintetizzato usando il termine “trattare”, ha dovuto immediata precisare che: “Non ho mai detto ‘non importa come’ a riguardo del modo di riportare a casa i nostri rapiti, né ho utilizzato il termine ‘trattare’. Ho detto invece che l’Italia farà di tutto per riportare a casa i 6 rapiti, perché la nostra politica è di non abbandonare nessuno e per raggiungere questo obiettivo studiamo tutti i mezzi possibili e leciti”.4

Gli ostaggi servono alla causa della guerra, soprattutto se morti o uccisi barbaramente, e questi distinguo non sono che la prova della tensione e dell’indecisione che si vive negli uffici dell’intelligence e nei palazzi del governo di fronte alla drastica richiesta di Obama. Purtroppo l’uccisione ad opera di “fuoco amico” di Nicola Calipari, il numero uno dell’antiterrorismo dell’allora SISMI, avvenuto a Baghdad nel 2005 in occasione della liberazione di Giuliana Sgrena ancora insegna.

L’Italia, persa ormai qualsiasi autonomia politica, incapace persino di dar seguito a quella strategia politica che uno dei maggiori rappresentanti della Democrazia Cristiana, Paolo Emilio Taviani, aveva sintetizzo nella formula “la moglie americana e l’amante libica”, finge di tenersi ai margini del conflitto fornendo soltanto armi ai Curdi, addestratori per gli eserciti mediorientali coinvolti e rifornimenti in volo per i cacciabombardieri alleati.

Mettendo così definitivamente a rischio le vite degli ostaggi e i fragili equilibri mediterranei un tempo raggiunti ed oggi denunciati come errori o peggio. Mentre il direttore del quotidiano “democratico” per eccellenza chiama alla difesa dell’Occidente e dei suoi “sacri” valori e alla vera e propria guerra, contro Putin e contro l’Is, con un linguaggio che non si vedeva dai tempi della guerra, almeno allora, fredda.5

Nel frattempo, però, non è escluso che la Russia possa porre un veto al Consiglio di Sicurezza sull’estensione del conflitto alla Siria. Mosca è alleata del regime siriano di Bashar Al Assad e quindi si oppone allo Stato islamico suo nemico, non esitando a offrire aiuti al governo di Bagdad. Ma il presidente russo è pronto, come dimostra l’ordine di mobilitazione e di “pronti al combattimento” dato alle truppe stanziate sul fronte orientale nei giorni scorsi,6 ad opporsi anche muscolarmente a qualsiasi ingerenza americana sul territorio siriano. In un confronto che dall’Ucraina al Mediterraneo si va facendo sempre meno “freddo”.

Che per alcuni “alleati” il vero obiettivo, poi, sia l’Iran non vi possono più essere dubbi. Israele e Arabia Saudita, in particolare, spingono con forza in quella direzione da tempo. Da quando, cioè, la disastrosa campagna irachena condotta dagli Stati Uniti ha rafforzato i governi di Teheran, regalando di fatto agli sciiti il controllo di una vasta parte dell’Iraq medesimo. Ed una delle “colpe” principali del governo di Al Maliki, sciita, è stata forse quella di favorire un riavvicinamento del paese a Russia e Cina ed un allontanamento dagli USA. Mentre il governo di Obama si trova in una posizione altalenante in cui, da una parte chiede alle milizie sciite presenti sul territorio iracheno di collaborare alla guerra contro lo Stato islamico e, dall’altra, rifiuta di far sedere l’Iran allo stesso tavolo di trattative militari e politiche cui siedono anche i suoi due principali nemici (ed alleati degli USA).

Un altro paese che ha opposto un netto rifiuto all’uso delle proprie basi per operazioni di ordine militare in Siria è la Turchia di Erdogan. La scusa ufficialmente addotta è, in questo caso, quella dei 46 ostaggi turchi in mano alle milizie integraliste, ma è chiaro che l’opposizione all’intervento militare nell’area è dettato dal timore della realizzazione di uno stato autonomo curdo in Iraq, che potrebbe portare ad una richiesta di distacco della regione curda dalla Turchia stessa, alla fine o durante il conflitto stesso. In questo Ankara si trova a condividere gli stessi timori regionali di Siria, Iran e Iraq e quindi a propendere più in direzione di accordi con due nazioni (Siria e Iran) che attualmente la politica americana vorrebbe escludere, forse definitivamente, dai giochi politico-economici dell’area.

In tutto questo c’è da chiedersi come il popolo curdo non si sia ancora stancato di dipendere dalle decisioni dei principali clan famigliari (ad esempio il clan Barzani) che si spartiscono il potere nella regione e che, negli ultimi decenni, hanno contribuito a coinvolgerlo in tutti i conflitti dell’area, solo e sempre a vantaggio dell’imperialismo statunitense e delle speranze di arricchimento di alcuni leader attraverso lo sfruttamento delle aree petrolifere presenti sul territorio kurdo. Così come c’è da chiedersi come dopo il tradimento di Abdullah Öcalan, messo in atto dal governo D’Alema nel 1999, il PKK possa ancor a sperare di raggiungere qualche soluzione vantaggiosa attraverso la collaborazione con gli imperi d’Occidente. Una situazione di confusione politica, religiosa e clanica che ha portato anche diversi giovani curdi ad arruolarsi nelle file dell’Isis in Siria fin dal 2012.7

Se il Kurdistan, a differenza di quanto affermano i media occidentali, non è solo abitato da peshmerga è altresì vero che dei circa 30 paesi intervenuti alla conferenza di Parigi quasi il 20% di questi ( Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Oman, Qatar) non possono essere considerati pienamente affidabili, poiché tutte le indagini volte ad individuare i possibili finanziatori dell’Isis portano nella direzione degli stati del Golfo e dell’Arabia Saudita in particolare.

Già, perché gli eserciti del califfato islamico si muovono non solo sotto la bandiera nera che tutti abbiamo visto sventolare nelle immagini televisive. Soprattutto dal punto di vista finanziario.
La frottola che tali gruppi si finanzino principalmente con il “contrabbando” di petrolio, i rapimenti e le trattative per la liberazione degli ostaggi alla lunga non regge. Infatti il pagamento di 20 milioni di dollari al Fronte al-Nusra da parte del Qatar per il rilascio dei 45 caschi blu originari delle Isole Fiji rapiti sulle alture del Golan, puzza di bruciato lontano un miglio e ha tutta l’aria di un finanziamento diretto travestito da intervento umanitario. Nei confronti, oltre tutto, di un gruppo da sempre vicino ad Al Qaeda e all’Isis ed oggi ben accetto a Washington per la sua partecipazione al fronte anti-Assad.8

Un funzionario dell’intelligence degli Stati Uniti sostiene che le risorse dell’Is superano quelle di qualsiasi altro gruppo terroristico della storia.9 Ma tale ipotesi si accompagna al tentativo di negare che tali gruppi non si servano più dei finanziamenti dei ricchi sceiccati arabi. Ora, però, se anche tale ipotesi fosse vera, vorrebbe dire che in passato tali formazioni terroristiche sono state coltivate e cresciute dalle ricche casate petrolifere arabe ovvero dai “fedeli alleati degli USA”. Torniamo dunque in quel teatro di ombre che sempre di più assomiglia alla nota caverna di Platone in cui le ombre proiettate dall’esterno sulle pareti confondono le idee degli uomini. In particolare del bue borghese, come avrebbe detto Marx, ma, troppo spesso, anche di quello pseudo-antagonista.

In un recente articolo, pubblicato sull’Huffington Post, Alastair Crooke , agente ed esperto di cose mediorientali per conto del britannico M-6, ha affermato: ” Con l’avvento della manna petrolifera gli obiettivi dei sauditi erano diventati quelli di “espandersi, diffondendo il wahhabismo10 in tutto il mondo musulmano”… di ‘wahhabizzare’ l’Islam, riducendo così “la pluralità delle voci all’interno di questa religione” in un “unico credo” — un movimento che avrebbe trasceso le divisioni nazionali. Miliardi di dollari furono – e continuano tutt’ora – ad essere investiti in questa manifestazione di soft power.Fu quest’esaltante combinazione di miliardi di dollari d’investimento nell’esercizio di soft power – e la disponibilità manifestata dai sauditi a orientare l’Islam sunnita secondo gli interessi americani, pur innestandovi il Wahhabismo attraverso le istituzioni scolastiche, la società e la cultura in tutti i paesi musulmani – che generò la politica occidentale di dipendenza dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura già dall’incontro di Abd-al Aziz con Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di ritorno dalla Conferenza di Yalta) fino ad oggi […]Dopotutto, i movimenti islamisti più radicali venivano visti dai servizi segreti occidentali come strumenti utili per abbattere l’URSS in Afghanistan – e combattere leader e stati mediorientali che non godevano più del loro favore.

Perché sentirsi così sorpresi, allora, se dal mandato saudita-occidentale del Principe Bandar di gestire l’insorgenza siriana contro il Presidente Assad sia poi emerso un tipo movimento d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso: l’ISIS? E perché mai dovremmo sentirci tanto sorpresi – sapendone un po’ sul Wahhabismo – del fatto che gli insorgenti siriani “moderati” siano finiti col diventare più rari del mitico unicorno? Perché mai avremmo dovuto immaginare che il wahhabismo avrebbe generato dei moderati? Oppure, perché mai avremmo dovuto immaginare che la dottrina di “Un Leader, Un’Autorità, Una Moschea: sottomettetevi o morirete” potesse mai in ultima istanza condurre alla moderazione o alla tolleranza?
Oppure, forse, non ci siamo mai sforzati d’immaginare
11 Ma qui occorre per ora fermarsi.

mickey mouse 4 L’Is o, meglio, le varie milizie jihadiste costituiscono, inoltre, un mosaico molto composito in cui si manifestano anche i differenti interessi dei vari paesi del Golfo che, in alcuni, casi (Arabia Saudita e Qatar) hanno spesso interessi contrapposti in Siria e in Egitto. Quando, addirittura, non arrivano ad avere posizioni differenti a seconda che agiscano in Siria o in Iraq. Come il già citato Fronte al-Nusra.

L’unica cosa certa per ora è che si sta andando verso una guerra, i cui contorni, obiettivi e limiti, se ne avrà, non sono ancora ben definiti. Obama non sembra avere una road map che vada oltre il momento12 e la necessità di mantenere in vita lo sfiancatissimo cavallo imperiale statunitense. A qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Per ora con scarso impegno militare sul terreno, qualche bombardamento e il tentativo di costringere tutti gli attori regionali e occidentali a dichiararsi o a stringersi in un blocco sostanzialmente anti-russo ( a partire dalle sparate retoriche sull’indipendenza ucraina) e anti-iraniano. Tutto ciò mentre gli europei sono scoordinati, divisi e confusi e una parte significativa dei giocatori seduti al tavolo sta evidentemente barando.

Per di più, all’ombra di questo gioco e sulla pelle di centinaia di migliaia di civili, Israele sta tranquillamente preparando un’ennesima aggressione al Libano, paventando la pericolosità di Hezbollah (che in realtà ha sempre combattuto contro le forze integraliste sunnite); l’Egitto può continuare nella sua politica di normalizzazione dei beduini del Sinai, accampando la scusa di una presenza tra le varie tribù di una componente jihadista, e di messa al bando dei Fratelli Musulmani e gli Stati Uniti arrivano a lanciare l’allarme per una pericolosa presenza dell’Is anche in Estremo Oriente, preparandosi ad ammassare truppe in quel quadrante in funzione anti-cinese. Cosa cui non è rimasta indifferente la Cina che si è schierata con la Russia sulla questione dei possibili bombardamenti americani in Siria.

ombre di guerra1 Ma la cosa più grave, da un punto di vista anti-imperialista e anti-militarista, non è nemmeno costituita tanto dall’assenza di un qualsiasi movimento contrario alla guerra di qualche peso, quanto piuttosto dal fatto che, nel disastro generale, i disperati, i giovani proletari e i sotto proletari delle aree coinvolte dai massacri e delle periferie dell’impero siano diventati succubi dei nazionalismi e del fanatismo religioso oppure dei vacui discorsi democratici e progressisti; insomma di tutte le trappole ideologiche di cui si sono serviti gli imperialismi, potenti o straccioni non importa che siano, per affermare le loro logiche di dominio a partire dai due conflitti mondiali. Tutto ciò grazie anche al totale abbandono di qualsiasi riferimento alla lotta di classe da parte delle sedicenti sinistre occidentali. Che, in ultima istanza, nascoste dietro alla fasulla maschera dell’umanitarismo e della non violenza hanno abbandonato al proprio destino proprio coloro che tale stato di cose (i lavoratori, i giovani, gli sfruttati di ogni sesso e nazionalità) avrebbero potuto rovesciare, tanto in Occidente quanto in Oriente.


  1. Bernardo Valli, Raid contro l’Is, sì dei paesi arabi. A Obama l’appoggio degli “alleati riluttanti”  

  2. Bernardo Valli, art. cit.  

  3. Definito, ancora su La Stampa, “macellaio”. Domenico Quirico, Fra i tagliagole e il macellaio Assad in Siria non c’è più posto per i buoni, 15 settembre 2014  

  4. Claudia Fusani, Terrorismo, l’Italia ha ancora sei ostaggi. Barack Obama chiede agli alleati di non trattare, L’Huffington Post 14 settembre 2014  

  5. Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l’America, delimiti l’Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli?[…]Per tutto il breve spazio “di pace” che va dalla caduta del Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata.[…]Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11 settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere – sia pur riconoscendo la sua legittimità – e coltiviamo la libertà del dubbio.
    Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?
    ” in Ezio Mauro, L’Occidente da difendere, La Repubblica 5 settembre 2014  

  6. L’ordine di verificare le capacità combattive delle truppe russe sembrerebbe essere legato all’imminente avvio della campagna americana contro l’Is in Iraq e in Siria. Il ministero della Difesa russo, infatti, ha ribadito oggi che qualunque azione aerea delle forze armate americane sul territorio siriano senza un preciso mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sarà interpretato dalla Russia come un atto di aggressione unilaterale” in Putin ordina alle Forze armate russe: “Pronti al combattimento in Oriente”, La Repubblica 13 settembre 2014  

  7. i focolai jihadisti non sono una realtà nuova per il Kurdistan iracheno. Basti pensare che il 23 maggio scorso è stato sventato un attacco terroristico a Suleimani ordito ai danni di esponenti governativi dell’Unione patriottica del Kurdistan da parte di Aram Ozair, ventenne originario di Halabja che era tornato in Kurdistan dopo aver combattuto per 8 mesi tra le file dell’Isis in Siria. Originari di Halabja erano pure i 9 ragazzi curdi che nel novembre 2013 sono morti in Siria durante feroci scontri tra i miliziani dell’Isis e l’esercito di Asad. I giovani, tutti di età compresa tra i 17 e i 24 anni, erano stati assoldati dalle milizie dell’Isis nel 2011 e si erano uniti alla guerriglia jihadista in Siria. […]Secondo Mariwan Naqshbandi, ministro degli Affari religiosi del Kurdistan iracheno, molti uomini che si sono uniti all’Isis e combattono oggi in Siria sono stati membri attivi dell’organizzazione salafita curda Ansar al Islam. Questo gruppo terroristico ha cominciato a operare in tutto il Kurdistan iracheno a partire dal 2001; tra le azioni più note, si ricorda l’assassinio nel febbraio 2002 di Franso Hariri, governatore di Erbil. Nel 2003, Ansar al-Islam fu bombardata durante un’azione militare congiunta tra peshmerga e Forze speciali americane. L’organizzazione si è sfaldata in più fazioni, la principale delle quali è Ansar al-Sunna, autrice di decine di attacchi suicidi, di cui il più clamoroso è stato quello all’interno della mensa di una base americana a Mosul il 21 dicembre 2004 che causò la morte di 14 militari americani.
    Alcuni giovani curdi di Halabja si sono arruolati tra le file dell’Isisper per via dell’alto tasso di disoccupazione giovanile (7,7% nel 2012) e dell’analfabetismo (20,8% dei residenti sopra i 10 anni). Anche l’eredità ideologica di Ansar al-Islam e la glorificazione del jihad da parte di mullah curdi che avverrebbe tramite i canali televisivi locali sono ottimi volani per il reclutamento. Non vi è competizione con altre ideologie, perché non convincono in un Kurdistan in cui la tradizione curda, per certi versi più secolare rispetto all’islam saudita, resta comunque ancorata a valori predefiniti che lasciano poco spazio a iniziative autonome individuali.
    La pressione ideologica nelle scuole e nelle università è forte e volta alla formazione di personalità standardizzate. Per questo i non pochi religiosi curdi che incoraggiano il jihad in Siria presentandolo come un valore coranico raccolgono proseliti. Salim Shushkay, esponente di spicco dell’islam curdo, è stato recentemente accusato dai servizi segreti del Kurdistan di aver spinto ragazzi curdi ad arruolarsi tra le fila dell’Isis in Siria, accuse respinte fermamente. L’intelligence curda continua a indagare tra le moschee soprattutto della provincia di Halabja, che è considerata l’hub principale del fondamentalismo religioso in Kurdistan. È vero però che, tra i rifugiati siriani, alcuni giovani uomini che si sono trasferiti nel Kurdistan iracheno perché disertori o obiettori di coscienza vengono reclutati e addestrati in campi militari nella regione già dal 2012. La differenza sta non nella finalità ma nella mentalità
    ”, in Emanuela C. Del Re, Guerra a Isis, tregua con Baghdad: la strategia dei curdi d’Iraq, Limes Oggi on Line del 24 giugno 2014  

  8. Opposizione siriana, Qatar ha pagato riscatto di 20 milioni di dollari per rilascio caschi blu da al-Nusra”, La Repubblica 13 settembre 2014  

  9. Petrolio, tratta, rapimenti: Is è il gruppo terroristico più ricco della storia”, La Repubblica 14 settembre 2014  

  10. una forma di puritanesimo islamico radicale ed esclusionista – N.d. A.  

  11. Alastair Crooke, Non si può capire l’ISIS senza conoscere la storia del Wahhabismo in Arabia Saudita, traduzione di Stefano Pitrelli, Huffington Post 3 settembre 2014  

  12. Massimo Gaggi, “Ma Obama non ha una road map per quando il Califfato sarà sconfitto”, Corriere della sera 15 settembre 2015  

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