Settimana rossa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Gli Arditi del popolo, il PCd’I e l’irrisolta questione dell’organizzazione militare di classe https://www.carmillaonline.com/2019/12/11/gli-arditi-del-popolo-il-pcdi-e-lirrisolta-questione-dellorganizzazione-militare-di-classe/ Wed, 11 Dec 2019 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56642 di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, dal punto di vista storiografico e politico, le vicende che portarono ad una netta distinzione tra l’organizzazione illegale del Partito fondato a Livorno nel 1921 e quella spontanea e diffusa, soprattutto in ambito proletario, di chi cercava di opporsi armi alla mano alla nascente minaccia fascista.

Una lezione, indipendentemente dai risultati conseguiti e dalle motivazioni politiche che alimentarono le differenti strategie e tattiche assunte dai principali protagonisti, che potrebbe rivelarsi ancora oggi decisiva per distinguere comunque il reale antifascismo da quello di facciata finalizzato soltanto a protrarre oltre ogni possibile limite la sopravvivenza dell’attuale ordine economico e sociale basato sul sopruso e l’oppressione di classe.
All’interno di un conflitto sociale che si muove oggi in un’aura già di guerra civile, nelle diverse aree del globo in cui si va manifestando, ma in cui una parte dei contendenti sembra ancora tardare nel prendere coscienza delle difficoltà e delle responsabilità che l’attendono nel confronto con la violenza dispiegata dagli Stati e dai loro apparati militari e repressivi.

Tale non secondario problema, evidentemente, nel periodo intercorso tra il 1919 e il 1921, fu invece centrale per l’organizzazione di chi, tornato dalla guerra oppure rimasto in officina, doveva fare i conti con la crisi economica successiva alla fine del primo conflitto mondiale e, soprattutto qui in Italia, con l’organizzazione della violenza armata delle milizie che, come quelle fasciste, affiancarono l’opera di controrivoluzione preventiva messa in atto dallo Stato nei confronti dei lavoratori e del proletariato e delle loro iniziative ed organizzazioni politiche e sindacali.

Certo, a differenza di oggi, l’idea della violenza ineliminabile da qualsiasi discorso sullo scontro di classe non era ancora stata cancellata dalla memoria di chi si opponeva all’esistente e alle condizioni di vita e di lavoro che ne conseguivano. E a questo avevano certamente contribuito anni di guerra e di macelli interimperialisti, la leva di massa, le sofferenze di coloro che erano rimasti a casa e la delusione dei reduci e dei sopravvissuti di un conflitto che aveva causato in Europa circa dieci milioni di morti e un’innumerevole quantità di feriti e dispersi tra le file dei soldati di ogni nazionalità.

L’uso delle armi era diventato massiccio e abituale per chi era stato al fronte, ma anche il corso degli avvenimenti precedenti e contemporanei al periodo di guerra (la settimana rossa, l’insurrezione di Torino dell’agosto del 1917, le rivolte per il pane e la terra e le occupazioni delle fabbriche del cosiddetto Biennio rosso) aveva determinato tra i proletari, gli operai e i militanti più decisi delle varie tendenze politiche contrarie al capitalismo una pratica diffusa di detenzione o una più semplice propensione all’uso delle armi per far valere i propri diritti oppure per difendere la propria vita, le manifestazioni, gli scioperi e tutte le strutture connesse all’organizzazione delle lotte (tipografie, sedi sindacali e di partito, case private dei militanti) dall’assalto delle forze della controrivoluzione preventiva: sia che si trattasse di quelle dello Stato che di quelle inquadrate nelle milizie fasciste.

Un’azione militare proletaria che ebbe nell’azione degli Arditi del popolo un’autentica punta di diamante nella risposta al Fascismo e che finì con lo scontrarsi sia direttamente sul campo che giuridicamente con gli apparati repressivi e militari dello Stato Regio.
Stato che sempre e comunque, ben prima della sua completa fascistizzazione, intervenne a difesa delle milizie nere sia a supporto della loro azione repressiva che per soccorrerle in caso di probabile o evidente sconfitta. Ragion per cui gli appelli successivi alla pacificazione o l’invito al ritorno alla tradizione democratica del parlamento e del governo, ancora nel 1924 dopo il delitto Matteotti oppure vent’anni dopo con gli appelli ai “fratelli in camicia nera” del 1938 o la formazione del CLN dopo la caduta del regime, sempre risuonarono, e non avrebbe potuto essere diversamente, come autentici tradimenti dell’iniziativa autonoma proletaria e dello spirito rivoluzionario che l’aveva spontaneamente animata fin dagli anni del primo dopoguerra.

Mantovani prende in esame, nel suo sintetico testo, un problema importante e significativo del rapporto tra organizzazione politica (il partito o i partiti) e azione autonoma del proletariato: quello dell’avvicinamento alle formazioni militari degli Arditi del popolo e del contemporaneo allontanamento di molti militanti dalla disciplina e dalle direttive degli stessi partiti, in particolare da quel Partito Comunista d’Italia che era nato da una scissione a sinistra dell’ormai decotto Partito Socialista.

Proprio la giovane dirigenza del partito, nato rivoluzionario sulla base delle indicazioni della Internazionale Comunista o Terza Internazionale, fu quella che con più decisione si oppose teoricamente e organizzativamente all’unione militare tra militanti del Partito, proletari non ancora inquadrati politicamente e ex-combattenti antifascisti e avversi a quell’ordine socio-economico che li aveva mandati al macello.

Questi ultimi avevano una composizione socio-politica molto diversificata al proprio interno: ex-militari di prima linea, volontari fiumani, anarchici, socialisti, repubblicani, comunisti provenienti da classi sociali diverse (studenti, piccoli borghesi, disoccupati, sottoproletari, lavoratori), ma uniti nel rifiuto dell’esistente e attivi nel rispondere alla minaccia e alle aggressioni fasciste.
Certo non potevano essere portatori di un programma politico ben delineato e definito e proprio da qui nacque l’equivoco, se vogliamo definirlo con un eufemismo, che portò l’allora segretario del Partito Amadeo Bordiga e buona parte del direttivo dello stesso ad opporsi alla pratica di collaborazione militare e a proporre un inquadramento militare, destinato soltanto ai militanti riconosciuti del partito stesso, all’interno delle strutture illegali del Partito.

Molti militanti non diedero ascolto a tali indicazioni (lo dimostrano le cifre delle adesioni agli Arditi del popolo di militanti definiti come comunisti) e ciò naturalmente causò irritazione negli organi dirigenti da una parte e dall’altra una serrata polemica tra la direzione del Partito e la Direzione dell’Internazionale e lo stesso Lenin, favorevoli invece ad una collaborazione militare tra il Partito italiano e le formazioni militari spontanee rappresentate dagli Arditi.

Mentre la dotta introduzione di Marco Rossi, già autore di diversi testi sul teme degli Arditi e del rifiuto della guerra, serve a inquadrare più generalmente il periodo e le pratiche spontanee di resistenza e di organizzazione paramilitare di chi, nel primo dopoguerra oppure durante la guerra stessa, si opponeva allo Stato borghese, al capitalismo, al nazionalismo e al fascismo, la ricostruzione di Mantovani si basa principalmente sulla documentazione e sui testi prodotti all’epoca dal Partito Comunista a direzione bordighiana e dall’Internazionale relativi al medesimo argomento.

E’ un lavoro interessante e, fortunatamente, critico delle formulazioni e delle pratiche messe in atto dal PCd’I in quei frangenti, ma nell’opera quasi ostinata di antologizzazione dei testi (molto ricca è infatti l’Appendice in cui si raccolgono i documenti, gli articoli e gli accesi contrasti tra Partito e Internazionale) rischia di cadere nello stesso errore di schematismo in cui caddero Bordiga e gli altri dirigenti del Partito (fatto forse salvo il caso di Gramsci) che ebbero come unico faro i compiti e i programmi del Partito stesso, senza tener conto delle proposte e delle nuove modalità organizzative e operative che giungevano dal basso e dalla società. Un dibattito che, per forza di cose, era destinato e sarebbe destinato tutt’ora, a rimanere racchiuso nel confronto ideologico e politico interno ad una minima frazione di proletariato e di militanti compresi all’interno del Partito di allora o di quello puramente immaginario di adesso.

In questo, però, occorre anche vedere anche un prolungamento di quelle pratiche bolsceviche e bolscevizzanti messe in atto proprio sulla base delle indicazioni provenienti dall’Internazionale per la formazione dei nascenti partiti comunisti: partiti di quadri e militanti rivoluzionari che dovevano guidare le masse in nome di un chiaro e ben definito progetto di azione tattica e strategica.
Una concezione dell’azione politica militante che non solo avrebbe portato nel giro di pochi anni alla degenerazione staliniana nell’Urss e nei partiti “fratelli”, ma che era riuscita di ostacolo persino agli inizi della rivoluzione russa quando, a febbraio, i rappresntanti del partio presenti a Pietrogrado si erano inizialmente opposti alle iniziative dal basso, di operaie, operai e soldati, che avrebbero portato nel giro di una settimana alla caduta dello Zar.

Una concezione e una pratica militare, quella ereditata dal partito bolscevico, più adatta all’azione armata ristretta delle fasi di difficoltà di un movimento (come quella attraversata dal partito bolscevico dopo la rivoluzione del 1905) piuttosto che all’azione generale di classe in un momento di guerra civile oppure pre-insurrezionale e rivoluzionario. Concezione ristretta che si sarebbe drammaticamente riverberata anche nei cosiddetti ‘anni di piombo’ e nelle tragiche e perdenti scelte operate dalle organizzazioni maggioritarie della lotta armata italiana a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Se non sbaglio, poi, l’autore dimentica una specie di autocritica che lo stesso Bordiga avrebbe poi fatto sulle pagine di Prometeo, la rivista teorica del Partito sopravvissuta pochi mesi all’azione fascista statalizzata, riconoscendo l’importanza che il movimento dannunziano e l’impresa di Fiume avrebbero potuto avere come momento di rottura all’interno della società italiana se questa fosse stata riconosciuta dai vertici della Sinistra come una possibile componente del movimento rivoluzionario. Ma questa “autocritica” in realtà tale non era poiché all’epoca del movimento dannunziano il Partito Comunista non esisteva ancora e, quindi, la responsabilità poteva essere rovesciata interamente sul Partito Socialista.

Il testo di Mantovani, edito da Pagine marxiste, è pertanto utile dal punto di vista della conoscenza e diffusione delle teorizzazioni, pro o contro, dell’epoca, ma pecca ancora di una mancata e approfondita analisi delle componenti sociali e degli immaginari che determinarono tali scelte. E questo non è poco in un momento in cui, a livello mondiale, torna a delinearsi uno scontro di classe variegato e contraddistinto dall’essere più guerra civile che non “rivoluzione pura” come alcuni vorrebbero, cosa che condannerà inevitabilmente questi ultimi a ripercorrere ancora le stesse orme lasciate da altre sconfitte nella neve insanguinata della Storia.

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Quell’orribile maggio di guerra https://www.carmillaonline.com/2015/11/12/quellorribile-maggio/ Wed, 11 Nov 2015 23:00:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26506 di Sandro Moiso

estate di guerra Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio – 20 settembre 1915), a cura di Massimo Ortalli, BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 126, € 12,00

Il diario di Luigi Fabbri, recentemente pubblicato dalle edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, costituisce ancora, ad un secolo dalla sua originaria stesura, un documento davvero straordinario per comprendere da un punto di vista di classe gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.

Molto è stato infatti scritto su quello che alcuni si attardano ancora a chiamare “maggio radioso”, [...]]]> di Sandro Moiso

estate di guerra Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio – 20 settembre 1915), a cura di Massimo Ortalli, BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 126, € 12,00

Il diario di Luigi Fabbri, recentemente pubblicato dalle edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, costituisce ancora, ad un secolo dalla sua originaria stesura, un documento davvero straordinario per comprendere da un punto di vista di classe gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.

Molto è stato infatti scritto su quello che alcuni si attardano ancora a chiamare “maggio radioso”, sia dal punto di vista storico che documentaristico, ma il diario di Fabbri ci immette direttamente, per così dire, al centro delle aspettative, dei tentennamenti, delle riflessioni e delle delusioni che si svilupparono all’interno di un fronte classista che avrebbe dovuto essere omogeneo e che invece tale non fu.

Tale disomogeneità non fu soltanto dovuta alla tradizionale divisione tra movimenti e partiti di classe e repubblicani oppure tra anarchici e socialisti, ma si manifestò quasi da subito anche all’interno di quelle forze che avrebbero dovuto contrastare radicalmente l’immane carneficina che si andava consumando in Europa a partire dall’anno precedente.

Non soltanto il tradimento di Benito Mussolini o il voltafaccia repubblicano dopo la sconfitta della “settimana rossa” oppure le scelte del sindacalismo rivoluzionario finirono quindi con l’impedire ed ostacolare qualunque presa di coscienza anti-militarista a livello di massa, ma anche l’estremismo di alcuni, l’infantilismo o, peggio ancora, l’opportunismo di singoli militanti contribuì a facilitare l’entrata in guerra dell’Italia, nonostante le numerose manifestazioni di dissenso e di protesta, spesso spontanee, che si erano andate sviluppando tra i lavoratori e i soldati richiamati alla leva fin dai mesi precedenti.

Come afferma Giampietro Berti in uno studio sull’anarchico marchigiano: ”Luigi Fabbri nasce come anarchico nell’ultimo decennio dell’Ottocento – il decennio crispino e della crisi di fine secolo – , ma si esprime come anarchico nell’età giolittiana. C’è quindi una doppia anima nel suo anarchismo. Vi si trova, allo stesso tempo, una componente esistenziale o, per meglio dire sentimentale (vale a dire a-razionale), che lo forma moralmente e politicamente durante gli anni duri ed eroici del movimento operaio e socialista; e una componente razionale che gli permette di dare il meglio di sé durante il primo quindicennio del secolo1

E’ proprio questa sorta di “doppia identità” intellettuale che permette a Fabbri di analizzare con estrema precisione e, talvolta, con mal celata disillusione gli avvenimenti e le scelte che accompagnano l’orribile maggio e i mesi che lo precedono e seguono immediatamente.
Infatti già nel novembre del 1914, in una lettera inviata ad una compagna, “l’anarchico fabrianese si era detto «estenuato e sfiduciato ed anche nauseato.[…] certi momenti mi domando se non sarebbe meglio tacere, e lasciare che la bufera passi, […] lasciare cioè che il popolo s’abbia il governo che merita, i politicanti che merita e la guerra che merita»”2

Nonostante tutto, però, Fabbri continuò a portare avanti sulle pagine di “Volontà”, di cui fu direttore fino al maggio del 1915 dopo la fuga di Errico Malatesta a Londra, una campagna antimilitarista in cui cercò comunque di marcare sempre la differente posizione dei socialisti-anarchici di cui era esponente, sia nei confronti delle altre componenti del movimento operaio, sia delle confuse e rumorose correnti libertarie favorevoli alla partecipazione bellica. Mentre soltanto dopo la definitiva chiusura del periodico libertario decise di affidare le sue riflessioni ad un diario, destinato fin dall’inizio a diventare oggetto di pubblicazione.

Quello che fin dai primi giorni di maggio non mancò di sottolineare fu come quella guerra che doveva essere rapida e breve si stesse rivelando come un immane macello, così come rivelavano le corrispondenze degli stessi giornali borghesi dai fronti già aperti dall’agosto precedente .
No, il popolo non vuole la guerra. Per la parte più incosciente, non aperta alle idee, la guerra non è voluta per ragioni tutt’altro che simpatiche. Eppure tali masse costituiscono la maggioranza stragrande del paese, che subisce passivamente i fatti per legge di adattamento; se la guerra si farà, com’è certo, altrettanto certamente marceranno compatte; – cominceranno col subire la guerra come una sventura, ma finiranno col parteciparvi con tutte le apparenze della buona volontà…fino al giorno in cui non la bestemmieranno, quando ne saranno stanchi o si determineranno fatti che creeranno un prevalente stato d’animo diverso” ( 10 maggio, pag. 33)

Il messaggio di Fabbri è chiaro e valido ancora per l’oggi: una volta iniziata una guerra non si può arrestare, almeno fino a quando non arrivi ad un punto di rottura psicologico, fisico, economico, militare e sociale. “Soltanto se l’opposizione alla guerra sapesse diventare opposizione antimonarchica e passare i ponti della legalità prima della guerra, questa potrebbe essere evitata. Se no, no!” ( pag . 34)

Nei giorni che precedono immediatamente l’entrata in guerra le manifestazioni antimilitariste sono ancora numerose e diffuse: basti pensare che oltre a quelle spontanee, spesso organizzate dal basso dalle famiglie dei richiamati, tra il 1° maggio e il 2 maggio vi furono in Italia più di 400 comizi pubblici rivolti in tal senso. Certamente la stampa borghese tendeva però ad ignorare tale realtà per dare molto più spazio e visibilità a quelle degli interventisti. Lasciati liberi di spadroneggiare sulle piazze in finte rivolte e manifestazioni di protesta, spesso capeggiate da ufficiali e carabinieri. Gli stessi che in caso di manifestazioni operaie e antimilitariste non avevano esitato a prendere e a revolverate la folla.

Sarà lo stesso Fabbri a sottolineare come non siano “le sfuriate pseudo-rivoluzionarie di Mussolini e del suo variopinto contorno a pretese sovversive” (15 maggio, pag. 41) a costituire lo strumento principale della diffusione della propaganda interventista ma, piuttosto, la propaganda della stampa borghese e della sua cultura di stampo “classico” a diffondere anche tra i giovani, studenti soprattutto, l’idea della necessità di una guerra irredentista contro l’Austria.

Peccato soltanto che, per quanto un luogo comune della stampa interventista sia sempre stato quelle delle popolazioni “irredente” in fremente attesa dell’arrivo delle truppe italiane: “Dopo l’inizio della guerra italo-austriaca […] pare ora che in tutto ciò ci fosse molta esagerazione. Sempre più si diffonde la notizia che invece quelle popolazioni mostrino una vera ostilità contro gli italiani. Ciò è confermato dalle notizie, lasciate passare dalla censura,, di interi villaggi che il comando militare ha dovuto far evacuare, internandone gli abitanti, perché essi costituivano un vero pericolo alle spalle delle linee combattenti […] Dovunque si sono eseguite fucilazioni” (21 giugno, pag. 67)

Però, in un contesto pur ancora difficile per i fomentatori del conflitto, gli ostacoli che si frappongono ad una possibile iniziativa di classe sono di varia natura. Intanto l’ambigua posizione del Partito Socialista che, sventolando la parola d’ordine della neutralità, finì con l’accomunarsi ai germanofili e austriacanti nella medesima fiducia in una soluzione ministeriale. ”Se si fosse, unanimemente, adottata da tutti i sovversivi la formula della «guerra alla guerra» e la si fosse sostenuta esclusivamente sul terreno popolare, rivoluzionario e dell’azione diretta, forse, si sarebbe salvaguardata qualche posizione elettorale di meno e si sarebbe corso qualche rischio personale di più, ma si sarebbe rimasti meglio a contatto con l’anima proletaria, si sarebbe ottenuto dalla propria attività un miglior risultato” (14 maggio, pag. 40)

Ma se da un lato l’educazione legalitaria e parlamentarista diffusa tra le masse dai socialisti aveva contribuito a diffondere la paura per le conseguenze di una autentica sollevazione tra le stesse file proletarie, dall’altro la propaganda bellicista poteva valersi delle strida di coloro che atteggiandosi ancora a veri rivoluzionari, giustificavano la partecipazione al conflitto in mille modi, sia tra gli ex-socialisti che tra gli anarchici più esagitati.

Oltre che della repressione e delle misure cautelari preventive cui fu sottoposto chiunque osasse levare la voce contro il conflitto. Come lo stesso Fabbri ebbe modo di vivere sulla propria pelle con un internamento in carcere cui fu sottoposto tra il 22 e il 29 maggio. A queste prime contenute misure seguirà poi l’istituzione di reparti speciali costituiti interamente da sovversivi e ribelli proletari destinati ad “operazioni militari in cui la strage è prevista; dei reparti di truppe devono sgombrare il terreno per gli altri, saggiarlo, rompere i reticolati, ecc. La maggior parte dei soldati che ne fan parte è per ciò condannata a morte sicura.[…] <> hanno scritto dal fronte dei romagnoli” (20 settembre, pag. 121)

E’ solo in questo contesto che è possibile comprendere appieno il ruolo vile e servile svolto da Mussolini nei confronti dell’imperialismo italiano e anglo-francese. Non nell’avere davvero mobilitato milioni di italiani, ma di aver contribuito a diffondere l’autentica lue dell’odio nazionalista ed interventista tra le fila del proletariato allontanandolo dalle autentiche posizioni anti-imperialiste e anti-belliciste che avrebbero potuto condurre la sue lotte a ben altri esiti.
Quanto danno ha fatto quest’uomo, in soli dieci o dodici mesi di attività giornalistica! Quanto odio ha seminato! Quante idee ha contorte e confuse nell’animo di suoi lettori più deboli, più ingenui e più incolti!” (26 agosto, pag 103)

In queste parole si può cogliere tutta la responsabilità, illimitata, di Benito Mussolini nel fuorviare la lotta di classe e la falsità e l’infingardaggine di tutti coloro che hanno cercato e ancora cercano di cogliere e individuare nel fascismo e nel suo duce un’anima proletaria e una differente funzione sociale del suo autoritarismo. Sarà così proprio Fabbri, più che i teorici del Partito Socialista e del nascente PCd’I negli anni successivi al conflitto, ad individuare lucidamente nel fascismo una controrivoluzione preventiva svolta tutta in funzione anti-proletaria e classista.

da fabriano a montevideoIl diario si conclude nei giorni in cui Fabbri è richiamato alle armi, ma molte sarebbero ancora le considerazioni, ivi contenute, degne di essere segnalate per la loro preziosa lucidità ed avvedutezza di giudizio, tanto da rendere la sua lettura un esercizio costante di confronto con le tante opinioni accumulatesi a ”sinistra” sui conflitti e sul dispiegamento politico-militare imperialista così come sull’azione proletaria, sia spontanea che organizzata.

A questo punto però è preferibile segnalare ai lettori l’ampio catalogo dedicato dalla BFS alle opere, alle corrispondenze e alla vita dell’intellettuale e militante anarchico, nato a Fabriano nel 1877 e morto in esilio a Montevideo (Uruguay) nel 1935. Così oltre gli Atti del convegno tenutosi a Fabriano nel 2005 e già segnalati in nota, occorre qui ricordare:

Luigi Fabbri, Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900 – 1935), a cura di Roberto Giulianelli

Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero

Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario contro il bolscevismo e il fascismo

Cui andrebbe ancora aggiunto: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, Zero in condotta, Milano 2009


  1. Giampietro Berti, Il posto di Luigi Fabbri nella storia del movimento anarchico italiano, in Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, ( a cura di Maurizio Antonioli e Roberto Giulianelli), Atti del convegno tenutosi a Fabriano l’11 e il 12 novembre 2005, BFS edizioni, Pisa 2006  

  2. Roberto Giulianelli, Prefazione a La prima estate di guerra, pag. 10  

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