Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 04 May 2024 05:00:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 La più miserabile delle arti https://www.carmillaonline.com/2021/11/18/la-piu-miserabile-delle-arti/ Thu, 18 Nov 2021 21:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68950 di Gioacchino Toni

A distanza di quasi un decennio dalla sua prima uscita, ricompare sugli scaffali delle librerie, in una nuova edizione, il volume di Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale (elèuthera, 2021) [su Carmilla] ove, nel suo caratteristico alternare racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni o da letture di vario tipo, l’autore passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180.

Dopo la chiusura dei manicomi tradizionali è con il ricovero presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura [...]]]> di Gioacchino Toni

A distanza di quasi un decennio dalla sua prima uscita, ricompare sugli scaffali delle librerie, in una nuova edizione, il volume di Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale (elèuthera, 2021) [su Carmilla] ove, nel suo caratteristico alternare racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni o da letture di vario tipo, l’autore passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180.

Dopo la chiusura dei manicomi tradizionali è con il ricovero presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura che l’individuo inizia la sua carriera di “malato di mente”, di dipendente/utente della “fabbrica della cura mentale”. Condotto in stato di agitazione in una di queste strutture, viene lì trattenuto, facilmente obbligato a una terapia sedativa e, quando ritenuto necessario, legato al letto. Se il malcapitato non si “normalizza” velocemente rischia di essere obbligato a soggiornare per qualche tempo presso qualche Casa di cura convenzionata. Una volta riammesso in società, non è difficile aspettarsi che, vista la sostanziale impossibilità di ricevere aiuto domiciliare, il paziente torni presto a essere ricondotto presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, dunque a riprendere il percorso dal suo inizio.

È così, sostiene Cipriano, che funziona la “fabbrica della cura mentale”: una fabbrica che ha il suo direttore (il primario) che controlla il buon funzionamento della catena di montaggio umana coadiuvato dai tecnici specializzati (gli psichiatri) con il malato recepito come la macchina biologica da riparare non attraverso la parola, la relazione e un po’ di umanità, ma soprattutto per via farmacologica.

Uno spazio importante all’interno del libro Cipriano lo dedica al perdurare della pratica del legare i pazienti con disturbi psichici, nonostante la chiusura dei manicomi tradizionali e il suo non comparire nei libri di psichiatria. Ciò avviene sicuramente a causa di carenze legislative, oltre che per la sua “economicità” ma, sottolinea l’autore, a permettere tutto ciò sono soprattutto l’etica e la cultura degli operatori che continuano a farvi ricorso.

Il volume uscito nel 2013 ha avuto, tra gli altri, il merito di contribuire a riproporre, non solo tra gli operatori, “il problema della contenzione”. La questione resta di estrema attualità, come sottolinea Cipriano nell’introduzione alla nuova edizione, anche alla luce di alcuni eventi recenti che danno il polso della situazione. In particolare l’autore si sofferma su come la forma narrativa di un libro come L’arte di legare le persone, scritto da Paolo Milone, psichiatra ormai in pensione, abbia ottenuto un certo consenso persino tra “intellettuali insospettabili”, «capaci di applaudire a questa malafede psichiatrica camuffata da gesto narrativo. Intellettuali convinti che siccome la letteratura è letteratura, in quanto tale deve poter dire tutto. […] La letteratura d’altra parte è magica, e ha il potere di muovere gli eventi e far rinascere, come zombie, certe pratiche che credevamo di aver seppellito. Come ogni magia la letteratura può essere bianca oppure nera, quando la letteratura riesce a persuadere che legare le persone è un’arte, io dico che è una sorta di magia nera».

Per farsi un’idea del regresso culturale che caratterizza l’attualità basta notare come a vincere il concorso per dirigere il Centro di Salute Mentale aperto nelle 24 ore di Trieste sia stato l’ex direttore di un SPDC chiuso, con porte sotto chiave e fasce pronte all’uso. «Forse perché l’arte di legare è stata riabilitata perfino dalla letteratura?». Probabilmente, afferma pungente Cipriano, «l’arte di legare le persone è l’arte in cui devi eccellere, in questo momento storico, se vuoi fare carriera nella psichiatria italiana». Se questa è un’arte, conclude lo psichiatra riluttante, allora «è la più miserabile delle arti».

Certo, afferma lo psichiatra riluttante, non legare può essere molto più faticoso. «Ma vuoi mettere, tornare a casa stanco e non sentirsi una merda». «Ci sono alcuni che fanno cento legamenti in un anno, e altri che ne fanno quattro in tutta la carriera. I primi, se sanno scrivere abbastanza bene, riusciranno perfino a scrivere L’arte di legare le persone. E giù applausi. Sembra che il libro tardivo sia servito, allo psichiatra che lega, per giustificare quel tipo di carriera. E di esistenza. E di crimini di pace. Crimini trasformati letterariamente in atti terapeutici».

La fabbrica della cura mentale tornata in libreria in una nuova edizione è anche, scrive Cipriano, «un po’ la risposta alle spacconate dello psichiatra artista delle fasce. Anche se, a pensarci, è più probabile che sia stato il suo libro la risposta al mio. Lo avrà letto di certo, come lo lessero moltissimi psichiatri – come fa uno psichiatra che ama legare a non avere la curiosità di leggere un libro contro di lui? Non può, un libro dove perfino asserivo che chi non lega è felice e chi lega è infelice ognuno a modo suo – l’avrà letto e dopo si sarà messo di tigna per riabilitarsi, riuscendo a pubblicarlo, tu vedi i casi della vita, con lo stesso editore che negli anni Settanta pubblicava Franco Basaglia: ma non è un segno dei tempi tutto ciò?».

 

 

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La fabbrica della cura mentale. Storie di banalità del male in tempo di pace https://www.carmillaonline.com/2017/08/04/39424/ Thu, 03 Aug 2017 22:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39424 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

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di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

Tra il 2013 ed il 2016 Piero Cipriano ha dato alle stampe tre testi importanti a proposito della gestione coercitiva istituzionale di chi è afflitto da sofferenza mentale. Di due dei tre testi che compongono la trilogia ci siamo già occupati in passato: Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla], che ricostruisce l’avvento dell’era della psichiatria chimica e La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ove l’aspetto diagnostico è indicato come meccanismo di conferimento di identità e destino all’individuo. Non resta che presentare La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), primo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, come ama definirsi Cipriano.

Anche ne La fabbrica della cura mentale, come negli altri libri, l’autore alterna racconti di esperienze vissute in prima persona come essere umano, ancor prima che come psichiatra, all’interno dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, a riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni e da letture di saggi e romanzi. Dunque, il testo alterna dati scientifici, esperienze tra i pazienti e storie d’invenzione.

«Se il SPDC [Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura] non è un manicomio io direi che assomiglia a una catena di montaggio. Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il SPDC ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti […] Il SPDC è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la 180, come viene ricoverato nella gran parte dei SPDC d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto» (p. 31). Al malato che giunge in un SPDC particolarmente agitato, trattenuto da più persone (agenti, infermieri, medici…), viene praticata una terapia sedativa prima di essere ricoverato. Se il malato manifesta (o ha fama) di essere “problematico”, viene legato al letto così, quando si risveglia, rimbambito dai farmaci, si ritrova bloccato da quattro fasce e capisce che è meglio “non disturbare”, che conviene adeguarsi alle regole del reparto, ai suoi orari ed ai suoi rituali. Una volta data prova di sottomissione, il paziente (paziente per forza), accompagnato, può uscire dalla porta del reparto costantemente chiusa ma se non si è “normalizzato a sufficienza”, anche nel caso si sia presentato in reparto volontariamente, il ricovero si trasforma praticamente in TSO.

Una volta dimesso, nel caso il paziente si dimostri ancora “grave e pericoloso”, «va in una Casa di cura Convenzionata, a far ricchi gli imprenditori della follia. Lì passa uno, due o tre mesi con l’autorizzazione del medico del Centro di Salute Mentale (CSM), così nel frattempo respira […] Prima o poi, però, esce anche dalla Casa di Cura e deve essere ripreso in carico dal CSM. Purtroppo, tranne eccezioni virtuose, è il paziente che deve raggiungere il CSM, dato che gli operatori non si possono muovere per andare al suo domicilio perché sono pochi o non ci sono le macchine o per altri motivi […] Per cui, dopo un po’, il paziente addomesticato si inselvatichisce di nuovo e si dà alla macchia […] dopo qualche settimana o mese, quello ritorna in crisi acuta in SPDC, perché i parenti o i vicini hanno chiamato il CSM […] e ricomincia il gioco della porta che gira» (pp. 32-33).

È terrificante. Ma è così che funziona la fabbrica della cura mentale. «Il SPDC è una fabbrica. Il primario è il direttore della fabbrica. Che ha una catena di montaggio a cui badare. Uno Psichiatra è un tecnico specializzato addetto a questa specie di catena di montaggio umana, dove il malato è la macchina biologica rotta, che deve essere aggiustata non con la parola, con la relazione o con un po’ d’umanità, ma con il farmaco» (p. 33).

Già, la psichiatria chimica si sostituisce alle parole perché queste, continua Cipriano, gli psichiatri le conservano «per il pomeriggio, per lo studio privato, per i pazienti più danarosi, meno gravi, meno malati, meno sporchi, più colti, quelli più piacevoli da vedere (della stessa classe sociale del terapeuta, si sarebbe detto in altri tempi). In SPDC basta il farmaco. E se non basta ci sono le fasce» (p. 33). Ma se farmaco e fasce non bastano, ecco che «il paziente viene inviato di soppiatto, senza dirlo troppo in giro, in qualche casa sicura attrezzata per la terapia elettrica, terapia che […] se non altro toglie la memoria e la consapevolezza di sé» (p. 33). Grazie l’elettrochoc il malato viene internato per qualche mese ed il medico può rifiatare in attesa di ritrovarselo alle porte del reparto.

Cipriano dedica qualche pagina al lessico adottato dai medici; un linguaggio incomprensibile ai più che contribuisce a mantene i camici bianchi unici depositari del “segreto della salute e della malattia” ed intanto ai tirocinanti viene insegnato a riconoscere i sintomi, così da poter collocare il caso in un quadro clinico al fine di formulare una diagnosi, quella diagnosi che, come ottimamente spiegato dal Nostro psichiatra riluttante nel volume La società dei devianti, conferisce identità e destino all’individuo.

Tornando ai Dipartimenti di Salute Mentale italiani, sostiene Cipriano, la Legge 180 del 1978 è male applicata in buona parte di essi, visto che, in molti casi, non viene messa in discussione la centralità del ricovero, il primato della clinica rispetto ai luoghi della vita delle persone. Roberto Mezzina, psichiatra del DSM triestino, denuncia questa logica sottolineando come non vi sia alcuna necessità scientifica di confinare l’individuo in un luogo se non lo si concepisce come “corpo da custodire” affinché questo venga controllato e “riparato” prima di restituirlo al corpo sociale. Dunque, aggiunge Cipriano, si tratta di un’operazione di controllo e «per far sì che la questione del controllo sociale dell’emergenza urbana non si concluda inevitabilmente con l’arrivo nel luogo magico del pronto soccorso, e con il passaggio ultimo e definitivo nel SPDC, è necessario ripensare i servizi territoriali, i cosiddetti Centri di Salute Mentale, spesso ridotti a meri ambulatori dove si prescrivono psicofarmaci» (p. 38).

Cipriano indica alcuni esempi alternativi di trattamento dei malati; tra questi i CSM aperti ventiquattro ore al giorno triestini, che ospitano i pazienti in luoghi aperti basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura alternativo Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, basato su un’abitazione ospitante un numero ridotto di individui affetti da primi episodi di psicosi in cui non si ricorre ad alcuna etichetta nosografica e, soprattutto, si selezionano gli operatori in base alle loro caratteristiche di empatia e disponibilità. Tra i motivi della scarsa diffusione di tali modalità di cura alternative, Cipriano indica come secondo alcuni psichiatri critici «il vero motivo del dogma della farmacologizzazione precoce delle psicosi è la forte collusione [degli operatori e delle istituzioni] con le multinazionali dei farmaci e le università, grazie alla quale si è mantenuta, in cinquant’anni di psicofarmacologia, la stessa approssimazione degli anni Sessanta» (p. 40). È talmente strutturata l’idea che terapia psichiatrica significhi somministrazione di psicofarmaci che lo psichiatra che anche solo diminuisce la terapia farmacologica ad un paziente, rischia di essere condannato da un tribunale. «Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra» (p. 42).

Nel volume ci si sofferma anche sulla pratica del legare i pazienti con disturbi psichici. Pratica che, nonostante non sia menzionata dai libri di psichiatria, continua ad essere diffusamente praticata. Il ricorso alle fasce di contenzione, secondo Cipriano, è diffuso anche a causa di carenze legislative ma questo non basta a spiegare il fenomeno. Nemmeno la motivazione economica (legare costa meno che aumentare le risorse umane nei reparti), secondo lo psichiatra riluttante è sufficiente a spiegare il diffuso ricorso a tale pratica. Probabilmente si tratta di «una questione di etica e di cultura» (p. 53). Occorrerebbe cambiare la testa degli operatori.

«Quando un matto agitato viene catturato dalle forze dell’ordine, ammanettato e portato nel pronto soccorso di un ospedale, e lo psichiatra non fa altro che sostituire le manette con le sue fasce, ecco, in quel caso non ha fatto lo psichiatra, ma ha fatto il poliziotto, si è adeguato alla misura poliziesca, ha fatto l’antipsichiatra, insomma. Per cui io ribalterei la vecchia dicotomia degli anni Settanta tra psichiatria e antipsichiatria. Il vero antipsichiatra per me non è colui che ricusa le fasce, ma è colui che lega; viceversa, il vero psichiatra non è colui che lega, ma colui che non accetta di adoperare le fasce» (p. 54).

Riflettendo sul ricorso alla contenzione da parte di tanti operatori, Cipriano riprende le riflessioni di Hannah Arendt circa la banalità del male; in effetti, sostiene, questi operatori che ricorrono alle fasce non sono sadici torturatori, eppure lo fanno. Riprendendo e parafrasando brillantemente l’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj – “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – Cipriano giunge alla conclusione che «ogni psichiatra che non lega si assomiglia; e non lega per un motivo molto semplice, perché ha compreso che non è giusto, non è terapeutico, anzi è antiterapeutico, è una tortura, è un crimine. E per questo è felice […] uno psichiatra che non lega è felice. Viceversa, ogni psichiatra che ritiene giusto, utile, terapeutico legare un altro uomo “è infelice a modo suo”» (p. 55). In tale varietà di “infelici” c’è chi lega per paura, chi perché è autoritario, chi perché semplicemente lo ha sempre fatto senza chiedersi nulla, chi perché di notte in reparto vuole dormire, chi perché non conosce bene i farmaci e via dicendo. Gli infelici legano per tanti diversi motivi. «Gli psichiatri felici, invece non legano. E non legano per un solo motivo» (p. 55).

La tortura è ovviamente qualcosa di diverso da un ricovero psichiatrico ma, afferma Cipriano, il rapporto che lega torturato e torturatore a volte non è poi così diverso dal rapporto tra il ricoverato in un SPDC e lo psichiatra che lo lega al letto. A tal proposito l’autore de La fabbrica della cura mentale riprende alcune considerazioni sulla tortura di Françoise Sironi (Persecutori e vittime) provando a confrontarle con la psichiatria coercitiva. Ecco allora che la domanda “Come si può curare chi è stato vittima di torture?”, pensando ad un paziente ricoverato in maniera coatta, magari legato e sedato, può diventare: “Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria?”. Oppure, se a proposito della tortura Sironi mette in luce il suo essere un’esperienza incomunicabile, avvolta dal silenzio sia da parte di chi la pratica che di chi la subisce, di cui si può, eventualmente, avere informazioni soltanto dalle testimonianze delle vittime, non molto diversa è la situazione dei ricoveri psichiatrici; chi è stato legato al letto ripetutamente per giorni e giorni, difficilmente può essere testimone dell’accaduto anche a causa della poca credibilità che gli viene concessa. In tal caso la coltre di silenzio può essere infranta solo da qualche operatore dissenziente. Altro esempio di analogie è dato dal fatto che nelle pratiche della tortura non di rado si ricorre al terrore generato dal costringere i torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Ebbene, continua Cipriano, nei reparti psichiatrici i pazienti si trovano ad assistere al bloccaggio ed alla contenzione di altri ricoverati e tutto questo non può che generare in essi il terrore che ciò possa accadere anche a loro se non si comportano secondo le regole del reparto. Oppure, ancora, nelle prigioni spesso si alternano carcerieri buoni a carcerieri cattivi esattamente come accade nei reparti psichiatrici. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica a scopo punitivo, pratica diffusa anche nei reparti psichiatrici e così via…

Sul finire del libro, Cipriano, riprendendo il triste caso dell’anarchico Franco Mastrogiovanni – a cui l’autore ha fatto riferimento anche nel suo scritto “Lo specialista pericoloso” [su Carmilla] -, riflette amaramente sul ruolo che lo psichiatra si trova a ricoprire di questi tempi. «Siamo meri esecutori dei crimini in tempo di pace. Perché fuori facciamo i comunisti, i progressisti, ci iscriviamo ad Amnesty International, votiamo Sinistra, Ecologia e Libertà o Partito Democratico, compriamo “La Repubblica”, “il manifesto”, “L’Unità” o “Il fatto quotidiano”, siamo contro i leghisti che vogliono gli stranieri fora da le bal. Ma quando siamo in camice, dentro al nostro ospedale, dentro al nostro reparto psichiatrico, diventiamo carnefici come il potere ci vuole. E leghiamo la gente. E la chiudiamo dentro. E la sorvegliamo e la puniamo. Fora da le bal allo strano, al diverso, all’alienato. Nella nostra pratica professionale non siamo più comunisti, progressisti, democratici, tolleranti, ma perfetti fascisti» (p. 158).

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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