Serie televisive – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Quei diabolici anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2024/04/26/quei-diabolici-anni-settanta/ Fri, 26 Apr 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82249 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, Les papillons noirs (Arte-Netflix, 2022) di Bruno Merle e Olivier Abbou e The Serpent (BBC-Netlfix, 2021) di Mammoth Screen, proiettano uno sguardo sugli anni Settanta che rivela inevitabilmente anche qualcosa dei nostri tempi.

La serie Les papillons noirs racconta dello scrittore quarantenne Adrien Winckler (Nicolas Duvauchelle) che, in crisi creativa, accetta l’offerta di trascrivere in romanzo la vita che gli viene raccontata da un individuo ormai prossimo alla morte, Albert Desiderio (Niels Arestrup), imperniata attorno alla storia d’amore avuta con Solange (Alyzée Costes) negli anni Settanta.

Adrien, che vive con Nora (Alice Belaïdi), una ricercatrice di medicina, ha un passato burrascoso fatto di incontri clandestini di boxe in Thailandia, alcol e carcere. Figlio dell’infermiera ormai in pensione Catherine (Brigitte Catillon), sul piano personale lo scrittore si trova a dover dissipare un alone di mistero che riguarda il padre Vic, medico belga morto da tempo, e il fratello di quest’ultimo.

Nella sua abitazione di campagna, Albert racconta ad Adrien della difficile infanzia passata in orfanotrofio e dell’incontro con Solange, figlia di una prostituta. Da questo incontro tra ‘esseri respinti’ scaturisce una storia d’amore in cui i due si dimostrano disposti ad ogni complicità, una storia che nell’uomo assume tratti di irrefrenabile gelosia.

Nel corso del racconto, Albert riferisce di quando, in risposta a un’aggressione sessuale subita da Solange, la coppia si ritrova complice nell’uccisione del responsabile del gesto e del fratello di questo in quanto testimone. A partire da quell’episodio prende il via, attraverso diversi flashback, il racconto di una lunga scia di sangue che, si scoprirà, intreccia le esistenze di diversi personaggi del film. Mentre il racconto di Albert progredisce svelando allo scrittore le vicende della sua vita e quest’ultimo cerca di venire a capo del proprio passato, il poliziotto Carrel (Sami Bouajila) e la sua collaboratrice Mathilde (Marie Denarnaud) indagano su una serie di omicidi irrisolti risalenti agli anni Settanta.

La serie The Serpent trae invece ispirazione dalle vicende realmente accadute riguardanti Charles Sobhraj (Tahar Rahim), autore di una lunga serie di omicidi nel corso degli anni Settanta che hanno avuto come vittime giovani occidentali in cerca di nuove esperienze di vita lungo la “rotta hippie” nell’Asia meridionale. Mercante di gemme preziose, trafficante di droga ed abile truffatore, Sobhraj ha saputo sfruttare il suo carisma per raggirare numerosi viaggiatori al fine di impossessarsi dei loro documenti, travel cheque e contanti, per poi ucciderli così da non lasciare testimoni.

Non incline a violenza pulsionale e sadismo, questo omicida, amante del lusso, ha condotto i suoi crimini muovendosi con metodo e pianificazione ricorrendo all’aiuto della compagna canadese Marie-Andrée Leclerc (Jenna Coleman) e dell’indiano Ajay Chowdhury (Amesh Edireweera) che provvedevano a somministrare droghe alle vittime, la prima, e ad aiutare Sobhraj negli omicidi, dunque nel far sparire i cadaveri, il secondo. Dopo un periodo di detenzione in India tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, Sobhraj ha sfruttato la sua fama rilasciando interviste a pagamento salvo poi recarsi in Nepal, ove era ricercato per l’omicidio di due giovani turiste statunitensi, venendo nuovamente arrestato e imprigionato all’inizio del nuovo millennio restandovi per quasi un ventennio.

Quegli anni Settanta ‘diabolici’, in Les papillons noirs e in The Serpent, sembrano appartenere ad un tempo mitico e mitizzato, allontanato in una dimensione dalle connotazioni quasi epiche. Gli stessi personaggi violenti ed assassini sembrano trasformarsi in eroi epici, mitici guerrieri di un tempo lontano. Vengono rappresentati estremamente eleganti, abbigliati all’ultima moda (dell’epoca) mentre, in ralenti, camminano o si atteggiano in espressioni ‘dure’ e sprezzanti.

Se l’uomo appare come un guerriero o un giustiziere, la donna è tratteggiata come una terribile femme fatale, una “dama senza pietà” dispensatrice di morte, specialmente in Les papillons noirs. Sono personaggi che sembrano emergere da quel passato epico ed “assoluto” di cui parla Bachtin: lontanissimo, irraggiungibile ed eterno, che appartiene esclusivamente all’universo dell’epopea1. Perché, in fin dei conti, gli anni Settanta si stanno trasformando in un tempo mitico anche nell’immaginario comune odierno: per rendersene conto basta girare un po’ sui social dove sono innumerevoli i gruppi dedicati a quel periodo, intrisi di una lancinante nostalgia.

Ma le serie televisive in questione non ci presentano l’universo ovattato e intimistico che incontriamo invece in molto cinema italiano, circondato da canzoni ‘iconiche’ del periodo e da pulitissime e perfette automobili vintage. Les papillons noirs e The Serpent non raccontano gli anni Settanta come un mondo incantato ed utopistico, come un’età dell’oro per sempre perduta. Sono lontani sì, ma non incastonati in una irraggiungibile utopia. Diventano uno sfondo caratterizzato da una inaudita violenza dove, come eroi, si muovono gli alfieri di quella stessa violenza. Quest’ultima, nei lacerti di flashback presenti in Les papillons noirs, emerge improvvisamente su uno sfondo vintage e quasi nostalgico: ben presto, i caratteri caricaturali della rappresentazione d’epoca (le auto, i vestiti, le canzoni e gli ambienti) precipitano nel baratro di una violenza cieca che sembra emergere dai più segreti interstizi di quei Settanta. I paesaggi e le ambientazioni dei luoghi di vacanza in cui si svolgono gli efferati omicidi della coppia si rivestono di connotazioni diaboliche e infernali, come se ci trovassimo all’interno del filone horror contemporaneo che si focalizza sui viaggi da incubo di turisti che si ritrovano nelle fauci di spietati serial killer.

Un luogo di vacanza, per certi aspetti, è anche lo sfondo in cui si svolge la vicenda di The Serpent, pure se allontanato negli spazi “lisci”2 lontani dall’Occidente, estreme lande orientali che sfuggono alla centralità europea o statunitense che connota le storie ambientate negli anni Settanta. Ci troviamo a Bangkok, in Thailandia, e il terribile Charles Sobhraj circuisce, rapina e uccide giovani turisti occidentali per derubarli e usare i loro documenti. Gli scenari di violenza, qui, sono la Thailandia, il Tibet, l’India: sono luoghi inediti per le ambientazioni vintage e gli stessi ambienti, il paesaggio nonché l’abbigliamento dei personaggi non sembrano eccessivi ed iperbolici come negli scenari europei. Gli unici personaggi tratteggiati con tinte un po’ caricaturali sono i giovani ‘figli dei fiori’ europei e americani che si avventurano in Oriente spinti da una nuova forma di “orientalismo” (un approccio ai territori orientali, secondo una definizione di Edward Said, filtrato da uno sguardo europeo e occidentale3 ) veicolato dalla controcultura.

Le ambientazioni appaiono meno naïf di quelle occidentali appunto perché sono allontanate in luoghi separati dai cliché europei e statunitensi, luoghi intrisi essi stessi di uno sguardo orientalista che trasforma la Bangkok del racconto in un vero e proprio baratro infernale che ingloba nelle sue spire gli ingenui occidentali. In questi luoghi infernali si muove il “serpente” Sobhraj, infido e imprendibile, braccato a sua volta dal giovane diplomatico olandese Herman Knippenberg (Billy Howle ).

Fin dai tempi di Baudelaire e di Flaubert, Oriente è sempre stato sinonimo di pericolo ambiguo e strisciante, di malattia e di corruzione: ecco allora il “serpente” Sobhraj, egli stesso di origine orientale, ambiguo e mostruoso (coadiuvato dall’altrettanto ambiguo e mostruoso, e altrettanto orientale, Ajay, di carnagione scura) che si contrappone ai perfetti occidentali rappresentati dal già ricordato diplomatico olandese, dalla sua moglie tedesca e dal belga Paul, nonché dalla coppia di francesi Nadine (Mathilde Warnier) e Remi (Grégoire Isvarine). Gli occidentali sembrano gli emblemi di una razionalità che cerca di infiltrarsi negli interstizi malati dell’Oriente: sono sempre riconoscibili, sempre ben vestiti in impeccabili abiti, come il diplomatico che veste sempre una camicia bianca con cravatta4. Sono il simbolo di una razionalità che si è lanciata verso l’ignoto, quasi come Jonathan Harker in Dracula di Bram Stoker, che si spinge verso le orrorifiche lande della Transilvania, proprio in bocca al mostruoso vampiro.

Se The serpent ci mostra i diabolici anni 70 ‘disambientati’ in territori orientali, lontani quindi nel tempo e nello spazio, Les papillons noirs ce li mostra soltanto lontani nel tempo. Ma è un tempo che equivale in tutto e per tutto ad un altro spazio, quello dell’orrore. Perché in quel tempo – sembrano voler ribadire le due serie televisive – c’è posto solo per l’orrore e la violenza, oltretutto scatenati da futili motivi. La Francia degli anni Settanta non sembra neppure la Francia: sembra un paese emerso da una fiaba crudele, un universo di cartapesta e di sangue, che si contrappone alla logicità e alla razionalità del nostro tempo. La contemporaneità appare quindi venata di una caratterizzazione ‘occidentale’ mentre gli anni Settanta – fatti di lunghe gonne colorate, di camicie sgargianti e di capelli lunghi – sono l’Oriente del nostro passato: un orrore clownesco che ci spia dalla sua notte. Non sono i cosiddetti ‘anni di piombo’ – mostrati, ad esempio, da una serie TV come Esterno notte (Rai, 2022) di Marco Bellocchio, incentrata sulla ‘vicenda Moro’, o da un film come La prima linea di Renato De Maria, liberamente ispirato al libro Miccia corta (2009) di Sergio Segio, che racconta un episodio dei primissimi anni Ottanta che assume la forma di epilogo degli anni Settanta vissuti da alcuni militanti che il mondo lo volevano cambiare, in cui la violenza emergeva da una lotta inesausta fra le classi, da logiche di protesta e di ribellione – ma sono gli anni di una futile e vacua efferatezza. Ancora più terribile se pensiamo che, in fondo, quella diabolica violenza è figlia delle nostre paure e del nostro tempo perché è proprio il nostro tempo che l’ha creata e che l’ha messa in scena. E allora, forse, quell’universo di cartapesta e di sangue, fra le guerre e le efferatezze che ci circondano, è più vicino di quanto possiamo immaginare.


  1. Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1979, p. 457. 

  2. Per il concetto di “spazio liscio” cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 451 e seguenti. 

  3. Cfr. E.W. Said, Orientalismo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013. 

  4. Cfr. ivi, pp. 55-56: «Da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono quasi esattamente l’opposto». 

]]>
Dune nell’immaginario di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2024/02/20/dune-nellimmaginario-di-ieri-e-di-oggi/ Tue, 20 Feb 2024 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80944 di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, in epoca recente, serie televisive e nuove proposte cinematografiche finalmente capaci di tradurre in ambito audiovisivo con una certa fedeltà la fervida creatività dello scrittore statunitense e di soddisfare pubblico e critica.

Questa colossale saga letteriario-audiovisiva nasce dunque con il romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert pubblicato nel 1965 in cui vengono fatti confluire i suoi racconti Dune World e The Prophet of Dune precedentemente pubblicati sulla rivista “Analog SF” tra il 1963 ed il 1965. Vincitrice dei premi i Hugo e Nebula, l’opera di Herbert si è rivelata capace di segnare in maniera indelebile l’immaginario degli appassionati di fantascienza dell’epoca riverberandosi fino ai nostri giorni.

Forte del successo ottenuto con il romanzo del 1965, è lo stesso Herbert ad espande la saga con altri titoli: Messia di Dune (Dune Messiah, 1969), I figli di Dune (Children of Dune, 1977), L’Imperatore-Dio di Dune (God Emperor of Dune, 1981), Gli eretici di Dune (Heretics of Dune, 1984) e La rifondazione di Dune (Chapterhouse: Dune, 1985).

Dagli appunti stesi dallo scrittore scomparso nel 1986, il figlio Brian insieme a Kevin J. Anderson, pur con minori consensi di critica e di pubblico, oltre a portare a compimento la parabola narrativa dello scrittore realizzando I cacciatori di Dune (Hunters of Dune, 2006) e I vermi della sabbia di Dune (Sandworms of Dune, 2007), danno poi vita a una lunga serie di prequel ancora in corso di pubblicazione composta dalle trilogie Legends of Dune (2002-2004), Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune, 2012-2016) inedita in Italia, Preludio a Dune (Prelude to Dune, 1999-2001), La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy, 2020-2022), Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune, 2008-2023)1.

I prequel realizzati da Brian Herbert e Kevin J. Anderson contrastano con gli accadimenti narrati nel volume Enciclopedia di Dune (The Dune Encyclopedia, 1984) scritto da Willis Everett McNelly con l’autorizzazione di Frank Herbert, evidentemente non intenzionato ad occuparsi direttamente della narrazione di eventi precedenti i fatti raccontati nel suo ciclo di opere.

La storia cinematografica di Dune prende invece il via con l’acquisizione dei diritti da parte del produttore Arthur P. Jacobs che però muore improvvisamente prima che il regista David Lean inizi le riprese del film sulla base di una riduzione del romanzo a cui hanno lavorato Joe Ford e Bob Greenut con la sceneggiata di John Boorman.

È dunque la volta di un nuovo progetto cinematografico affidato nel 1974 da un consorzio francese con a capo Jean-Paul Gibon al regista visionario Alejandro Jodorowsky che, avvalendosi di collaboratori come Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon, progetta un kolossal snaturante il racconto dello scrittore con l’intenzionato di avvalersi per la colonna sonora dei Pink Floyd e Tangerine Dream, mentre il cast prevede Salvador Dalí, Orson Welles, Mick Jagger, Amanda Lear, Alain Delon, Gloria Swanson, David Carradine, Geraldine Chaplin, Udo Kier ed il figlio, Brontis Jodorowsky, nei panni del protagonista Paul Atreides. Dopo avervi lavorato per un paio di anni, Jodorowsky si vede costretto ad abbandonare il suo immaginifico progetto in quanto la produzione si rifiuta di imbarcarsi in quello che ritiene possa trasformarsi in un pericoloso azzardo economico con scarse possibilità di successo al botteghino. Su tale progetto è stato realizzato il  lungometraggio documentario Jodorowsky’s Dune (2013) di Frank Pavich (visibile su diverse piattaforme).

Nel 1976 i diritti cinematografici vengono dunque acquisiti da Dino De Laurentiis che dopo aver affidato in un primo tempo la stesura della sceneggiatura allo stesso Frank Herbert decide di farla riscrivere – riducendo drasticamente la durata del film prevista dallo scrittore – a Rudy Wurlitzer che però prospetta cambiamenti considerati inaccettabili da Herbert. I dissidi sorti tra lo scrittore e De Laurentiis fanno cadere il progetto.

Successivamente il produttore italiano decide di ritentare avvalendosi della fervida mente creativa di Hans Ruedi Giger e del regista Ridley Scott che però prospetta la necessità di spezzare la vicenda in due parti – come del resto era accaduto nell’uscita originaria di Dune sulla rivista “Analog SF” – proponendo la realizzazione di due distinti film. Anche in questo caso, dopo parecchi mesi di preparazione, il progetto viene abbandonato ma, prima della scadenza dei diritti, De Laurentiis decide di ricucire i rapporti con Herbert e di affidare la regia a David Lynch che, dopo aver lavorato a lungo alla sceneggiatura, nel 1983 inizia le riprese in Messico avvalendosi di 80 set, 16 teatri di posa e una troupe di 1.700 persone con un budget faraonico di 40 milioni di dollari. Gli effetti speciali risultano però incapaci di rende sullo schermo quanto prospettato dal regista, inoltre la produzione impone di ridurre le tre ore montate in un primo tempo da Lynch in sole due ore costringendolo a tagliare drasticamente diversi passaggi chiave realizzati dal visionario regista. Oltre ad essere stroncato dalla critica, il film si rivela un disastro al botteghino e soltanto in anni recenti la sua realizzazione ha iniziato ad essere considerata, da alcuni, in maniera più benevola.

In apertura del nuovo millennio l’opera di Herbert viene ripresa fedelmente da una miniserie televisiva in tre puntate intitolata Dune: il destino dell’universo (Frank Herbert’s Dune, 2000) – composta da Dune, Muad’dib e The Prophet – per la regia di John Harrison trasmessa da Syfy Channel ottenendo un buon successo di critica e di pubblico a cui si è poi aggiunto il sequel Children of Dune (2003) diretto da Greg Yaitanes, meno aderente all’opera di Herbert.

Con l’avvento della la computer grafica il cinema si sente di poter nuovamente affrontare il progetto Dune. Dopo un primo annuncio nel 2008 da parte della Paramount, poi lasciato cadere nel vuoto, nel 2016 la Legendary Entertainment acquista i diritti ed affida a Denis Villeneuve il compito di affrontare fedelmente l’opera di Herbert confrontandosi però anche con le trasposizioni audiovisive già realizzate: il film di Lynch e le serie televisive di Syfy Channel.

Come già aveva pensato di fare Ridley Scott, anche Villeneuve opta per un doppio film: Dune (Dune: Part One, 2021) e Dune. Parte due (Dune: Part Two, 2023). Il cast del primo film è composto da attori del calibro di Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, Sharon Duncan-Brewster, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, a cui nel secondo film si aggiungono Christopher Walken, Florence Pugh, Austin Butler, Léa Seydoux e Souheila Yacoub.

Il successo di critica e di pubblico è stato tale da non escludere la possibilità di un terzo capitolo affidato a Villeneuve incentrato stavolta sul romanzo Messia di Dune. Nel frattempo HBO Max ha dato il via ai lavori per un adattamento seriale di Sisterhood of Dune, in uscita con il titolo Dune: The Prophecy, una sorta di prequel ambientato diecimila anni prima rispetto a quanto raccontato nei film di Villeneuve. Come sottolineano Riberi e Genta, è stato necessario mezzo secolo affinché dall’opera narrativa si riuscissero a ricavare trasposizioni audiovisive in grado di ottenere riconoscimenti di critica e pubblico.

Quel che è certo è che la saga letteraria e cinematografica di Dune ha influenzato enormemente l’immaginario collettivo contemporaneo, ed a ciò, sottolineano Riberi e Genta, contribuisce lo stesso film mai realizzato di Alejandro Jodorowsky, di cui non si è mai smesso di parlare, grazie anche alle trovate prospettate dai suoi collaboratori Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon che avrebbero ispirato opere come Alien (1979) e Balde Runner (1982) di Ridley Scott, The Matrix (1999) delle sorelle Wachowski – tutti film che apriranno la strada a diverse altre produzioni ad opera degli stessi o altri registi – e serie televisive come Copenhagen Cowboy (2023) realizzata da Nicolas Winding Refn. Tra i tanti debitori Riberi e Genta citano i registi Steven Spielberg, James Cameron e George Lucas, ma anche, per opere più recenti, James Cameron, le sorelle Wachowski e Nicolas Winding Refn, così come, per quanto riguarda la narrativa fantasy, gli scrittori Patrick Rothfuss e Steven Erikson, mentre in ambito musicale dell’universo Dune si trova traccia negli Iron Maiden e nei Blind Guardian. Insomma, secondo gli autori del volume è possibile affermare che «l’intero immaginario pop degli ultimi cinquant’anni sia stato influenzato a vario titolo dalle avventure cartacee e cinematografiche di Paul Atreides, che possono essere considerate a tutti gli effetti un autentico mito contemporaneo».

A delineare lo sviluppo dello studio proposto dal volume di Paolo Riberi e Giancarlo Genta è lo stesso sottotitolo scelto: Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides. Infatti, dopo aver ricostruito la storia della saga, ricordando le tappe principali del fenomeno letterario-cinematografico Dune, gli autori individuando i motivi che ne hanno determinato il duraturo successo, dunque ricostruiscono puntualmente la complessa mistica che innerva la saga, in un intrecciarsi di culti messianici mediorientali, cosmismo, transumanesimo, mistica medievale sufi, droga sacra, ecc. Infine, nell’ultima parte del volume, Riberi e Genta passano in rassegna la tecnologia che attraversa l’universo di Dune; dall’informatica all’intelligenza artificiale, dai viaggi spaziali agli armamenti avveniristici, sino agli ambiti scientifici medici ed eugenetici.


  1. Le trilogie sino ad ora realizzate da Brian Herbert e Kevin J. Anderson sono così composte: Legends of Dune: Il Jihad Butleriano (The Butlerian Jihad, 2002), La Crociata delle Macchine (The Machine Crusade, 2003) e La Battaglia di Corrin (The Battle of Corrin, 2004). Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune) inedita in Italia: Sisterhood of Dune (2012), Mentats of Dune (2014) e Navigators of Dune (2016). Preludio a Dune (Prelude to Dune): Casa Atreides (House Atreides, 1999), Casa Harkonnen (House Harkonnen, 2000) e Casa Corrino (House Corrino, 2001). La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy) inedita in Italia: The Duke of Caladan (2020), The Lady of Caladan (2021) e The Heir of Caladan (2022). Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune): Paul of Dune (2008) inedito in Italia, The Winds of Dune (2009) inedito in Italia, La principessa di Dune (The Princess of Dune, 2023). 

]]>
La doppia anima del cinema di Soderbergh https://www.carmillaonline.com/2024/01/09/la-doppia-anima-del-cinema-di-soderbergh/ Tue, 09 Jan 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80496 di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare [...]]]> di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare gli sguardi critici più analitici. Regista, produttore, direttore della fotografia, montatore e sceneggiatore, lo statunitense muove i primi passi nel cinema indipendente per poi sbarcare ad Hollywood manifestando quella che Fadini definisce efficacemente la sua “natura ibrida” che si palesa nella sua propensione a “indipentizzare” Hollywood e, allo stesso tempo, “hollywoodizzare” il cinema indipendente.

Dunque, un cinema dalla doppia anima capace di rivolgersi tanto a chi si lascia più facilmente attrarre dai meccanismi hollywoodiani quanto a chi, invece, va alla ricerca di una «messa in discussione degli aspetti economici, politici, industriali di potere di cui anche proprio quegli apparati hollywoodiani possono trovarsi a fare parte» (p. 10). Pur ricorrendo a budget elevatissimi, a star di primo piano e non mancando di cooperare con le grandi piattaforme dello streaming, Soderbergh non rinuncia a portare avanti la sua originale critica al capitalismo, anzi, si può dire che la muove ricorrendo proprio a quanto intende prendere di mira.

Riprendendo gli studi sull’“immagine-personaggio” di Geoff King (New Hollywood Cinema, 2002), estesi a livello del corpo in Soderbergh da parte di Andrew de Waard e R. Colin Tait (The Cinema of Steven Soderbergh, 2013), Fadini si sofferma su come il regista statunitense ami che nei suoi film le star a cui ricorre mettano in discussione il loro status attoriale, come avviene con George Clooney, soprattutto in film come Solaris (2002) – remake dell’omonima opera di Andrej Tarkovskij – e Intrigo a Berlino (The Good German, 2006), e con Meryl Streep in Panama Papers (The Laundromat, 2019), ove secondo lo studioso è possibile «riscontrare l’elemento che è tipico della critica al capitalismo del cinema soderberghiano, ovvero il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti, quando a parlare direttamente in macchina denunciando il sistema non è più il personaggio, sia esso Helena, Ellen o John Doe, ma la stessa Meryl Streep che non rappresenta più nessuno tranne che sé stessa» (p. 27).

Rifacendosi alle riflessioni di Gilles Deleuze (Cinéma 2. L’Image-temps, 1985), Fadini si sofferma sulla saga degli Ocean’s (dal 2001) ove l’“immagine-finzione” palesa all’interno della produzione dello statunitense la sua concretizzazione maggiore nel giocare costantemente tra il vero ed il falso.

In tali film, ove ladri e derubati manifestano un rapporto costitutivo con la visione, è proprio l’“effetto finzione” che permette ai primi di eludere i sistemi di sicurezza posti a protezione di ciò che intendono rubare. Guardando all’opera di Soderbergh ricercandone elementi di critica al capitalismo Fadini si domanda se nel trittico Ocean’s le tecniche sofisticate con cui operano i truffatori riescano davvero a praticare una critica radicale a quel capitalismo di cui è simbolo la città di Las Vegas o se tali gesta non siano altro che «l’ennesima ristrutturazione e riaffermazione del capitalismo stesso» (p. 41). Quanto insomma, per dirla con i «Quaderni rossi», le lotte condotte contro il capitale comportino lo sviluppo di questo ultimo.

Analizzando Schizopolis (1996) è possibile cogliere l’elaborazione da parte di Soderbergh di quella che può essere definita “schizo-immagine”.

Lungo tutto il film, infatti, troviamo costanti inversioni di causa ed effetto nella narrazione dovute al fatto che Soderbergh stesso interpreta non solo due personaggi che sono l’uno il sosia dell’altro ma addirittura alla fine del film un terzo personaggio che parla una lingua differente dai due precedenti. Gli stessi linguaggi parlati si articolano o in un contenuto irrelato rispetto alla forma, o in una forma che non rimanda a nessun contenuto immediatamente riconoscibile per lo spettatore. In Schizopolis Soderbergh elabora temi e tecniche che saranno presenti in tutta la sua successiva filmografia. Ci riferiamo all’alternanza di analessi e prolessi che si caratterizza per il mostrare successioni di eventi da più punti di vista; alla presenza di pastiche tecnici come alternanza di riprese con la camera fissa e la camera a mano e alla presenza di un film che si avvolge attorno alle riprese dello stesso farsi di questo medesimo film (p. 44).

La critica al capitalismo portata avanti dal cinema di Soderbergh viene indagata da Fadini seguendo tre direttrici principali: il rapporto tra corpo e capitale, il capitalismo finanziario e il capitalismo come forma di potere.

Circa il primo aspetto, a essere analizzato dallo studioso è in particolare High Flying Bird (2019), film sul mondo del basket statunitense – nei suoi livelli politico, economico e razziale – incentrato sul blocco dell’avvio della stagione agonistica derivato dal contenzioso tra proprietari delle squadre, networks televisivi e giocatori.  «Si tratta di un dramma sportivo di classe sulla relazione tra il gioco e l’economia, ma in termini potremmo dire marxiani se non proprio marxisti. Il lockout è, infatti, visto dalla parte delle matricole e dalla parte di quei giocatori che non arrivano alla fine del mese di contro alle grandi star del gioco o di chi si approfitta dei più deboli» (p. 58).

La denuncia nei confronti dello “sfruttamento” dei corpi, privati di autonomia e assoggettati alla logica dello spettacolo, è rintracciabile anche nella saga Magic Mike (dal 2012 al 2023).

È certamente corretto affermare, come fatto da alcuni, che Magic Mike sia un film sul plusvalore estratto dai corpi al lavoro, tuttavia dobbiamo ricordare che è l’immaginario il luogo in cui questo plusvalore viene estratto poiché il film è una critica proprio a questo autodeterminarsi dell’immaginario separato dall’incontro con il reale del corpo dell’Altr*. Da questo punto di vista, in tutta la saga Magic Mike i corpi “lavorano” completamente all’interno di un orizzonte immaginativo femminile per chi assiste allo show del gruppo ed il contatto con il reale per loro è dato dal denaro che le spettatrici lanciano sul palco durante i numeri dello spettacolo (p. 64).

La critica al capitalismo condotta da Soderbergh sul versante finanziario si manifesta attorno alla figura del “flusso” declinata in diversi modi. Panama Papers, ad esempio, ruota attorno ai flussi finanziari mostrando come alla smaterializzazione del denaro si affianchi una smaterializzazione dello scontro di classe, tanto che si può parlare di un film sulla “fantasmaticità” dell’intero sistema.

Paradossalmente la critica proposta dal regista è mossa attraverso un film prodotto e diffuso da Netflix, piattaforma simbolo dell’attuale capitalismo globale. La messa in discussione dello status quo viene portata avanti da Soderbergh, più che attraverso un montaggio destrutturante, con «il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti» (p. 71). Difficile dire quanto tale deragliamento permetta davvero alla critica di sottrarsi dall’abilità del sistema spettacolare di riassorbire gli attacchi formali rivolti contro di esso.

Pur declinati in altro modo, i flussi del capitale fanno la loro comparsa anche in Traffic (2000); in questo caso sotto forma di flussi di droga e denaro. “Traffico”, dunque, come flusso,

come qualcosa che non è mai da un punto delimitato ad un altro punto delimitato, ma che si muove nel “tra” più che “dal… al”. Da questo punto di vista, uno dei temi principali del film è il confine come luogo appunto del “tra”. È sul confine che si combatte la guerra per bloccare il traffico di droga. È il confine il luogo degli incroci ove una delle tesi del film è che il Nafta, ovvero l’accordo di libero scambio tra USA e Mexico, sbriciola la già porosa frontiera tra gli stessi USA e Mexico, in modo tale che i corrieri della droga possano fare su e giù tra i due paesi come i semplici corrieri FDX, DHL, UPS etc. Il “traffico” è una fitta rete di relazioni in cui nessuno è pulito (p. 71).

Anche Contagion (2011) è un film sui flussi, in tale caso incentrato sulla relazione tra virus e capitalismo, sull’industria farmaceutica e sul mercato azionario, oltre che sull’accesso classista al vaccino.

Per quanto riguarda la critica al capitalismo come “forma di potere”, sebbene trasversale all’intera opera soderberghiana, questa è secondo Fadini particolarmente evidente nei film Intrigo a Berlino e No Sudden Move (2021), oltre che nelle serie televisive K-Street (2003) e The Knick (2014-2015).

Intrigo a Berlino porta a compimento quanto già si era visto in Delitti e segreti ove Soderbergh era riuscito nell’intento di dipingere una realtà distopica perfettamente ordinata in cui il caos era del tutto represso in una serie di pratiche inutili ed autoreferenziali, in cui la stessa possibilità di ribellarsi veniva negata perché a mancare era quel qualcuno che dirigesse e regnasse sulla distopia (pp. 76-77).

Se Delitti e segreti palesa la rassegnazione dell’individuo al suo ruolo di ingranaggio che concorre a perpetuare il sistema, Intrigo a Berlino manifesta l’impossibilità di redenzione dal proprio passato. Ad essere dichiaratamente un film sul “potere” nelle sue diverse articolazioni è No Sudden Move.

Anche in questo caso, i singoli sono schiacciati all’interno di rapporti di forza che non riescono a soverchiare. La differenza è che, in questo caso, Soderbergh prende di mira la strutturazione del capitale secondo nodi di potere che rimandano a rapporti di oppressione più diretti rispetto al capitalismo attuale o meglio, in cui il capitalismo non è ancora smaterializzato ma è riferibile a persone fisiche che ne detengono il potere (p. 78).

Venendo alle due serie televisive, se K-Street, in un mescolarsi di fiction e personaggi reali, mette in scena il mondo delle lobby, l’incidenza dei gruppi di potere sulla politica statunitense, The Knick, ambientata a inizio Novecento presso l’ospedale newyorkese Knickerbocker – in un intrecciarsi di medicina, psichiatria, psicoanalisi, eugenetica, dipendenze e questioni razziali – presenta un

microcosmo umano di una formidabile epoca di transizione all’interno della quale si muovono personaggi spinti, ognuno a suo modo, da personali ambizioni o demoni interiori, interessi o riscatti. […] L’ambizione e la corruzione, l’audacia e la violenza, la meschinità e l’impudenza sottendono alla narrazione complessa di questo universo concentrato nel Knickerbocker che, andando ben oltre l’epoca in cui è ambientato, universalizza il meccanismo del potere come automatismo atemporale e, tragicamente, umano (p. 80).

Il secondo dei film soderberghiani dedicati a Che Guevara – Che. L’argentino (The Argentine, 2008) e Che. Guerriglia (Guerrilla, 2008) – permette a Fadini di soffermarsi su quella “immagine-rivoluzionaria” che, secondo Jun Fujita Hirose (Il cine-capitale, 2020) per essere tale deve passare attraverso un processo di “divenire-rivoluzionario” delle immagini.

In Che guerriglia, infatti, le immagini iniziano a valere per se stesse e non sono più messe al lavoro della valorizzazione del cine-capitale, proprio nel massimo momento della lotta contro il nemico. Se cioè per Hirose le immagini sono prese in divenire rivoluzionari quando diventano immagini-tempo dirette e in cui ad emergere è una virtualità che si affranca da qualsivoglia forma di rappresentazione per affermarsi come forme ottiche e sonore pure che non rappresentano più niente che non siano se stesse e quindi in definitiva rompono con l’idea stessa di essere delle ripresentazione, per Soderbergh questa virtualità è il farsi sempre più lontano di Ernesto Guevara da se stesso per trasformarsi nel rivoluzionario puro che non attualizza la propria virtualità in un’unica rivoluzione ma che si ri-mette sempre in gioco in infinite rivoluzioni (p. 82).

Hirose ritiene che «l’espropriazione dei mezzi di produzione dei cine-capitalisti e l’inversione dei suoi rapporti di forza» si dia attraverso un montaggio di concatenamenti immaginali alternativi «in cui il tempo prevale sul movimento nel senso della riappropriazione del tempo proprio di ogni forma di rifiuto del lavoro». Se l’immagine-tempo deve potersi affermare come tale, è il nomadismo rapsodico del Che nella selva boliviana a permettere l’affermazione della sua lotta «come un evento, ovvero come qualcosa che non esaurendosi mai nell’attualità resta come una riserva che resiste alle ristrutturazioni capitalistiche» (p. 83).

Un capitolo di Mosaico Soderbergh è dedicato allo sperimentalismo che caratterizza la produzione dello statunitense, uno sperimentalismo «che può essere opera solo del cineasta poiché, essendo il cinema un tipo di arte votata al business, il compito del cineasta è solo quello di prendere su di sé per propria iniziativa quei pericoli che nessuno gli concederebbe tanto facilmente o anche più semplicemente lo incoraggerebbe a prendere» (p. 92). Uno sperimentalismo, dunque, non fine a sé stesso ma dal significato prettamente politico.

Il ricorso al digitale, nota Fadini, non fa che accentuare la dimensione “schizofrenica” del cinema di Soderbergh che finisce con l’intrecciarsi al tema del simulacro «se la realtà è solo copia di una copia, l’espressione di una molteplicità di flussi, l’atto creativo che pertiene all’uso del digitale non solo permette di accedere a questa realtà ma, per altro verso, concorre a determinarla a tal punto che persino lo spettatore può essere coinvolto nella ricerca di un senso da dare a questa linea schizofrenica» (p. 112).

Il volume di Fadini mostra insomma come l’opera di Soderbergh, nel suo proporsi all’insegna dell’ibridazione – tra «verità e finzione, autorialità e appartenenza allo star system, velocità e accuratezza nelle riprese e nel montaggio, critica al capitalismo ed appartenenza alle sue strutture realizzative, fiction e realismo, originalità e remake» (p. 114), e tanto altro ancora – possa essere efficacemente paragonata a un grande mosaico composto da tessere distinte e al tempo stesso collaboranti nel definire un’immagine unitaria dotata di coerenza, una coerenza costruita sulle tante contraddizioni che, d’altra parte, caratterizzano la sfuggente complessa realtà contemporanea.

]]>
La caduta della casa di Flanagan: Poe massacrato https://www.carmillaonline.com/2023/11/14/la-caduta-della-casa-di-flanagan-poe-massacrato/ Mon, 13 Nov 2023 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79750 di Walter Catalano

Avevo giurato che mai più avrei perso tempo guardando film di Mike Flanagan, ma sapere che, dopo Shirley Jackson ed Henry James, l’incauto regista avrebbe massacrato addirittura il maestro di tutti, Edgar Allan Poe, mi ha indotto una malsana curiosità – un imp of the perverse avrebbe detto il grande bostoniano – e così ci ho provato, e ho affrontato la visione, per quanto ho potuto, cioè solo per alcune puntate, non tutte, perché poi la noia, il sopore e il fastidio hanno avuto il sopravvento: il verme conquistatore ha trionfato come sempre, e in questo [...]]]> di Walter Catalano

Avevo giurato che mai più avrei perso tempo guardando film di Mike Flanagan, ma sapere che, dopo Shirley Jackson ed Henry James, l’incauto regista avrebbe massacrato addirittura il maestro di tutti, Edgar Allan Poe, mi ha indotto una malsana curiosità – un imp of the perverse avrebbe detto il grande bostoniano – e così ci ho provato, e ho affrontato la visione, per quanto ho potuto, cioè solo per alcune puntate, non tutte, perché poi la noia, il sopore e il fastidio hanno avuto il sopravvento: il verme conquistatore ha trionfato come sempre, e in questo caso direi come è giusto. Ho visto abbastanza però (compresa la desolante puntata finale) per farmi un’idea precisa e confermare tutto il mio disprezzo per il ridicolo, pretenzioso e soprattutto abissalmente banale cineasta netflixiano.

Intanto partiamo subito da una premessa innegabile: il cinema ha sempre tradito Poe. Ma c’è tradimento e tradimento: tralasciamo il seminale Jean Epstein del 1928, e concentriamoci sui film, ormai classici, di Roger Corman. Per quanto infedeli e inevitabilmente banalizzanti –  vuoi per l’interpretazione istrionica di Vincent Price e dei suoi colleghi (Boris Karloff, Peter Lorre, Barbara Steele, perfino Ray Milland o l’allora giovanissimo Jack Nicholson), vuoi per le sceneggiature di un grande emulo poesco, Richard Matheson – nonostante i budget risicati e la rapidità funambolica delle riprese (in un caso addirittura 15 giorni…), questi film hanno sempre mostrato profondo rispetto e coerenza verso il mondo e l’atmosfera di Poe, reinventandolo sì, spesso volgarizzandolo, ma restando comunque in linea con il grottesco e l’arabesco da lui teorizzati. Si è sfiorato il capolavoro quanto più intelligentemente si è tradito l’autore: travalicando nel comico (Tales of Terror o The Raven che sanno evocare genialmente l’umorismo nero e kitsch dei racconti satirici di Poe) o nello psichedelico (The Masque of the Red Death, il più bello per aver colto perfettamente non certo il testo ma la visione e l’allucinazione). Trasferire Poe dalla pagina scritta all’immagine filmata, pretendendo di prenderlo alla lettera, significa fallire: un esempio eclatante è Tre passi nel delirio, film del 1968. Gli episodi apparentemente più “fedeli”, Metzengerstein di Roger Vadim e William Wilson di Louis Malle, sono i più insoddisfacenti e deboli, mentre il Toby Dammit di Fellini, che attraverso la riscrittura di un grande sceneggiatore – Bernardino Zapponi, appena uscito da una straordinaria raccolta di racconti che sapevano reinventare il gotico poesco nell’Italia del boom, il purtroppo mai più ristampato Gobal del 1967: Fellini la lesse e ne ingaggiò l’autore a colpo sicuro – stravolgeva e parafrasava, fellinizzandolo, uno dei racconti più misconosciuti tra quelli minori di Poe, Mai scommettere la testa col diavolo, e lo trasformava nella quintessenza parallela di Poe e di Fellini: totalmente felliniano ma insieme anche il miglior film da Poe /di Poe mai realizzato in assoluto.

La chiave di volta per confrontarsi con Edgar Allan Poe dunque è il rispetto. Rispetto che non significa, come abbiamo detto, inerte letteralità (per altro impossibile), ma capacità di calarsi nei meandri dell’immaginazione di un grande poeta e narratore – forse il più grande perché ha inventato tutta la letteratura moderna: i generi letterari – senza Poe niente fantascienza, poliziesco, horror e weird; la poesia simbolista – senza Poe niente Baudelaire, Rimbaud e Mallarmè; il racconto psicologico – senza Poe niente Dostoevski – assaporarne l’essenza gotica “non della Germania ma dell’anima”, un male di vivere – essenzialmente – una malinconia, un nevermore  (“La miseria del mondo è molteplice. La sventura multiforme”, come suona l’incipit di Berenice), farsene permeare, attraversarla e viverla, per saperla poi restituire adattandola a nuovi tempi e nuovi modi. Questo rispetto, questa immedesimazione manca completamente in Mike Flanagan.

Usher avrebbe potuto diventare un’epopea, un’opera wagneriana. Debussy ci provò fra il 1908 e il 1917, ma la lasciò incompiuta. Invece un grande musicista rock britannico, legato al Progressive e forse non abbastanza noto quanto meriterebbe, Peter Hammill – front-man e principale compositore del gruppo, molto amato in Italia ma non altrettanto in patria, dei Van Der Graaf Generator – diversi anni fa, nel 1991, scrisse una straordinaria rock opera ispirata a The Fall of the House of Usher. Purtroppo il budget minimale non ne permise la rappresentazione scenica, come era previsto, ma solo la pubblicazione su disco, per altro con orchestrazioni elettroniche realizzate, sempre in economia, nello studio casalingo del musicista (tutte le basi furono infatti reincise nel 1999, per una seconda edizione meno spartana, l’unica ancora in circolazione. Io conservo, e forse preferisco, la prima…): Roderick era interpretato da Peter Hammill stesso, Madeline da Lene Lovich, una delle voci più “strane” degli anni ‘80. Il focus della trasposizione – in totale sintonia col testo originale – era il rapporto morboso tra fratello e sorella – gli ultimi della dinastia (“I am the last of the Usher”, canta Roderick, dopo l’inumazione di Madeline) – e con la Casa come creatura vivente, prolungamento delle esistenze dei suoi abitatori (in uno dei brani più suggestivi, Architecture, Hammill dà voce alla casa stessa: le pietre e le architravi gotiche che la costituiscono sono la materializzazione di suoni, parole ed echi delle generazioni di Usher che l’hanno abitata). Due delle arie dell’opera sono i poemi di Poe che Roderick recita nel racconto, The Haunted Palace e The Sleeper (quest’ultima è uno dei momenti più alti del disco, con Hammill che canta “My love, she sleeps! Oh, may her sleep, as it is lasting, so be deep! Soft may the worms about her creep!” accompagnandosi al suono cimiteriale di un harmonium gotico). E’questo un altro esempio – ed assai notevole, per quanto misconosciuto – di rispetto, di uso non pretestuoso dei materiali narrativi originali per reinterpretarli (non riciclarli come fa Flanagan) attraverso un altro linguaggio.

L’irrispettoso riciclaggio di Flanagan invece consiste nel riscrivere una storia completamente diversa inventando personaggi che nulla hanno a che fare con le figure originarie, illudendosi che basti chiamarli Usher per evocare Poe. Gli Usher di Flanagan sono una dinastia di capitalisti arricchitisi fraudolentemente nel settore farmaceutico – è evidente l’ispirazione allo scandalo che coinvolse Big Pharma nella distribuzione di antidolorifici a base di oppioidi a rilascio prolungato, come l’ossicodone (nella serie chiamato Licodone), spacciati per innocui e che hanno invece causato dipendenze e migliaia di morti per overdose in tutti gli Usa e nel mondo. Un tentativo di attualizzazione – e l’attualizzazione non è in sé inevitabilmente “sbagliata” se mantiene lo spirito dell’originale: si pensi al gradevolissimo Sherlock di Mark Gatiss e Steven Moffat – del tutto arbitrario: cosa c’entra Poe con tutto questo? La sua essenza è assente e non resta che un nome, solo un nome. E l’utilizzo meramente nominale e abbellitivo delle citazioni poesche in Flanagan suona davvero ridicolo e quasi puerile: oltre a Roderick, il presidente della società (che si chiama Fortunato Ltd. come il protagonista di The Casket of Ammontillado), e alla sorella Madeline, ci sono i numerosi figli (decisamente qui Roderick non è the last of the Usher). Frederick Usher, nato dalla prima moglie di Roderick, Annabel Lee, sposato con Morella e padre di Lenore (c’è bisogno che ricordi da dove vengono i nomi? ); c’è la figlia illegittima Camille L’Espanaye, che a differenza della sua omonima de I delitti della Rue Morgue, non ha a che fare con i primati, mentre è la sorellastra Victorine LaFourcade, altra figlia illegittima di Roderick (è pure nera), che, cardiochirurga senza scrupoli, viviseziona scimpanzè (non oranghi); c’è poi la secondogenita Tamerlane Usher (ma Tamerlano non era maschio ? E perché, già che ci siamo, la fanciulla non ha un maggiordomo arabo chiamato Al Aaraaf ?), figlia di Annabel Lee e sposata con William Wilson, un fitness coach televisivo che ha un franchising denominato Goldbug (lo scarabeo d’oro, no ?); non dimentichiamo Prospero “Perry” Usher, il più giovane dei rampolli, che aprirà un locale mondano scandaloso dove si consumerà la Morte rossa, ridotta da Flanagan a una banalissima discoteca, con droga e sesso libero, privé con telecamera e qualche tetta in vista; ci sono però anche un paio di nomi non poeschi, come Napoleon “Leo” Usher (un po’ a disagio coi gatti neri però), altro figlio illegittimo, o Juno Usher, ultima moglie di Roderick, o la misteriosa e fantasmatica Verna (a questo punto non si capisce perché Flanagan non li abbia chiamati Berenice o Eleonora o Ligeia o Egaeus o Montresor, c’erano ancora a disposizione nomi maschili e femminili in abbondanza, si vede che non gli piacevano…); in compenso, l’avvocato corrotto che difende gli interessi degli Usher, si chiama Arthur Gordon Pym e il procuratore legale che cerca di incastrarli è ovviamente C. Aguste Dupin; la madre di Roderick e Madeline è Eliza (e chi sennò ? Ma allora Virginia, dov’è Virginia?); il proprietario originario che assume Roderick e a cui questi sottrarrà l’azienda, facendolo finire come il Fortunato di The Cask of Ammontillado, è Rufus Wilmot Griswold (perfino lui!); e c’è addirittura un Longfellow, William però non Henry, padre biologico di Roderick e Madeline, nonostante non li riconosca come figli, e un giovane gigolò di Camille L’Espanaye di nome Toby (si presume Dammit). Insomma una vera insalata mista senza capo né coda, senza criterio né giustificazione. Forse Flanagan si diverte ma purtroppo non lo spettatore: così serioso e totalmente privo di umorismo, il regista e (ahimè) sceneggiatore americano, si prende troppo sul serio proprio là dove il suo patchwork potrebbe risultare facilmente comico, e imbastisce una storia stiracchiata e melensa che non fa per niente paura, non ha alcuna suspense e procede per luoghi comuni, jumpscare scontati, alternati a dialoghi e soprattutto monologhi noiosissimi, e scene forzate e prevedibili (quando, ad esempio, ho visto – nel secondo episodio, mi pare – i due giovani fratelli Usher seppellire la madre morta in giardino, ho subito pensato “ecco, ora piove”: infatti allo stacco successivo, prima che la defunta risorga, scoppia il temporale. Neanche l’avesse sceneggiato Mel Brooks!).

Quasi fosse la stessa compagnia di filodrammatici (o un’associazione criminale iconoclasta specializzata nel vandalizzare i luoghi letterari: Hill House, Bly Manor, Casa Usher…) poi, gli attori scelti da Flanagan sono sempre gli stessi: le stesse facce in tutti i suoi film e serie tv, a suggellare un’identica noia (voglio salvare giusto Carla Gugino, che, almeno, ha una faccia che trovo sexy, ma si tratta di gusti personali). E come è ripetitivo il cast, così è il soggetto: qualunque ne sia la fonte originale, l’unica storia che Flanagan cerca di raccontare è quella di una famiglia disfunzionale, sempre la stessa solfa banale – un po’ di esistenzialismo a buon mercato (in Usher addirittura un anticapitalismo degno del dopolavoro dei postelegrafonici), tanto per darsi una parvenza autoriale – condito con le spezie andate a male e gli ectoplasmi di qualche fantasma che fa capolino qua e là – tanto per giustificare l’etichetta horror – e poi via, s’imbastisce l’ennesimo serial usa e getta per Netflix. Un abbonamento a quota fissa.

I fantasmi dicevo. Torniamo a Poe. Quando mai ci sono stati fantasmi in Poe? Poe è un razionalista e non crede nel soprannaturale: i suoi revenants tornano sempre per cause naturali, estreme ma naturali, perfino Valdemar è mantenuto in vita, con presupposti pseudoscientifici, dall’ipnosi; perfino Ligeia e Morella tornano non per magia, ma perché la loro volontà sovrumana è più forte della morte. Poe, come Henry James, come Shirley Jackson, come tutti i più grandi autori fantastici, è un maestro dell’ambiguità: è il dubbio, l’incertezza tra naturale e sovrannaturale, tra ragione e follia, tra visione e allucinazione, la spettralità di un paesaggio interiore rivelato all’esterno, di un’identità insediata dal suo doppio, che ci inquietano davvero: l’accettazione pedissequa dell’esistenza dei fantasmi invece è banale quanto lo spiegone rassicurante alla Scooby-Doo. Si confronti l’Hill House della Jackson con l’Hell House di Matheson, fantasma possibile contro fantasma certo: quale dei due fa più paura? Io non ho dubbi. Flanagan insulta Poe (e Jackson, e James) anche in questo: nessuna ambiguità, i fantasmi ci sono. Punto. In Usher il deus ex machina è addirittura una sorta di Nemesi, l’inafferrabile Verna, un po’ donna e un po’ corvo (così che Roderick possa straziare grossolanamente qualche verso sparso da The Raven come, qualche puntata prima, aveva fatto con Annabel Lee), un po’ diavolo e un po’ fantasma, che innesca e conduce la trama proponendo un patto faustiano ai giovani predatori Usher: l’impunità per il delitto appena commesso (hanno sepolto vivo Rufus Griswold, proprietario della Fortunato Ltd. in una scena ripresa pari pari dalla storia a fumetti, Una botte di vino pregiato!, da Zio Tibia o Creepy, che dir si voglia), il passaggio di proprietà dell’azienda a loro e la conseguente fortuna economica, in cambio della morte prematura di tutti i futuri, numerosi figli e, subito dopo, quella contemporanea dei due fratelli, ma tutto questo avverrà dopo molti anni di lussi e gozzoviglie: Roderick e Madeline accettano e Verna, immune ai limiti del tempo e dello spazio, ricomparirà, decenni dopo, a sterminare di puntata in puntata i pestiferi rampolli. Tutto qui. Niente di più desolatamente trito.

Chiudiamo sconsolati con una segreta speranza, che dal remoto iperuranio in cui certamente risiede, Edgar invii un corvo, incarnazione di Nemesi, a beccare il sedere di Flanagan, finchè lo sconfortante cineasta non si deciderà a smettere di contaminare i capolavori della narrativa fantastica con le sue triviali sciocchezze. Che se ne tenga lontano: come io, da ora in poi e questa volta per davvero, mi terrò lontano dai suoi film.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

]]>
Comunità seriali dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2022/12/06/comunita-seriali-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Tue, 06 Dec 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74990 di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità [...]]]> di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità – risulta  interessante analizzare alla luce di ciò la serialità televisiva degli ultimi decenni.

È proprio di questo che si occupa il volume di Massimiliano Coviello, Comunità seriali. Mondi narrati ed esperienze mediali nelle serie televisive (Meltemi 2022), e lo fa a partire dalla presa d’atto di come alla base dell’interazione e della partecipazione dell’intero universo digitale, e in qualche modo delle stesse serie televisive, vi sia una dimensione procedurale basata sulla ripetizione di regole e operazioni che collocano l’utente in un ambiente simulato che si presenta come una sorta di eterno presente [su Carmilla] riattivabile permanentemente. Videogame, piattaforme dell’intrattenimento e social strutturano nuovi immaginari attraverso la loro capacità di sfruttare forme di collaborazioni creative dei pubblici basate sul campionamento e sulla ricomposizione di materiali accumulati. [su Carmilla]

Alla classica struttura narrativa autoconclusiva nel nuovo millennio si sono affiancate narrazioni seriali costruite su molteplici linee narrative progettate per ottenere una fidelizzazione del pubblico attraverso un’espandibilità non solo nei termini di successione di episodi e stagioni ma anche transmediale.

A livello fruitivo le piattaforme di streaming audiovisivo, costruite su interfacce simili a quelle che strutturano i social, nella loro proposta a flusso continuo propongono particolari forme comunitarie. [su Carmilla]

Dalle famiglie disfunzionali de I Soprano, Ozark e Succession ai drammi familiari che scavano nel tempo come This is Us, dalle comunità segnate dal trauma della perdita di Lost e The Leftovers alla messa in scena dei conflitti sociali che uniscono e dividono i gruppi all’interno degli spazi urbani come in The Wire e Gomorra – La serie, dalla società distopica di Westworld a quelle che anelano e progettano un futuro alternativo in Station Eleven: negli ultimi venti anni la serialità ci ha messo a disposizione un catalogo molto ampio di racconti sulle forme di vita comunitarie. I mondi costruiti dalla serialità consentono ai loro spettatori di sentirsi accomunati dalla condivisione di un’esperienza e dalla possibilità di contribuire alle diverse espansioni narrative. Ecco allora che il concetto di comunità si allarga, prolungandosi al di fuori del testo e fornendo chiavi di lettura per comprendere i modi dello stare assieme e di esercitare quella creatività che prende le forme di una scrittura estesa (p. 11).

La fruizione dei testi seriali, con il loro sviluppo transmediale permesso dal digitale, ha sviluppato comunità in cui gli spettatori rielaborano gli immaginari proposti in funzione di nuove forme aggregative rispondenti al bisogno di comunità. «Grazie ai mondi raccontati dalla serialità, gli spettatori si riconoscono e costruiscono comunità lungo quel confine, sempre più labile, tra soggettività e mondo, tra corpo e ambiente, che è lo schermo nelle sue molteplici declinazioni tecnologiche» (pp. 12-13). [su Carmilla]

Le narrazioni seriali, così come si sono declinate soprattutto nel nuovo millennio, sottolinea Coviello, oltre a rappresentare una forma di intrattenimento utile a confermare e rafforzare paure e bisogni del pubblico, «sono una forma di rappresentazione che abita criticamente il contemporaneo: i processi di produzione e distribuzione, i temi che trattano e le modalità della loro ricezione restituiscono, nel loro insieme, un paesaggio grazie al quale è possibile osservare le trasformazioni delle forme di vita comunitarie» (p. 13). Tali forme di narrazione permettono modalità di cooperazione interpretativa che manifestano le potenzialità del sentire e dell’essere in comune arricchendo l’immaginario contemporaneo. Gli ecosistemi narrativi strutturati dalle logiche seriali

si fondano su strategie di continuità e ripetizione, dilatazione e apertura, dinamicità e modulabilità. A partire da un concept che funge da matrice tematica e da un brand che determina le logiche di marketing, gli ecosistemi narrativi sono in grado di stratificarsi ed evolversi secondo modalità non del tutto predeterminate, anche grazie alle pratiche di appropriazione e riuso compiute dagli spettatori. Se le strategie di messa in serie permeano i racconti e le esperienze contemporanee, allora è possibile espandere all’insieme degli ambienti mediali che ci circondano e nei quali siamo immersi il concetto di ecosistema narrativo nel quale “la produzione seriale è caratterizzata da una replicabilità costante, da una struttura aperta, da una immediata remixabilità e da una estendibilità permanente, che permettono al fruitore di avere un ruolo attivo nel processo di costruzione e sviluppo dell’universo narrativo” […]. Dagli spettatori agli utenti, fino ai fan: a seconda dei gradi partecipazione e di coinvolgimento messi in atto, le diverse comunità sono essenziali alla vita degli ecosistemi narrativi (pp. 21-22).

Il volume di Coviello analizza le narrazioni seriali del nuovo millennio ricavando una mappatura, per quanto inevitabilmente parziale, delle modalità con cui le comunità vengono rappresentate e interagiscono con tali produzioni audiovisive. Nel suo procedere all’analisi delle serie televisive e della loro incidenza sul tessuto sociale, lo studioso tiene puntualmente conto dei meccanismi produttivi, delle pratiche di fruizione e del loro rapporto con altre produzioni di immagini coeve. [su Carmilla 1  2] Sono numerose le serie televisive che hanno nella “tenuta della comunità” uno dei loro temi principali. [su Carmilla 1  2]

Dal punto di vista delle strutture narrative, le comunità sono il soggetto collettivo che abita i mondi seriali e ne garantisce la continuità orizzontale, da una stagione all’altra. Le linee narrative verticali, dedicate all’approfondimento dei personaggi e delle loro relazioni e che si esauriscono in una o più puntate, sono spesso contraddistinte dalle dinamiche familiari, oppure dalle affinità e dai contrasti che si generano all’interno di gruppi sociali più ampi. Infine, le comunità si trovano implicate anche a un livello riflessivo: sono gli stessi ingranaggi da cui dipende il funzionamento del testo a configurare uno spazio metaoperativo, che mette al centro le articolazioni e i risvolti comunitari del racconto (p. 153).

Dopo essersi occupato della complessità delle serie televisive contemporanee, della loro potenzialità in termini di apertura e replicabilità della narrazione e della performatività dei pubblici, Coviello si focalizza sugli eventi che nel nuovo millennio hanno inciso sia sulle modalità dello stare assieme sia sulla produzione e la circolazione degli audiovisivi. [su Carmilla]

Nella sezione intitolata Mediashock seriali lo studioso analizza le rappresentazioni mediatiche dell’11 settembre 2001 e della Guerra al terrore che ne è scaturita concentrandosi sull’immaginario costruito dalla serialità televisiva attorno a tali eventi passando in rassegna i modelli narrativi che hanno problematizzato la retorica della paura nei confronti del terrorismo. [su Carmilla] Vengono dunque analizzate in particolare serie come Lost, Mad Man, The Looming Towers, 24, Homeland, House of Cards e The Leftovers.

Successivamente, nella sezione intitolata Voglia di comunità, affrontando serie come Social Distance, This is Us, Utopia, Station Eleven e Anna, lo studioso analizza l’impatto esercitato della pandemia e dalle misure restrittive introdotte sulle forme di socialità a partire dall’utilizzo intensivo delle tecnologie per l’interazione a distanza sottolineando come ciò non abbia tanto comportato una «rottura epistemica dei paradigmi sociali, culturali e tecnologici preesistenti», come frettolosamente alcuni sostengono, quanto, piuttosto, un’accelerazione di processi di mediazione e rimediazione coinvolgenti l’esperienza sensibile già esistenti. La serialità ha indubbiamente saputo tematizzare tempestivamente gli effetti della pandemia offrendo ai pubblici sia storie in cui riconoscersi sopperendo alla carenza di socialità in presenza che prospettare futuri distopici o alternativi alla realtà.

Infine, nell’ultima parte del volume, intitolata Serial Crime, Coviello si occupa della serialità europea di genere crime – come Criminal, Black Earth Rising e Babylon Berlin – analizzandone le forme di rappresentazione, i processi produttivi e le strategie di fruizione mettendo in luce le ragioni della popolarità e della longevità di tali produzioni e invitando a pensare al genere come a un universo narrativo utile alla costruzione di comunità fondate su un immaginario una memoria condivisi anche alla luce degli eventi traumatici novecenteschi che hanno attraversato il continente europeo.

Comunità seriali propone importanti riflessioni circa il ruolo svolto dalle serie televisive contemporanee, a partire dalle loro architetture di coinvolgimento e fidelizzazione dei pubblici e dalle specifiche modalità di fruizione, non solo nella rappresentazione dei rapporti sociali ma anche nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza che si riverberano al di fuori degli schermi agendo su una quotidianità in cui distinguere tra esperienza dentro e fuori schermo, come tra online e offline è davvero sempre più arduo. «In un tempo in cui il bisogno di comunità si espone ai rischi molteplici, come la pervasività delle tecnologie del controllo, la frequente inconsistenza delle reti sociali online, a cui spesso si accompagna la tendenza all’utilizzo di un linguaggio violento, l’esclusione dell’alterità, interpretata pregiudizialmente come una minaccia, le narrazioni seriali ci aiutano a immaginare forme alternative di incontro e di scambio, supportandoci nella condivisione delle esperienze e delle memorie» (p. 154).

]]>
Nemico (e) immaginario. Sguardi sull’alterità. Colonialismo e fantascienza https://www.carmillaonline.com/2021/06/29/nemico-e-immaginario-sguardi-sullalterita-colonialismo-e-fantascienza/ Tue, 29 Jun 2021 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66734 di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro [...]]]> di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l’“umanità” con la propria invadenza o con la propria incontrollabile “pazzia” e/o sete di vendetta»1.

L’incontro con l’alterità sugli schermi televisivi e cinematografici è ravvisabile soprattutto ricorrendo a contesti particolari come quello fantascientifico. Ed è proprio a quest’ultimo ambito popolato da alieni ed extraterrestri che è dedicato un intero capitolo di Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (Meltemi 2021)2, importante volume nell’ambito della Visual culture steso allo scadere del vecchio millennio e recentemente riproposto in italiano dopo alcune precedenti edizioni.

Nel cinema di fantascienza la questione della differenza si palesa facilmente nel confronto tra l’umano ed il non-umano ed il più delle volte lo scompiglio determinato dall’incontro con l’alterità sembra risolversi con il ripristino della “normalità umana” precedente. Nelle produzioni hollywoodiane quando il finale sembra lasciare aperta qualche porta suggerendo che la normalità faticosamente riconquistata potrebbe non rivelarsi definitiva è più probabile che ciò sia dovuto ad esigenze di produzione (possibili sequel) che non ad una vera e propria messa in discussione delle certezze umane.

Spetta piuttosto alle comunità di fan di serie come X-Files (The X-Files, dal 1993) ideata da Chris Carter e Star Trek (id., dal 1966) ideata da Gene Roddenberry aver saputo creare un ambiente mediatico flessibile ove la questione della differenza è stata articolata e reimmaginata. Tali comunità di fan hanno sfruttato abilmente le lacune e le incoerenze presenti in tali produzioni seriali per elaborare versioni alternative del futuro non di rado tentando di superare i pregiudizi contemporanei.

La descrizione degli esseri alieni è presente in numerose produzioni hollywoodiane che è indubbiamente la rappresentazione dominante pur non essendo l’unica3. Ovviamente il significato attribuibile alla figura aliena che si incontra in un’opera è mutevole; se una delle peculiarità della fantascienza è quella di affrontare le paure e i desideri del presente proiettandoli in un futuro più o meno lontano, è inevitabile che la medesima figura aliena acquisisca nuove significazioni in base al momento storico in cui la si considera oltre che a seconda degli occhi che la guardano e la interpretano. In quest’ultimo caso le variabili si ampliano ad una pluralità di pubblici che si differenziano per genere, formazione culturale, visioni politiche ecc.

È altrettanto indubbio che l’opera possieda pur sempre una sua forza che si esercita soprattutto sulle visioni meno attente in cerca di mero intrattenimento, una forza che tende ad orientare la lettura suggerendo un punto di vista coincidente, sostanzialmente, con quella che si vuole “la visione nordamericana del mondo”. Una visione che il più delle volte è maschile, bianca, eterosessuale e cristiana.

Riferendosi agli Stati Uniti alle prese con la guerra fredda, Mirzoeff nota come tutto sommato siano segnate da un immaginario analogo la fantascienza negli anni Cinquanta e la coeva celebre mostra fotografica di Edward Steichen – The Family of Man (1955) – tenuta presso il Museum of Modern Art di New York in cui la fotografia viene proposta come “specchio dell’essenziale unicità della specie umana nel mondo”.

Se nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel traspare il timore per l’infiltrazione comunista sul territorio statunitense e gli alieni vengono mostrati come esseri in grado di assumere sembianze umane salvo però essere del tutto privi di emozioni – rappresentati come “burocrati senza vita” ha suggerito efficacemente Vivian Sobchak4 –, in maniera del tutto analoga, sostiene Mirzoeff, anche nella mostra di Steichen traspare l’idea l’unicità umana sia in realtà soltanto esteriore. All’immagine di una contadina sovietica intenta a raccogliere il grano con le mani la mostra contrappone una foto aerea ritraente un’ordinata batteria di moderne mietitrebbia statunitensi al lavoro nei campi. In entrambe le contrapposizioni l’alterità sembrerebbe essere messa in scena al fine di confermare la superiorità nordamericana, tanto che, a testimonianza di tale convincimento/finalità, sono numerose le fotografie della mostra rimarcanti agli occhi occidentali degli anni Cinquanta quanto l’Africa sia restata primitiva se confrontata all’Occidente che ha saputo civilizzarsi.

La fantascienza nordamericana, sostiene Mirzoeff, proiettandosi in un futuro immaginario, ha saputo creare un ambiente in cui le contraddizioni possono essere espresse ed affrontate pur mantenendo le certezze granitiche della superiorità statunitense nell’epoca della divisione in blocchi. Restando agli anni Cinquanta, la superiorità tecnologica degli esseri alieni palesata in film come La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin o Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953) di William Cameron Menzies ha contribuito a rafforzare la convinzione dell’impellente necessità di sviluppare armi sempre più sofisticate per fronteggiare le minacce al territorio statunitense che possono giungere dall’esterno.

Allo stesso modo gli scenari del futuro mostrati dai film si rivelano utili all’avanzata della società dei consumi in quanto contribuiscono a rendere desiderabili anche beni non ancora disponibili sul mercato. A tale proiettarsi dei desideri nel futuro il mercato ha risposto incrementando la frequenza degli aggiornamenti delle merci disponibili e pianificandone di nuove.

Di conseguenza, il pubblico si è abituato a immaginare il futuro in termini molto precisi e a confrontare le diverse versioni di quel futuro. È stata questa strana fusione di desiderio consumistico e retorica politica che ha dato al genere fantascientifico la sua particolare risonanza, in una prima versione di quella che Allucquère Roseanne Stone ha chiamato “guerra di tecnologia e desiderio”5.

Col finire della guerra fredda la fantascienza sembra interessarsi più agli effetti spettacolari che non a suggerire minacce agli esseri umani (coincidenti con gli statunitensi), si pensi ad esempio a Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas, mentre gli stessi extraterrestri si fanno decisamente più amichevoli, come avviene nelle produzioni di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) ed E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982).

Parallelamente a questo filone di fantascienza spettacolare o in cui l’essere alieno non si rivela più una minaccia per l’umanità, compaiono opere per certi versi in controtendenza, come Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982) entrambi di Ridley Scott, contraddistinte anche da un’esplicita critica alle corporation che per certi versi si sostituiscono agli apparati statuali nel loro determinare la vita degli esseri umani; si tratta di film destinati ad aprire una corrente distopica prospettante un’umanità in crisi identitaria costretta a fare i conti con scenari futuri inquietanti ed inediti.

Se nella narrativa degli Anni Cinquanta gli alieni sono una minaccia, negli Anni Settanta, il decennio in cui la generazione dei baby boomer credette di poter cambiare il mondo, gli alieni diventano pacifici perché gli esseri umani sono finalmente disponibili a un contatto, più o meno la stessa metamorfosi subita dai pellerossa […]. Il desiderio che l’altro si avvicini, però, comporta anche l’avvicinamento del desiderio provato dall’altro. Questo desiderio che per noi resta, per ovvie ragioni culturali, significativamente indecifrabile, sul lungo termine innesca il conflitto, come i meccanismi mimetici ci insegnano. Così, mentre il percorso narrativo principale degli Anni Settanta, costruito sugli archetipi dell’inconscio collettivo portati in superficie da quell’ipotesi psicosociale, si stava dirigendo verso il suo coronamento con la cristologia aliena di E.T. Del 1982 […], su questo percorso si innesta [Alien] di Ridley Scott con il suo xenomorfo, quasi ad aprire una nuova porta […] dalla quale scaturirà un nuovo potente immaginario, con caratteristiche del tutto inedite6.

Nell’analizzare le opere di fantascienza in cui l’essere umano viene a contatto con l’alterità aliena, Mirzoeff nota come le due principali tipologie di alieno extraterrestre – il mostro terrificante e l’inquietante copia umana – derivino dalle classificazioni colonialiste europee. Tra i film che palesano punti di contatto tra l’epopea colonialista e la fantascienza, lo studioso cita Robinson Crusoe su Marte (Robinson Crusoe on Mars, 1964) di Byron Haskin, in cui un essere umano restato bloccato su Marte si trova ad avere come compagno di avventure un alieno in fuga da suoi simili chiamato emblematicamente Venerdì dal novello civilizzatore.

Rimandi tra colonialismo e fantascienza sono individuabili secondo Mirzoeff anche all’interno della produzione di Ridley Scott: elementi di contiguità nell’incontro dell’umano con l’alterità sono segnalati dallo studioso nei già citati Blade Runner, Alien e nell’opera proiettata nel lontano passato 1492: la conquista del paradiso (1492: Conquest of Paradise, 1992)7.

Sebbene quest’ultima pellicola sia stata fatta uscire nelle sale in concomitanza con la ricorrenza della scoperta di Colombo l’atteso successo al botteghino non è arrivato; il cinquecentenario non ha portato bene alla figura dell’esploratore europeo alle prese con le critiche delle popolazione native e, più in generale, con una rilettura critica della sua epopea. «Mentre il pubblico si sarebbe dovuto identificare con gli “umani” contro gli “alieni”, nel contesto coloniale la rettitudine morale ora sembrava appartenere a “loro” – e cioè, agli indigeni che avevano sofferto la violenza della conquista coloniale»8.

In quel lontano 1492, nel momento stesso in cui vengono a contatto con gli abitanti del “nuovo mondo”, gli europei non tardarono a categorizzare le popolazioni indigene come esseri fondamentalmente diversi in linea con un immaginario già predisposto a possibili presenze mostruose. La visione di uno senario naturalistico sino ad allora sconosciuto ha spinto con maggior forza gli esploratori europei a prestar fede ai racconti sui mostri e a raccontare, a loro volta, di aver incontrato individui di specie diverse durante i viaggi. Analogamente, sostiene Mirzoeff, «il film di fantascienza stabilisce e normalizza accuratamente la propria ambientazione prima di presentare il suo alieno o il suo mostro, cosicché esso sembri appropriato al contesto. Inoltre, persuade il pubblico ad arrendersi all’illusione, non perché i mostri siano reali, ma perché essi sono uguali sia ad altri mostri che ad altre immagini filmate»9.

I resoconti fantasiosi dei viaggiatori e dei missionari europei hanno certamente contribuito rafforzare la convinzione di una incolmabile discrepanza tra “civiltà” e “primitivismo” e tra “cristianità” e “paganesimo”. «Dal punto di vista occidentale, per essere completamente evoluti, gli umani dovevano essere civilizzati, il che vuol dire che dovevano essere cristiani. Nel contesto fantascientifico, la questione dell’evoluzione avanzata è altrettanto dominante. L’alien, per esempio, è fisicamente quasi indistruttibile, mentre i replicanti di Blade Runner possono sembrare più “umani” degli umani biologici.»10.

Lo studio di Mirzoeff si sofferma anche sul film Congo (id. 1995) di Frank Marshall, derivato dall’omonimo romanzo del 1980 di Michael Crichton, notando come questo, sin dalle prime sequenze, metta in scena stereotipi occidentali sul continente africano ormai sedimentati nel tempo.

Il contrasto tra la spedizione occidentale hi-tech, con i suoi occhi protesici, e il primitivo, ma pericoloso Congo, così minaccioso per gli occhi biologici, ma fonte vitale di materie prime, difficilmente poteva essere rappresentato in modo più sinistro. Inoltre, Congo lega direttamente il progetto coloniale del diciannovesimo secolo alla fantascienza contemporanea, con la sua accurata evocazione di Houston come sede della compagnia, ricordando agli spettatori la stazione di controllo delle missioni della NASA, nella stessa città. Film come Congo minano alla radice il presupposto rassicurante secondo cui non ci sarebbe più la convinzione che l’Occidente è più evoluto dei suoi Altri11.


  1. Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, Firenze, 2016, p. 10. Su tale volume: Luca Cangianti, I mostri dell’accumulazione originaria, Carmilla, 14 Marzo 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo, Carmilla, 20 settembre 2016. 

  2. Nicholas Mirzoeff, “Capitolo sesto. Il primo contatto: da Independence Day a 1492 e Millennium” in Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021. 

  3. Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma, 2014. Sul volume: Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, in Carmilla 9 agosto 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. L’alieno e l’umano, in Carmilla 16 agosto 2016. 

  4. Vivian Sobchak, Screening Space: The American Science Fiction Film, Rutgers University Press, New York, Brunswick. 

  5. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op cit., p. 301. Allucquère Roseanne Stone, Desiderio e tecnologia: il problema dell’identità nell’era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997. 

  6. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria, 2019, pp. 83-84. 

  7. Curiosamente, in quest’ultima pellicola, oltre a Sigourney Weaver nei panni di Isabella di Castiglia, recita anche quel Gerard Depardieu che il pubblico statunitense ricorda per l’interpretazione, poco tempo prima, di un immigrato squattrinato in cerca del permesso di soggiorno negli Stati Uniti – insomma un vero e proprio “Resident Alien” – nel film di successo Green Card – Matrimonio di convenienza (Green Card, 1990) di Peter Weir. 

  8. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op. cit., pp. 310-311. 

  9. Ivi, p. 312. 

  10. Ivi, p. 313. 

  11. Ivi, p. 314. 

]]>
Vita da reclusi desideranti: cinque serie dinamiche https://www.carmillaonline.com/2020/05/04/vita-da-reclusi-desideranti-cinque-serie-dinamiche/ Mon, 04 May 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59722 di Mauro Baldrati

Le serie – alcune serie – danno assuefazione. La scansione della macchina seriale è una ragnatela, attira lo spettatore e lo cattura, inserendolo in un mondo parallelo fantasmagorico in cui calarsi. Forse perché siamo abituati? Perché questa dinamica ormai fa parte del nostro immaginario?

Infatti la “narrazione” dei media, soprattutto il Network per eccellenza, onnipresente nelle case, la TV nazionale, è a sua volta una serie interminabile. Ora è il momento del Coronavirus, ma la stagione passata, quella della “crisi”, presentava modalità identiche. Partono con atmosfere [...]]]> di Mauro Baldrati

Le serie – alcune serie – danno assuefazione. La scansione della macchina seriale è una ragnatela, attira lo spettatore e lo cattura, inserendolo in un mondo parallelo fantasmagorico in cui calarsi. Forse perché siamo abituati? Perché questa dinamica ormai fa parte del nostro immaginario?

Infatti la “narrazione” dei media, soprattutto il Network per eccellenza, onnipresente nelle case, la TV nazionale, è a sua volta una serie interminabile. Ora è il momento del Coronavirus, ma la stagione passata, quella della “crisi”, presentava modalità identiche. Partono con atmosfere minacciose, uso intensivo di termini violenti, “drammatico”, “grave”, con riprese di malati in terapia intensiva circondati da infermieri con scafandri fantascientifici; poi avviene un passaggio graduale verso il “tutto bene”: i contagi calano, le interviste sono ottimiste, i servizi sono amministrati bene, sembra che tutti facciano i tamponi (in realtà sono insufficienti, si fanno soprattutto in televisione). Con la “crisi” fu uguale. Dopo il dramma e la minaccia di default, che vide la discesa in campo di Monti, la crisi si ammorbidì, finché si iniziò a definirla “in discesa” e “alle spalle”. Tutto finito. Tutti ricchi. Fiction, ovviamente. Infatti ogni tanto erano costretti a riferire i numeri, implacabili, degli istituti di ricerca che affermavano l’esatto contrario. Nessun problema. I giornalisti embedded, gli attori della fiction, li riportavano con voce grave e espressioni deluse, ma era questione di mezza giornata. Poiché nel polveroso bailamme non c’è memoria, il mattino dopo ripartivano col “va tutto bene”.

Tutte le serie che presentiamo sembrano accomunate da un aspetto: è come se avessero recepito uno degli insegnamenti fondamentali di Vladimir Nabokov, espresso circa ottant’anni fa quando insegnava nei campus americani, e pubblicato nelle Lezioni di letteratura: “Il buon lettore sa benissimo che, quando si parla di romanzi, aspettarsi di trovarvi vita vera, persone vere e così via è una pretesa senza senso. In un romanzo la realtà di una persona, di un oggetto o di una circostanza attiene esclusivamente al mondo di quella particolare opera. L’autore originale inventa sempre un mondo originale e, se un personaggio o un comportamento si inserisce armoniosamente nella struttura di quel mondo, ci sarà dato di godere la forte emozione della verità artistica, per quanto inverosimile la persona o la cosa sembrerebbe se trasferita in quella che i recensori letterari, poveri scribacchini, chiamano vita reale. Per uno scrittore di genio non esiste la vita reale. Egli stesso deve crearla, e creare poi ciò che ne consegue.”

Questo enunciato ovviamente sarebbe da aggiornare, perché riflette la concezione di Nabokov del predominio dell’arte rispetto alla cosiddetta realtà, la quale non può essere oggetto di critica in quanto illusione. Una teoria che il professor Nabokov non ha applicato alla sua stessa opera, visto che in Humbert Humbert ha proiettato nientemeno che se stesso. Però afferma una delle verità incontestabili (e rivoluzionarie) in letteratura: la costruzione di una realtà nuova, minore e anarchica, che non si interessa dei riscontri con quella esistente maggiore.

Cinque favole, libere e creative, perché non si preoccupano di sedurre il lettore (ovvero lo spettatore), di blandirlo con codici che richiamino la prosopopea dominate. Un ottimo antidoto alla favola monotona e autoritaria raccontata dai media mainstream.

Buona lettura dunque (eh, volevamo dire buona visione!).

FAUDA

La n.1, anche qualitativamente. Israeliana, la sua estetica, il suo stile fanno sperare che finalmente ci siamo liberati da tutti quei fotomodelli vestiti Armani che popolano le serie hollywoodiane. I protagonisti infatti sono sudati, scaruffati, poco atletici, piegati dal caldo e dalla fatica. Nessun trionfalismo, né superomismo degli agenti segreti del nucleo speciale antiterrorismo. É di parte israeliana, nessun dubbio, ma resta una spy story coi controfiocchi, dura e coinvolgente. Nella prima stagione c’è la caccia a un famoso terrorista di Hamas, nella seconda si passa all’Isis. É appena uscita la terza. Nessun compiacimento sionista, i “buoni” sono a loro modo sporchi, eroi semi negativi che non esitano a usare il ricatto e la violenza illegale per ottenere i loro scopi. Tutto è permesso in guerra. E così i terroristi sono certamente dei fanatici assassini, ma mai delle macchiette votate alla barbarie. Proprio come Tacito in Vita di Agricola, quando riporta il discorso del capo barbaro prima della battaglia, e lo usa come pretesto per denunciare tutta la corruzione e l’imperialismo romano, così i nemici di Israele ne denunciano la politica guerrafondaia e aggressiva, con motivazioni credibili, portando lo spettatore cosciente anche dalla loro parte.

TOP BOY SUMMERHOUISE – TOP BOY

Britannica, le prime due stagioni sono Summerhouse, la terza prosegue come Top Boy (ovvero sembrano due serie distinte ma si tratta della stessa opera). Le prime due sono senza doppiaggio, ma conviene seguire in originale anche la terza, perché il duro argot di strada, crivellato di Yo! e Fuck! strascicato e offensivo, fa parte della bellezza di questa vicenda all black (a parte i boss della malavita, che sono bianchi bastardi inglesi). La storia è dedicata a una banda dei bassifondi di Londra (nel quartiere immaginario di Summerhouse, che evoca i palazzoni di Gomorra). E’ un contesto mutato dove la vita e la speranza non hanno senso. Sono estinte, dimenticate. O forse mai esistite. Solo durezza, e mancanza di pietà. Anche i “buoni” non esistono in questa sorta di noir ellroyano al cubo. La sola figura vagamente compassionevole è Dushane, il capobanda, che gestisce lo spaccio minorile, bambini che vivono in famiglie degradate (il più sbandato di tutti ha i genitori tossici). L’unica realtà possibile è il crimine, e la guerra per il dominio del territorio. Una guerra dove la vittoria e la sconfitta sono relative. Perché, come dice il braccio destro di Dushane, Sully, nella terza stagione Top Boy: “Solo perché non abbiamo perso non significa che abbiamo vinto.” Charles Dickens si è risvegliato, e ha scoperto i nuovi slum, la nuova miseria. La colonna sonora le conferisce ulteriore intensità, con la sezione rap gestita da Andrew Meechan, e una ambient qua e là cupa e ossessiva, composta da un sempre grande Brian Eno.

VAMPIRI

Altre immagini e personaggi all’insegna dell’anti-patina in questa serie francese. Niente ragazzini middle class, ma creature che “sono qui, in mezzo a noi. Vivono nascoste in clandestinità”. Niente fascinosi canini che sfiorano sensuali gole bianche di ragazze attraenti, prima di affondarli con un brivido erotico nell’arteria. I vampiri di Parigi combattono con problemi molto pratici, i soldi, e soprattutto i documenti, che devono falsificare spesso, poiché invecchiano anagraficamente ma i corpi rimangono giovani. Si nutrono di sangue, come tutti i vampiri, di ogni tipo, animale, o sacche da trasfusione che comprano al mercato nero. Non sempre riescono a rifornirsi, per cui attraversano periodi di fame spaventosa. Se uccidono, tagliano la gola alla vittima e si gettano scomposti, brutti e osceni, sul corpo agonizzante per bere. La vicenda narra le avventure di una famiglia fuoriuscita dalla “comunità”, ovvero una sorta di mini stato della specie che ha il controllo su ogni appartenente, soprattutto per garantirne l’anonimato, indispensabile per sopravvivere. Una madre, vampira, fa di tutto per tenere i due figli fuori dal giro, anche somministrando loro certi farmaci creati dal marito (morto?), che ne ha studiato la genetica. La loro specie deriva da un’antica epidemia, che ha modificato le cellule, fermandone l’invecchiamento e rendendole ipersensibili alla luce solare. I farmaci permettono loro di essere semi-umani, possono nutrirsi di alimenti normali ed esporsi al sole, ma… può non esistere un ma?

UNORTHODOX

Finalmente una miniserie, che termina in 4 puntate. Infatti un aspetto particolarmente impegnativo del genere seriale è la dilatazione delle storie e dei personaggi. Tanto che, quando esce una nuova stagione, siamo costretti a tornare indietro per ripassare gli eventi. Tedesca, è ambientata in una comunità ebraica chassidica di Brooklyn. Tratta dalle memorie di una donna fuoriuscita dalla comunità, Deborah Feldman, è iperrealista sulle regole, rigidissime, che dominano le vite e le menti dei membri. Le donne non possono leggere la Torah, né cantare, né studiare musica. Il loro unico destino è sposarsi, con un matrimonio combinato, e produrre figli in continuazione, per risarcire il Popolo Eletto dai milioni di morti per l’Olocausto. Una ragazza, interpretata da una straordinaria attrice israeliana, Shira Haas, un viso espressivo nel corpo di una bambina di 10-12 anni, dopo il matrimonio decide di fuggire, e vola a Berlino in cerca di libertà e di una nuova vita. Non conosce nessuno, vaga alla cieca, finché si aggrega a un gruppo di musicisti classici che la introducono nel mondo creativo della città. A questo punto diventa una specie di thriller, col marito Yanki e il cugino che si mettono sulle sue tracce per riportarla a casa. La ricostruzione degli ambienti, dei riti, dei costumi è meticolosa e certamente inquietante (l’evento del matrimonio è epico e strabiliante), ma non vi è alcun giudizio. É una parte di mondo, con le sue regole e la sua follia. E lo racconta senza documentarismi, né moralismi.

IL CALIFFATO

Un altro segmento di mondo dove regnano la pazzia e la sopraffazione, questa volta con l’aggravante della violenza. Svedese, siamo a Raqqa, in Siria, dove vige lo stato islamico Daesh. Anche qui una donna, sola e coraggiosa, cerca di trovare una via d’uscita alla sua situazione. Sposata con un “combattente”, come le altre “sorelle” può muoversi solo per fare la spesa (ci ricorda qualcosa?), intabarrata nel burka, coi guanti, perché non un solo centimetro di pelle deve essere visibile. Riesce a procurasi un cellulare, rischiando grosso (la fustigazione, solo gli uomini possono possedere un telefono) e a mettersi in contatto con una poliziotta a Stoccolma. C’è in ballo un attentato dell’ISIS, e tra le due donne inizia una comunicazione clandestina molto pericolosa (se scoperta qui rischierebbe la decapitazione). La poliziotta però pretende dati, informazioni, in cambio di un aiuto per fuggire dall’inferno in cui si trova. Parte una spy story ansiogena, sempre sul filo del rasoio, in bilico tra la sopravvivenza e il disastro. E come nella precedente Unorthodox il racconto viaggia tra i due ambienti, Raqqa e Stoccolma. Sembra di essere in una puntata di Eymerich, quando ciò che accade in uno si riverbera nell’altro, producendo conseguenze. É un thriller teso, anti patinato come le precedenti, senza quelle pause forzate (per esempio dialoghi intimisti inutili), che nelle serie servono per guadagnare un po’ di tempo ma che appesantiscono il flusso narrativo. Un’utile palestra mentale di resistenza alla staticità del TSO al quale ci hanno costretto.

Tutte le serie sono visibili su Netflix. Qualcuno potrebbe osservare: ma che è? Siete pagati da Netflix? Assolutamente no. Ma se i due canali RAI dedicati alla fiction, per i quali paghiamo un canone obbligatorio, sono barili di cui è stato raschiato anche il metallo, e i film se non hanno almeno dieci anni non vengono presi in considerazione, che colpa abbiamo noi?

]]>
Strange Angel: Lo strano angelo John Whiteside Parsons https://www.carmillaonline.com/2018/09/19/strange-angel-lo-strano-angelo-john-whiteside-parsons/ Tue, 18 Sep 2018 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48558 di Walter Catalano

E’ una logora banalità affermare che la realtà talvolta sia molto più romanzesca della fantasia letteraria. Eppure, come molti luoghi comuni, l’abusata asserzione può rivelarsi vera: non ci sono dubbi che lo sia nel caso di un personaggio come John Whiteside Parsons, “Jack” per gli amici.

Se un soggettista si fosse presentato da un produttore cinematografico con una sinossi come questa, forse avrebbe avuto più di una chance (o non ne avrebbe avute affatto, perchè la storia non era abbastanza credibile): un ragazzo californiano di buona famiglia cresce [...]]]> di Walter Catalano

E’ una logora banalità affermare che la realtà talvolta sia molto più romanzesca della fantasia letteraria. Eppure, come molti luoghi comuni, l’abusata asserzione può rivelarsi vera: non ci sono dubbi che lo sia nel caso di un personaggio come John Whiteside Parsons, “Jack” per gli amici.

Se un soggettista si fosse presentato da un produttore cinematografico con una sinossi come questa, forse avrebbe avuto più di una chance (o non ne avrebbe avute affatto, perchè la storia non era abbastanza credibile): un ragazzo californiano di buona famiglia cresce negli anni ’30, nutrendosi di riviste pulp e appassionandosi in particolare alla fantascienza; sogna astronavi, voli spaziali e viaggi sulla Luna. A poco a poco la passione diventa ossessione: il giovane impiega i suoi risparmi per dedicarsi alla ricerca sui razzi; da autodidatta e impiegato in un’azienda chimica diventa un esperto di esplosivi ed entra in contatto epistolare con Wernher Von Braun e con i maggiori ricercatori internazionali del settore; pur non avendo titoli accademici riuscirà, a poco a poco, a realizzare i suoi desideri come conduttore del gruppo che svilupperà il carburante solido dei missili che, qualche anno dopo, porterà il suo paese sulla Luna. Ma non è finita qui: Jack ha una doppia vita; di giorno è, più o meno, uno scienziato ma, affascinato dalla magia e dall’occultismo, di notte si trasforma in un praticante dei riti di magia sessuale del famigerato Aleister Crowley – “l’uomo più perverso del mondo”, secondo la stampa scandalistica britannica – che, inizialmente ammirato, lo metterà a capo della filiale americana del suo ordine esoterico (“la magia non è che un atto di volontà” – diceva Crowley). Non mancano poi intricate storie erotiche e sentimentali con la moglie, la sorella minore della moglie e varie altre affascinanti donzelle, in ménage à trois o più (tra i partecipanti anche Ron L. Hubbard, scrittore di fantascienza e fondatore del culto di Scientology) e un finale tragico e misterioso al quale forse non sono estranei servizi segreti e FBI. Tutto questo sembra invenzione ma è accaduto davvero, tra il 1914 e il 1952: John “Jack” Whiteside Parsons è una delle poche personalità contemporanee il cui nome è stato onorificamente attribuito dagli astronomi a un cratere sul lato buio della luna (a 37° Nord, 171° Ovest).

Ovvio che una figura di tale spessore immaginifico non potesse sfuggire al mondo dei media: a Parsons sono state dedicate ben tre biografie, una a fumetti – The Marvel, realizzata nel 2008 da Richard Carbonneau e Robin Simon – e due in volume: Sex and Rockets: The Occult World of Jack Parsons (1999) di John Carter e Robert Anton Wilson; e Strange Angel: The Otherworldly Life of Rocket Scientist John Whiteside Parsons (2006) di George Pendle. Proprio da quest’ultima opera è stata tratta la serie che lo showrunner Mark Heyman, ha proposto nel 2017 alla CBS Television Studios che cercava un serial di sfondamento, in area Sci-Fi colta, abbastanza solido da essere contrapposto alla Westworld di HBO, alla The Handmaid’s Tale di Hulu o alla American Gods di Starz. Lo show si avvale di Ridley Scott e David W. Zucker – quella Scott Free Productions che già aveva brillantemente avviato, tra le altre cose, The Man in the High Castle per Amazon Video – come produttori esecutivi, e di un cast di ottimi attori tra cui Jack Reynor/Jack Parsons (già visto nel secondo episodio di Philip K. Dick’s Electric Dreams), Bella Heathcote/Susan Parsons (già ammirata in The Neon Demon di Nicolas Winding Refn e in un ruolo minore di The Man in the High Castle), Rade Šerbedžija/Prof. Filip Mešulam (grandissimo interprete croato giunto all’attenzione internazionale con Prima della pioggia di Milčo Mančevski nel 1994 e poi con l’ultimo Kubrick, Eyes Wide Shut – dove si doppiava in italiano da solo), e i più giovani Rupert Friend/Ernest Donovan e Peter Mark Kendall/Richard Onsted.

Come di consueto quando c’è di mezzo Ridley Scott, fotografia, costumi e scenografie d’epoca sono ineccepibili; il rimando figurativo all’immaginario pulp di Amazing Stories o Astounding Science Fiction, alle cui pagine il giovane Jack si abbevera, è estremamente raffinato, così come la ricostruzione di un ambiente scientifico dilettantesco – a base di laboratori ricavati in magazzini e garage o di esperimenti nel deserto mediante rudimentali rampe di lancio missilistiche con protezione a base di sacchetti di sabbia – e in parallelo lo scenario universitario del prestigioso Caltech (California Institute of Technology) che gli avventurosi giovani cercano con alterne vicende di frequentare; oppure colpiscono certi sofisticati particolari della sceneggiatura, vere e proprie strizzate d’occhio allo spettatore edotto (per esempio vedere i protagonisti mentre ascoltano alla radio frammenti dello storico radiodramma che Orson Welles trasse nel 1938 dal romanzo War of the Worlds di H.G. Wells, commentando sugli idioti che ci credono davvero; oppure, come in un romanzo di Raymond Chandler, vedere Jack testimoniare ad un processo in qualità di esperto di esplosivi – episodio per altro avvenuto realmente – incastrando i poliziotti corrotti che avevano piazzato una bomba nella macchina del detective che raccoglieva prove contro di loro…). La prima stagione della serie si concentra solo sulla prima parte delle numerose esperienze di questo straordinario personaggio e dei suoi compagni di strada (che nello show, probabilmente perché alcuni di loro sono ancora in vita, figurano tutti con un nome fittizio); ma prima di proseguire, esploriamo meglio quali sono i fatti storici reali che la fiction, più o meno fedelmente, rielabora.

Nato nel 1914 in una distinta e facoltosa famiglia di Pasadena (Los Angeles), Parsons, pur avendo avuto accesso a studi superiori, era in larga misura un autodidatta in campo scientifico: “non aveva talento matematico” – secondo quanto affermerà il prof. Theodore Von Kàrmàn, di cui fra poco parleremo – ma “un cervello a ruota libera”. Grande appassionato di fantascienza, promotore della Science Fiction League fondata da Hugo Gernsback nel 1934, fu amico o conoscente di molti fra i principali scrittori di science fiction degli anni ’30 e ’40, fra essi A.E. Van Vogt, Forrest J. Ackerman, Ray Bradbury (che dichiarò parlando di lui in un’intervista, di essere affascinato “dalle sue idee sul futuro, ma avevo un po’ paura di lui anche se aveva solo 5 o 6 anni più di me: io allora ero solo un ragazzo poco scolarizzato che vendeva giornali per strada, senza alcuna possibilità di unirsi alla società missilistica di cui parlava quel signore…”), Jack Williamson (di cui apprezzava particolarmente il romanzo Darker Than You Think, in cui la razza dei licantropi cerca di recuperare l’antico potere sugli uomini dando vita ad un fanciullo magico: il Figlio della Notte – anche Parsons, vedremo fra poco, proverà a fare qualcosa di simile. In un episodio dello show lo vediamo partecipare ad una convention fantascientifica durante la quale un giovane Williamson presenta il suo romanzo appena uscito), e Robert Heinlein (che modellò proprio su Parsons il personaggio di Michael Valentine Smith, il Messia marziano di Stranger in a Strange Land, figura che tanto avrebbe ispirato gli hippies, Charlie Manson compreso…. ). Parsons – descritto da chi l’ha incontrato come un uomo “bruno, alto, di bella presenza, molto brillante e intelligente” – usò la volontà – che è la vera magia secondo Crowley – per rendere reali le visioni tecnologiche di cui leggeva sui pulp fantascientifici.

Dopo aver assistito nel 1936 ad una conferenza al GALCIT (Guggenheim Aeronautical Laboratory), sull’ipotesi di un aereo a reazione, il giovane chimico dilettante, insieme all’amico meccanico Edward S. Forman, iniziò a sperimentare con piccoli razzi a polvere pirica. Nel giro di poco tempo i due passarono al propellente liquido ma, mancando di fondi per sviluppare le ricerche, contattarono il Caltech, ottenendo l’interessante proposta di collaborare alla tesi di dottorato sulla propulsione a reazione di un brillante allievo dell’Istituto, Frank Malina (nel film chiamato Richard Onsted): il gruppo affiatato che si formò con l’apporto di un assistente di laboratorio, Weld Arnold, che li finanziò, e di un dotatissimo studente di matematica cinese, Hsue Shen Tsien (nel film chiamato Gui Chiang), venne presto soprannominato nel giro universitario “The Suicide Squad”, per la disinvoltura con cui tutti i membri maneggiavano sostanze pericolose come l’acido nitrico o l’ossigeno liquido e per i razzi sperimentali sparati quasi quotidianamente provocando devastanti esplosioni.

Nella realtà il gruppo, unito sotto il motto di “Ad Astra per Aspera”, fu una sorta di triunvirato di individui complementari: Parsons, il chimico; Malina, il matematico; e Forman, l’ingegnere. Il film invece, sopprimendo la figura di Forman, si concentra sulla dialettica contrapposta fra Parsons, l’impetuoso sperimentatore, e Malina/Onsted, il cauto teorico. Sotto gli auspici e la protezione del professor Theodore Von Kàrmàn (nel film chiamato Prof. Filip Mešulam) – il più geniale studioso di aereodinamica della sua epoca, ungherese, docente universitario in Germania e profugo in Usa dopo l’avvento di Hitler – le ricerche del gruppo, alle soglie degli anni ’40, iniziano ad interessare l’esercito per un possibile utilizzo militare, considerato il sempre più probabile coinvolgimento degli Stati Uniti nel Conflitto mondiale. Grazie a questi nuovi e più cospicui finanziamenti, i ragazzi della Squadra suicida approdarono finalmente allo sviluppo di un propellente solido: Parsons aveva ormai approntato la tecnologia che, una trentina di anni dopo, avrebbe portato il suo paese nello spazio esterno. Per sua sfortuna però, il chimico – confermando il suo scarso senso pratico – avrebbe venduto la propria quota di compartecipazione sui diritti del brevetto nei tardi anni ’40: così mentre Malina divenne milionario, Jack restò solo uno spiantato di genio.

Nello stesso volgere di anni, fra il 1939 e il 1941, in compagnia della moglie Helen Northrup (nel film chiamata Susan Gaston), Parsons era entrato in contatto con la loggia Agape dell’O.T.O. (Ordo Templi Orientis), una confraternita magica internazionale dedita alla magia sessuale. Attraverso il suo capo Wilfred Talbot Smith (nel film chiamato Alfred Miller), un inglese che aveva fondato la branca californiana dell’ordine intorno al 1930, potè così entrare direttamente in contatto con Aleister Crowley, il controverso mago britannico che si era dato l’appellativo di Bestia 666 (cioè la bestia dell’Apocalisse, vista come l’artefice del riscatto degli antichi dei dal giogo cristiano, in nome di una nuova dottrina – Thelema: Volontà – rivelatagli al Cairo nel 1905 da una presunta “intelligenza preterumana” di nome Aiwass o Aiwaz e la cui legge si riassumeva nel motto “Fai ciò che vuoi”, inteso però non nel senso del banale scatenamento di tutti gli istinti dell’individuo ma in quello del disvelamento della propria più autentica volontà). Impossibilitato a trasferirsi negli USA, Crowley era costretto a limitarsi a pontificare per lettera, facendosi in cambio mantenere dai suoi adepti americani. Il vecchio mago rimproverava a Smith di aver abbandonato la legge di Thelema trasformando la pratica dell’ordine in un triviale “culto erotico” e già nel 1944 lo destituì: Parsons si ritrovò di colpo a capo della loggia anche se la moglie Helen gli preferì Smith e se ne andò via con lui. La prima stagione della serie arriva quasi fino a qui: Susan/Helen, prima fervente cattolica (in realtà era di confessione battista), comincia a partecipare con fervore ai riti thelemici e a cadere sotto l’influsso sempre più forte di Miller/Smith che – così lei pensa – la sta liberando dal sempre più fiacco rapporto col marito e, soprattutto, dal dispotico dominio del padre (in realtà era il patrigno, secondo marito della madre, che aveva anche abusato sessualmente di lei e della sorella: nel film ci si limita a descrivere solo un abuso psicologico).

Se, come ci auguriamo, le stagioni di Strange Angel continueranno (per il momento non ne abbiamo la conferma), il resto della storia dovrebbe essere, più o meno, il seguente. Consolatosi subito del fallimento coniugale con la sorella della ex moglie, la diciottenne Sara Northrup, Jack continua di lena le sue operazioni magico-erotiche trasformando la grande e lussuosa casa acquistata con i primi proventi delle sue scoperte, per metà in una sorta di residence per personaggi eccentrici – artisti, bohemiens, atei, anarchici, seguaci del libero amore, ecc. – e per metà in tempio magico thelemico. Nel 1946 si sarebbe avventurato in compagnia dell’amico scrittore di fantascienza Ron Lafayette Hubbard, futuro fondatore di Scientology, in un’impresa magica che ricorda la gestazione del “Figlio della Notte” di Williamson: la cosiddetta “operazione Babalon”. La storia è dettagliatamente raccontata nel bel volume di Lawrence Wright, La prigione della fede: Scientology a Hollywood, pubblicato da Adelphi, per cui la riassumeremo molto sinteticamente.

La convivenza fra Parsons e Hubbard si sviluppa subito in un piccante ménage à trois con la compagna di Parsons, Sara Northrup. Di lì a poco si unisce al gruppo un’altra procace e disinibita fanciulla: Marjorie Cameron, dotata pittrice in seguito vicina alla Beat Generation (chi avesse la curiosità di verificarne le grazie potrebbe vederla, con qualche anno di più ma tutt’altro che brutta, nei film del regista underground Kenneth Anger, crowleyano ‘eretico’ e cofondatore con Anton Szandor La Vey della “Chiesa di Satana” in California). Lo scopo del rituale di magia sexualis architettato da Parsons era produrre l’“Homunculus”, quello che Crowley chiamava “Moonchild” – il figlio della luna – (esiste anche un romanzo di Crowley del 1929 con questo titolo e che descrive un simile rituale, così come il romanzo del 1911 Alraune dello scrittore tedesco H.H. Ewers, che tanto successo ebbe nel cinema espressionista, immagina qualcosa di molto simile, forse perché Ewers e Crowley all’epoca si conoscevano piuttosto bene). Si tratterebbe di una sorta di fecondazione assistita ante litteram che intenderebbe generare un veicolo umano in cui incarnare le energie della natura – un dio, una dea, uno spirito elementale – Parsons voleva incarnare quella che chiamava nei suoi appunti febbricitanti “madre dell’anarchia e delle abominazioni”, niente meno che Babalon stessa, cioè il grande archetipo femminile: Artemide, Diana, Cibele nel pantheon greco-romano; Iside e Hathor in Egitto; Kali, Durga e la Shakti indù. Crowley la chiamava Babalon: la Prostituta di Babilonia dell’Apocalisse, la Donna Scarlatta; dal punto di vista cristiano l’Anticristo.

Parsons scriveva regolarmente a Crowley tenendolo informato dei suoi progressi; quest’ultimo così espresse il suo apprezzamento nella lettera ad un comune amico dell’O.T.O.: “Sembra che Parsons e Hubbard e qualcun altro vogliano produrre il Moonchild. Mi deprime profondamente constatare l’idiozia di questi pasticcioni”. La cerimonia proseguì per 11 notti consecutive finchè – come racconta Sprague de Camp, amico e scrittore di fantascienza – “i vicini cominciarono a protestare quando una donna incinta, nuda, dovette saltare per nove volte attraverso il fuoco nel cortile di casa”. Risultato di tutta l’operazione non fu l’auspicata incarnazione magica ma la ben più prosaica fuga di Hubbard con Sara, la fidanzata di Parsons, e con tutti i suoi soldi. Il povero Parsons, becco e bastonato, tentò di evocare qualche demone, scatenare tempeste e fare naufragare l’imbarcazione su cui l’ex compare e l’ex amante erano salpati verso lidi lontani, ma con scarso successo: si consolò sposando la bella Marjorie. Anni più tardi Hubbard avrebbe tentato di prendere le distanze da quell’esperienza reputata un po’ troppo sulfurea: sebbene avesse nominato qualche volta Crowley come “il mio carissimo amico Aleister”, dichiarò di aver lavorato per lo spionaggio della Marina con lo scopo di investigare sui collegamenti fra occultisti e scienziati in casa Parsons e di aver disperso un pericoloso gruppo di maghi neri. Comunque sia, Hubbard sposò Sara Northup, pur non essendo ancora divorziato dalla moglie precedente, e si dedicò agli affari inventando Dianetics.

Uscito malconcio dall’impresa – oltre all’ex compagna aveva perso diverse migliaia di dollari e Crowley insoddisfatto del suo operato lo aveva rimosso dalla conduzione dell’ordine magico – Parsons con la nuova fiamma Marjorie Cameron, aveva ripreso autonomamente la pratica delle sue attività preferite, spostando il suo interesse prevalente dall’O.T.O. crowleyano alla stregoneria e assumendo l’impegnativo nome magico di Belarion Armiluss Al Dajjal Anticristo. In quegli anni scrisse una serie di diari magici, saggi e poesie sparse che verranno pubblicati solo di recente, fra questi Freedom is a Two Edged Sword (La libertà è una spada a due lame), The Book of Babalon, The Book of AntiChrist (Il libro di Babalon, Il libro dell’Anticristo): testi in cui qualcuno – come il biografo di Crowley John Symonds – ha visto un’evidente sintomo di psicosi. Ne stralciamo qualche passo per rendere l’idea: “Siamo un’unica nazione, un unico mondo…Non possiamo sopprimere la libertà dei nostri fratelli senza uccidere noi stessi. Ci solleveremo insieme, come uomini, per la libertà e la dignità umane o cadremo insieme, retrocedendo tutti quanti nella palude originaria”; “I gruppi religiosi, sostenuti dalla stampa, propagandano costantemente la proibizione dell’arte e della letteratura che, come per prerogativa divina, definiscono indecente, immorale o pericolosa….sembra che tutte le organizzazioni siano devote ad un unico scopo comune: la soppressione della libertà”; “In breve l’obiettivo della magia è il dischiudersi dell’individuo verso tutte le possibilità dell’amore e l’illuminazione della società perché possano essere accettati gli impegni di questa apertura e le condizioni necessarie per il progresso”. Non sembrano davvero i deliri di uno psicotico…

Il 20 giugno del 1952, alle 5 del pomeriggio, mentre Parsons lavorava ad un esperimento nel suo laboratorio privato situato nel garage della sua abitazione, l’edificio esplose. Il suo corpo orribilmente dilaniato dalla deflagrazione fu ritrovato fra le rovine dell’edificio: con solo mezza faccia ma ancora cosciente, fu trasportato all’ospedale dove morì un’ora dopo. La tragedia non era ancora finita: appena saputo della morte del figlio, la madre di Parsons Ruth ingerì una dose letale di Nembutal di fronte ad una parente paraplegica e impossibilitata ad aiutarla in alcun modo. Le ipotesi sulla catastrofe sono numerose e tutte vaghe. Incidente: Parsons avrebbe lasciato cadere a terra del fulminato di mercurio; lo si ritiene improbabile dato la sua grande esperienza tecnica nel campo degli esplosivi. Suicidio in seguito a stress, depressione e pressioni psicologiche: la moglie Marjorie smentisce questa possibilità; sebbene avesse attraversato momenti difficili, la coppia aveva molti progetti per il futuro, contavano di trasferirsi prima in Messico e poi in Spagna o in Israele. Incidente magico: secondo qualcuno Parsons stava cercando di produrre l’Homunculus di Paracelso – un piccolo uomo artificiale dai magici poteri – un errore alchemico avrebbe provocato la tragica reazione; non risulta però che fra i rischi del lavoro alchemico siano comprese le esplosioni. Omicidio: forse l’ipotesi più probabile; Parsons era spiato dalla CIA e dall’FBI (esiste un nutrito dossier su di lui, consultabile – con molti omissis – anche su internet) a causa del suo anticonformismo politico e religioso; gli venivano rinfacciati dalle autorità i numerosi contatti con anarchici e comunisti oltre che con personaggi accusati di essere dei satanisti e dei pervertiti sessuali dediti all’amore libero; essendo un depositario di segreti militari di grande importanza per lo stato la sua posizione era oltremodo delicata. Pare fosse stato contattato poco prima della morte anche dai servizi segreti israeliani, interessati ai progetti nucleari americani: è probabile che avesse fatto rivelazioni compromettenti. Per tutti questi motivi nei suoi ultimi anni Parsons, cacciato dalla compagnia che aveva contribuito a fondare, la Aerojet Engeneering, si era ridotto a sopravvivere curando gli effetti speciali esplosivi nelle produzioni cinematografiche hollywoodiane. L’ostracismo poteva non essere considerato comunque una punizione sufficiente. E’ stato infatti accertato che l’esplosione nel garage non fu una sola: probabilmente furono due, la prima delle quali deflagrata da sotto il pavimento dell’edificio.

Comunque si siano svolti veramente, gli eventi della scomparsa di Parsons appaiono tutto fuori che effetti di una sfortunata circostanza: già sei anni prima, durante l’”operazione Babalon”, Ron Hubbard in “channelling” aveva profetizzato: “Babalon è la fiamma della vita…Lei ti assorbirà e tu diventerai fiamma vivente prima che Lei possa incarnarsi”. Forse, come ha ipotizzato l’occultista Kenneth Grant in un soprassalto di horror lovecraftiano, “Parsons aveva aperto una porta e qualcosa era volato dentro…”. “Mi sembra – aveva invece scritto Jack qualche anno prima – che se ho avuto il genio di introdurre la propulsione a reazione negli USA e fondare una corporazione milionaria ed un laboratorio di ricerca rinomato nel mondo, allora dovrei essere anche in grado di applicare questo genio in campo magico”.

Come si può ben vedere quindi, la serie TV ha ancora tanto, forse troppo, da raccontare. E magari il problema è proprio questo: un materiale così esplosivo – in tutti i sensi – avrebbe forse bisogno di una dose maggiore di esuberanza e smoderatezza. La ricostruzione fin qui è stata condotta in termini corretti e ineccepibili del punto di vista formale e strutturale, ma risulta alla fine troppo pacata, algida, poco emotiva. Non ci sorprendiamo mai, non sobbalziamo, non ci scandalizziamo, e forse dovremmo. Ci sono dozzine di serial in cui il binomio sex&violence abbonda in termini e quote assolutamente pretestuose e inutili; una storia come questa invece, dove scene di nudo e di sesso esplicito sarebbero perfettamente giustificate ed anzi necessarie, viene mantenuta quasi assolutamente casta. Si intravede qualche seno nudo durante i riti thelemici, si intuisce un cunnilingum in lontananza, c’è un fuggevole bacio saffico tra Susan/Helen e un’altra adepta, ma niente di più. Un po’ troppo poco per rendere credibili le ammucchiate rituali dei crowleyani. Così anche il rapporto fra Jack e Susan/Helen, resta frigido, bloccato: la brava Bella Heathcote, che pure non si era negata a scene abbastanza forti in The Neon Demon, qui è solo una bionda ragazzona sempre vestita. Una visione tutto sommato perbenista di due personaggi che in realtà furono, fin dall’inizio, eccessivi, scandalosi, provocatori. Forse il gioco è voluto, partire piano per mostrare la graduale metamorfosi di due bravi ragazzi americani in qualcosa di diverso e assai più ribelle e aggressivo: bisogna vedere se il pubblico avrà la pazienza di aspettare che questa trasformazione avvenga. Noi ci auguriamo di sì.

 

 

 

 

 

]]>
La narrazione audiovisiva all’americana. Dal muto al classicisimo hollywoodiano https://www.carmillaonline.com/2017/08/11/36343/ Thu, 10 Aug 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36343 di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione [...]]]> di Gioacchino Toni

John_Ford_Nicholas_Ray_Le tematiche, i valori, i miti e gli eroi della narrazione all’americana dall’epoca del muto alla contemporaneità nei film e nelle serie televisive sono sinteticamente ricostruiti da Federico di Chio nel suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016). In questo scritto prendiamo in esame il periodo compreso tra il muto ed il classicismo hollywoodiano riservando ad un successivo intervento il compito di esaminare la parte del saggio – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

L’analisi proposta dal saggio prende il via da quando, nella prima metà degli anni Dieci del Novecento, ai cortometraggi, che sin dagli anni precedenti vengono proiettati a ciclo continuo da mattina a sera nei nickel-odeon popolari, si affiancano i lungometraggi ed alla working class che frequenta le sale si aggiunge un pubblico di ceto sociale più agiato. Molto velocemente il cortometraggio è soppiantato dal nuovo formato capace di raccontare storie più elaborate ed avvincenti secondo un’articolazione in tre macro-generi caratterizzati da una netta e stereotipata contrapposizione tra bene e male: l’avventuroso, il comico-dinamico ed il drammatico.

Iron Horse (1924, John Ford)

Iron Horse (1924, John Ford)

Nel corso degli anni Venti, in un clima di crescita dei consumi negli Stati Uniti, l’etica del sacrificio e della parsimonia borghese-puritana si allenta ed il cinema sembra riflettere un nuovo modo di guardare ai valori della famiglia tradizionale, alla figura femminile ed alla sessualità. Il western è probabilmente il genere che meglio riesce a dare immagine allo spirito di ottimismo individualista ricorrendo al mito della conquista ed al principio del destino manifesto. I lungometraggi tendono dunque a celebrare e promuovere i valori della libertà individuale e della proprietà in storie che narrano del conflitto tra operosi coloni ed insidiosi villain che hanno le sembianze dei banditi, degli indiani e degli speculatori.

I generi si fanno via via più complessi ed ai successi della commedia romantica brillante si affiancano quelli dei light drama «che narrano la parabola di affermazione di esponenti del ceto medio-popolare […] o, di contro, la parabola di discesa e conversione di altezzosi aristocratici o di ricchi industriali messi alla prova dal destino» (pp. 24-25). Amore, benessere materiale ed affermazione dell’individuo divengono gli elementi trainanti del cinema muto.

Il saggio analizza anche lo sviluppo della figura della flapper, una giovane donna ammaliata dal sogno della ricchezza e dalla libertà dei costumi che, solitamente, sul finire della narrazione, si rende conto dei rischi della deriva intrapresa e sceglie di recuperare i valori tradizionali fondamentali.

In generale la narrazione nel cinema muto americano è decisamente più dinamica rispetto alle produzioni europee dello stesso periodo, tanto che l’incalzante ritmo narrativo ne diviene un tratto distintivo. Secondo lo studioso la produzione hollywoodiana del periodo sembra adottare due forme base: «La prima centrata sull’azione efficace e spettacolare del protagonista che sconfigge i malvagi villain o supera gli ostacoli della sorte, restituendo a sé stesso e alla comunità l’equilibrio perduto. La seconda forma base è invece centrata sulla reazione del personaggio, costretto in una condizione di passività» (p. 28). La struttura narrativa è orientata al risultato che, il più delle volte, significa il ristabilimento dell’equilibrio iniziale.

Sul finire degli anni Venti del Novecento nel cinema americano arriva il sonoro e ciò impone una costosa trasformazione del sistema-cinema. Mentre nuove star sostituiscono quelle del muto ed il linguaggio del cinema cambia, il paese si trova a fare i conti col crack economico-finanziario del ’29 che assesta un colpo pesante all’immaginario del mito americano e molti Studios, in preda alla crisi, finiscono nelle mani di grandi banche. La ristrutturazione dell’industria cinematografica comporta una maggiore standardizzazione produttiva e narrativa ed il cinema per riconquistare pubblico gioca soprattutto la carta del sensazionalismo.

Anche se è entrato in vigore nel 1930, il codice di censura Production code inizia ad essere realmente applicato soltanto attorno alla metà del 1934. Il periodo compreso tra l’avvento del sonoro (fine anni Venti) e la reale applicazione del Codice viene identificato come Pre-Code Era ed è caratterizzato da una certa licenza espressiva e contenutistica, tanto che numerose pellicole insistono su storie di lussuria, adulteri e rapine. Nonostante i personaggi positivi restino in primo piano, un certo rilievo viene concesso a protagonisti negativi come gangster, personaggi violenti, bad girl, gold digger (ciniche cacciatrici di un buon partito), fallen women, shyster (farabutti dell’alta società) ecc.

american-storytellingDal punto di vista narrativo, sottolinea l’autore, i primi anni Trenta palesano notevoli differenze rispetto alle produzioni del muto. «Da un parte, le storie hanno un andamento lineare, scandito dal ritmo serrato e incalzante degli eventi e della varietà delle soluzioni; dall’altra, però, si tratta di una linearità episodica, più che vettoriale: le relazioni causa-effetto, motivazione-azione, sono un po’ lasche e i processi trasformativi non sono affatto pronunciati […] la parabola del protagonista procede per tappe […] Ellissi, passaggi bruschi da un filone dell’intreccio a un altro, equivoci inspiegabili, decisioni immotivate, coincidenze sorprendenti, interrogativi che restano senza risposta sono all’ordine del giorno in un modo di raccontare che non ha ancora trovato non solo fluidità espositiva, ma anche la “necessità” logica di fondo» (p. 37).

A puntellare tali narrazioni si inseriscono parecchi momenti di attrazionalità. A livello narrativo, si sostiene nel volume, alla trasformazione si sostituisce sovente una semplice risoluzione ed i protagonisti si mostrano incapaci di gestire totalmente le situazioni in cui si imbattono per poterle condurre a buon fine. In un’epoca di crisi sociale che mina le fondamenta del sogno americano è difficile dare spazio ad eroi risolutivi.

Il western, che già negli anni Venti è il genere trainante della produzione hollywoodiana, agli inizi del nuovo decennio è in sofferenza tanto per le difficoltà derivate dal sonoro (che per qualche tempo limita le riprese in esterno) che per il mutato immaginario; l’ottimismo nel progresso, il mito della frontiera e le capacità performative del personaggio che contraddistinguono il decennio precedente, inevitabilmente stentano di fronte alla Depressione. «Enfatizzare il ruolo del destino o del caso nelle vite degli uomini e denunciare la loro incapacità di incidere sulle cose significa però anche ridimensionare le responsabilità. In questo, dunque, la drammaturgia hollywoodiana del periodo [sfida] la diffusa convinzione secondo cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non alle difficoltà del contesto sociale in cui vive» (pp. 40-41).

Di pari passo al New Deal si assiste al recupero dell’american dream e con esso al bisogno di eroi; non è un caso, sottolinea Federico di Chio, che sul finire degli anni Trenta nascano eroi di carta come Superman e Batman.
Con l’applicazione del Codice il cinema abbandona i soggetti più scabrosi e si allontana dalla vita quotidiana. Tutti i generi subiscono una forte trasformazione ed a partire dalla fine degli anni Trenta il western torna a conquistare il suo spazio lungo due direttrici: da una parte attraverso racconti di taglio epico-storico, volti a far coincidere il progresso collettivo con il sogno individuale, dall’altra attraverso storie di pistoleri che, seppur frequentemente poco inclini a sottostare alla legge, risultano dotati di un forte senso di giustizia che li porta a difendere i più deboli dal grande capitale.

Giunti a metà degli anni Trenta si entra nell’età di quel “cinema classico” che appare ormai capace di gestire il sonoro ed è in tale periodo che, secondo lo studioso, si giunge alla forma forte della narrazione cinematografica che ha le sue radici nel racconto popolare mitico, epico e d’avventura, tanto da mutuarne «il pattern vettoriale (stimolo)-motivazione-azione-obiettivo-(risultato)» (p. 50). È l’azione che determina il corso degli eventi e rivela i caratteri dei personaggi ed in tale tipo di narrazione forte la progressione lineare segue «una struttura di implicazione aperta, tipica delle sequenze domanda-risposta: ogni scena suscita questioni, interrogativi, possibilità che aspettano una risoluzione nelle scene successive» (p. 50).

Se l’eroe del cinema muto nel conseguire l’obiettivo non trasforma il mondo né se stesso, l’eroe del cinema classico con la sua azione cambia il mondo e se stesso e tale azione si mostra del tutto proporzionata dal punto di vista qualitativo e quantitativo alle finalità. Nella forma debole del racconto, invece, i personaggi sono in condizione di passività rispetto alla sorte ed alle azioni altrui e non riescono ad incidere sugli eventi.

Dall’introduzione del Codice, inoltre, segnala Federico di Chio, la distinzione tra personaggio positivo e negativo torna ade essere netta ma si delinea un’articolazione interna ai due poli. Quando il protagonista non appare del tutto positivo compare un secondo personaggio come incarnazione del bene assoluto e lo stesso accade per i ruoli negativi.

Interessante anche la distinzione proposta da Robert B. Ray (A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, 1985) tra official hero ed outlaw hero. Nel primo caso si ha a che fare con un rappresentate delle istituzioni, integrato nella comunità, rispettoso delle leggi e votato al conseguimento dell’interesse comune, nel secondo caso, invece, abbiamo un personaggio individualista ed anticonformista che fatica a sottostare alle leggi ed all’autorità, che agisce in linea non tanto con ciò che impone la legge ma con ciò che ritiene essere giusto.

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Angels with Dirty Faces (1938, di Michael Curtiz)

Secondo lo studioso «lo schema narrativo classico, nella sua dimensione valoriale, traccia anzitutto un confine tra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, e definisce poi i ruoli dei personaggi in relazione a questa assiologia» (p. 63). Lo schema prevede che il protagonista agisca all’interno del negoziabile mentre l’antagonista deve restane fuori. La drammaturgia classica impone il confronto tra il soggetto e l’altro-da-sé (l’antagonista) e tra il soggetto e un altro-possibile-sé (il deuteragonista che rappresenta ciò che il protagonista potrebbe essere). «In questo schema, a differenza di quanto succedeva nel regime preclassico, l’attenzione si concentra pertanto sul terreno del negoziabile e sulle sue dinamiche interne, lasciando sullo sfondo il grande conflitto tra bene e male assoluti» (p. 64).

Come accade per il cinema Pre-Code, l’autodeterminazione resta una componente importante per i protagonisti ma ora essa appare temperata dal confronto con altri valori. Nel cinema classico l’esito resta sostanzialmente positivo grazie all’intesa spesso raggiunta tra le diverse istanze ma tale sintesi comporta spesso sacrifici e rinunce. Anche se la dialettica valoriale va a buon fine non è detto che si giunga ad un unico punto di sintesi.

Nello sforzo di conciliazione valoriale cercato dal cinema classico, volto alla tenuta ed all’evoluzione simbolico-culturale della società nordamericana, si combinano due spinte: «La prima, più profonda, di lungo periodo e di natura culturale, è legata alle forme della mentalità americana che […] si caratterizza […] proprio per la volontà di non eliminare […] alcuna opzione dal proprio orizzonte di possibilità: ogni scelta di campo compiuta è virtualmente connessa a quella opposta, che rimane un’opzione sempre possibile e la cui insistenza dà continuamente senso alla decisione presa. In questo senso il reconciliatory pattern andrebbe inteso […] come una sorta di “forma simbolica”, uno schema a priori della coscienza americana. La seconda spinta, più contingente […] deriva dall’adozione del Production Code» (pp. 70-71). L’autoregolamentazione, secondo lo studioso, stabilisce un framework negoziale complesso tra valori contrastanti, e se è vero che per diverso tempo parecchi temi, valori e visioni del mondo restano escluse, occorre ammettere che quando anche questi sono presenti nel cinema Pre-Code lo sono soprattutto per finalità spettacolari gratuitamente scandalistiche.

Nel saggio  si insiste anche su come sia limitativo mettere in luce il solo aspetto censorio del Codice; esso si pone anche l’obiettivo di promuovere una determinata visione del mondo. Sarebbe però altrettanto sbagliato non cogliere come, nonostante il Codice, si siano prodotte opere in cui si trovano suggestioni non del tutto normalizzate.

Alla produzione degli anni Quaranta viene fatta risalire la “seconda classicità” del cinema americano. La Seconda guerra mondiale incide profondamente sull’immaginario statunitense ed Hollywood, nel corso di questo decennio, sembra prendere due direttrici principali: da una parte lo smarrimento che attraversa la società americana viene rispecchiato ed interpretato dai film (il noir, il social drama, il male drama ed il woman’s film…), dall’altra il cinema tende a compattare e motivare il paese durante il conflitto e la ripartenza successiva.

Durante il periodo bellico ad avere la meglio sono certamente i film che, in un modo o nell’altro, insistono sul mito collettivo della nazione senza però annullare i miti individuali. Il war movie è sicuramente il genere che meglio di ogni altro riesce a miscelare le due mitologie: spirito di gruppo e leader capaci, cooperazione ed individualismo, bene collettivo e volontà del singolo.

Se nella prima parte degli anni Quaranta il war movie si sostituisce al western, a partire dalla metà del decennio il western viene rilanciato tanto da vivere la sua stagione d’oro e tutto ciò avviene grazie alla rinascita del mito della frontiera e dell’espansionismo americano.

Nel saggio viene evidenziato anche come l’immediato dopoguerra acuisca conflitti culturali e valoriali interni: il mondo agreste-pastorale Vs. il mondo tecnologico industriale, la vita di provincia Vs. la massificazione delle grandi metropoli ecc.

Nel western di questo periodo lo schema narrativo insiste nel giustificare il ricorso alla violenza, anche estrema, attraverso un processo emotivo in cui essa viene motivata e legittimata moralmente. Anche i moventi passionali o la degenerazione dei legami all’interno della comunità famigliare o comunque ristretta hanno il loro spazio.

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Knock on Any Door (1949, di Nicholas Ray)

Il disincanto e l’amarezza emergono soprattutto in generi come il noir ed il drama in tutte le sue sfaccettature. «Il sogno americano, qui, non è più “destino manifesto”, e neanche un’opportunità dura ma possibile, ma un miraggio lontano. Colpa della scarsa rilevanza del singolo in una società sempre più massificata, segnata da irrimediabili diseguaglianze [e] colpa della fragilità psicologica e della misera levatura morale dell’individuo che non è più all’altezza delle sue aspirazioni» (p. 76).

Relativamente agli anni Quaranta risultano di particolare interesse i generi noir e quelli che concedono spazio alla figura femminile. Nel primo caso si «lavora essenzialmente sulla parabola esperienziale della “discesa agli inferi”, declinandola in varie direttrici narrative: a) l’investigazione su un mistero apparentemente insolubile […] b) l’esperienza tragica di persone accusate ingiustamente […] c) la caduta morale e psicologica di individui che compiono un crimine per debolezza o per necessità […] d) il confronto tra criminali psicopatici, capaci di manipolare/ingannare gli altri, e le loro vittime» (pp. 76-77).
Per quanto riguarda le figure femminili occorre far riferimento soprattutto ai cosiddetti woman’s film che, rispetto al passato, concedono particolare attenzione al protagonismo della donna nella società e nel mondo del lavoro. Noir e woman’s film sembrano indirizzarsi verso la ricerca della verità celata dietro le apparenze. Ad essere indagata è la “soggettività” che si manifesta attraverso le azioni e le espressioni.

Dal punto di vista narrativo a partire dal 1940 la visione veicolata dai film è quella del protagonista che non di rado in voice over introduce gli eventi mostrati in soggettiva o con soluzioni tecniche che rimandano a pensieri e ricordi personali. «La narrazione […] da oggettiva, impersonale, procedente da un’istanza superiore, collocata a una giusta distanza dalle cose, si fa “situata”, incardinata nel soggetto inscena e nella sua interiorità, e dunque parziale. Corrispondentemente, lo spettatore perde il dominio sugli accadimenti. Gli intrecci si fanno complicati, assumendo un andamento non lineare, sia logicamente che cronologicamente, e si sciolgono a fatica» (p. 78).

Il cinema americano del dopoguerra rivela anche la crisi simbolica del maschio che si ritrova in una società che comprime l’individualismo e l’autodeterminazione e deve confrontarsi con figure femminili che non intendono rinunciare all’indipendenza ed all’autonomia a cui si sono abituate durante il conflitto. Da questo punto di vista è il macro genere del drama a palesare le difficoltà che uomini e donne hanno nel negoziare un equilibrio nella nuova realtà.

Nel prossimo intervento esamineremo la parte di American storytelling – integrandola con altri scritti – relativa al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

]]>
Nel labirinto degli occult detective (Victoriana 23) https://www.carmillaonline.com/2017/05/25/nel-labirinto-degli-occult-detective-victoriana-23/ Thu, 25 May 2017 21:51:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38486 di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto [...]]]> di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto hammeriani). Nelle prime tre storie “The Professor” fronteggia una dinastia di Lilith incarnate (lui viene dalla comunità ebraica, c’è di mezzo anche un golem), gli zombie e un terrorista mesmerista.
La qualità è molto buona, le storie godibili e il mondo tardottocentesco evocato con efficacia. L’ideatore è Andrea E. Corbetta, mentre sceneggiatori e disegnatori ruotano: per esempio i primi tre numeri hanno visto testi del giornalista e scrittore Carlo Martigli, del veterano di sceneggiature a fumetti Giancarlo Marzano e di un nome notissimo del thriller/horror in Italia, Cristiana Astori; alle matite erano Paolo D’Antonio, Francesco Mobili e Riccardo Innocenti. Un quarto numero (Martigli – De Carlo – Corbetta – Giorgiani) è ora in edicola.
Leggendo con piacere queste storie, auspicando alla saga lunga vita, e con tutta la complicità di chi ama Cushing e i film Hammer, si apprezza al contempo il coraggio dell’intrapresa – perché è chiaro che si tratta di una sfida grossa. Da un lato, lo sappiamo, il gotico/horror può contare in Italia su una percentuale significativa ma non enorme di lettori: i grandi fatturati arrivano con altri generi, e basta un giro in libreria per constatare il trionfo di narrativa salottiera o comunque molle (tanto fantasy di qualità discutibile, tanto “rosa” più o meno ibridato, tanto poliziesco facile – a penalizzare per ingolfamento gli autori bravi). D’altra parte la figura dell’occult detective, funzionale a offrire una cornice a “casi” virtualmente infiniti, ha però conosciuto nel tempo successi piuttosto differenziati, in relazione a provocazioni e rovelli di diversi momenti sociali.
Per capire meglio potenzialità e rischi della maschera in questione può essere interessante, mi pare, ripercorrere a grandi linee la genealogia dei suoi sviluppi dagli esordi nel mondo moderno. Assumendo forzatamente un’accezione ampia nel termine occult detective, a comprendere specialisti di diversa professionalità – medici, cattedratici, detective in senso proprio, esorcisti, ghostfinder, ammazzamostri… – che lettori e spettatori di generazioni diverse hanno associato a indagini sul preternaturale: concetto, quest’ultimo, a sua volta sfumato in una serie cangiante di fattispecie.
Il primo detective dell’occulto della letteratura moderna sembra rimontare al lontano 1817. Si tratta del chiaroveggente Doktor K. di Das öde Haus (La casa disabitata) nel secondo volume di Nachtstücke (Notturni) di E.T.A. Hoffmann: a rinviare cioè a quel mondo a cavallo tra Sette e Ottocento in cui magnetismo, mesmerismo e tentativi di conciliare mistica (non allineata) e nuove scoperte scientifiche vedono in effetti brulicare figure di indagatori del mistero. Eruditi talora ancora imparruccati, tra attrezzature galvaniche, fantasmagorie e veggenze, che però non sembrano suscitare nei narratori il demone della serialità; mentre è interessante che proprio la cornice narrativa di questo racconto veda declinare l’opposizione tra straordinario e prodigioso a monte di tutta una riflessione che condurrà a Todorov. Quasi come ad affidare all’occult detective il patrocinio sul nuovo fantastico, laico e moderno, sorto dalle convulsioni di un mondo.
Va però osservato che, nel contesto di un Romanticismo ormai dilagante, l’indagatore degli spiriti è spesso una figura indigesta o addirittura un vilain. Posto dinanzi al magico della realtà – in particolare quell’amore che è un rischio, apre mondi “altri” ed evoca relazioni particolari e irripetibili – ecco l’esorcista propenso a fare terra bruciata, a sterilizzare dimensioni vitali o che comunque alla vita danno sapore. Così l’Apollonio del Lamia di Keats, 1819/1820, tanto pronto a derubricare ad astrazioni banalizzanti in conformità con un mondo che inizia a mercificare tutto (niente a che vedere con l’antico Apollonio storico, lui sì dottore psichico seriale); così l’inesorabile padre Sérapion de La Morte amoureuse di Théophile Gautier, 1836, che ripropone in tonaca lo stesso modello, a fraintendere totalmente il senso dell’amore umano; così altre figure di Gautier, di Nodier…
Il personaggio dell’occult detective si fa comunque strada soltanto poco per volta, e definendosi nella sua forma moderna entro l’alveo della narrativa angloamericana (anche se occorrerebbero studi mirati su altre letterature). Così, nel periodo dagli anni Venti a metà del secolo in cui il gotico assume – senza sparire – un ruolo più defilato e umbratile dopo la prima grande stagione di successi, nel 1840 troviamo per esempio tale Dirk Ericson impegnato a risolvere un caso sovrannaturale nella novella del britannico (ma emigrato negli USA) Henry William Herbert The Haunted Homestead. Herbert è contemporaneo di Poe, che invece non si mostra interessato alla fattispecie (anche se i suoi mesmeristi ci vanno molto vicino); ma l’idea che un occult detective offra promettenti possibilità narrative inizierà presto a diffondersi grazie al combinato disposto del nascere dello spiritismo (1848, con il caso delle sorelle Fox – un anno prima della morte di Poe che non può assistere ai relativi sviluppi) e delle nuove saldature tra gotico e occultismo (si pensi solo ai contatti tra il politico e narratore Edward Bulwer-Lytton e il mago francese Éliphas Lévi). Il peso di questi fenomeni sullo sviluppo della ghost story e sulla rinascita a metà Ottocento del gotico sarà fondamentale.
Appare così nel 1853 (presuntamente in traduzione inglese da un originale tedesco di cui non si sa nulla, e non mancano dubbi) l’anonimo The Mysterious Stranger, dove vero e proprio proto-Van Helsing è l’eroe maturo, il cavaliere di Woislaw, privo di un braccio sostituito da una fantastica protesi in metallo (oro, nel suo caso – la mutilazione iniziatica sarà presente ancora in The Professor, con la mano artificiale del protagonista): il racconto ispirerà Stoker per Dracula e, può sospettarsi da alcuni indizi, Le Fanu per Carmilla. Nel 1855 appare l’Harry Escott di un paio di storie del grandissimo (e in Italia misconosciuto) Fitz James O’Brien; nel 1859 a studiare il mistero di una casa infestata è l’io narrante di The Haunted and the Haunters; or, The House and the Brain di Bulwer-Lytton, unica tra queste storie a trovare poi nel tempo periodiche riproposizioni anche per la statura dell’autore. Nel 1861 a indagare è il narratore di un racconto del versatile americano Bayard Taylor, The Haunted Shanty, e nel 1862 il ruolo viene ricoperto da tale Ralph Henderson nel romanzo The Notting Hill Mystery di Charles Felix (cioè l’avvocato e giornalista inglese Charles Warren Adams). Nel 1866, ancora, troviamo l’occult detective Mr. Burton del romanzo a puntate The Dead Letter di Seeley Regester (cioè la scrittrice americana Metta Victoria Fuller Victor), primo romanzo di crime fiction in America.
Per la maggior parte queste figure sono destinate a poca fama postuma, esaurendosi nei testi – pur importanti, a volte – dove sono nate: a differenza cioè di quanto avviene col primo dottore dell’occulto (in senso tecnico e seriale) universalmente noto, il dottor Martin Hesselius di Joseph Sheridan Le Fanu. E che eredita dai vecchi esorcisti romantici il senso del caso da gestire e del paziente da curare, ma anche una certa equivocità di profilo: in questo caso come personaggio inaffidabile e sussiegoso, grande collezionatore di storie (come detto una delle caratteristiche di successo dell’occult detective, figura-cornice per indefinite avventure) ma il cui unico intervento in diretta nel caso di esordio Green Tea, 1869, si rivela un fallimento vergognoso. Laddove però Apollonio & Co. si inserivano da oppositori in un orizzonte romantico che esaltava la potenza dei sentimenti e la vitalità del loro tracimare al di là di misure, credenze e ideologie confezionate, Hesselius mostra in scena l’ambiguità delle risposte in un’epoca che ha perso le antiche fedi e sta cercando goffamente di sostituirle. Attribuendo al suo polveroso dottore una collocazione cronologica nel passato – quello del Doktor K. di Hoffmann, alla grossa – Le Fanu fa reagire i dibattiti (magico-)scientifici di una generazione precedente con provocazioni sul proprio presente vittoriano: e all’umanitarismo da salotto insipido ed egoista contrappone sornione le soluzioni improbabili di Hesselius, nell’unica certezza di un disagio epocale – perché i fantasmi non si limitano a infestare i modaioli tavolini a tre gambe. In un tempo come il nostro in cui tanto si dibatte di post-verità, e i più accaniti a combatterla (magari piantonando il web con le guardie) sono a volte i portatori di verità altrettanto farlocche; in cui le grandi affettazioni di attenzione per chi soffre sono spesso teatri per vetrinette compiaciute, senza la minima presa a carico; in cui agenzie antiche e moderne tendono a sconfinare dai propri ambiti e piantare bandierine, insomma le avventure dello spudorato Hesselius hanno ancora molto da dire.
Del romanzo breve Carmilla, 1871-72, Hesselius è solo il collettore: ma tra i vecchi che distruggeranno la giovane vampira – e la bontà dei quali è segnata da tratti francamente equivoci – spicca la figura grottesca dell’erudito vampirologo barone Vordenburg, discendente dell’antico amante della contessina non-morta. Dove già la connotazione fisica dice qualcosa di un ruolo non esattamente eroico.
Impossibile seguire passo passo le apparizioni di detective dell’occulto che a questo punto emergono in racconti e romanzi, più o meno a ricalco dei ghostfinder spiritisti o dei detective-esoteristi che iniziano a proliferare: e va detto che in molti casi si tratta di voci narranti o personaggi esauriti in un solo testo. Limitandosi dunque ai più emblematici, ecco lo Strickland di Rudyard Kipling, cimentatosi per la prima volta su un caso sovrannaturale nel 1890 (ma apparso già in precedenza in altre avventure); il curiosone Dyson di Arthur Machen dal 1894, con il racconto The Inmost Light, e che incontreremo in più opere; il Lord Syfret protagonista di una serie di novelle dell’“eugenic feminist” (scrittrice e medico inglese, una figura interessantissima) Arabella Kenealy antologizzate nel 1896; l’Augustus Champnell del prolifico e brillante vittoriano Richard Marsh (all’anagrafe Richard Bernard Heldmann) che indaga su crimini – sovrannaturali e non – in romanzi e racconti a partire dal 1897; e, nello stesso anno, il detective dottor Maxwell Dean nel romanzo Ziska. The Problem of a Wicked Soul della popolarissima Marie Corelli.
Già questo breve quadro mostra che detective “ordinari” e dell’occulto non rappresentano necessariamente categorie contrapposte, in un orizzonte culturale sempre più aperto ai mondi altri e a un’accezione ampia di mistero. E intanto, a partire dal Dupin di Poe, ha preso piede l’idea che per indagare con efficacia sia necessario avere doti un po’ strambe, peculiarità caratteriali che flirtano con l’anomalia, fissazioni spiazzanti per tutto il resto dell’umanità: come in fondo è il caso del più grande degli sciamani del poliziesco, l’Holmes doyliano. Il suo autore condividerà la fede nella “Nuova Rivelazione” spiritista coi ghostfinder che invadono i salotti tenendo in una mano i saggi di Allan Kardec e nell’altra macchine fotografiche e attrezzature della “nuova” tecnologia; e se Holmes non mostra particolari propensioni per il mondo metafisico, può pur sempre inserirsi in qualche modo nella compagnia, con i casi per esempio del mastino dei Baskerville e del vampiro del Sussex. In entrambi il prodigio è demistificato sulla base di una lunga tradizione inglese – gli spettri delle Grandi Madri del gotico come Ann Radcliffe sono sempre fasulli – ma c’è un’indagine sull’improbabile: e “dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” (Il segno dei quattro). Mentre il sovrannaturale irrompe piuttosto sul piano simbolico e metatestuale con la figura del professor Moriarty, il Napoleone del crimine arcinemico di Holmes, che presenta caratteri quasi metafisici.
A ispirarsi spudoratamente all’immenso collega è Sexton Blake, “l’Holmes dei poveri” apparso nel dicembre 1893 subito dopo l’eliminazione dell’Arcidetective da parte dell’esasperato Conan Doyle, e destinato a sua volta a una lunga carriera (che la ricomparsa di Holmes dieci anni dopo non metterà in crisi): ma a differenza del modello, Blake batte la doppia pista di indagini ordinarie e sovrannaturali. Decisamente più emblematico è però l’Abraham Van Helsing del Dracula, 1897, sorto anche lui in assenza di Holmes (al punto da far vagheggiare a qualche critico buontempone che il suo inglese da operetta celi in realtà ancora una volta l’Arcidetective camuffato): emblematico per vari motivi. Anzitutto perché si presenta come rifrazione compiaciuta e ironica dell’eclettico autore e insieme come memoria del padre omonimo (entrambi battezzati Abraham): e in effetti nell’eclisse simbolicissima, epocale dei genitori che si consuma nel romanzo, Van Helsing diventerà padre per elezione degli eroi giovani contro l’alternativo padre cattivo Dracula. Poi perché immagine di Uomo Nuovo – idealmente a fianco della Donna Nuova, Mina – che sa conciliare sapienza antica e moderna in una stagione culturale che tenta nuove, provocatorie sintesi. Ancora: perché, erede delle bizzarrie di Hesselius e dei detective, Van Helsing le ripropone quali connotati del suo ruolo di iniziatore (fool, buffo nel modo di parlare, gaffeur rovinoso), sciamano (per inversione sessuale almeno simbolica: è isterico, cioè afflitto dal “male delle donne”), trickster (sa essere brutale, conduce ad atti di rara ferocia e “sovversivi” della realtà comune ma proprio per permetterne la reintegrazione), ancora una volta in contrapposizione all’iniziatore/sciamano/trickster nero, il Conte. E ancora, perché il suo unico “caso” noto in tema di occulto – quello appunto celebrato nel Dracula – sarà base per una sua trasfigurazione su schermo in cacciamostri seriale.
Ovvio che tale ruolo culturalmente provocatorio di Van Helsing sulle soglie vertiginose del Secolo Nuovo non possa essere conservato nelle sceneggiature – come emerge fin dalle prime e più emblematiche trasposizioni. Il simil-Van Helsing del Nosferatu di Murnau è il professor Bulwer, dal nome che pare omaggio al narratore/occultista Bulwer-Lytton (interprete è l’attore ebreo tedesco John Gottowt, assassinato dalle SS nel 1942): ma Bulwer è presenza inefficace di fronte alla catastrofe, e sarà l’amore-sacrificio dell’eroina a spacciare il tiranno vampiro. Un decennio più tardi, nell’America infestata dalla Grande Crisi, Edward Van Sloan interpreta il Van Helsing “rassicurantemente gutturale” – come lo definisce Siegbert S. Prawer – della saga Universal: lucido nell’individuare i gangster dell’anima (si noti che i crocifissi, in questi film, vengono branditi come rivoltelle nei coevi polizieschi) venuti dall’Europa a infettare sangue esistenze & mercati, ma attento a non occupare troppo spazio alla giovane coppia icona della giovane America. A rendere il personaggio un vero protagonista è invece a fine anni Cinquanta l’ascetico Peter Cushing, che riceve il ruolo modellandolo (con trovate anche personalissime) fino a divenire il Van Helsing più carismatico della storia del cinema, e non stupisce che “The Professor” sia ispirato a lui. Certo, il suo Van Helsing abbina a una rasserenante affidabilità il vago fanatismo (specie nei primi film) di chi tiene sempre il paletto in tasca – ma tant’è, la dinamica dei giorni Hammer tra nostalgia vittoriana, Swinging London in arrivo e minacce del sesso (al cinema il primo a colori, come il sangue) porta un’esplosione di euforiche contraddizioni in Inghilterra e nel mondo. Non è strano che gli spettatori d’epoca partecipino a quelle liturgie fitte di allusioni censuratissime (dunque più potenti), ai ruoli contrapposti e alle opposte ambiguità del professore e del vampiro con pari intensità simbolica; e non è strano che lo spettatore odierno, pur faticando magari a porsi nell’ottica di quei giorni lontani, riesca a cogliere ancora la forza del rituale. Questo scarto (in forme variegate) dal modello stokeriano si ripropone per tutti i Van Helsing successivi, compreso quell’Anthony Hopkins di Bram Stoker’s Dracula fisicamente più filologico per somiglianza, per inglese caricaturale e isterismo, e tuttavia piuttosto espressione del neogotico sopra le righe degli anni Novanta (difficile per esempio trovare in lui quel sentimentalismo che nel Van Helsing di Stoker, Jung docet, copre la brutalità). Se il mito di Dracula è uno specchio oscuro in cui ogni società proietta timori e desideri più o meno confessati o inconfessabili, di trasposizione in trasposizione anche il ruolo dell’alternativa/nemesi al Conte acquisisce inevitabilmente connotati diversi.
Ma torniamo al crepuscolo vittoriano di Stoker: ed è lì, nell’alta marea dell’irrazionale tra i due secoli, nel tentativo positivistico di ricondurre anche l’occulto a sistemi di regole note, e nella suggestione (crescente negli anni successivi) che il disagio montante dell’uomo moderno possa trovare beneficio nel ministero di dottori laici dell’anima, che fermenta un terreno tale da far moltiplicare i figli di Van Helsing. Tra Teosofia, spiritismo e revival della magia cerimoniale (basti citare la Golden Dawn) inizia così l’età d’oro dei dottori psichici, e non si può in questa sede che citarne qualcuno (per qualche approfondimento rimando qui).
A ridosso del Dracula, dal 1898, troviamo scendere in campo l’occult detective Flaxman Low di “H. Heron” e “E. Heron” (cioè l’inglese Hesketh Hesketh-Prichard e sua madre Kate O’Brien Ryall Prichard), eroe – si tratterebbe di un famoso scienziato – di una serie di storie brevi. Nel 1899 compare a firma del letterato e umorista americano Gelett Burgess il curioso Enoch F. Gerrish, protagonista di varie avventure idealmente a monte di Ghostbusters; e nel 1902 inizia la serie sull’investigatrice chiaroveggente Diana Marburg di L.T. Meade (Elizabeth Thomasina Meade Smith, irlandese, autrice di storie per ragazzine) e Robert Eustace (all’anagrafe Eustace Robert Barton, medico e giallista britannico). Per venire a personaggi più noti in Italia, a partire dal 1910 il Ghost-Finder Thomas Carnacki dell’inglese William Hope Hodgson, coi suoi divertentissimi strumenti che combinano tecnologia d’epoca e magia – impagabile il pentacolo elettrico – è un personaggio emblematico di fantasie che reinventano il Ballo Excelsior in chiave occulta preludendo a sua volta a Ghostbusters. Del 1913 è il vecchio antiquario-esoterista Moris Klaw del pure inglese Sax Rohmer, che dallo stesso anno inizia a contrapporre alle più note diavolerie d’Oriente di Fu Manchu l’affidabile funzionario anglo-indiano Denis Nayland Smith di Scotland Yard (degli occult detective in qualche modo un cugino); e del 1914 il Ghost-Seer Aylmer Vance dei britannicissimi Alice e Claude Askew.
Ma a prescindere dalle convinzioni eventualmente esoteriche degli autori (come forse nel caso di Sax Rohmer) in generale gli occult detective citati sono frutto di fantasia e buona tecnica di fiction, mentre altri colleghi vengono più direttamente dal mondo della ricerca mistica, magica o psichica militante. Come il curioso Jim Shorthouse (1900) e il raffinato dottor John Silence (dal 1908), di Algernon Blackwood, legati – soprattutto il secondo – alle sue frequentazioni di ambienti esoterici, e il dottor Taverner della grande occultista e narratrice Dion Fortune (dal 1926, ma ispirato al suo mentore Theodore William Carte Moriarty morto tre anni prima e attivo tra i due secoli): si tratta di curatori d’anime piagate da attacchi che possiamo interpretare in vario modo. Pensiamo anche al Norton Vyse della pittrice e narratrice inglese Rose Champion de Crespigny (1919), alfiera entusiasta della ricerca psichica; e soprattutto al Simon Iff dell’ineffabile Aleister Crowley (dal 1916) che usa logica e magia per risolvere casi più o meno polizieschi. Ma all’Haddo ispirato a Crowley, William Somerset Maugham già contrapponeva un esoterista buono, l’inefficace dottor Porhoët in The Magician, 1908.
A questi personaggi citati in ogni repertorio, ed emblematici di un orizzonte dove fantasie sull’occulto montano prima tra fiati di guerra in progressivo avvicinamento e poi tra conteggi di morti (anche tra gli autori: gli Askew affondati con la nave nel 1917, Hope Hodgson caduto a Ypres nel 1918…), depressione postbellica e nuovi fantasmi, se ne accompagnano però moltissimi altri. E limitandoci a quelli di maggiore importanza perché seriali o almeno attivi in più di un’avventura, l’elenco è impressionante. Andrew Latter di Harold Begbie (dal 1904), Jack Hargreaves di Allen Upward (1905), Westrel Keen di Robert W. Chamber (1906), il dottor Ivan Brodsky di H.M. Egbert (dal 1910), il dottor Xavier Wycherley di Max Rittenberg (dal 1911), Semi Dual “the Occult Detector” di J.U. Giesy e Junius B. Smith (dal 1912), il dottor John Durston di William Le Queux, e il dottor Arnold Rhymer di Uel Key (entrambi 1917), Solange Fontaine di F. Tennyson Jesse, e Godfrey Usher di Herman Landon (entrambi 1918), Shiela Crerar di Ella M. Scrymour, e Derek Scarpe di A.M. Burrage (entrambi 1920), Damon Vane di Elliot O’Donnell (1922)… Detective dell’occulto figurano tra l’altro in novelle di Conan Doyle (come nel 1899 l’indagatore Dr. Hardarce di The Brown Hand, e nel 1902 Lionel Dacre in The Leather Funnel), e ancora di Kipling (Mr. Perseus di The House Surgeon, 1909). Difficile non vedere in tutto questo un preciso segno dei tempi: angosce, attrazioni magnetiche, fantasie consolatorie…
Nel 1925 appare poi sull’americano Weird Tales uno degli occult detective in assoluto più attivi, Jules de Grandin di Seabury Quinn, protagonista di ben novantatré avventure e massima espressione del modello nel pulp. A sua volta affiancato in America da frotte di colleghi: a partire ovviamente dai vari detective o dottori che indagano nei testi di Lovecraft (una tantum, non serialmente perché il Solitario diffida dei tecnicismi occultistici: il narratore di The Shunned House, 1924/1937; Thomas F. Malone in The Horror at Red Hook, 1925/1927; l’ispettore Legrasse e il professor Angell di The Call of Cthulhu, 1926/1928; il dottor Armitage di The Dunwich Horror, 1928/1929; eccetera, mentre per esempio il viandante psichico Randolph Carter è una figura dai connotati un po’ diversi), di Clark Ashton Smith (a partire dal narratore di The Ghost of Mohammed Din, 1910) e naturalmente di Robert E. Howard. Che innova la categoria con il cacciamostri puritano Solomon Kane (dal 1928), affiancato però da una serie di occult detective relativamente più tradizionali (l’io narrante di The Black Stone, 1931, e di The Thing on the Roof, 1932, gli eroi Steve Harrison e John Kirowan, entrambi apparsi nel 1834…). E a questi possiamo aggiungere, nei pulp e non solo, Pierre d’Artois di E. Hoffman Price (dal 1926), Gerald Canevin e Lord Carruth di Henry S. Whitehead (rispettivamente dal 1929 e dal 1930), il Dr. Lowell del romanzo serializzato Burn, Witch, Burn! di Abraham Merritt (1932), il giudice Keith Hilary Pursuivant e John Thunstone, entrambi dell’attivissimo Manly Wade Wellman (rispettivamente dal 1938 e dal 1943)… Per i narratori pulp come già per i predecessori su riviste la soluzione dell’occult detective semplifica notevolmente la costruzione di storie fantastiche, in quest’epoca più spudorate e ruspanti. D’altra parte, come già avvenuto con Holmes, vari indagatori “ordinari” si trovano alle prese con fantasmi fasulli, e tra questi per atmosfere spettrali e suggestioni goticheggianti merita almeno menzione il Gideon Fell di John Dickson Carr, forse ispirato a G. K. Chesterton (dal 1933).
Una situazione un po’ diversa è quella degli sviluppi inglesi, dove in più casi la fiction è robustamente coerente con convinzioni occultistiche. È il caso di Agatha Christie, con le figure della raccolta sul paranormale The Hound of Death and Other Stories (1933), in cui appaiono studiosi quali Mortimer Cleveland e il dottor Dr. Edward Carstairs; e di Margery Lawrence, col detective dell’occulto Miles Pennoyer (1945). Ma soprattutto del prolifico Dennis Wheatley: poi anzi assurto ad autorità in temi magici (ma da avversario), e autore di varie saghe imbevute di paranormale, fin dalla seconda avventura del suo reazionarissimo eroe duca di Richleau, The Devil Rides Out, 1934 (che Christopher Lee interpreterà su schermo nel 1968). Nei testi di Wheatley il sovrannaturale si sposa alla politica, e il candore con cui abbina magia nera e comunismo – per lui legati in un unico orizzonte di caos – conduce il tema della detection occulta verso dimensioni fantapolitiche. Del resto l’autore è un uomo dei Servizi, e un altro suo eroe è il colonnello Verney, un ufficiale responsabile del controllo di gruppi sovversivi e logge sataniche: la cui avventura più nota resta To the Devil – A Daughter, 1953 (donde il film 1976, dove però Verney diventa uno scrittore esperto di occulto – a sua volta come Wheatley, insomma – interpretato da Richard Widmark). Tra gli altri protagonisti di saghe del Nostro, il cui impatto sull’immaginario fantastico postmoderno è molto maggiore di quanto in Italia solitamente percepiamo, c’è però anche un più tradizionale investigatore del paranormale, lo svedese Neils Orsen, ispirato all’occultista Henry Dewhirst e alle storie di Carnacki (1943). Di un ulteriore fortunato autore britannico, Jack Mann alias E.C. Vivian, all’anagrafe Charles Henry Cannell, a sua volta creatore del detective dell’occulto Gregory Gordon George Green detto “Gees” (dal 1936), ignoro sinceramente se coltivasse convinzioni esoteriche.
La golden age dei dottori psichici si chiude con gli anni Trenta: le riviste di narrativa popolare negli USA e in Gran Bretagna hanno raggiunto il picco di massimo successo, e il cinema vede la poesia del fantastico offerta ormai a immense platee. Certo, non c’è ancora un target di affezionati all’horror, e a vedere i mostri Universal si reca un pubblico indifferenziato: non è strano dunque che la legione dei cacciaspettri resti confinata su carta, e su schermo sia in pratica il solo Van Helsing a divenire in qualche modo seriale (compare anche in Dracula’s Daughter e fornisce il calco – stesso attore, Van Sloan – per l’archeologo-esoterista dottor Muller di The Mummy).
Ma i tempi stanno cambiando. Nel decennio successivo, con la guerra, le riviste popolari entrano in crisi, gli horror su schermo sono costretti ad assumere connotati molto più poveri e ripetitivi. Almeno a grandi numeri si preferiscono eroi aitanti, da contrapporre a vilain sempre più legati al nemico: e i detective dell’occulto non sono necessariamente i protagonisti più adatti. È vero, non spariscono e parecchie serie continuano, ma poco nasce di nuovo e comunque il tema conosce una contrazione; e un ulteriore decennio più tardi la crisi dell’horror con la Guerra Fredda stornerà il fronte delle minacce verso lo spazio e il Pianeta Rosso comunista. Con l’eccezione degli eroi reazionari di Wheatley e pochi altri (indicativo è il ritiro di Jules de Grandin nel 1951), gli esperti di esoterismo lasciano il posto a quelli di (fanta)scienza.
È allora che in Inghilterra emerge un fenomeno nuovo. Dopo aver varato una certa quantità di titoli di SF una piccola casa produttrice, la Hammer, si risolve al salto – per il tempo rischioso – del ritorno al gotico: e in effetti può notarsi un rapporto abbastanza stretto tra il maturo, rassicurante Quatermass fantascientifico degli anni Cinquanta e il gotico Van Helsing/Cushing nel 1958 destinato a divenire seriale fino a proiettarsi nell’età contemporanea. In quella che sarà definita (non troppo correttamente) la “svirilizzazione dell’eroe” emerge del resto qualcosa di molto britannico: a conquistare la scena non è il giovanottone destinato a salvarsi con la bella – modello classico a stelle e strisce – ma un uomo maturo, responsabile e ascetico. Profilo quanto mai favorevole al ritorno dei dottori dell’occulto: tanto più che nel frattempo, in naturale controtendenza all’accentuata tecnologizzazione e alle paure di una scienza che ha prodotto l’atomica, una serie di posizioni alternative riprende forza. Non è questa la sede per uno studio sul progressivo fermentare – attraverso più rivoli, su tutte le tinte ideologiche – di una sensibilità “magica” nel corso degli anni Sessanta, ma l’impatto planetario dei film gotici Hammer, giunti all’apogeo tra le minigonne di Carnaby Street, vi ha senz’altro un ruolo di concausa: e il revival magico a cavallo col decennio successivo – vera e propria esplosione di occulto in tutte le possibili declinazioni, che correranno per circa un decennio – riporta a galla anche gli occult detective. Con infinite ristampe dei classici di cui nasce un fiorente mercato, ma anche figure nuove, dove il modello si adegua ai tempi con un pizzico di psichedelia (indimenticabili certe copertine). Figli di quest’epoca sono per esempio Lucius Leffing di Joseph Payne Brennan (dal 1962); il cantastorie John the Balladeer, detto Silver John, ancora di Manly Wade Wellman, che incontra sulla propria strada varie vicende sovrannaturali (dal 1963); la squadra dei Guardians di “Peter Saxon” (in realtà uno pseudonimo collettivo – dal 1966 circa); e poi il dottor Owen Orient di Frank Lauria (dal 1971), il decisamente più noto Titus Crow di Brian Lumley (dal 1974), il dottor Alex Caspian di John Burke (dal 1976). Un caso un po’ particolare è quello dell’Anton Zarnak inventato da Lin Carter forse già nei primi anni Cinquanta ma apparso poi in racconti suoi e di autori amici. D’altra parte, e al di là delle infinite trasposizioni dei classici, negli anni Settanta i detective dell’occulto si moltiplicano anche in TV (si pensi all’americano David Sorrell di Louis Jourdan in due film 1969-70, all’ispettore francese Paumier della Squadra dei sortilegi – La Brigade des maléfices – del 1971, al Carl Kolchak protagonista di film e serie TV americane dal 1972, al britannico Tom Kovack interpretato da Leonard Nimoy nel 1973, più vari altri) e ovviamente nel cinema. Tra i fumetti può poi almeno citarsi il Doctor Spektor di Donald F. Glut e Dan Spiegle (dal 1972).
Fin qui i dottori “laici”: ma occorre ricordare per questa fase anche l’uscita del romanzo (1971) e poi film (1973) The Exorcist, che fa saltare il tavolo dell’horror, segnando un vero spartiacque, e portando lo specialista in clergyman del confronto col sovrannaturale e la categoria possessione sotto i riflettori. Le peculiarità del filone ecclesial-demonologico consigliano comunque di non trattarlo in questa breve rassegna.
Il gotico, linguaggio insieme del mito e della sovversione, subisce però un tracollo con il cosiddetto riflusso e la normalizzazione del decennio Ottanta. L’horror non sparisce, ma abbandona le forme tradizionali ora verso una serie di declinazioni giovanilistiche o comiche (a volte geniali, come in Ghostbusters, 1984, ma più spesso scipite), ora inseguendo dimensioni più oniriche e psicologicamente disturbanti. Non stupisce che in questa fase emergano personaggi di detective dell’occulto come il tatuatissimo – contro il male – Harry D’Amour di Clive Barker (dal 1985) o, nel fumetto, il nostrano Dylan Dog di Tiziano Sclavi (dal 1986): abbandonati i mostri tradizionali, il detective dell’occulto deve fare i conti con il labirinto di dimensioni diverse, febbricitanti e disturbanti, in osmosi con la sua interiorità. Di quest’epoca è anche, in chiave narrativa, il David Ash di James Herbert (dal 1988) e qualcuno aggrega alla categoria pure l’investigatore olistico Dirk Gently di Douglas Adams (dal 1987); mentre nel fumetto vediamo nascere (nel 1984) John Constantine, le cui connotazioni gotico-occultistiche – per l’epoca, piuttosto controcorrente – sono frutto della sensibilità particolare di Alan Moore. Il decennio viene idealmente chiuso dalla serie Twin Peaks ideata da David Lynch e Mark Frost (1990-1991 con seguiti – T.P.: Fire Walk with Me, 1992, e altri in arrivo), dove l’eccentrico e brillante agente Dale Cooper dell’FBI (Kyle MacLachlan) dovrà fare i conti proprio con la categoria della possessione, come a prefigurare un ritorno ad antichi orrori. A confermare che l’occult detective non è in sé un personaggio gotico in senso stretto, ma con frequenza nella sua declinazione seriale attinge a mitemi di un mondo mitico-magico eminentemente valorizzato dal gotico.
Sempre procedendo a volo d’uccello, vediamo infatti il gotico riapparire con forza nei Novanta. Idealmente con il Van Helsing di Anthony Hopkins, 1992, che apre le porte a una stagione di revival degli antichi miti. In spirito diverso da quello del passato, perché il mondo è ormai cambiato: non più nel segno del recupero orgoglioso – certo pragmatico ma vagamente nostalgico – di epopee nazionali come ai tempi Hammer, ma piuttosto della scoperta postmoderna che il gotico “funziona” ancora, che ha ancora appeal per un mercato planetario. E la diffusione di internet e le nuove tecniche di home video lo coroneranno, movimentando la conoscenza dei “classici” e consolidandone il culto.
Certo, ad affrontare casi “occulti” è ora una diversificatissima serie di personaggi, dei più svariati registri e spessori di linguaggio: ma, anche limitandosi a qualche esempio (ed escludendo, per dire, tutto l’universo ora fiorente di anime e manga, che aprirebbe discorsi a parte), la semplice elencazione delle date di inizio avventure basta a rendersi conto di quanto il periodo sia nuovamente fertile. Nel 1990 appare la Ghost Hunter Miss Penelope Pettiweather di Jessica Amanda Salmonson (narrativa); nel 1991 il patinato Sir Adam Sinclair di Katherine Kurtz e Deborah T. Harris (narrativa); nel 1992 Buffy l’ammazzavampiri (cinema, ma protomodello per la ben diversa serie TV che partirà nel 1997); nel 1993 Anita Blake di Laurell K. Hamilton (narrativa), il duo Mulder & Scully di The X-Files (televisione, poi cinema) ed Hellboy (fumetto, poi cinema – anomalo come detective per il suo statuto diavolesco); nel 1994 l’inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti (narrativa, poi vari altri linguaggi); nel 1998 Ethan Proctor di Charles L. Grant (narrativa); nel 1999 i protagonisti della saga The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore e Kevin O’Neill, più volte alle prese con l’occulto; nel 2000 Harlan Draka protagonista del Dampyr di Mauro Boselli (fumetto); nel 2007 Harry Dresden della serie The Dresden Files (televisione); nel 2009 il duo di ammazzamostri Claudio & Vergy di Claudio Vergnani (narrativa); nel 2011 Grimm della serie tv omonima (televisione)… E a questi possiamo aggiungere la quantità di indagatori dei romanzi di Danilo Arona, la cui attività è iniziata certamente prima, ma si fa in questa fase sempre più intensa.
Figure molto diverse, si ripete, non tutte propriamente “gotiche” ma che della tradizione gotica richiamano singoli aspetti; figure solo in parte raccordabili in costellazioni (Buffy e Anita Blake si rivolgono per esempio a pubblici affini), ma che comunque colpiscono e coinvolgono grandi masse di lettori/spettatori, suscitano studi popolari come accademici, costruiscono di avventura in avventura universi alternativi (si parla di Buffyverse, Anitaverse eccetera). Il periodo lo permette, e le creature dell’antico gotico e i loro indagatori/cacciatori sembrano rappresentare maschere efficaci per esprimere istanze e sogni epocali. Col risultato di dilagare ben oltre i limiti della cosiddetta sottocultura gothica, e di interessare anche grandi capitali: e, ferma restando la varietà di contesti e (si ripete) di spessori culturali, il boom finisce con l’essere veicolato dalle sorti della saga Twilight, che tra romanzi e film copre il periodo 2005-12 con un impressionante indotto (imitatori, glossatori, anche “esperti” spuntati come funghi). Il suo esaurirsi segna in effetti una contrazione non solo del “romanticismo sexy” in chiave vampirica, ma, per saturazione, di un po’ tutta l’attenzione per il gotico e i suoi miti. Qualcosa che non penalizza – è ovvio – personaggi efficaci, ma sposta drasticamente gli equilibri generali: ed è indicativo misurare in metri lineari nelle grandi librerie la quantità di spazio occupata dal gotico (vero, o più spesso farlocco) durante la stagione Twilight, e quella ben più contenuta attuale.
Un’altra ottima cartina tornasole è però il cinema. E se, guardandoci indietro, prendiamo in esame in termini panoramici lo sviluppo dell’immaginario a partire dagli anni Trenta – quando cioè le grandi platee in Occidente iniziano ad accedere alla celebrazione dei riti gotici su schermo – ci troviamo davanti uno schema alla grossa riassumibile così:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Ed è in quest’ultima fase che ci troviamo ora. Dove “contrazione/eclissi” non significa una sparizione del gotico, ma solo l’entrata in una fase di recessione dalle mode – a dispetto anche di singole fortunatissime uscite, come la saga TV Penny Dreadful, con l’eroina Vanessa Ives di Eva Green che indaga in un sottomondo occulto (2014-16). E a parte alcune notevoli eccezioni prevale una stanca sensazione di già visto.
Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.
In ogni caso The Professor arriva in questa stagione di “bassa”, e in attesa di una nuova fase “up” deve combattere per aprirsi la strada. E due riflessioni possono emergere.
Anzitutto si è visto che di società in società gli occult detective hanno recato diversissime provocazioni: le istanze dell’ordine soffocante e necrotizzante, la critica all’affidabilità delle agenzie riconosciute o il tentativo eclettico di rinnovarne l’approccio, l’apertura a una dimensione di mistero e la ricerca di guarigione dai propri demoni, la saldatura tra nostalgia e nuove euforie d’epoca, il recupero vintage di un linguaggio avvertito come simbolicamente forte… Ma al di là degli specifici il senso della maschera dell’occult detective, il successo del suo ruolo si misurano proprio in termini di provocazione, di shock culturale. Non semplicemente l’originalità delle azioni o la mossa inattesa (come in fondo per qualunque personaggio, per sostenere una buona storia), ma lo scarto dalle categorie del lettore/spettatore: all’imprevisto del monstrum, che viola l’equilibrio della realtà, segue cioè la risposta altrettanto imprevista (sul piano della logica prima che ancora delle azioni) da parte dell’occult detective. Detentore di una scienza di cui il lettore/spettatore deve poter cogliere qualcosa ma non tutto (come l’emergere della punta di un iceberg di cui si avverte la massa sommersa, che però resta invisibile: se il pubblico ha la sensazione di sapere quanto l’esperto, il personaggio fallisce), trickster e sciamano dalla vaga ambiguità, l’occult detective “funziona” quando spiazza. Serializzando, specie dopo un po’ di numeri, la sfida sta nel conservare tale carattere: ed è questo l’augurio che si rivolge a The Professor.
Ma c’è un secondo aspetto, più strettamente legato ai nostri tempi. Viviamo una stagione in cui le categorie di affidabilità e autorevolezza sono giustamente prese con le pinze, i quacquaraquà occupano poltrone dappertutto, la credibilità – a partire da quella umana – è merce rara: in questo senso la Nostra è molto più l’età di Hesselius che di Van Helsing. Ma se nella nostra vita abbiamo incontrato qualcuno con quella marcia in più, che con la sua competenza e maturità ha saputo cacciare qualche ombra che ci faceva male, che ha saputo calarsi nella casa infestata in cui in quel momento (può succedere) ci trovavamo, ecco l’occult detective di cui avremmo bisogno. E il volto di Cushing, l’affidabilità e insieme l’ambiguità dei personaggi da lui interpretati (a fronte della sua umanità personale, spesso ricordata) sembra felicemente ricordare in The Professor quel mix di sospetto e nostalgia che ci portiamo addosso.

]]>