Sergio Marchionne – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marchionne è vivo e lotta contro noi https://www.carmillaonline.com/2018/10/29/marchionne-e-vivo-e-lotta-contro-noi/ Mon, 29 Oct 2018 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49404 di Giovanni Iozzoli

“Io vivo nell’epoca dopo Cristo tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa” (S. Marchionne)

Maria Elena Scandaliato, L’era Marchionne. Dalla crisi all’americanizzazione della Fiat, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018, pp. 299, € 15,00

L’Era Marchionne di Maria Elena Scandaliato è un bilancio critico e rigoroso, più che sulla carriera e il destino di un manager, su una stagione intera delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro, in Italia, nell’ultimo ventennio. Attraverso la vicenda di Sergio l’Americano, si può leggere in controluce la [...]]]> di Giovanni Iozzoli

“Io vivo nell’epoca dopo Cristo tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa” (S. Marchionne)

Maria Elena Scandaliato, L’era Marchionne. Dalla crisi all’americanizzazione della Fiat, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018, pp. 299, € 15,00

L’Era Marchionne di Maria Elena Scandaliato è un bilancio critico e rigoroso, più che sulla carriera e il destino di un manager, su una stagione intera delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro, in Italia, nell’ultimo ventennio. Attraverso la vicenda di Sergio l’Americano, si può leggere in controluce la regressione sociale e culturale di un intero paese.

Uscito subito dopo la morte di Marchionne – riprendendo materiale già pubblicato e arricchendolo ulteriormente – il libro può essere considerato una specie di controcanto rispetto alla stucchevole esaltazione che i media hanno messo in campo ad accompagnamento del funerale del Ceo. L’autrice accomuna questo clima, alla reazione innescata cinquant’anni prima dalla morte del vecchio Vittorio Valletta:

I coccodrilli (gli articoli con cui la stampa commemora un personaggio appena morto) sono comparsi sui giornali e sui siti web quando il manager era ancora vivo, seppure in condizioni disperate. Quasi ci fosse l’urgenza di scriverne subito il panegirico, di erigere un unico intoccabile epitaffio del personaggio amministratore-delegato. L’uomo spezzato da una fine prematura, finisce per prevalere sulla sua funzione, sulle sue immense responsabilità sociali. Che non possono essere più discusse o criticate […] Ed ecco che “Repubblica” riporta come “voci dalle fabbriche”, un coro unanime di “ci ha salvato, ha fatto scelte coraggiose (p. 4)

Per non parlare dei commenti del mainstream imprenditoriale e politico: “Oscar Farinetti: era una persona straordinaria e tutti gli italiani gli devono molto” (p. 5). “Matteo Renzi: ha creato posti di lavoro, non cassintegrati. Ha subito l’odio ideologico di chi detesta le persone di talento” (p. 5). E giù editoriali ammirati e reportage melensi sui media di ogni ordine e grado.

Una simile rassegna di acritica unanimità non ha precedenti, se non nei casi di figure catartiche come Madre Teresa di Calcutta o Ghandi – un ossequio ideologico che si autoalimenta e si sublima, fino a trasfigurarsi in una dimensione meta-storica e sovra-umana. Sugli operatori del sistema informativo, la morte di Marchionne ha scatenato la stessa reazione automatica che la morte di Lady Diana innescò nel tele-popolino globale: là il mito eterno della Principessa Triste destinata alla nobile morte romantica; qua la rappresentazione del manager inflessibile e lungimirante, che si immola fino alla fine sull’altare del più puro degli ideali: la tutela dell’interesse degli azionisti.

Ma già prima della improvvisa dipartita, il marchionnismo, aveva impregnato negli anni la società italiana, conducendo una battaglia di forza ed egemonia, proprio contro la società stessa e la sua legge fondamentale, la Costituzione.

Questo libro lo scrissi sette anni fa, sull’onda della “rivoluzione Marchionne”. Che aveva mostrato come la lotta di classe fosse più che mai viva nel nostro paese, praticata non dagli operai, bensì dalla classe padronale, capace in pochi mesi di fare a brandelli diritti conquistati in decenni di battaglie. Sergio Marchionne era l’ariete che aveva demolito le vecchie relazioni industriali; che aveva portato la Fiat fuori da Confindustria e la Fiom […] fuori dalle fabbriche. Che aveva imposto agli operai le “sue” condizioni, con l’arma più potente offerta dalla Globalizzazione, quella della delocalizzazione: o accettate o sposto la produzione in Polonia. (p. 5)

Nel corso di questi sette anni passati dalla prima stesura del libro, il veleno è penetrato sempre più profondamente nel corpo sociale e alcuni arretramenti appaiono irreversibili, soprattutto sul piano culturale e ideologico: è lì che Marchionne ha sfondato, sbaragliando le residuali difese immunitarie di un sistema che aveva già accettato di considerare diritti, tutele, retribuzioni e dignità del lavoro, come variabili dipendenti dalle ragioni d’impresa.

Marchionne viene scelto nel 2005 dalla famiglia Agnelli (sempre più simile alla tribù parassitaria e anacronistica dei Saud) alla morte del vecchio Umberto. Non è un outsider, negli ambienti internazionali il suo nome è già conosciuto. Il suo biglietto da visita è a due facce: da una parte abile e spregiudicato manovratore finanziario, dall’altra disponibile al dialogo sindacale e alle istanze operaie. Le manovre di bilancio servono a tamponare immediatamente la crisi di liquidità del gruppo e farsi legittimare dagli azionisti; le aperture sociali servono a lanciare segnali verso il mondo sindacale e la sinistra di governo, in un momento di grande fragilità dell’universo Fiat, bisognoso di consenso e pacificazione. Raccoglie successi immediati su entrambi i fronti. Bravo e fortunato nelle faccende finanziarie (il suo vero mestiere, altro che metalmeccanico, come amava definirsi per dare una vocazione industriale alla sua biografia di manager), si trova bella e pronta davanti a sé la famosa clausola che, sulla base di piani falliti e accordi già stipulati dalle gestioni precedenti, obbliga la General Motors a sborsare un miliardo e mezzo di dollari, in alternativa all’obbligo di acquisto del comparto auto Fiat: l’esercizio di tale opzione porta una provvidenziale boccata di ossigeno nelle casse dell’azienda torinese. I fondamentali del gruppo cominciano a stabilizzarsi rapidamente. Anche gli investimenti nel miglioramento delle condizioni di lavoro, soprattutto nello stabilimento simbolo di Mirafiori, provocano reazioni positive e vincono le diffidenze dei sindacati. Marchionne non risparmia i segnali e gli ammiccamenti in tal senso:

I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che simili trasformazioni sono possibili anche in un paese con forte coscienza sindacale. La maggior parte degli analisti finanziari ritiene che le riduzioni di organico siano per definizione positive, ma sono fissazioni. Il costo del lavoro incide solo per il 6-7%. Quindi certe richieste di tagli sono indiscriminate. (p. 35)

L’autrice recupera dichiarazioni che sembrano uscite da un’altra era geologica. A parlare è lo stesso Marchionne che qualche anno più tardi fonderà un’intera stagione sulle “richieste di tagli” e sulla distruzione manu militari di quella “forte coscienza sindacale” che all’inizio sembrava voler rispettare.

Nella fase del Marchionne progressista i politici, soprattutto di centro sinistra, non vedono l’ora di genuflettersi al borghese illuminato con cui rinnovare l’eterno “patto tra produttori”. “Liberazione” scrive che: “c’è un manager che dice che licenziare non va bene. Non vedo perché non dobbiamo essere d’accordo” (p. 35). Valentino Parlato dice di lui: “è uno con cui farei volentieri una chiacchierata” (p. 35). Cesare Damiano, ineffabile ministro del Lavoro, afferma: “dobbiamo saper distinguere tra manager e manager, tra chi ha una vocazione industriale, e così difende anche l’occupazione, e chi pensa solo alle stock options e ne ha fatto una filosofia dagli effetti perversi” (p. 35).
Senza troppi fronzoli, il lungimirante Fassino lo definisce direttamente “un socialdemocratico”; mentre Dario De Vico sul Corrierone scrive che l’avvento di Marchionne conferma come il “darwinismo sociale” applicato al personale d’impresa, dimostra la bontà della selezione della specie. Insomma un tripudio liberal-progressista nel quale tutto un mondo sembra aver trovato il suo eroe metalmeccanico.

A rompere l’idillio sono proprio i metalmeccanici e proprio a Mirafiori, dove Marchionne ha speso soldi per migliorare mense e spogliatoi.

L’idillio tra Lingotto, Governo Prodi e sindacati confederali, infatti a qualcuno dà fastidio. Sono gli operai di Mirafiori – quelli veri – che alla fine del 2006 accolgono i rappresentanti di Cgil CISL UIL in un coro di fischi e contestazioni. Epifani, Angeletti e Bonanni erano andati a parlare – per la prima volta dopo 26 anni – all’assemblea dello stabilimento Fiat, per spiegare i contenuti della Finanziaria e le ragioni per cui l’avevano appoggiata. I lavoratori, però, quelle ragioni le sentivano premere già da un pezzo sulla loro carne: riduzione delle pensioni, allungamento dell’età lavorativa e salari stagnanti; in compenso il Governo aveva adottato una serie di misure liberiste – dal taglio del cuneo fiscale, all’utilizzo del TFR come investimento – a favore dell’impresa. (p. 38).

I lavoratori fischiano il tavolo dei sindacalisti, tenuto a distanza chilometrica dalla platea, difeso da transenne. I destinatari delle contestazioni sono innanzitutto vertici sindacali e “governo amico”. Ma quei fischi arrivano diretti, anche alle orecchie di Sergio. Sono un campanello d’allarme, le chiacchiere possono bastare per i politici e i sindacalisti in perenne crisi di legittimazione. Ma per la forza lavoro non bastano: in Fiat bisogna irrigidire e verticalizzare le gerarchie se si vuole ottemperare al mandato (e ai piani operativi) che gli azionisti gli hanno affidato. Scandaliato è molto efficace nel raccontare la brusca “inversione a U” del socialdemocratico Marchionne:

Sergio Marchionne, però, con la crisi ha cambiato completamente volto. Non è più l’uomo della speranza, del “sindacato-partner”, dei licenziamenti come “fissazioni” del mercato. Il “borghese buono” ha lasciato il posto al borghese senza aggettivi, all’amministratore delegato che fa il suo lavoro e che sa farlo bene, tutelando l’interesse dell’azienda e del profitto. (p. 90)

Eclettismo padronale? Estri caratteriali? No, meglio parlare di flessibilità nei metodi di gestione e capacità di leggere in tempo la crisi che in quegli anni si profila e che provocherà un terremoto terribile nel mercato mondiale dell’auto. Da questo sconvolgimento, la Fiat può uscire solo con due mosse: unirsi a un partner di peso internazionale, per raggiungere quella soglia minima dei 5 milioni e mezzo di veicoli giudicata indispensabile per stare a galla, e sganciare del tutto il settore auto dall’asfittico mercato nazionale, ripristinando nel contempo un pieno comando sugli stabilimenti, le retribuzioni e la prestazione lavorativa in Italia. Così è il capitalismo: le maschere socialdemocratiche cadono in un attimo, quando il gioco si fa duro

Emblematico il racconto sulla ristrutturazione dello stabilimento G.B. Vico di Pomigliano:

Tanti credono che il piano Marchionne sia stato realizzato formalmente nelle fasi dell’accordo del 2010 […] Noi crediamo, al contrario, che […] sia iniziato ben prima e per la precisione con l’introduzione dei famosi corsi di formazione che si sono tenuti tra l’inizio del gennaio 2008 e il marzo dello stesso anno. Entrammo in fabbrica ognuno nel suo reparto d’appartenenza, ognuno sulla propria linea di produzione […]. Uno spiegamento di vigilantes mai visto prima a cui nessuno riusciva a dare un motivo […]. Iniziarono le pseudo lezioni dove capi e team leader, unitamente ai vigilantes che controllavano il regolare svolgimento dei corsi quasi come se si fosse a un colloquio con detenuti, volevano farci percepire, prima di ogni cosa, il significato di far parte di una squadra vincente e soprattutto cosa si rischiasse a non farne parte. […] I vigilantes, presenti in numero di due o tre sulle varie linee di montaggio, avevano il compito ben preciso di individuare chi durante i corsi esprimeva un semplice dissenso nei confronti delle regole, spiegate vagamente e spesso inventate dai capi. Avevano il compito di individuare tutti coloro che con il progetto Nuova Pomigliano e più tardi con Fabbrica Italia, avrebbero potuto essere pericolosi ostacoli per il processo di desindacalizzazione. Stava iniziando quella che oggi si può definire la “deFiommizzazione” della fabbrica. […] Il terzo giorno, i lavoratori iniziarono a capire che quel corso era una farsa, infatti dopo la teoria rieducativa, iniziava quella pratica. Iniziarono a farci ridipingere l’intero reparto con vernici e solventi chimici. (p. 148)

Questo termine – deFiommizzazione –, lo sradicamento e l’espulsione dal mondo Fiat del sindacato più rappresentativo, ricorrerà spesso negli anni successivi, dentro reportage e pensosi editoriali. Lo si accetterà come un normale neologismo – una parola nuova per definire un’esigenza nuova del sistema –, senza riflettere minimamente sulla portata epocale delle sue implicazioni: il fatto che il padrone scegliesse i sindacati con cui trattare ed espellesse quelli non graditi, in modo pubblico e conclamato, dentro il più grande gruppo industriale del paese, rappresentava il più grave attentato ai diritti politici degli italiani, perpetrato nella storia repubblicana.

E arriviamo alla parte più nota della storia, quella che, a suo tempo, attraverserà, spaccherà e riorienterà l’intera società italiana: lo scontro che si consuma tra Marchionne e la Fiom, sul terreno di una piena riconquista del comando d’impresa sul lavoro.
Tra il 2008 e il 2009 Marchionne elabora un suo piano, Fabbrica Italia, in cui si ridisegna il peso e il ruolo del segmento industriale propriamente italiano del gruppo. Il gioco è subito scoperto: mani libere, oltre e contro il contratto nazionale, in cambio della promessa di mantenimento dei posti di lavoro nella penisola. Per sancire la piena accettazione di questo scambio, Marchionne non si limita a firmare accordi separati con i soliti sindacati complici: chiede di passare attraverso due consultazioni in stabilimenti chiave, Pomigliano e Mirafiori. La spietatezza del cowboy-capitano d’impresa – l’icona americaneggiante che Sergio ama incarnare – qui si rivela in tutta la sua brutalità simbolica: i lavoratori non devono solo cedere nella pratica del rapporti di forza, devono anche sottoscrivere politicamente, attraverso un umiliante passaggio referendario, la loro resa senza condizioni. Mirafiori e Pomigliano risponderanno con grande dignità: nonostante da una parte della bilancia Marchionne abbia posto una pistola carica puntata contro di loro, la vittoria scontata dei SI sarà assai inferiore alle aspettative e la prova di forza si ritorcerà contro la Fiat, a livello di immagine pubblica. Soprattutto la classe operaia dell’ex Alfa Sud darà una significativa prova di orgoglio: centinaia di lavoratori votano NO pur sapendo che una eventuale chiusura della stabilimento G.B. Vico li lascerà allo sbando in un territorio socialmente devastato.
Quella di Marchionne è una sfida a morte contro i diritti politici e sociali dei cittadini-lavoratori, una picconata devastante alla Costituzione e allo Statuto dei lavoratori.

In questa opera demolitoria, l’uomo del maglioncino blu si troverà al suo fianco schierati quasi tutti gli attori politici e sociali che contano: i sindacati complici, i governi prima di destra e poi di centrosinistra, tutte le grandi penne del giornalismo italiano, tutti gli economisti mainstream, tutti i partiti:

A Sinistra, poi, il sostegno al piano Fiat era diventato incontenibile, a tratti imbarazzante. Sergio Chiamparino, allora sindaco di Torino e famoso per le partite a carte con il suo omonimo canadese, dichiarava: non mi pento degli apprezzamenti che ho rivolto a Marchionne. Anzi non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta. Piero Fassino, originario proprio del Piemonte operaio, faceva eco al collega di partito: se Marchionne non avesse fatto quello che ha fatto finora , non ci troveremmo qui a discutere di Fiat perchè la Fiat non esisterebbe […] Walter Veltroni, ex segretario del Pd, affrontava la questione con fatalismo definendo l’accordo inevitabile e specificando che non avveniva sotto ricatto, bensì a causa di una condizione obiettiva che è figlia della nostra globalizzazione diseguale. (p. 125)

Anche la maggioranza della Cgil si schiera confusamente con Marchionne: qualcuno invoca la “firma tecnica” per non restare fuori dai giochi, qualcuno lavora ad ammorbidire e metabolizzare l’anomalia Fiom, nel passaggio di consegne tra Rinaldini e Landini.

Unico salvagente nella tempesta restava la Fiom, che si ostinava a non avallare la resa di Pomigliano. Non solo: il sindacato metalmeccanico aveva respinto la logica stessa del referendum giudicando illegittimo mettere ai voti dei diritti fondamentali, tutelati dalla stessa Costituzione italiana (p. 122).

La Fiom, sconfitta nelle urne, scacciata dalle salette sindacali, esclusa dai tavoli di trattativa aziendali del gruppo, con diversi delegati licenziati politici da Melfi a Modena a Torino e i suoi iscritti oggetto quasi ovunque di continui ricatti e intimidazioni per abbandonare quella tessera, resiste per alcuni anni, promuovendo scioperi, convegni, mobilitazioni, raccolte di firme, alleanze sociali per rompere l’assedio. Sono anni frenetici in cui il sindacato metalmeccanico si gioca, letteralmente, l’esistenza.
Entrando poi progressivamente nel tunnel della “normalizzazione” delle sue posizioni, oggi pienamente compiuta, almeno sul piano della cultura politica e sindacale.

Il ventaglio delle posizioni e l’elenco dei passaggi politici e sociali passati in rassegna dall’autrice, è veramente ampio e completo. E rappresenta una documentazione narrata “in diretta” di una lunga stagione di strappi e rotture che l’Italia subisce più o meno passivamente, lasciando soli i metalmeccanici e il loro sindacato più rappresentativo.

La storia ci dice com’è andata a finire: la Fiat non esiste più – sostituita dal nuovo gruppo globale Fca. Il piano Fabbrica Italia fu definito dallo stesso Marchionne una sciocchezza, stravolto più volte e abbandonato strada facendo; alcuni importanti stabilimenti italiani del gruppo sono stati chiusi e centinaia di migliaia di ore di cassintegrazione sono tutt’ora in fruizione per un settore importante di forza lavoro, da sud a nord. Negli stabilimenti della ex-Fiat, un minimo di agibilità sindacale è stata ripristinata solo grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale (Marchionne aveva letteralmente sbattuto fuori tutte le Rsu, arrivando persino a collocare in cassa a zero ore gran parte degli iscritti Fiom). Uno tsunami disgraziato che non solo “non ha salvato la Fiat”, ma che ha spostato decisamente verso il basso l’asticella dei diritti e delle aspettative per tutti: una nuova codificazione dei rapporti di forza dentro la società italiana che ha accelerato bruscamente una tendenza già in atto, verso il rafforzamento delle ragioni e degli interessi padronali. Dal Libro Bianco di Sacconi, ai contratti separati, agli accordi più o meno condivisi sui modelli contrattuali, fino ad arrivare al terribile Jobs Act renziano: la politica ha inseguito e assecondato il marchionnismo, dimostrandosi serva, complice e sostanzialmente inutile. Il sindacato confederale, dal canto suo, ha tristemente imboccato la sua deriva finale verso l’approdo aziendalista, fatto di servizi, enti bilaterali, previdenza e sanità integrativa, collateralismo d’impresa.

Niente più rivendicazioni,niente più lotte o inutili contrapposizioni. Il sindacato avrebbe trovato la sua ragion d’essere in una proficua collaborazione con la classe imprenditoriale, naturale avversaria fino a pochi decenni prima. I “padroni” avrebbero smesso di essere tali, e i lavoratori si sarebbero saggiamente impegnati per la competitività dell’azienda, nonostante i profitti rimanessero nelle stesse tasche di sempre. Il ministro Sacconi , d’altronde, lo aveva scritto senza troppi giri di parole:”bilateralità e partecipazione rappresentano la soluzione più autorevole e credibile per superare ogni residua cultura antagonista nei rapporti di produzione. (p. 122)

Quello di Maria Elena Scandaliato è un libro serio e utile, in un paese dalla memoria corta. Infatti fa bene l’autrice, a ricordare, en passant, la dimenticata vicenda di Walter Molinaro, che non c’entra direttamente con Marchionne, ma può dare la misura di una regressione profonda. E’ una storia che ci riporta al 1988, all’Alfa Lancia di Arese, in un paese già abbondantemente pacificato ma ancora innervato da sani elementi di consapevolezza e tenuta democratica.

Walter Molinaro, operaio specializzato all’Alfa Lancia di Arese, è convocato nell’ufficio del direttore del personale. Il dirigente dell’Alfa – passata dall’Iri alla Fiat quasi due anni prima – propone al suo dipendente un incredibile salto di qualità: da operaio specializzato “provetto” (questa era la qualifica) a designer del Centro stile, uno dei reparti più prestigiosi dell’azienda. L’offerta non è casuale: Molinaro è un trentatreenne di belle speranze. Pur lavorando in fabbrica dall’età di sedici anni, sta per laurearsi in Architettura, dove è impegnato in un progetto di riqualificazione dell’area del Portello, storico stabilimento dell’Alfa Romeo. (p. 2)

L’unica condizione che l’azienda pone per questa prestigiosa promozione è che il suo dipendente abbandoni la tessera Fiom. Un piccolo gesto che gli aprirebbe grandi opportunità di carriera e guadagni. L’operaio quasi-architetto, nell’Italia rampante degli anni ’80, risponde no con serena fermezza, pubblicamente. Il suo partito, il Pci, lo trasforma in un caso nazionale attraverso interrogazioni parlamentari e petizioni, riaccendendo i riflettori sul mondo Fiat, otto anni dopo la marcia dei quarantamila. La domanda (retorica), che alimenta la discussione pubblica, è se i meriti professionali del singolo dipendente possano essere subordinati al giudizio politico-sindacale delle gerarchie aziendali. “L’Espresso”, “Repubblica”, il Ministro Formica, tutte le sinistre, si schierano contro “l’arroganza aziendalista”. Il dibattito sui diritti sindacali e politici divampa. Persino il più influente filosofo italiano vivente – Norberto Bobbio – si sente in dovere di intervenire, schierandosi a fianco della dignità del lavoro e del diritto di espressione.
E’ il 1988. Un anno prima della caduta del Muro di Berlino.

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Alla catena https://www.carmillaonline.com/2018/07/29/alla-catena-2/ Sun, 29 Jul 2018 18:40:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47558 di Alessandra Daniele

Fiat-logo.JPG[I media celebrano Marchionne come fecero con Wojtyla. Il capitalismo è religione d Stato. Ho scritto e pubblicato per la prima volta questo racconto sulla fabbrica secondo il “metodo Marchionne” nel 2010]

– Dovreste essere contenti che la Fabbrica abbia deciso di riportare la produzione di operai in Italia. – Sì, ma le condizioni… – Sono le stesse già applicate con successo in tutta l’Europa dell’est – dice l’amministratore – Gli embrioni umani vengono coltivati in vitro, in batterie da dodici. Al sesto mese di sviluppo accelerato, vengono inseriti nel meccanismo produttivo attraverso una serie [...]]]> di Alessandra Daniele

Fiat-logo.JPG[I media celebrano Marchionne come fecero con Wojtyla. Il capitalismo è religione d Stato. Ho scritto e pubblicato per la prima volta questo racconto sulla fabbrica secondo il “metodo Marchionne” nel 2010]

– Dovreste essere contenti che la Fabbrica abbia deciso di riportare la produzione di operai in Italia.
– Sì, ma le condizioni…
– Sono le stesse già applicate con successo in tutta l’Europa dell’est – dice l’amministratore – Gli embrioni umani vengono coltivati in vitro, in batterie da dodici. Al sesto mese di sviluppo accelerato, vengono inseriti nel meccanismo produttivo attraverso una serie di innesti biomeccanici collegati alla catena di montaggio, e iniziano il loro lavoro.
– Fisicamente collegati ai macchinari? – Chiede il delegato.
– Certamente – l’amministratore annuisce compiaciuto – Appositi macchinari che provvedono anche al loro sostentamento, attraverso l’immissione di fluidi nutritivi direttamente nel flusso sanguigno, allo sporadico inserimento di sostanze solide nell’apparato digerente per evitarne l’atrofia, grazie a un catetere esofageo, e al drenaggio ed eliminazione delle scorie attraverso una sonda rettale.
Il delegato osserva l’immagine sullo schermo.
– E questa mascherina a cosa serve?
– All’interfaccia visiva. Viene applicata dopo la rimozione dei bulbi oculari, e collega direttamente il nervo ottico degli operai al computer centrale della fabbrica – l’amministratore sorride – Niente più problemi di distrazione.
– Rimozione dei bulbi oculari?
– Sì, insieme agli organi sessuali, e altre parti del corpo inutili al processo produttivo.
– Ma è previsto che gli operai non facciano altro che lavorare 24 ore al giorno?
– No, questo ne pregiudicherebbe l’efficienza. Ogni dieci ore di lavoro ne vengono chimicamente indotte due di sonno ipnotico, durante le quali si approfitta per aggiornare il loro condizionamento mentale.
– E resteranno così collegati ai macchinari per tutta la vita?
– Finché non verranno superati da un modello più efficiente.
– Gli operai?
– No, i macchinari. Gli operai risulteranno in esubero, e verranno disconnessi. Poi saranno rottamati.
– I macchinari?
– No, gli operai.
Il delegato fissa l’immagine sullo schermo.
– Possono sopravvivere disconnessi dalle macchine?
L’amministratore si stringe nelle spalle.
– No, ma gli ammortizzatori sociali non sono un problema dell’azienda.
Il delegato scuote la testa.
– Non so quanto queste condizioni siano accettabili…
L’amministratore lo interrompe in tono oltraggiato.
– Opporsi al progresso per ragioni puramente ideologiche sarebbe un errore gravissimo – lo redarguisce – E mi costringerebbe ad attivare l’inibitore a scariche elettriche che lei e tutti i suoi colleghi avete saggiamente acconsentito a farvi installare alla base del cranio, dopo la scorsa trattativa. Allora, qual è la sua decisione? – Chiede l’amministratore puntando il telecomando dell’inibitore.
Il delegato china la testa.

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L’Era del Cazzaro https://www.carmillaonline.com/2015/03/01/lera-del-cazzaro/ Sun, 01 Mar 2015 21:43:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21016 di Alessandra Daniele 

Barbara-DUrso-Matteo-RenziMentre Renzi vende la Rai a Berlusconi, e rende la Giustizia italiana persino più classista di prima, Salvini marcia su Roma coi neofascisti, e il jobs act cancella di fatto lo Statuto dei Lavoratori. Il berlusconismo non è mai stato così in salute nemmeno quand’era al governo direttamente. L’Era del Cazzaro continua. Carmilla è in grado di pubblicare in anteprima il nuovo Statuto dei Lavoratori. Nel tipico stile renziano, è un testo breve e conciso che consiste di soli sei articoli.

Prima regola dello Statuto dei Lavoratori Non si [...]]]> di Alessandra Daniele 

Barbara-DUrso-Matteo-RenziMentre Renzi vende la Rai a Berlusconi, e rende la Giustizia italiana persino più classista di prima, Salvini marcia su Roma coi neofascisti, e il jobs act cancella di fatto lo Statuto dei Lavoratori.
Il berlusconismo non è mai stato così in salute nemmeno quand’era al governo direttamente. L’Era del Cazzaro continua.
Carmilla è in grado di pubblicare in anteprima il nuovo Statuto dei Lavoratori. Nel tipico stile renziano, è un testo breve e conciso che consiste di soli sei articoli.

Prima regola dello Statuto dei Lavoratori
Non si parla dello Statuto dei Lavoratori.

Articolo Due
I lavoratori hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente la loro entusiastica ammirazione per i loro datori di lavoro. Sono consigliati termini come genio, eroe, innovatore, benefattore, e marchionne, superlativo assoluto per “marchio di qualità”.

Articolo tre
I lavoratori hanno diritto di organizzarsi in associazioni sindacali.
I sindacati devono occuparsi dei diritti dei lavoratori, e non fare politica.
I diritti dei lavoratori sono una questione politica.
Perciò i sindacati non devono occuparsi dei diritti dei lavoratori.

Articolo quattro
Lo scopo dei sindacati è organizzare manifestazioni pacifiche con molti palloncini colorati, che il governo possa ignorare con disprezzo e definire irrilevanti, oppure manifestazioni pacifiche con pochi palloncini colorati, che il governo possa far caricare a manganellate e definire fasciste.

Articolo Canale Cinque
È consentito e incoraggiato l’uso di impianti audiovisivi come telecamere, microfoni, e sonde endoscopiche per finalità di controllo dell’attività dei lavoratori, nonché allo scopo di organizzare reality a eliminazione da trasmettere sulle reti Raiset.

Articolo sei
Mansioni, retribuzioni, ferie, integrità fisica e mentale del lavoratore, natura e durata del rapporto lavorativo sono a totale discrezione del datore di lavoro, genio, eroe, innovatore, benefattore, e marchionne.
Chi farà ricorso contro il licenziamento non sarà reintegrato. Sarà disintegrato.
In diretta Raiset.

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La fabbrica della disperazione/4 https://www.carmillaonline.com/2014/09/11/fabbrica-disperazione4-3/ Thu, 11 Sep 2014 07:11:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17356 di Alexik

SEOANE. CRISTO OBRERO CRUCIFICADO, 1975[A questo link  il capitolo precedente]

Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa“.

Chissà a che Cristo si riferiva Sergio Marchionne alla vigilia dell’accordo sullo stabilimento Fiat di  Pomigliano d’Arco. Forse a quei poveri Cristi dei suoi operai, a cui presto avrebbe inflitto la metrica Ergo/Uas, i 18 turni, il “salto della mensa” … o forse al contratto collettivo nazionale, crocefisso sui cancelli del Giambattista Vico.

di Alexik

SEOANE. CRISTO OBRERO CRUCIFICADO,   1975[A questo link  il capitolo precedente]

Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa“.

Chissà a che Cristo si riferiva Sergio Marchionne alla vigilia dell’accordo sullo stabilimento Fiat di  Pomigliano d’Arco. Forse a quei poveri Cristi dei suoi operai, a cui presto avrebbe inflitto la metrica Ergo/Uas, i 18 turni, il “salto della mensa” … o forse al contratto collettivo nazionale, crocefisso sui cancelli del Giambattista Vico.

Chiunque fosse l’agnello sacrificale, è con questa boutade da novello evangelista che nel giugno 2010 l’AD Fiat ratifica  la sua assoluta indifferenza nei confronti della intera storia delle relazioni industriali in Italia. Una storia di cui l’accordo separato rappresenta un tassello di una pesante svolta involutiva, di un cambio di fase anche rispetto alle pessime logiche concertative1 che avevano contrassegnato, a fasi alterne, il connubio fra sindacati, governo e padroni nel ventennio precedente.

Nel 2010, infatti, non c’è più nulla da concertare: l’azienda ordina e il sindacato obbedisce, chi dissente è fuori. È questo, in sintesi, il senso della così detta “clausola di responsabilità”, un elemento inedito nella storia della contrattazione, introdotto per la prima volta dall’accordo separato di Pomigliano. Ovviamente la “responsabilità” in questione non è riferita alla Fiat, che non è tenuta a rispettare un bel nulla … e non potrebbe essere altrimenti visto che, in cambio della flessibilità totale, la Fiat agli operai del Vico nulla concede, se non la promessa di non chiudere baracca.

Si tratta invece di una clausola sanzionatoria per le organizzazioni sindacali  – o anche singoli delegati – che dovessero “rendere inesigibili le condizioni concordate e i conseguenti diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. È un sostanziale divieto di lotta a cui Fim, Uil e Fismic acconsentono, impegnandosi ad astenersi da ogni forma di contestazione del nuovo regime di fabbrica. Ma non basta.

La Fiat non si accontenta infatti di un sindacato imbelle e rinunciatario. Esso deve anche ergersi attivamente a guardiano e censore degli operai non allineati, contrastando l’emergere di “comportamenti individuali e/o collettivi dei lavoratori idonei a violare le clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda”. Qualora il sindacato non si dimostrasse efficace nello svolgimento dell’infame compito potrebbe subire tagli nei permessi e nei contributi sindacali. Come rabbonire gli operai riottosi è poi un problema suo: dissuasione bonaria? Delazione ai capi ?

Di fatto, la complicità da parte di Fim, Uilm e Fismic, in genere ottenuta dalla Fiat per puro amore, con l’accordo di Pomigliano diventa obbligatoria, una funzione formalizzata la cui contropartita consiste nel mantenimento dell’agibilità sindacale come graziosa concessione dall’alto.

Ma se il controllo sindacale non dovesse bastare ? Se la gravosità dei nuovi carichi di lavoro, gli orari interminabili, o l’estendersi dell’arbitrio dei capi dovessero risultare talmente insopportabili da generare spontaneamente una reazione operaia ?  Anche a questa eventualità l’accordo separato pone rimedio, con l’integrazione di tutte le sue clausole all’interno del contratto di lavoro individuale di ogni dipendente. Di conseguenza qualsiasi comportamento dei singoli operai anche vagamente ostruzionistico nei confronti, per es. di uno spostamento arbitrario di mansione o dell’ennesimo salto della mensa, diventa motivo di sanzione disciplinare fino al licenziamento.

Piedi crocefissiIn base all’accordo, gli operai di Pomigliano non solo dovranno lavorare senza respiro, senza riposo, socialità e nutrimento, ma anche (e soprattutto) senza difesa, visto che ogni forma di lotta potrà essere considerata “ostruzionistica”.  Resteranno inermi di fronte al potere industriale:  anche l’esercizio individuale e collettivo del diritto di sciopero (tutelato formalmente dalla Costituzione Repubblicana) diviene di fatto inesigibile.

Il diritto del lavoro viene leso così fin nella sua suprema fonte. Ma, come è noto, anche il diritto e la sua interpretazione sono il prodotto storico di rapporti di forza.

E la forza non manca ad una Fiat ormai affrancata dalla dimensione nazionale, capace di distribuire globalmente le produzioni, di concederle o negarle ai vari stabilimenti sparsi per il pianeta in maniera premiale o punitiva, ricattandoli tutti. Una forza che in Italia si ritrova inoltre spalleggiata da numerosi alleati, anche fra quelle organizzazioni politiche e sindacali che, in pura teoria, avrebbero dovuto porle un freno. Del resto, ogni passaggio da un “prima” a un dopo” Cristo necessita di Giuda.

Sul piano politico il plauso a Marchionne è bipartisan. Oltre che sullo scontato appoggio di Sacconi – in quegli anni alla testa del ministero del lavoro – e dell’intero governo Berlusconi quater, l’AD può contare su una nutrita tifoseria all’interno del PD, a partire dai sabaudi Fassino2 (“sta passando l’ ultimo treno per salvare Pomigliano e il sindacato deve rendersene conto… nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità”) e Chiamparino (“non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta”). Seguono Franceschini, che invita il partito ad “accogliere la sfida del cambiamento che ha lanciato Marchionne” e Pietro Ichino (allora senatore PD) che plaude alla nuova Fiat di Pomigliano paragonandola in meglio alla Camorra3. Non c’è che dire, un bel confronto fra imprese leader dell’imprenditoria del sud !

bacio di giudaSul piano sindacale, l’accordo di Pomigliano è preceduto da mesi e mesi di un intenso lavorio di Cisl e Uil che ne costruiscono nel dettaglio le premesse giuridiche. Se osservate complessivamente, le scelte di queste organizzazioni – operate su più tavoli e con diversi interlocutori – sembrano seguire un progetto coerente, lucido e lineare, finalizzato alla distruzione del CCNL ed alla ratifica del monopolio della rappresentanza da parte dei “sindacati complici”.

Va in questo senso l’accordo dell’aprile 2009 con Confindustria e Governo sulla possibilità di derogare ai CCNL tramite i contratti aziendali4, così come la successiva disdetta da parte di Fim e Uilm del contratto collettivo dei metalmeccanici e l’apertura con Federmeccanica di una nuova trattativa  separata, finalizzata ad emendarlo in peggio.

Per tutto il 2009 Cisl, Uil e le loro federazioni del settore metalmeccanico preparano la strada su cui Marchionne potrà correre senza inciampare nei paletti del contratto collettivo nazionale. Ma non solo: la sequela degli accordi separati sembra anticipare quella che sarà, da lì a poco, l’espulsione del sindacato di Landini dalla rappresentanza del Giambattista Vico e dell’intero Gruppo Fiat.

A Pomigliano la Fiom nega la firma, dimostrando che la sottomissione sindacale non è unanime, e questo a Marchionne non può bastare: il suo progetto per il Giambattista Vico richiede infatti l’obbedienza assoluta. Gli occorre dunque una delegittimazione dei dissenzienti che vada a colpirli nella loro qualità di rappresentanti dei lavoratori, meglio se impartita direttamente dal popolo dei rappresentati. A questo fine nuovamente si prestano Fim e Uilm, con l’indizione di un referendum sull’accordo che, nelle loro intenzioni, dovrebbe mettere nell’angolo il loro principale competitor sul mercato della rappresentanza e validare la loro politica sindacale con un’investitura dal basso.

Il referendum viene fissato per il 22/23 giugno 2010, pochi giorni dopo la firma dell’accordo, per rendere più difficile qualsiasi reazione. Il quesito rivolto agli operai suona più o meno così: preferite tornarvene a casa per la chiusura della fabbrica o lavorare come schiavi ? Uno stupro dello strumento democratico.

Fim e Uilm confidano sul fatto che al Vico, piuttosto che la fame, sceglieranno le catene,  e in effetti si prevede un plebiscito a favore dell’accordo, anche grazie al pessimo clima che si è creato tutt’intorno.  Oltre ai già citati amici di Marchionne di governo e opposizione, preme per il si quasi tutta l’informazione, le istituzioni di Pomigliano, la stessa CGIL della Campania invita esplicitamente ad andare a votare a favore, mentre dalla segreteria CGIL Epifani non sconfessa il referendum perché “è importante che i lavoratori siano coinvolti”.

Anche la Fiom, in realtà, teme di venir travolta dal risultato. Per questo non si espone fino in fondo per il no, chiamandosi fuori dalla battaglia referendaria sulla base dell’illegittimità della consultazione. Una posizione molto politically correct, perché nemmeno il consenso dei lavoratori può mettere in dubbio diritti indisponibili, costituzionalmente tutelati, quali il diritto di sciopero o quello alla dignità e alla salute.  Ma una posizione decisamente poco pratica, perché di fatto lascia campo libero all’azienda e ai suoi accoliti.

Per fortuna non tutti si ritirano sull’Aventino. Nei giorni che precedono il referendum lo Slai Cobas e l’intero sindacalismo di base si giocano il tutto per tutto, assieme a delegati e iscritti Fiom del Vico, che sanno bene, se vince il si, quale futuro li attende.

mano crocefissa 1Il futuro così descritto da Anna, un’operaia del reparto confino di Nola, in una lettera al figlio piccolo: “Cucciolo mio, le sole cose che raddoppieranno saranno gli utili nei conti FIAT e il carico di lavoro di noi poveri operai… e per me raddoppieranno le possibilità di ammalarmi  per colpa di turni massacranti e postazioni di lavoro sempre più pesanti… Sarò assente da casa per tutti i giorni della settimana e in quelle poche ore che sarò presente sarò così stanca e così stressata che non avrò nemmeno la forza di abbracciarti”.

Dietro i cancelli lo Slai organizza il controllo delle operazioni di voto, fuori accorrono al presidio anche l’Usb, i Cobas, la Cub, le delegazioni provenienti da Mirafiori, Termoli, Cassino, dal movimento, dai circoli del PRC e perfino dal popolo viola. Tutti consapevoli che l’impatto dell’accordo non rimarrà confinato dietro le porte del Giambattista Vico, ma si ripercuoterà su tutto il gruppo Fiat, fino a configurarsi come un attacco alla classe nel suo insieme. La posta in gioco è alta. Per Pomigliano comincia il giorno più lungo. (Continua)


  1. La concertazione è un modello di gestione delle politiche economiche e delle relazioni industriali basata sul confronto a tre governo/sindacati/padroni. Ha avuto particolare impulso dai tempi del governo Amato, che l’utilizzò per condurre a compimento le politiche lacrime e sangue dettate dal trattato di Maastricht, assicurandosi al contempo la pace sociale. Fra i principali “traguardi” della concertazione annoveriamo il Protocollo del luglio ’92, che decreta la fine della scala mobile; il Protocollo del luglio ’93, che conferisce un sostanziale monopolio della rappresentanza nei luoghi di lavoro a CGIL, CISl e UIL; la controriforma delle pensioni del 1995, che mette un termine al sistema retributivo; il Patto per il Lavoro/Pacchetto Treu del 1996, che legalizza l’intermediazione di manodopera sdoganando il lavoro interinale. Sotto i governi di centrodestra del 2001-2006  la concertazione tende a venire soppiantata dal così detto “dialogo sociale”, in base al quale il governo “dialoga” con tutti ma poi decide quello che gli pare, spingendo la parte sindacale verso un ruolo sempre più subalterno. Cisl e Uil si adeguano velocemente, partecipando ad una sorta di “concertazione separata” che sfocia nel Patto per l’Italia/Legge Biagi. Dopo una breve interruzione durante il governo Prodi bis, la “concertazione separata” riacquista virulenza col patrocinio del ministero del lavoro a guida Sacconi. 

  2. Maria Teresa Meli, «Non mi pento, tifo ancora per Marchionne», Corriere della Sera, 16 giugno 2010. Le dichiarazioni di Fassino non sono certo una novità. Nel marzo 2010, davanti alla chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, aveva già avuto il coraggio di affermare: “sarebbe demagogico e propagandistico cambiare giudizio sulle giuste scelte strategiche dell’azienda“. 

  3. Labate T, Franceschini pro Fiat, Il Riformista 21/10/10. La provocazione di Ichino: l’alternativa al modello Marchionne è la camorra, Il Sole 24 Ore, 15/09/10. 

  4. Con l’accordo interconfederale sulla riforma degli assetti contrattuali del 15 aprile 2009, Cisl, Uil, Ugl decidono, con Confindustria e Governo Berlusconi IV, che gli accordi di secondo livello non potranno  migliorare quanto già definito a livello nazionale per le materie oggetto del CCNL, ma in compenso potranno introdurre delle modifiche peggiorative in caso di crisi. A fronte di una crisi generalizzata, tale previsione permette l’estendersi a macchia d’olio delle deroghe ed un peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro in tutti i comparti. Le parti decretano inoltre che l’adeguamento dei salari al costo della vita non verrà più parametrato al tasso di inflazione programmata, ma all’IPCA, cioè un indice depurato dagli effetti inflattivi delle importazioni energetiche.  In questo modo gli aumenti salariali restano, ancor più di prima, ineluttabilmente molto al di sotto del tasso di inflazione reale. 

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La fabbrica della disperazione/3 https://www.carmillaonline.com/2014/07/12/fabbrica-disperazione3/ Sat, 12 Jul 2014 00:22:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15988 di Alexik

Blocco A1 operai Pomigliano[A questo link il capitolo precedente]

Hanno occupato l’autostrada e i tetti del Comune, interrotto il festival di Sanremo, sfilato in 20.000 con tutta la città. Hanno minacciato di darsi fuoco, subito cariche, licenziamenti,  fermi di polizia.

Dal settembre 2008 – inizio della cassa integrazione – per quasi due anni le mobilitazioni dei lavoratori della Fiat di Pomigliano si scontrano contro un muro di indifferenza istituzionale, se escludiamo l’attenzione della questura. Sedici operai finiscono infatti denunciati per la lotta contro l’apertura [...]]]> di Alexik

Blocco A1 operai Pomigliano[A questo link il capitolo precedente]

Hanno occupato l’autostrada e i tetti del Comune, interrotto il festival di Sanremo, sfilato in 20.000 con tutta la città. Hanno minacciato di darsi fuoco, subito cariche, licenziamenti,  fermi di polizia.

Dal settembre 2008 – inizio della cassa integrazione – per quasi due anni le mobilitazioni dei lavoratori della Fiat di Pomigliano si scontrano contro un muro di indifferenza istituzionale, se escludiamo l’attenzione della questura. Sedici operai finiscono infatti denunciati per la lotta contro l’apertura del reparto confino di Nola, e in particolare per “l’esecuzione di un disegno criminoso, con violenza e minacce consistite nel posizionare auto di traverso sulla carreggiata, incendio di pneumatici e urla, impedendo la libertà di locomozione costringendo chicchessia ad abbandonare il proposito di accesso allo stabilimento Fiat1.

Fermo operai PomiglianoOltre alla questura si dimostra molto attiva anche la macchina del fango. Una forte campagna denigratoria, che attinge con malcelato razzismo al repertorio dei più beceri stereotipi contro i napoletani, addita il Giambattista Vico come un covo di assenteisti e scansafatiche. Valenti articolisti, fra cui brillano particolarmente quelli di Repubblica, descrivono lo “stabilimento Fiat marchiato d’infamia” (sic) come un ricettacolo di falsi invalidi e scalmanati, luddisti, ladri, spacciatori, e – addirittura ! – di ingordi mangiatori di pizza al taglio in orario di lavoro, colpevoli, causa briciole, anche della presenza delle pantecane che scorazzano sotto i robot2.

Gli aspiranti premi Pulitzer non vengono sfiorati dal dubbio che gli operai invalidi siano veri, spezzati dalla Fiat soprattutto dopo l’introduzione nel 2003 del TMC2, la metrica di lavoro già inquisita dal PM Guariniello come causa della crescita esponenziale a Mirafiori di patologie da sforzo ripetuto3. Mentre ironizzano sull’eccesso di certificati medici, non si chiedono se la pratica di mettersi in malattia non venga promossa dai Cacca di elefante2capi in occasione degli scioperi, per abbassare il tasso di adesione alle proteste, o se serva a cammuffare gli infortuni. Non si soffermano poi certo a ricordare che l’Alfa 147, eletta “Auto dell’anno 2001″, veniva prodotta proprio nello stabilimento campano, segno che la qualità della produzione proprio schifo non fa. A prescindere dalla realtà, l’obiettivo è sputtanare Pomigliano, preparare il terreno affinché la “fabbrica anarchica” venga finalmente rieducata.

Del resto il battage mediatico non infanga solo il Giambattista Vico, ma tutti gli stabilimenti italiani del gruppo. La voce di Marchionne viene ben amplificata, quando lamenta che i 6.000 lavoratori polacchi della Fiat producono quasi quanto i 22.000 italiani … glissando sul fatto che gli stabilimenti italiani stanno producendo poco o niente perché fermi da mesi, con migliaia di operai in cassa integrazione. Si lagna, l’A.D., del fatto che non gli conviene certo investire nel Bel Paese … ma che lo farà lo stesso, perché lui è buono. In cambio, ovviamente, di qualche cosetta: la fine dei contratto collettivo nazionale, la connivenza sindacale, la schiavitù sulle linee, l’annientamento della forza operaia.

Il 21 aprile 2010 viene presentata ufficialmente “Fabbrica Italia”, la strategia di rilancio della Fiat per il quadriennio 2010/2014. In discontinuità con il passato, l’annuncio viene fatto in un Investor Day, senza passare per nessun tavolo istituzionale o di confronto con i sindacati. Del resto, come dice Marchionne, Fabbrica Italia  “non è un accordo, è un nostro progetto: non è stato concordato né con il mondo politico né con il sindacato. Per questo è incredibile la pretesa che ho sentito più volte rivolgere alla Fiat di rispettare un presunto accordo4.

Fuffa UniversityFabbrica Italia consiste nell’enunciazione di 20 miliardi di investimenti, finalizzati a triplicare la produzione italiana di auto per arrivare a vendere nel 2014 (insieme a Chrysler) ben 6 milioni di vetture nel mondo, con addirittura 47 novità da lanciare sul mercato.

La sola evocazione di tale prospettiva manda in visibilio l’intero mondo politico, immemore del fatto che, dal giorno della sua nomina nel giugno 2004, l’ A.D. Fiat ha presentato ben cinque piani industriali diversi: nel primo, dell’agosto 2004, prometteva il lancio di dieci modelli in tre anni. Poi nel 2005, un secondo ne prometteva 17 in quattro anni, più 13 restyling di vecchi modelli e 9,55 miliardi di investimenti. Nel 2006, con il terzo piano industriale i miliardi diventano 16, mentre i nuovi modelli scendono a 15. Nel 2009 si contano ben due piani industriali, uno che riguarda Chrysler, e un altro (il “Piano per l’Italia”) dove si vagheggia di 30 nuovi modelli in 24 mesi e 8 miliardi di euro di investimenti nell’Auto5. Più che una Fabbrica Italiana Auto, sembra una Fabbrica Italiana Piani Industriali, con dei picchi vertiginosi nella produzione di slide ed una strategia vincente: quella di occultare l’inconsistenza delle promesse precedenti sparando cazzate ancora più grosse.

Se poi la carota (tutta virtuale) degli investimenti non dovesse risultare abbastanza convincente, Marchionne ha sempre in serbo il bastone delle delocalizzazioni. E lo usa, deviando la produzione della Lo da Mirafiori a Kragujevac – dove il governo di Belgrado offre forti incentivi e salari a 300 euro  –  e minacciando di destinare gli investimenti per la nuova Panda a Tichy, in Polonia, piuttosto che a Pomigliano. A meno che gli italiani non si rendano disponibili a farsi sfruttare  più dei polacchi.

Pomigliano non si toccaPer mesi, contro le ipotesi di delocalizzazione, il movimento Pomigliano non si tocca si mobilita chiedendo il rilancio dello stabilimento sulla base di una nuova mission produttiva6. Nel giugno 2010 Marchionne decide che la mission è ora di dargliela. Il manager italo-canadese confida nel fatto che 22 mesi di cassa integrazione siano bastati a far raggiungere all’esasperazione il livello desiderato: quello che fa accettare qualsiasi cosa.

La mission per il Giambattista Vico arriva sotto forma di accordo separato, sottoscritto dall’azienda e da Fim, Uilm e Fismic, i “sindacati complici”, come li definisce il ministro Sacconi (per lui è un complimento), contrapposti ai “sabotatori” della Fiom. L’accordo è un atto di portata devastante sia dentro che fuori la fabbrica.

L’insieme delle sue clausole sembra progettato per annientare l’operaio a livello fisico e sociale, rendere l’intera sua vita una variabile dipendente dagli andamenti di mercato. Ma non solo. L’accordo travalica i confini della fabbrica, assume l’ampiezza di una controrivoluzione nell’ambito delle relazioni industriali e del diritto del lavoro. Una controrivoluzione che presto si estenderà ben oltre i cancelli del Giambattista Vico. Analizziamola nei dettagli7.

La nuova Panda verrà prodotta a ciclo continuo su sei giorni, e questo richiede diciotto turni settimanali, dei quali l’’ultimo, quello della domenica notte, è a disposizione della Fiat. Verrà comandato quando il mercato tira, altrimenti sarà coperto con i permessi retribuiti, tolti alla  disponibilità dei lavoratori ed alle loro esigenze.

Lo straordinario obbligatorio non contrattato con i sindacati passa da 40 a 120 ore all’anno. Va così a farsi fottere la giornata di lavoro di 8 ore, alla faccia dei martiri di Chicago, dei decenni di lotte e del tanto sangue operaio sparso per conquistarla. Va a farsi fottere anche il minimo di legge di undici ore di intervallo fra un turno di lavoro e l’altro. Che già undici ore sono poche (soprattutto se abiti lontano) per raggiungere casa, riposare, lavarti, mangiare qualcosa, e ritornare in fabbrica. In pratica, ti potrà capitare di non poterti permettere otto ore di sonno fra una giornata di lavoro e l’altra.

WCMVa a farsi fottere pure il riposo settimanale, che potrà essere annullato dallo straordinario comandato, così come la pausa mensa, che slitta a fine turno ma in caso di straordinario può saltare. Vuol dire che, se ti va bene, per sette ore e mezza non ti sarà possibile nutrirti, staccare con la testa, riposare il corpo. Se invece ti va male mangerai quando lo decide il padrone. Rendere aleatoria la pausa mensa serve anche a limitare le occasioni di incontro e confronto fra i lavoratori.

L’accordo concede tre pause di 10 minuti durante il turno, che bastano appena ad arrivare ai bagni, lontani dai reparti. Se sono occupati torni in linea e la cacca te la tieni, perché non puoi permetterti di aspettare, visto ad ogni ritardo rischi un richiamo. L’accordo ha tagliato le pause perché sono improduttive ma anche pericolose: durante le pause gli operai parlano.

Del resto l’accordo dice che il riposo è superfluo perché il lavoro è più leggero, ed è più leggero perché lo dice l’accordo. L’applicazione del sistema Ergo UAS elimina tutti i movimenti inutili, e quindi la fatica di farli, ma la riduzione delle pause comporta un aggravio sui carichi di lavoro maggiore del beneficio. L’Ergo UAS tende alla piena saturazione del tempo di lavoro, che deve essere dedicato interamente alla produzione senza staccare mai, per un bisogno, un respiro o una parola ad un compagno. È ininfluente poi, se a forza di non staccare mai si va via con la testa.

Quando per “cause di forza maggiore” la produzione si interrompe, la Fiat può rispedirti a casa, e poi farti recuperare le ore perse quando più le aggrada, facendoti saltare i giorni di riposo o le pause mensa. Le “cause di forza maggiore” possono verificarsi per un ritardo nella catena delle subforniture, una partita di pezzi difettosi, uno sciopero della logistica.  In questo modo la Fiat scarica interamente sui suoi operai tutte le vulnerabilità di un sistema basato sull’esternalizzazione di gran parte delle sue funzioni.

Il combinato/disposto delle singole previsioni su turni, pause, straordinari, rende complessivamente impossibile per i lavoratori organizzarsi l’esistenza, programmare qualsiasi attività o interesse che vada oltre la fabbrica. Il tempo di vita diventa completamente funzionale al recupero psicofisico della fatica accumulata nel tempo di lavoro, la cui articolazione risulta sempre più imprevedibile anche durante l’anno. La Fiat, concentrando le 120 ore di straordinario comandato nella fasi di picco della domanda, può infatti alternare periodi di superfruttamento quando il mercato tira a periodi di cassa integrazione quando la domanda cade. Una sorta di “job on call”, i cui costi gravano alternativamente sugli operai e sull’Inps.

Al capitolo “formazione”, l’accordo prevede un importante investimento finalizzato ad addestrare i lavoratori su diverse mansioni. Potrebbe sembrare una valorizzazione delle capacità dell’operaio, ma non lo è. Si tratta, invece, di un superamento della “rigidità” del mansionario, che permetterà all’azienda di spostare il lavoratore su un’altra postazione, o in un’altra area, da un momento all’altro. Nulla vieta, nell’accordo, di spostarlo a mansioni inferiori, contro quanto disposto dallo Statuto dei Lavoratori. Del resto la nuova mission di Pomigliano comporta un sostanziale declassamento dell’intera fabbrica, la cui produzione passa dai modelli upper class dell’Alfa Romeo, caratterizzati da un livello tecnologico più alto e da una maggiore complessità di montaggio, a un’auto di fascia bassa, a basso valore aggiunto e a basso margine di profitto, come la nuova Panda.

La possibilità di spostare gli operai senza preavviso non è rivolta solamente ad una razionalizzazione delle linee, al rimpiazzo di eventuali assenze. Essa è del tutto funzionale al sistema punitivo/premiale in mano ai capetti dello stabilimento: se “rompi i coglioni”, se non ti sottometti, sarai spostato alle mansioni più gravose. Se lecchi il culo a quelle più leggere. Diventa inoltre molto più facile disperdere gruppi potenzialmente conflittuali, od interrompere vicinanze solidali fra operai. In questo contesto, i capisquadra, i capireparto assumono ancora più potere discrezionale.

Robot6Saranno i capetti a controllare nei reparti l’adesione, anche emotiva, alla nuova “filosofiat”, improntata ai principi del World Class Manifacturing (WCM), il modello di organizzazione del lavoro sviluppato da un certo Hajime Yamashina sulla base di quello toyotista. Il WCM implica l’analisi e la scomposizione di tutti gli aspetti del processo produttivo per identificare le inefficienze, i tempi morti, e tutte le operazioni che non producono valore aggiunto. Così lo descrive Luciano Gallino: “Si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un’azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall’altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L’ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot8.

Per funzionare, il WCM necessita della conoscenza operaia, l’unica conoscenza profonda del funzionamento reale delle fasi produttive. Agli operai, pertanto, è richiesta la partecipazione ad un processo di “miglioramento continuo” finalizzato al peggioramento continuo dei loro carichi di lavoro e di stress. Se a tale fine la retorica della “partecipazione” non dovesse convincere a sufficienza, rimangono sempre validi i vecchi e cari metodi gerarchici basati sui provvedimenti disciplinari.

Non poteva mancare nell’accordo un paragrafo sull’assenteismo, dove si svela qual’era l’intento della feroce campagna mediatica:  la Fiat si rifiuta di pagare i primi tre giorni di malattia. Rifiuta anche di erogare l’integrazione al reddito per gli operai in cig costretti (pena conseguenze disciplinari) a presenziare ai suoi corsi di formazione. Evidentemente Marchionne, che fa lo splendido promettendo miliardi di investimenti qua e la, con gli operai ha il braccio cortissimo.

L’accordo separato prevede la conferma dello stabilimento confino di Nola. Una conferma che ha tutto il sapore di una minaccia rivolta agli operai del Giambattista Vico, visto che “eventuali future esigenze di organico potranno essere soddisfatte con il trasferimento di personale dalla sede di Pomigliano d’Arco”. Il World Class Logistic continua così a ricoprire la sua vecchia funzione di spada di Damocle sulla testa dei “fortunati” che rimarranno in produzione. Chiamarlo “stabilimento”, in realtà, è un’esagerazione, visto che si tratta di un capannone aperto, gelido d’inverno e torrido d’estate, vuoto di attività. Uno dei pochi che ha avuto occasione di lavorarci (in genere sono tutti in cig) descrive così la sua giornata: “Stiamo qui a non fare niente. Abituati ai ritmi della catena, ci basterebbero venti minuti al giorno per fare tutto. Così andiamo piano, se no il tempo non passa. E aspettiamo il licenziamento. Perché dovrebbero pagarci per non far niente9.

RobotLa conferma del reparto confino viene salutata con giubilo dalle schiere dei sindacati firmatari. Così commenta Andrea Allocca, Rsu della Fim10: “I 300 lavoratori di Nola coinvolti in questo ambizioso progetto stanno dimostrando ancora una volta di essere immuni da condizionamenti ideologici, ed esprimono apprezzamento per gli sforzi compiuti dalla Fiat per tenere fede agli impegni assunti. Auspichiamo che al percorso formativo individuato, possa seguire un processo di crescita professionale per i lavoratori attraverso un rinnovato senso di appartenenza… Ci aspettiamo che l’azienda voglia quanto prima porre le basi per una ripresa rapida e duratura. A tale scopo, riteniamo quindi indispensabile alimentare, da parte nostra e dell’azienda, uno spirito costruttivo e di attaccamento alla mission che saremo chiamati a realizzare” .

Personalmente, mi piacerebbe sentirgli ripetere oggi queste cazzate, ora che la mission del World Class Logistic si è risolta in 6 anni di cassa integrazione. Ora che si contano i suicidi. (Continua)


  1. Fiat Pomigliano:terrorismo aziendale, Left 21/05/09 

  2. Roberto Mania, Pomigliano, la fabbrica da rieducare, La Repubblica 27/12/07. Alberto Statera, Pomigliano, la rieducazione della fabbrica anarchica, La Repubblica 18 giugno 2010. Due articoli quasi uguali, nonostante gli autori e i tempi diversi, ma forse la velina era la stessa. 

  3. Linea “spaccaossa”, alla Fiat 68 manager a processo, Marx XXI, 2/03/06 

  4. Marchionne: aspetto una risposta. O si o no, La Stampa, 29/07/2010

  5. Marco Cobianchi,  Sergio Marchionne, miliardi e modelli: la lunga storia dei piani fantasia del Lingotto,Il Fatto Quotidiano, 7/05/14. L’articolo è un’anticipazione del libro di Marco Cobianchi, American Dream, Chiarelettere, 2014. 

  6. 5 febbraio 2009: oltre 1000 lavoratori partono in corteo dallo stabilimento e bloccano l’autostrada A1. La polizia carica. Sei fermi. 17 febbraio 2009: presidio sotto la RAI di Napoli. 21 febbraio 2009: presidio al Festival di San Remo. 27 febbraio 2009: sciopero cittadino a Pomigliano, in 20.000 sfilano in corteo. 23 novembre 2009: presidio sotto la prefettura di Napoli. 29 dicembre 2009: la Fiat licenzia 38 precari del “Giambattista Vico”. I licenziati occupano il Comune di Pomigliano. 26 gennaio 2010: i 38 licenziati che da un mese occupano la sala consiliare del Comune salgono sui tetti e minacciano di darsi fuoco (video). 

  7. Per un’analisi dell’accordo: Circolo PRC Fiat Auto-Avio di Pomigliano D’Arco, Pomigliano non si piega. Storia di una lotta operaia raccontata dai lavoratori, A.C. Editoriale Coop., 2011; Centro per la Riforma dello Stato, Nuova Panda schiavi in mano, DeriveApprodi 2011. 

  8. Luciano Gallino, La globalizzazione dell’operaio, La Repubblica, 14/06/10  

  9. Centro per la Riforma dello Stato, Nuova Panda schiavi in mano, DeriveApprodi 2011, p. 109. 

  10. Giulia Montuoro, Il caso Fiat e i nuovi modelli di contrattazione collettiva, tesi di laurea in Giurisprudenza, a.a. 2012/2013, p.75. 

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La fabbrica della disperazione/2 https://www.carmillaonline.com/2014/06/15/fabbrica-disperazione2/ Sun, 15 Jun 2014 04:20:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15426 di Alexik

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Settembre 2008. Trascorsi quattro mesi dal trasferimento coatto di 316 lavoratori dal “Giambattista Vico” al “World Class Logistic” (WCL) di Nola, ci si aspetta l’avvento della grande rivoluzione logistica, quella che secondo i cantori del Marchionne pensiero dovrebbe salvare il futuro di Pomigliano e rilanciare l’efficienza di tutti gli impianti meridionali del gruppo Fiat. Ma invece della “rivoluzione” … arriva la cassa integrazione.

Per i 316 lavoratori del WCL scatta la Cigo. No, non la Cassa Integrazione [...]]]> di Alexik

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Settembre 2008. Trascorsi quattro mesi dal trasferimento coatto di 316 lavoratori dal “Giambattista Vico” al “World Class Logistic” (WCL) di Nola, ci si aspetta l’avvento della grande rivoluzione logistica, quella che secondo i cantori del Marchionne pensiero dovrebbe salvare il futuro di Pomigliano e rilanciare l’efficienza di tutti gli impianti meridionali del gruppo Fiat. Ma invece della “rivoluzione” … arriva la cassa integrazione.

Per i 316 lavoratori del WCL scatta la Cigo. No, non la Cassa Integrazione Ordinaria, ma la Cassa Integrazione ad Oltranza, nel senso che a Nola, dove hanno fatto appena in tempo a metter piede, a lavorare non ritorneranno più.

E perché mai dovrebbero ? Il World Class Logistic ha già svolto pienamente il suo ruolo, che non è certo quello di diventare un polo logistico di eccellenza.  Il suo destino non si compie nemmeno nella “terziarizzazione”, che tanto preoccupa gli operai, cioè la cessione di ramo d’azienda a qualche gestore di servizi pronto a fare il lavoro sporco per conto della Fiat. Non sarebbe la prima volta che succede: già dagli anni ’90 i lavoratori della logistica dell’Alfa Sud di Pomigliano furono ceduti alla Arcese, alla Smet, alla Novaferro, alla TNT e infine alla DHL. Nel corso di 15 anni di passaggi di mano calarono da 900 a 400, e molti furono indotti al licenziamento per le terribili condizioni di lavoro1. Ma non è questa la fine del WCL. Chi se lo accatterebbe, infatti, un bidone vuoto ?

Che il bidone sia vuoto lo dimostra il fatto che nessuno degli stabilimenti che Nola dovrebbe servire ha ridimensionato i propri reparti logistici. Fra l’altro l’organizzazione del World Class Logistic, per attuarsi, dovrebbe destrutturare e ricomporre in tutt’altro modo l’intero indotto Fiat, che è spesso cresciuto proprio in prossimità di ogni polo di assemblaggio.  Con quale logica i fornitori lucani della Fiat/Sata dovrebbero spedire i pezzi in Campania per poi vederli ritornare a Melfi ?  E comunque, qualora Marchionne avesse voluto davvero creare una centrale unica di approvvigionamento per le fabbriche del sud, non vi avrebbe certo concentrato gli operai più combattivi, mettendoli in grado, in caso di sciopero, di bloccare la produzione di Pomigliano, Melfi, Cassino e Termini Imerese.

Questo non vuol dire che egli non affidi una specifica “mission” al polo logistico fantasma: la sua creazione è infatti l’atto propedeutico per la prova di forza che il manager tiene in serbo per lo stabilimento di Pomigliano.

Robot10Propedeutica è l’espulsione dalla fabbrica degli operai più coscienti e determinati, degli incorruttibili, quelli che non potrebbero mai subire la ristrutturazione di Pomigliano senza lottare. Il loro esilio è la sperimentazione sullo Slai e sui Cobas di quella che di lì a poco sarà l’estromissione di massa della Fiom dal “Giambattista Vico”.

Propedeutica è l’espulsione dalla fabbrica dei soggetti  con ridotta capacità lavorativa, quelli che non potranno reggere fisicamente l’impatto con ritmi/turni/orari progettati per piegare anche i sani e i forti. Gente non adatta alla riorganizzazione del lavoro basata sull’ Ergo UAS, la  nuova frontiera dell’annientamento operaio.

Nato dalla collaborazione fra il Politecnico di Torino e l’Università di Darmstadt, l’Ergo UAS è un’aberrazione della logica dell’ergonomia, il classico esempio di come si possa rivolgere contro gli operai una scienza che in linea teorica dovrebbe salvaguardare la loro salute. Comporta una notevole sottostima dei fattori di rischio ergonomico2, ma soprattutto sterilizza ogni miglioramento ottenuto con la riorganizzazione delle postazioni e delle modalità di lavoro, finalizzandolo al mero recupero della produttività, e non al benessere dell’operaio. Il concetto è : dal momento che – grazie alla riorganizzazione ergonomica – sulle linee “si fa meno fatica”, allora ci si può riposare di meno e si può andare più in fretta. Su questa “base scientifica” si procede al taglio delle pause, all’aumento dei carichi di lavoro, alla saturazione dei tempi, con il risultato “ergonomico” di spezzare il lavoratore nel fisico e nella mente.

La dirigenza Fiat sa che l’avvento di questo tipo di “modernità”  nello stabilimento di Pomigliano non potrà passare senza conflitto. Per questo ha bisogno di preparare il terreno. In questo senso la creazione del WCL rappresenta una sorta di prova generale, che gli permette di verificare e soppesare la capacità di opposizione operaia davanti ai soprusi, la reazione delle istituzioni e della stampa, la fedeltà dei servi sciocchi. E di concludere che le condizioni sono ottimali: la rappresentanza operaia è divisa, la stampa subalterna, i servi sciocchi plaudono alla semplice promessa di nuovi ipotetici investimenti. Quanto alle istituzioni, se il ministro del lavoro uscente,  Cesare Damiano, non ha mai posto ostacoli ai desiderata della Fiat (facilitandole, peraltro, l’espulsione di 2000 operai in mobilità lunga3 ), con il IV governo Berlusconi il ministero guidato da Maurizio Sacconi raggiunge livelli di complicità assoluta.

Dulcis in fundo,  l’ultima condizione che concorre alla maturazione dei tempi di una prova di forza è l’arrivo della crisi. E nell’uso capitalistico della crisi Marchionne non si tira certo indietro. Nel settembre 2008, infatti, “causa avverse condizioni di mercato”, oltre che per gli operai del WCL scatta la cassa integrazione anche per i 5000 lavoratori del “Giambattista Vico” e per 15.000 del suo indotto.

Migliaia di persone costrette a campare le famiglie, in maggioranza monoreddito, con 700 euro al mese, in un contesto economico che non offre alcuna alternativa. Significa mettere in discussione l’istruzione dei figli o le cure mediche, prendere i pacchi viveri alla Caritas, significa lo sfratto, non riuscire a pagare il mutuo, l’umiliazione di chiedere aiuto ai parenti, il ricorso ai cravattari. Significa la crescita dell’angoscia, dell’aggressività, della depressione dentro le mura domestiche. Come per un assedio, Marchionne sa che il nemico si prende per fame, aspettando che accetti la resa spinto dalla disperazione. Tanto lui può attendere, che gli frega ? Solo nel biennio 2008/09  si becca 8,2 milioni di euro di stipendio (tassati in Svizzera)4.

Robot11Una volta accollata all’Inps la (mera) sopravvivenza delle maestranze italiane, il “manager col maglioncino blu” (come “simpaticamente” viene descritto dalla stampa) può dunque concentrarsi con maggior vigore allo sfruttamento delle opportunità che la crisi  gli offre anche oltreoceano.  A Detroit l’acquisizione della Chrysler in bancarotta si accompagna a pesanti riduzioni dei salari (dimezzati per i nuovi assunti), intensificazione dei ritmi, moratoria di sei anni sugli scioperi5. Lo stesso copione che verrà presto recitato a Pomigliano: l’imposizione del potere assoluto sotto la minaccia di chiusura della fabbrica.

Marchionne affronta fiducioso le trasferte negli States: sa che in sua assenza, Sacconi sta lavorando per lui. Nell’aprile 2009 il ministro del lavoro, in concerto con Cisl, Uil e Confindustria, promuove l’Accordo interconfederale sulla riforma degli assetti contrattuali che scardina i contratti collettivi nazionali di lavoro, attribuendo alla contrattazione aziendale il potere derogatorio in peius delle clausole dei CCNL6. Costruisce così il fondamento normativo su cui potrà basarsi il futuro accordo separato di Pomigliano.

Va inoltre aggiunta ai “meriti” di Sacconi la sua puntuale opera di peggioramento della normativa sull’orario di lavoro, che permette alla contrattazione aziendale la derogabilità delle clausole sui livelli minimi del riposo giornaliero, sui limiti al lavoro notturno, sulle pause di lavoro7. Tutte deroghe a cui la Fiat attingerà a piene mani. (Continua)


  1. Circolo PRC Fiat Auto-Avio di Pomigliano D’Arco, Pomigliano non si piega. Storia di una lotta operaia raccontata dai lavoratori, A.C. Editoriale Coop., 2001, pp. 77/78. 

  2. Francesco Tuccino, Il sistema ErgoUas e le modalità di utilizzo in Fiat, p. 23 

  3. Accordo Fiat-governo-sindacati. Mobilità lunga per 2.000 operai, La Repubblica, 19/02/07. 

  4. Fiat, crescono gli stipendi: 4,8 milioni a Marchionne, 5,2 a Montezemolo, Il Messaggero, 19/02/10.  

  5. Giordano Sivini,  Chrysler, storia di finanza e di sfruttamento operaio, Inchiesta, 12/04/12. 

  6. Accordo interconfederale 15 aprile 2009, art. 5  

  7. Decreto 112/2008: le novita’ in relazione agli orari di lavoro, Punto Sicuro, 2/09/08. 

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La fabbrica della disperazione https://www.carmillaonline.com/2014/06/01/fabbrica-disperazione/ Sun, 01 Jun 2014 00:50:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15062 di Alexik

immagineCi sono tradizioni Fiat (pardon, FCA) che sfidano lo scorrere del tempo, uniscono memoria e innovazione, fondano il “nuovo che avanza” su solide radici piantate nella storia. Sono la tradizione dei reparti confino, quella dei licenziamenti politici, della persecuzione degli operai più combattivi, delle espulsioni di massa.

E’ su questo know how, tutto orgogliosamente made in Italy, che la “fabbrica del futuro” di Marchionne produce ancor oggi uno dei suoi risultati di eccellenza: il progressivo annientamento fisico e psicologico sia di chi rimane nel [...]]]> di Alexik

immagineCi sono tradizioni Fiat (pardon, FCA) che sfidano lo scorrere del tempo, uniscono memoria e innovazione, fondano il “nuovo che avanza” su solide radici piantate nella storia. Sono la tradizione dei reparti confino, quella dei licenziamenti politici, della persecuzione degli operai più combattivi, delle espulsioni di massa.

E’ su questo know how, tutto orgogliosamente made in Italy, che la “fabbrica del futuro” di Marchionne produce ancor oggi uno dei suoi risultati di eccellenza: il progressivo annientamento fisico e psicologico sia di chi rimane nel ciclo produttivo, sia di chi ne è espulso.

L’annientamento degli espulsi, dei cassaintegrati, dei licenziati, è fatto di miseria, paura del futuro, mancanza di prospettive, di suicidio. L’annientamento di chi resta sulle linee è fatto di turni/ritmi/orari, di sudore ed infortuni, degli insulti dei capi, di umiliazioni sopportate in silenzio.  Entrambi sono legati in un binomio indissolubile: la disperazione dei primi è garanzia della sottomissione degli altri.

A debita distanza dalla fabbrica vera e propria, come un lazzaretto di appestati, il reparto confino si erge a monito permanente per chi è rimasto in produzione: “puoi finire qui”, sembra dire. Ancor più che a punire i riottosi, esso serve a disciplinare la fabbrica.

Nel tempo i reparti confino della Fiat hanno avuto molti nomi: quello dell’Officina Stella Rossa dove Valletta sbatteva i comunisti, o delle U.P.A. di Romiti, recinti per gli sconfitti dei 37 giorni di Mirafiori. Oggi uno dei nomi è quello del “World Class Logistic” (WCL), uno stabilimento fantasma a 20 km dal Giambattista Vico di Pomigliano. Fantasma, ma non inefficiente: anche se non ha mai funzionato rispetta puntualmente gli standard produttivi in termini di morti operaie.

L’ultima ad ammazzarsi piantandosi un coltello nella pancia è stata Maria, seguendo di pochi mesi Peppe, che si è impiccato. Due operai del WCL cassaintegrati da sei anni.

Due compagni.

maria-barattopeppe-de-crescenzoMaria faceva parte del Comitato Mogli Operai di Pomigliano d’Arco, Peppe era militante dello Slai Cobas. Se ne sono andati, ma non senza combattere. La storia della lotta contro la deportazione di 316 operai di Pomigliano al WCL di Nola è anche la loro storia.

Raccontarla è un modo per ricordarli in vita.

Giambattista Vico: i corsi e ricorsi di una pessima storia

Nel marzo del 2007 316 operai di Fiat Group Automobiles Pomigliano (la gloriosa Alfa Sud) vengono spediti ad un corso all’Inail di Napoli finalizzato al loro inserimento presso un costituendo Polo Logistico. E’ lì che comincia a paventarsi il loro trasferimento all’interporto di Nola, nell’ambito di un presunto progetto avveniristico che prevede la costruzione di un centro unico di smistamento della componentistica a servizio di tutti gli stabilimenti meridionali del Lingotto.

Una “ottimizzazione” ideata secondo logiche piuttosto contorte, visto che obbligherebbe i camion diretti alla Fiat di Pomigliano a fermarsi in un centro logistico a 20 km di distanza dalla destinazione finale, contabilizzare i materiali, e poi ripartire per scaricare la roba. Una scelta un po’ dubbia in tempi di just in time, che diventa però chiarissima verificando i criteri di selezione dei lavoratori destinati al cd “polo logistico di eccellenza”.

Nessuno di loro proviene dalle squadre addette alla logistica, nessuno di loro ne ha esperienza. In compenso la maggior parte può vantare almeno uno dei seguenti requisiti preferenziali:

  • essere affetto da patologie invalidanti limitative della capacità di lavoro, in prevalenza tecnopatie contratte all’interno della stessa Fiat (42 %)
  • essere iscritto allo Slai Cobas (24 %) o in subordine alla Fiom (6 %)

Data la composizione dei predestinati, l’operazione puzza già da subito di reparto confino .

Il trasferimento dei 316 fa parte di un progetto più ampio che Marchionne ha in serbo per Pomigliano, un piano di “modernizzazione” radicale di cui i maligni già prevedono i risultati: l’espulsione di centinaia di operai, il pugno di ferro su chi rimane. E’ in nome di questo piano che lo stabilimento chiude temporaneamente a fine 2007, per una fase di ristrutturazione delle linee ormai cadenti e obsolete. Nel frattempo per gli operai viene prevista la frequenza ai cd “corsi di formazione pesante”, dove dovranno apprendere le modalità di lavoro nella fabbrica del futuro. Ovviamente, anche i 316 destinati al polo logistico di Nola verranno formati ad hoc.

Pomigliano 2L’8 gennaio del 2008 i corsi cominciano in un clima tesissimo e surreale. Le lezioni vengono tenute nei reparti in ristrutturazione in mezzo ai cantieri dei lavori in corso; i vigilantes controllano la disciplina e la diligenza dei presenti, tanto che non si capisce se si è a scuola o in prigione.

Il 9 gennaio si contano due licenziamenti: una ragazza arrivata in ritardo e un giovane operaio che ha osato prendere la parola durante il corso. Il 10 è sciopero, indetto dallo Slai, a cui si uniscono gli altri sindacati. Fermando le lezioni, 200 tute blu sfilano nel corteo interno, dimostrando di sapersela cavare benissimo anche nella pratica della contestazione studentesca.

L’azienda risponde secondo le sue consuetudini, con decine e decine di procedure disciplinari e il licenziamento di Luigi Aprea, delegato Slai alle RSU, accusato di aver capeggiato la protesta. Oltre ad Aprea, altri 6 lavoratori, fra cui un RSU Fiom, ricevono le lettere di sospensione.

Nulla di nuovo. A Pomigliano la dirigenza ha il licenziamento facile. Lo sanno otto lavoratori espulsi nel 2006 per aver contestato in assemblea Fim, Fiom e Uilm dopo la firma del contratto dei metalmeccanici. Lo sa il dirigente dello Slai Vittorio Granillo, licenziato per aver promosso uno sciopero in difesa degli interinali della movimentazione interna, subappaltata a DHL.

Questa volta i licenziamenti per lo “sciopero dei corsi” rientrano quasi subito, ma in compenso la Fiat vieta allo Slai Cobas le assemblee perché “potenzialmente collidenti con il noto piano di formazione”.  Fiom, Fim e Uilm scendono a più miti consigli, e firmano un accordo dove accettano i “corsi di formazione pesante”.

Il 3 marzo lo stabilimento riapre a scartamento ridotto. Lo stesso giorno, alle linee appena ristrutturate, un’Alfa 159 si stacca dal gancio girevole della catena di montaggio cadendo sulla postazione di lavoro. Non muore nessuno, ma sorge il dubbio che il restyling non sia stato fatto proprio così bene. C’è chi dice che gli impianti fatiscenti siano rimasti tal quali, che migliaia di vetture difettate si accatastino nella fabbrica, che lo sbandierato riammodernamento impiantistico sia una bufala.

Non ci sono cali apprezzabili degli infortuni – sottolinea il delegato Fiom Sebastiano D’Onofrio – Gli impianti e i carrelli sono gli stessi, e continuano a verificarsi casi di scocche che si staccano dalle linee con seri rischi per i lavoratori”.

Vecchie linee dunque, ma nome nuovo: lo stabilimento viene intitolato al filosofo Giambattista Vico, la cui memoria non merita di essere associata a un carcere. Perché è questo che la fabbrica ristrutturata rischia di diventare. Il piano Marchionne prevede infatti l’introduzione di vigilantes e telecamere nei reparti per eliminare anche quei piccoli spazi informali che permettono agli operai di respirare,  per spiare le relazioni sociali che nascono sulle linee, per prevenire sul nascere ogni insubordinazione.

Intanto i 316 non rientrano a Pomigliano perché vengono rispediti a un nuovo corso sul WCL presso l’Inail di Napoli. Al Giambattista Vico non ritorneranno mai più.

Cronache di blocchi e di mazzate

Pomigliano 4Per i 316 candidati all’espulsione l’ennesimo corso parcheggio diventa l’occasione per autorganizzarsi, trasformando le lezioni in assemblee. Nasce così un comitato operaio indipendente dalle sigle sindacali, che decide di reagire.

Il 4 aprile un primo sciopero riesce al 50%. La forma utilizzata al picchetto è il blocco delle auto dei colleghi: se vogliono possono andare a lavorare, ma devono farsela a piedi. E’ qui che la lotta contro i trasferimenti subisce la prima carica.

Il 10 aprile si replica lo sciopero. Questa volta è blocco totale e la fabbrica si ferma compatta. Alle 21.00 la Fiat di Pomigliano è presidiata con picchetti ai 5 cancelli. L’ingresso è impossibile per tutti, persone e camion.

Lo sciopero è un successo, ma il fronte sindacale è spaccato: mentre Fiom-Fim-Uilm-Fismic sono orientati ad ottenere un accordo di garanzia per i lavoratori trasferiti, lo Slai denuncia che “accettare una trattativa-farsa con la Fiat significa nei fatti accettare la sostanza dei reparti-confino e delle liste di ‘proscrizione’ con cui l’azienda intende ghettizzare i lavoratori ‘indesiderati’ per motivi sindacali o per ridotte capacità lavorative, conseguenza delle diffuse patologie professionali da sforzo prolungato”.

Nelle assemblee del 12, che coinvolgono migliaia di operai, le mozioni per un opposizione totale al trasferimento vengono approvate all’unanimità. Si decide di continuare i blocchi, limitandoli però ai 3 varchi merci, facendo passare i lavoratori che intendono entrare in fabbrica. Lo scopo è lasciare gli stabilimenti privi dei materiali da lavorare, costringendo l’azienda a mettere in libertà i lavoratori. Pomigliano serve Cassino, Melfi, Mirafiori. Un blocco ai cancelli prolungato può bloccare la produzione in tutta Italia. Questa coscienza sulla strategicità che ha settore logistico per l’intero sistema fa parte di un antico patrimonio operaio, ereditato oggi dai lavoratori che in tutt’Italia bloccano gli interporti e i magazzini della grande distribuzione.

Il 14 aprile più di trenta camion sono fermi davanti ai cancelli, formando una fila che blocca tutta la strada di accesso al Giambattista Vico. L’azienda cerca di escogitare soluzioni alternative per scaricare le merci, provando a portare i camion in una fabbrica adiacente, ma gli operai li intercettano e li bloccano.

Nonostante la lotta in corso, partono proprio quel giorno i 316 telegrammi che comunicano per il 5 maggio il trasferimento “per ragioni tecniche-organizzative al centro denominato ‘World Class Logistic’ destinato ad ottimizzare il rifornimento dei componenti alle linee di produzione” .
Contemporaneamente i dirigenti della Fiat fanno partire la domanda per l’articolo 700: cioè lo sgombero forzato degli operai per opera della polizia. Il prefetto si dimostra solerte: all’una del 15 arriva il via libera all’uso della forza. Da quel momento polizia e carabinieri possono caricare in qualsiasi momento.

PomiglianoAll’alba dallo stabilimento decollano quattro elicotteri, carichi di semilavorati da inviare alle altre fabbriche del gruppo. Significa che la protesta ha colpito nel segno, ma anche che la Fiat diventerà più aggressiva. Poche ore dopo arriva dall’azienda la proposta di un tavolo di contrattazione, ma il vincolo che la dirigenza impone per sedersi a discutere è la smobilitazione davanti ai cancelli. I sindacalisti vogliono accettare. L’assemblea decide che i picchetti verranno tolti all’arrivo del fax di convocazione ufficiale, ma la polizia (che ha presidiato l’assemblea) pretende lo sgombero immediato. Quello che segue ci viene raccontato da un operaio, uno dei 316:

“Fuori dallo stabilimento c’era un’atmosfera particolare: una “scenografia” di montagne di fumo, camion girati, elicotteri che passavano sopra le teste, polizia che andava avanti e indietro… si vedeva ad occhio l’incazzatura che stava crescendo.  Poi arriva questa famosa telefonata con cui dicevano che era pronto l’art.700, da lì molti operai cominciarono a preoccuparsi; poi c’è stato chi, come la FIOM, ha cominciato a strumentalizzare queste voci dicendo: togliamo i picchetti poi domani parleremo con l’azienda, la stessa identica procedura usata a Melfi. Purtroppo in questi momenti non tutti reagiscono allo stesso modo: c’è chi è incazzato come te ma forse ha più paura, non ha il coraggio di esporsi più di tanto. Tutto si è rotto con una telefonata; si è cominciato a dire che era meglio togliere i picchetti, di lasciare un presidio che domani si ragiona meglio.

Alla fine su un centinaio di noi rimanemmo in venti a tenere il picchetto dietro alle griglie che avevamo preparato per reggere le eventuali cariche della polizia. Gli altri operai si misero da parte a guardare lo spettacolo; io personalmente coi miei compagni decidemmo che se dovevamo chiudere il picchetto dovevamo farlo a testa alta, anche con le botte, però dovevano prendere il picchetto con la forza. La polizia, già pronta da giorni ci caricò con violenza, cademmo a terra uno sull’altro, manganellate… Poi accadde qualcosa di bello: quelli che si erano tirati indietro ebbero uno scatto di orgoglio e intervennero contro la polizia che si trovò circondata e fu costretta ad arretrare. Cinque minuti prima non volevano più sostenerci, poi vedendoci picchiati, per terra ci vennero in soccorso… fu davvero bello. Sta di fatto che ai picchetti c’erano donne, bambini, c’erano anche persone infartuate: la polizia caricò tutti, indiscriminatamente. La Fiat non si è fatta nessun scrupolo… per loro siamo solo carne da macello”.

Pomigliano 1Le cariche si lasciano indietro il consueto strascico di feriti. Arrivano i pompieri per spegnere il fuoco dei copertoni, le guardie tentano di portarsi via alcuni operai, e riescono a prendersene uno in stato di fermo. Arrivano i camion che entrano a decine. Il fax di convocazione del tavolo di trattativa, intanto, non è ancora arrivato.

Il giorno dopo la Fiat convoca le rappresentanze sindacali per decidere il futuro dei 316 esternalizzati. All’incontro sono ammessi solo le sigle confederali e Fismic. Restano esclusi i sindacati di base e una delegazione operaia. Sotto le finestre dell’unione industriali, il fitto e rumoroso presidio dei lavoratori viene assediato dalla celere.

Quando la delegazione esce sale la tensione. I sindacalisti iniziano a spiegare che sono arrivati alla rottura, che l’azienda non ne vuole sapere di trattare, che la situazione è difficile, che l’indomani valuteranno il da farsi. Ma nessuno di loro si ricorda della promessa di riprendere gli scioperi e i blocchi in caso di insuccesso della trattativa.  I dirigenti dei sindacati confederali si allontanano protetti dalla digos, mentre una carica disperde chi si è attardato nel presidio composto da operai e studenti solidali.

Il 23 nelle assemblee al Giambattista Vico migliaia di operai approvano il ritiro del mandato a trattare ai sindacati confederali. Ma se questo impedirà, solo nel breve periodo, la firma di accordi truffa sul WCL, le misure decise per riportare i 316 a Pomigliano risultano troppo blande.

Lo Slai Cobas annuncia che ricorrerà alla magistratura del lavoro per invalidare i trasferimenti, che denuncerà l’azienda per comportamento antisindacale. Ma la magistratura ha i tempi lunghi, mentre il 5 maggio si avvicina. Il 28 aprile  Slai Cobas e sindacati confederali decidono due ore di sciopero al giorno. Ci vuol ben altro per spaventare la Fiat, che dalle colonne del Mattino non manca di minacciare di licenziamento chi non si presenterà nel giorno stabilito all’interporto di Nola.

Il 5 maggio 2008  i 316 prendono servizio al WCL. Marchionne ha vinto. (Continua)

Riferimenti

Archivio Cobas Slai del Gruppo Fiat 2007, 2008.

Un’ondata di lotta. I sei giorni di Pomigliano, in “Luna Ribelle”, aprile 2008, pp. 1/19.

Resa dei conti a Pomigliano, in “Senza Censura”, luglio-ottobre 2008, pp. 45/48.

Giampiero Rossi, A Pomigliano sciopero riuscito, ma la Fiat tira dritto,  “L’Unità”, 12 aprile 2008.

Barbara Meglio, Pomigliano: in fabbrica vince la linea dura,  “Il Denaro”, 15 aprile 2008.

Patrizia Capua, Fiat Pomigliano, lettera ai lavoratori. “I conflitti mettono a rischio il piano“, “La Repubblica”, 18/04/08.

 

 

]]> Detroit è morta, viva Detroit! (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/14/detroit-e-morta-viva-detroit-seconda-parte/ Tue, 13 Aug 2013 23:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8286 di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse [...]]]> di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse dei presenti nei confronti di un nuovo organo di informazione della comunità nera: l’Inner City Voice.

Il giornale era nato nell’ottobre del 1967 e il suo primo titolo di testa era stato “MICHIGAN SLAVERY”, accompagnato da un editoriale di fuoco che avrebbe costituito da subito la cifra stilistica e politica della  redazione: Nella Rivolta di Luglio abbiamo dato un segnale significativo a chi amministra il potere bianco, ma apparentemente il nostro messaggio non è stato recepito…Noi stiamo ancora lavorando troppo duramente, venendo pagati troppo poco; stiamo ancora vivendo in pessime abitazioni e stiamo mandando i nostri figli in scuole di scarso valore educativo e stiamo ancora pagando troppo la merce dei negozi e siamo ancora trattati come cani dalla polizia. Ancora non possediamo nulla e non controlliamo nulla…In altre parole noi siamo ancora sfruttati dal sistema e abbiamo ancora la responsabilità di dover rompere la schiena a questo sistema. Soltanto delle persone che sono forti, unite, armate  e che conoscono il nemico possono affrontare la lotta che ci attende. Pensaci Fratello, difficilmente le cose andranno meglio, la Rivoluzione deve andare avanti*.

Il giornale si definiva come la voce della comunità rivoluzionaria nera e non era l’ennesima pubblicazione underground tipica di quegli anni. I suoi redattori avevano militato già in varie formazioni radicali. Alcuni di loro avevano già sfidato il Dipartimento di Stato nel 1964 recandosi a Cuba e avevano avuto modo di colloquiare con  lo stesso Ernesto “Che” Guevara. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che il mensile, tirato in 10mila copie, si occupasse sia delle condizioni di vita e di lavoro a Detroit, che dei fatti internazionali e della lotta contro la guerra in Vietnam o delle  strutture militari e logistiche necessarie allo sviluppo della lotta armata.icv1

Si può dire che su queste basi si sviluppò una esperienza politica e sindacale che trascese ben presto i limiti della lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo nero, fondendo questa richiesta con la necessità di un’azione autonoma del proletariato nero e bianco. C’era l’attenzione per il nascente movimento del Black Panther Party ad Oakland in California, ma anche per le condizioni di lavoro e le richieste sindacali all’interno delle numerose fabbriche dell’area di Detroit.

Tale esperienza politica nasceva in un contesto in cui, proprio a seguito della rivolta di luglio, anche  il capitale aveva intrapreso un’azione di rinnovamento della città. Tale progetto si andava strutturando intorno al New Detroit Committee (Comitato per la Nuova Detroit) che raccoglieva i maggiori rappresentanti dell’industria automobilistica, della grande distribuzione mercantile, delle principali banche ed assicurazioni. Oltre che tutti gli uomini politici e gli amministratori locali legati a doppio filo agli interessi economici dei primi.

Tale comitato si riprometteva di affrontare il problema del degrado urbano, ed in particolare dei quartieri della inner city (che erano stati i maggiori protagonisti della rivolta), attraverso un processo di ristrutturazione edilizia che prevedeva la costruzione di nuovi edifici dall’architettura ardita destinati ad ospitare banche, hotel, centri commerciali, lussuosi condomini, centri congressi e, naturalmente, i nuovi uffici amministrativi e di rappresentanza delle imprese coinvolte.

Sulle rovine della rivolta, degli incendi e degli autentici bombardamenti del luglio 1967, si intendeva quindi avviare un programma di speculazione edilizia e finanziaria travestito da nuova possibilità di migliorie economiche e di  sviluppo che avrebbero dovuto, sulla carta, coinvolgere anche gli insoddisfatti e i proletari protagonisti dei riot precedenti. Naturalmente il primo atto di tale “rinnovamento” sarebbe stato costituito dall’allontanamento forzato dei residenti neri, poveri bianchi e studenti dall’area centrale che si trovava  tra il fiume (lungo il quale si sarebbe sviluppata la nuova area commerciale) e la Wayne State University.

A fronte  di questo  progetto, che sarebbe stato negli anni successivi alla base della deindustrializzazione e della delocalizzazione delle fabbriche negli stati del Sud, i rappresentanti della comunità nera e dei lavoratori afro-americani si trovarono nella posizione di dovere e potere proporre soluzioni alternative. Politiche, economiche e sociali. E da qui nacque un’esperienza di proposta politica, basata sull’esperienza e le necessità reali del territorio e dei suoi abitanti, che avrebbe marcato la differenza tra i gruppi radicali di Detroit e quelli della maggioranza delle altre città americane. Da San Francisco a Chicago fino a quelle della Costa Orientale.

Nei primi sei anni di attuazione del progetto la qualità media della vita in città scese a nuovi minimi e naturalmente quelli ad essere più duramente colpiti furono i lavoratori dell’industria che costituivano più del 35% della popolazione urbana complessiva. I quali si resero ben presto conto che la Nuova Detroit significava, per loro, lavorare più a lungo e più velocemente, pagare più tasse ed ottenere, in cambio,  meno servizi sociali e salari fortemente ridotti dall’inflazione conseguente alla speculazione. Mentre la delocalizzazione industriale, le nuove esigenze  manageriali e il declino dell’industria automobilistica facevano sì che  il mantenimento o la ricerca di un posto di lavoro si facesse sempre più difficile.

Così, a fronte dei cambiamenti indotti dall’azione del New Detroit Committee, i rivoluzionari, raccolti in nuove formazioni politiche e sindacali come il DRUM (Dodge  Revolutionary Union Movement), l’ELRUM (Eldon Avenue Revolutionary Union Movement), il Wildcat Group o la League of Revolutionary Black Workers si trovarono a dover confrontarsi non soltanto con la classe dirigente delle fabbriche, ma anche con le direzioni sindacali del vecchio sindacato dei lavoratori dell’auto (UAW, United Auto Workers) e con gli stessi operai bianchi, spesso di origine italiana  o polacca, che costituivano ancora l’aristocrazia operaia di quel settore di industria. Mentre i lavoratori  neri continuavano ad occupare i posti di lavoro più ardui, pericolosi ed insalubri.

L’altro fronte continuava ad essere rappresentato dal dipartimento di polizia cittadino che aveva resistito a qualsiasi ristrutturazione. Così la violenza organizzata dello stato e la violenza non organizzata che aveva preso vita nelle strade con la rivolta di luglio divennero via via sempre più “istituzionali”, trasformando Motor City in quella che fu poi chiamata Murder City. Mentre il numero  deglii omicidi e  delle armi in circolazione andava crescendo esponenzialmente.

Così il ristretto gruppo di militanti rivoluzionari che si era raccolto inizialmente intorno al mensile Inner City Voice, vide allargarsi le proprie schiere insieme ai propri compiti, finendo col dar vita a una serie di azioni, fuori e dentro le fabbriche, che avrebbero favorito l’insorgere di altre formazioni e richieste radicali dentro la città e i suoi dintorni; non solo tra i neri afro-americani, ma anche tra gli americani bianchi poveri provenienti dai monti Appalachi.dodge

Più che in qualsiasi altro luogo negli Stati Uniti, il movimento guidato dai lavoratori neri finì col definire i propri obiettivi in termini di potere reale. Il potere di controllare l’economia e, concretamente, il ciclo della produzione attraverso i suoi tempi e modi. I rivoluzionari di Detroit non si lasciarono rinchiudere in uno scontro con le forze dell’ordine fine a se stesso o in un confronto puramente “scolastico”. Il movimento nel suo insieme cercò di integrare al proprio interno tutte le richieste e le forme di lotta nate negli anni precedenti per dar vita d un vero network  di poteri insorgenti da contrapporre alla rete del potere politico ed economico istituzionale.

In contrapposizione agli interessi politici, economici e finanziari rappresentati dal fasullo Rinascimento di Detroit proposto dal Committee, il movimento nato tra gli operai neri della città diede vita ad una straordinaria sequenza di azioni, apparentemente separate ma, in realtà, fortemente interconnese, nelle fabbriche, nelle strade, presso le Corti di Giustizia, i media, le scuole e durante le riunioni sindacali. Finendo col conquistare anche una parte significativa del proletariato industriale bianco e con l’interagire positivamente con tutte le istanze collegate alle necessità della vita quotidiana della classe lavoratrice.

Una vicenda esemplare

Il 15 luglio 1970, James Johnson, un operaio afro-americano, entrò nello stabilimento Chrysler di Eldon Avenue, in cui lavorava, con un fucile M-1 infilato nella gamba della sua tuta da lavoro. La fabbrica era stato luogo di numerosi scioperi a gatto selvaggio durante l’anno, mentre, nello stesso impianto, un operaio ed un’operaia erano morti in incidenti sul lavoro nelle due settimane precedenti. Il rumore assordante,le chiazze d’olio e le macchine difettose che caratterizzavano l’impianto circondavano Johnson quando si imbattè in uno dei capisquadra coinvolti nella sua sospensione dal lavoro, avvenuta il giorno precedente. James estrasse la carabina e prima che avesse finito di sparare un caposquadra bianco, un altro nero e un addetto alla manutenzione degli impianti giacevano uccisi sul pavimento della fabbrica.

Pochi lavoratori di Eldon conoscevano Johnson. Non era identificabile come militante dell’ELRUM o del Wildcat Group. Non partecipava mai alle riunioni ed assemblee sindacali, era soltanto uno delle migliaia di lavoratori che parlavano poco e ridevano meno. Non andava a bere nei bar vicini alla fabbrica, era un lettore della Bibbia e l’unica sua fonte di orgoglio era costituita dalla casetta che egli stava costruendo per sé e per sua sorella.

Pochi giorni dopo il fatto, Kenneth Cockrel assunse la difesa di James Johnson. Cockrel era uno dei sette membri del Comitato Esecutivo della Lega dei lavoratori neri rivoluzionari, mentre tra i lavoratori dello stabilimento andava crescendo la simpatia nei suoi confronti dopo che si era saputo  che la sua sospensione dal lavoro era  dovuta al suo rifiuto di accettare una accelerazione dei tempi di lavoro. Oltre che per una storia, di ritardi nel pagamento del salario e di perdita di ferie già acquisite, in cui lo stesso lavoratore era stato ingiustamente trattato dalla direzione.

Pochi giorni dopo i fatti, l’ELRUM distribuì un volantino il cui titolo recitava: “Onore a  James Johnson” in cui,  dopo una sintetica biografia dell’operaio nero, si contestavano le tremende condizioni di lavoro interne allo stabilimento di Elmond, il razzismo che ne contraddistingueva i rapporti di classe e le difficoltà, che talvolta rasentavano la passività, con cui l’UAW finiva quasi con l’avvallare tutto questo. Simili volantini apparvero anche in fabbriche molto lontane da Detroit, come la General Motors di Fremont (California) e la Ford di Mahwah (New Jersey).

Per lo svolgimento del processo, Cockrel ottenne che la giuria fosse adeguata al caso, razzialmente e sessualmente integrata, e non esclusivamente formata da bianchi. Così dieci dei dodici giurati avevano esperienza diretta di lavoro nella città di Detroit, due erano operai del settore automobilistico e tre donne erano sposate con operai dello stesso settore.

La difesa, dopo aver ricordato la travagliata esperienza di vita di Johnson (che già a 5 anni aveva assistito allo smembramento del corpo di un cugino a seguito di un linciaggio), segnata dall’ignoranza, dalla povertà e dall’emarginazione legata alla sua condizione “razziale”, passò a descrivere le condizioni di lavoro di Eldon, ritenuto con buona ragione uno dei più pericolosi impianti industriali degli Stati Uniti, e l’incapacità, o impossibilità, dell’UAW a difendere le condizioni dei lavoratori nello stesso impianto.

All’apice di questa linea difensiva Cockrel ottenne che l’intera giuria si trasferisse presso l’impianto per poter giudicare con i propri occhi ciò che era stato affermato nell’aula del tribunale. Dopo di che la giuria assolse Johnson in quanto non responsabile dei propri atti. Dal giorno successivo e nelle settimane seguenti molti operai di Elmond si presentarono al lavoro portando in bella vista nella tasca posteriore della tuta un giornale che rilanciava a caratteri cubitali l’assoluzione di James. Ancora nel novembre del 1973 Johnson, rappresentato da un legale che faceva parte della Motor City Labour League, ottenne dalla Chrysler un risarcimento dei danni causatigli dalla stessa industria per un totale di 75 dollari per ogni settimana, a partire dalla data della sparatoria in fabbrica.

Detroit, Torino, Zombielandzombieland 

Oggi, nonostante il buco 20 miliardi dollari che ha portato la città sull’orlo della bancarotta , qualcuno parla ancora di Rinascimento di Detroit e di rilancio della sua industria dell’auto. Soprattutto la più che asservita informazione italiana  che tesse ancora le lodi di Sergio Marchionne e delle scelte FIAT. Così viene sottolineato come il dimezzamento degli stipendi degli operai della Chrysler abbia permesso a questa industria di rilanciare la produzione di veicoli di lusso come la Jeep Grand Cherokee. Lo stabilimento della Chrysler è rimasto l’unico in città, le altre industrie si sono trasferite fuori o altrove, e occupa 4663 dipendenti dei 20mila che ancora trovano impiego negli stabilimenti automobilistici cittadini, a fronte dei duecentomila che un tempo erano occupati negli stessi.

Un’area urbana grande come quelle di San Francisco, Boston e l’isola di Manhattan messe insieme è abitata da 700mila persone di cui l’ottanta per cento è costituito da afro-americani, mentre almeno ottantamila edifici risultano essere completamente vuoti ed inutilizzati. Questo è il risultato non della crisi e della globalizzazione oppure del Welfare State, ma delle scelte che il capitale ha operato, e continua ad operare, là dove la classe ha acquisito livelli di coscienza e di auto-organizzazione tali da metterne in gioco la catena di comando e la sua stessa esistenza.

E’ la dimostrazione pratica di come il capitale sia “condannato” a rivolgersi alla speculazione finanziaria e alla rendita fondiaria nel tentativo di continuare a mantenere elevati tassi di profitto quando la lotta operaia ne riduce i margini e di come tale scelta sia destinata ad aggravare non solo le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche quelle dell’accumulazione capitalistica che in questo modo si priva della massa di lavoro vivo e di plusvalore necessari alla sua esistenza e riproduzione.

E’ la storia di Torino dagli anni ottanta ad oggi; è la storia della fuga del capitale FIAT e della famiglia Agnelli dall’investimento produttivo e dallo scontro con una classe organizzata per chiudersi nell’investimento speculativo in acque minerali ed alloggi di lusso a Parigi. E’ la storia dell’asservimento dei sindacati ufficiali alle esigenze dei padroni e della produzione e dell’avvallo dato da Luciano Lama e Enrico Berlinguer ai licenziamenti e alla cassa integrazione degli anni ottanta. E’ la storia  di chi, come Sergio Chiamparino, passa dal ruolo di Sindaco della città a quello di Presidente della fondazione della banca con cui ha contribuito ad indebitare irrimediabilmente la città (San Paolo) e che ha fatto sì che Torino diventasse la seconda città più indebitata d’Italia dopo Roma.

E’ la storia, dunque, degli stabilimenti FIAT torinesi dove sono rimasti al lavoro più o meno ottomila dipendenti a fronte dei 120-150 mila che li caratterizzavano negli anni settanta (senza contare le decine di migliaia di operai che lavoravano nelle medie, piccole e piccolissime fabbriche dell’indotto dell’auto, ormai quasi del tutto scomparse, nell’area torinese). Dei milioni di metri quadri che si libereranno per la speculazione edilizia una volta chiusa Mirafiori, così come in altre forme accadde con la chiusura degli stabilimenti del Lingotto (lautamente pagati, alla FIAT, dal comune di Torino, per farne centri commerciali, spazi espositivi e centri congressi). E’ la storia futura di Milano e del suo già fallimentare e truffaldino Expo…ma è anche la storia della lotta di classe, destinata sempre a risorgere e a coinvolgere lavoratori, donne, studenti, giovani disoccupati ed artisti squattrinati nel tentativo di dar vita ad un mondo migliore, totalmente diverso dalla Zombieland che il capitale è soltanto capace di realizzare.stooges

Ed è per questo che, metaforicamente, possiamo tranquillamente continuare a scandire: Detroit è morta, viva Detroit!

 * Dan Georgakas, Marvin Surkin, op. cit. pp.15 – 16

(Seconda ed ultima parte – fine)

Postilla

L’Autore, nel dichiarare tutto il suo debito di riconoscenza nei confronti di Dan Geogakas e Marvin Surkin e del loro testo Detroit, I Do Mind Dying. A Study in Urban Revolutio, citato in nota, auspica che, a 38 anni dalla sua prima edizione e a 15 dalla ristampa, il libro trovi finalmente un editore italiano disposto a pubblicarne la traduzione considerata la sua importanza per la comprensione della storia, dello sviluppo e delle dinamiche delle  lotte operaie e urbane, non soltanto statunitensi.

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Ilva connection https://www.carmillaonline.com/2013/07/10/ilva-connection/ Tue, 09 Jul 2013 22:01:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7345 di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua [...]]]> di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua ombra sinistra in una campagna dove il pascolo è stato vietato. Sono a rischio incenerimento anche le prelibate cozze del Mar Piccolo, di cui il miticoltore Egidio D’Ippolito canta le meraviglie. Delle cozze pelose, quelle rarità del mare che nobilitano la tavola e intorbidano la moralità di taluni politici pugliesi, neanche a parlarne perché crescono in colonie, nei fondali del Mar Piccolo, dove per decenni si sono depositati i metalli pesanti, residui malsani di tutte le stagioni dell’industrializzazione tarantina, dall’Arsenale all’acciaio.

Camminando insieme a Vincenzo e attraversando in barca il Mar Piccolo con Egidio mi sono tornate alla mente alcune frasi di Karl Marx: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che è esso stesso soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro umana». A snaturare l’ambiente è il capitalismo che tutto piega e subordina al profitto. Il lavoro, trasformato in variabile dipendente dell’intero ciclo di accumulazione capitalistica, è la logica conseguenza del passaggio dal valore d’uso al valore di scambio che è la merce, sia essa materiale o immateriale. Immateriale può essere la merce, mai il lavoro.
Inizio questo libro con un riferimento alla Critica al programma di Gotha perché penso che non vi sia molto da inventare per districarsi tra le contraddizioni dell’oggi che si incarnano nel conflitto costruito tra due diritti inalienabili: al lavoro e alla salute, quest’ultima a sua volta condizionata dall’ambiente.
Gli stessi concetti, espressi dal grande vecchio di Treviri, ricorrono in alcuni passaggi dell’ordinanza del gip di Taranto con cui si conferma il carcere per il patriarca della siderurgia italiana, Emilio Riva, per i suoi rampolli e i suoi cavalier serventi. Il lavoro senza la sicurezza e la salubrità non è un diritto ma una maledizione. Questa incontestabile considerazione non è prodotta dall’ideologia, bensì dalla lettura di svariati articoli della Costituzione (1, 4, e dal 35 al 40); le responsabilità della distruzione ambientale di Taranto, e il conseguente disastro sanitario che colpisce operai e cittadini, non possono essere equamente spartite tra chi impone un ricatto e chi talvolta è costretto a subirlo perché è debole, e viene afferrato alla gola da chi usa tutto il suo potere per cancellare il riscatto insito nell’antica cultura del lavoro.

Se è vero che chi fa impresa ha il diritto di garantirsi degli utili, è altrettanto vero che i profitti non possono essere accumulati a danno di chi lavora e della collettività – e che danno: si sta parlando di ogni tipo di tumori, malattie respiratorie e cardiache. A suggerire queste riflessioni contenute nell’ordinanza è, ancora una volta, la nostra Carta costituzionale che si basa su un principio: padrone e operaio non partono dallo stesso livello e non hanno le stesse opportunità, è dunque giusto tutelare maggiormente chi è più svantaggiato. E per rendere ancor più esplicito il concetto, vent’anni dopo la Carta fondamentale ha visto la luce lo Statuto dei lavoratori.
Eppure, quel che appare è ciò che si vuole far apparire, riproponendo per l’ennesima volta la teoria dei due interessi contrapposti: da un lato quello dei lavoratori dell’Ilva che difendono il loro lavoro a ogni costo, anche se il prezzo da pagare è un tumore al polmone e l’inquinamento del territorio, e dall’altra quello dei cittadini che mettono al primo posto la salute, in nome della quale pretendono la chiusura del più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Strana idea della cittadinanza questa, che esclude gli operai, trattati da untori. Persino una parte dell’ambientalismo più sensibile alla condizione operaia pretende da loro l’obiezione di coscienza, cioè il rifiuto di lavorare se il prodotto della propria attività provoca un danno sanitario a sé e alla collettività. Così, nella latitanza o peggio con la complicità di tanta politica e tante istituzioni pubbliche e private, laiche e religiose, di tanta stampa asservita e di tanto sindacato cooptato, si perde di vista il nemico principale, il padrone, che grazie a tanta subalternità è riuscito a scatenare la guerra tra poveri, tra le vittime della sua avidità, trasformando il conflitto verticale classico (capitale-lavoro) in un conflitto orizzontale.
Questa contraddizione, che possiamo definire antica, tra diritti inalienabili agita dai soggetti a cui viene negato ora il lavoro ora la salute, ora entrambe, è ben analizzata attraverso una lettura di classe dalla rivista di storia della conflittualità sociale “Zapruder. Storie in movimento”. «Negli anni Settanta, durante la recessione, nelle città statunitensi dell’acciaio circolava uno slogan molto incisivo: ‘Niente lavoro niente cibo – mangia un ambientalista’. […] Non molto diverso era il messaggio di un adesivo, uno di quelli che tanti statunitensi applicano alle loro automobili, tanto popolare in una cittadina dello Stato di Washington completamente dipendente dall’industria del legname e quindi coinvolta nella battaglia ecologista per la difesa del gufo maculato (spotted owl) e del suo habitat: ‘Sei ambientalista o lavori per vivere?’. Ma ‘la separazione tra le due sfere, quella sociale e quella ambientale, è fittizia e politicamente oppressiva, perché l’ingiustizia sociale riflette e (ri)produce l’ingiustizia ambientale in un metabolismo poroso tra corpi, lavoro e potere’. Insomma, quando una fabbrica inquina, i suoi veleni ammazzano anzitutto chi lavora dentro quella fabbrica; poi devastano il territorio dove è collocata, difficilmente un quartiere delle éliteurbane, e fanno ammalare chi ci vive; ed infine i suoi scarti troveranno la via che li condurrà in qualche discarica del sud del mondo o magari di quei tanti sud interstiziali dove vivono i poveri del nord. È l’ingiustizia ambientale che distribuisce i costi della crescita tra i poveri e i marginali, permettendo, invece, ai ricchi di massimizzare i loro profitti» (Un’altra primavera. Le lotte popolari per la giustizia ambientale, di Marco Armiero, Stefania Barca e Andrea Tappi, “Zapruder”, gennaio-aprile 2013).

Alla manifestazione a sostegno dei magistrati, che domenica 7 aprile 2013 ha solcato il centro di Taranto, c’erano medici, infermieri, farmacisti, cittadini, ambientalisti e, in fondo al corteo, il penultimo striscione era tenuto dalla moglie e dalle figlie di Ciro Moccia, l’ultima vittima dell’Ilva. L’operaio si era schiantato al suolo dopo un volo di dieci metri precipitando da una passerella mal posizionata mentre lavorava sull’impianto tarantino. Quello striscione non avrebbe dovuto aprire il corteo, davanti ai camici bianchi? Invece in testa non c’era, e dietro, a sfilare, non c’erano gli operai, i compagni di Ciro. Fino a quando quello striscione resterà in fondo al corteo e finché sarà seguito soltanto dai parenti di un operaio ammazzato, il padrone avrà vinto la sua battaglia.
Il conflitto tra i diritti fondamentali al lavoro e alla salute ha una storia lunga che inizia ben prima dell’Ilva di Taranto. Viene da lontano, dagli impianti chimici di Porto Marghera, dall’Acna di Cengio, da altri impianti inquinanti in Liguria, in Puglia, in Toscana, in Campania. Viene da Casale Monferrato, dove decenni dopo la chiusura dell’Eternit si continua a morire di mesotelioma. Ma all’Ilva questo conflitto ha una specificità che si chiama Emilio Riva, il “rottamaio” di cui questo libro racconta l’epopea: con pochi danari si è portato a casa la siderurgia italiana svenduta dallo Stato che, invece di tutelare un bene della collettività, ha scelto di liberarsene incassando per questa tipica privatizzazione all’italiana la metà dei soldi spesi per ammodernare lo stabilimento tarantino.
L’impero e le ricchezze di Riva si sono realizzate attraverso un sistema basato su ricatti e corruzione, cooptazioni e repressioni, sfruttamento e scambio politico. È impressionante come la storia del conflitto iniziato nello stabilimento di Genova si sia reincarnato tale e quale, quindici anni più tardi, nella fabbrica di Taranto. Due insediamenti produttivi costruiti a ridosso di popolosi quartieri, potremmo dire dentro questi quartieri, Cornigliano a nord e Tamburi a sud. La fabbrica sputa veleni, la popolazione protesta, la politica e le istituzioni “osservano”, si girano dall’altra parte, ma se si permettono di avanzare qualche proposta di risanamento e di ridimensionamento produttivo, pressate dalla rabbia delle vittime dell’inquinamento, Riva le corrompe e arma i suoi operai per lanciarli in una guerra insensata. A Taranto si ripete, più in grande, la storia di Genova che si concluderà con la chiusura della produzione a caldo, trasferita otto anni fa a Taranto per aumentarne la produzione d’acciaio fino a 10,5 milioni di tonnellate annue. Quando nella città dei due mari si materializza la percezione del disastro ambientale e sanitario provocato da diossina, Pcb, polveri sottili e metalli pesanti, comincia a svilupparsi una sensibilità ambientalista. Riva, grazie a un utilizzo senza precedenti della legge sull’amianto, svuota la fabbrica mandando a casa 12.000 lavoratori cinquantenni “usurati”, per sostituirli con altrettanti giovani meno costosi, rimasti a lungo precari, e corre ai ripari con i suoi metodi: disarma e coopta i sindacati, strumentalizza le preoccupazioni operaie, carezza la politica “glocalmente” – a Roma, a Bari, a Taranto – e la Curia arcivescovile, si compra i periti.

ilva_notteA Taranto, però, c’è una magistratura che vigila e fa il suo dovere, perseguendo i reati. Il 26 luglio del 2012 scattano gli arresti che decapitano i vertici del gruppo siderurgico, Emilio Riva, il figlio Nicola (successivamente lo stesso provvedimento toccherà anche all’altro figlio, Fabio, volato nel frattempo sulle rive del Tamigi) e tutti i massimi dirigenti. L’acciaieria viene sequestrata. Ed è soprattutto contro i giudici che si scatena l’azione di Riva, coadiuvato dal sostegno proveniente da troppe sponde: i governi alzano la soglia di inquinanti accettabili; i politici latitano quando non si fanno ammaliare dalle sirene del padrone delle ferriere, non più un nemico, bensì un modello da estendere a tutta la regione, come si evince dalle conversazioni registrate che coinvolgono – politicamente e non giudiziariamente – anche il governatore pugliese Nichi Vendola; un parlamentare del Pd, Ludovico Vico, promette di far uscire il sangue a un altro senatore del Partito democratico, Roberto Della Seta, troppo attento alla salute dei tarantini. E in tanti, a partire dal presidente della Provincia, tentano di dare il benservito al direttore generale dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato che, con le sue perizie, sta mettendo a rischio il sistema di potere e i relativi privilegi, destinati a una casta allargata di cui fanno parte anche diversi settori dell’informazione. La compromissione, invece, non è solo politica ma anche giudiziaria nel caso del presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, dirigente del Partito democratico ed ex segretario della Cisl, al centro di quattro nuove ordinanze di custodia cautelare eseguite – poco prima che questo libro venisse dato alle stampe – dalla Finanza a Taranto, sempre in relazione all’inchiesta “Ambiente svenduto”. Il reato contestato dal gip Patrizia Todisco è di concussione e si riferisce alla discarica Mater Gratiae all’interno dell’Ilva, destinata ai rifiuti speciali. Florido si sarebbe fatto in quattro per convincere chi avrebbe dovuto controllare il rispetto delle norme a chiudere un occhio, meglio tutti e due, per non intralciare il cammino dei Riva.
Ha amici negli ambienti più impensabili Emilio Riva, è “generoso” con la politica e nel 2006 arriva a finanziare con 98.000 euro la campagna elettorale di Pierluigi Bersani. Si tratta di un finanziamento lecito ma imbarazzante per il dirigente democratico, così come quello di 110.000 euro proveniente dalla Federacciai, di cui fanno parte le imprese del settore, Riva e Marcegaglia compresi. Quattro anni più tardi, la lettera di Riva a Bersani perché venisse domato il solito irriducibile senatore Della Seta non avrebbe sortito effetti: lo sostiene lo stesso senatore del Partito democratico che nega qualsivoglia pressione di Pierluigi Bersani. È “generoso” anche con gli operai che pretende di usare come massa di manovra, pagando pullman, panini e giornate non lavorate. Quegli stessi operai spinti a manifestare contro i giudici, con la copertura dei sindacati, ma con l’eccezione della Fiom che, dopo aver fatto pulizia al suo interno, senza risparmio di espulsioni, si rifiuta di manifestare a comando, su ordine del padrone. Il sindacato guidato da Maurizio Landini non ci sta a fermare le linee se a promuovere la protesta è proprio chi invece va combattuto, nemico della popolazione e nemico delle sue maestranze, responsabile del disastro ambientale e culturale di un’intera comunità.
Dall’altra parte c’è chi protesta a difesa dell’azione della magistratura e vuole portare lo scontro fino allo stadio finale, chiedendo la chiusura dell’Ilva anche con un referendum consultivo che il sindaco Stefàno ha tentato di evitare finché il Tar non gli ha imposto di indirlo. È durata sei anni l’attesa di un referendum che per molti protagonisti della vita tarantina rappresentava la strada sbagliata per affrontare un problema troppo serio. Come diceva alla vigilia delle urne un vecchio operaio dell’Ilva, andato in pensione grazie all’applicazione della legge sull’amianto, «se per un miracolo improbabile si raggiunge il quorum e vince chi vuole chiudere la fabbrica, perdono gli operai; se vince il no alla chiusura o, ipotesi più probabile, non si raggiunge il quorum, vince Riva. Bel risultato, davvero». È inutile provare a spiegare a chi si batte per la chiusura totale e definitiva dell’Ilva che l’impianto produce il 75-80% del Pil di Taranto ed è il garante dell’autonomia italiana rispetto all’acciaio; che 11.600 posti di lavoro diretti, più altrettanti nell’indotto, non si inventano dall’oggi al domani in una realtà che la cecità della politica ha voluto monoculturale; che l’acciaio si può produrre in un altro modo e dunque bisogna investire sulla trasformazione della fabbrica e del suo ciclo produttivo mentre si avvia il risanamento del territorio, del terreno, del mare, dell’aria, delle falde acquifere. Il referendum si è tenuto domenica 14 aprile 2013; come era facilmente prevedibile, anche per l’intervento massiccio dei poteri forti e istituzionali, il silenzio di una parte dell’ambientalismo e l’ostilità della maggioranza dei sindacati, il quorum non è stato raggiunto e solo il 19,5% degli elettori tarantini si è recato alle urne. Meno di un quinto degli aventi diritto, meno di un decimo nel martoriato quartiere Tamburi, e figuriamoci se a Tamburi il problema Ilva non è sentito. Il fatto è che “chiedere ai cittadini di chiudere o tenere aperta una fabbrica non si può fare con un referendum, per di più consultivo. Non è come decidere il nome di una strada”, diceva ancora il nostro amico operaio.

Sembra impossibile trovare una soluzione radicale, ma condivisa e praticabile. Infatti, chi non vede alternative alla chiusura dell’Ilva e delega questo compito alla magistratura, controbatte a ogni proposta di ristrutturazione dicendo che 20.000 posti di lavoro si possono realizzare con una grande opera di bonifica ambientale, mentre i soldi si possono trovare rinunciando alle grandi opere inutili come la Tav e tagliando le spese militari. Ma queste due voci sempre invocate, possono bastare a coprire le spese di un nuovo modello di sviluppo? Comunque, soldi a parte, l’anima più estrema dell’ambientalismo pensa e sostiene che, alla fin fine, gli operai dell’Ilva devono decidersi a “smettere”, si cerchino un altro lavoro. Come se a Taranto questo, oggi, fosse possibile. A chi sostiene che la chiusura dello stabilimento tarantino non aprirebbe necessariamente la strada alla bonifica – anzi potrebbe capitare come a Bagnoli, dove la bonifica non è mai stata fatta e chi ne era incaricato si è intascato i soldi disperdendo e mettendo sotto il tappeto amianto e altre schifezze – rispondono che è compito della politica mantenere gli impegni, vigilare e via dicendo. A chi spiega come, proprio a Bagnoli, la chiusura dell’Italsider abbia aperto le porte alla camorra, che finalmente è riuscita a conquistare una delle poche trincee napoletane contro la criminalità organizzata, si risponde che se arriva la criminalità la colpa è della politica. Questi ragionamenti aiutano a capire i motivi del boom di Beppe Grillo a Taranto, tanto tra chi manifesta contro i magistrati quanto tra chi sfila in corteo a favore della gip Patrizia Todisco.
Contro o a favore dei magistrati, sembrerebbe trattarsi di due posizioni opposte. Sono invece figlie dello stesso problema che si chiama assenza della politica. Per decenni la città di Taranto ha rimosso la questione Ilva, eppure c’era chi sapeva e sarebbe dovuto intervenire subito: prima che la situazione sanitaria esplodesse; prima che il conflitto tra città e fabbrica diventasse insanabile; prima che nell’immaginario collettivo l’acciaio – non Riva, come sarebbe logico, non quel modo di produrre, ma l’acciaio tout-court – diventasse incompatibile con una città di quasi 200.000 abitanti. Oggi il clima è talmente deteriorato che chiunque cerchi una soluzione condivisa e praticabile è costretto a tacere e ad abbassare gli occhi quando la madre di un bambino di Tamburi, morto di tumore, urla che quel mostro di ferro dev’essere spazzato via, per sempre.

inva_bimboQuesto libro, raccontando Taranto, cerca di mettere a fuoco un sistema di potere e di gestione dell’economia non meno aggressivo, violento e antisociale di quello, più noto, incarnato da Sergio Marchionne. In comune Riva e Marchionne hanno l’arroganza e il disprezzo nei confronti dei sindacati di cui vorrebbero fare a meno, e se non ci riescono se li comprano, o comunque li pretendono succubi e obbedienti. Sia Riva che Marchionne hanno dalla loro il crollo dell’attenzione democratica in tempi di crisi economica: o il lavoro o i diritti, dice l’amministratore delegato della Fiat; o il lavoro o la salute, gli fa eco il padrone dell’Ilva. Ma il lavoro, senza diritti e senza salute, regredisce a schiavitù. Marchionne ha usato una metafora bellica per spiegare la fine di un’era, del Novecento e del conflitto sociale: un’azienda è come una nave da guerra che combatte per conquistare mari, isole e coste. È fondamentale che tutti, all’interno dell’imbarcazione, marcino compatti, dall’armatore al comandante ai rematori. Siamo o non siamo tutti sulla stessa barca? Il nemico è rappresentato dalla nave nemica che vuole conquistare gli stessi mari, isole e coste. I nemici dei nostri rematori, dunque, non sono più armatore, comandante e ufficiali che dettano il tempo tra due colpi di remo con la frusta in mano, i nemici sono i rematori della barca concorrente. Ecco declinata la guerra tra i poveri, se si sostituiscono gli operai ai rematori la metafora diventa chiarissima. Non è forse la stessa strategia con cui, da sempre, Riva conduce le sue battaglie, trattando gli operai come carne da cannone?
La crisi di Taranto vive dentro la crisi italiana che, a sua volta, è parte di una crisi globale. È una crisi di modello economico che, con le risposte oggi prevalenti imposte dagli stessi che la crisi hanno scatenato, si trasforma in crisi sociale e crisi democratica. Taranto non è più in grado di digerire le conseguenze di scelte sconsiderate, non può più sopportare questo modo di produrre acciaio, imposto da quella che per la procura tarantina altro non è che un’associazione per delinquere. Ma Taranto non può vivere, oggi, subito, senza acciaio, quando ogni alternativa economica è stata cancellata (la cantieristica, lo sviluppo del porto, l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, il turismo) o mai costruita. Se il lavoro senza salute non è un diritto, è altrettanto vero che senza lavoro e senza mezzi di sussistenza non c’è dignità né c’è salute. E oggi, lo stato di salute dell’Italia è pessimo, al punto che ogni riferimento al primo dopoguerra sarebbe ingannevole, perché nel primo dopoguerra c’era la speranza e con la speranza la fantasia, la voglia di sperimentare e ricostruire. In fin dei conti, nel primo dopoguerra c’era la politica. Oggi che il lavoro è svalorizzato e ignorato, è impensabile ricostruire il futuro, praticare nuove relazioni sociali, in fabbrica e nel territorio, e sperimentare un nuovo modo di produzione restando dentro lo stesso modello di sviluppo, incompatibile con la natura e dunque con la vita. Vuol dire allora che è finita l’età dell’acciaio – metallo prezioso che dava il nome a Stalin e muoveva automobili, carriarmati e frigoriferi, intelligenze e lavoro di milioni di persone a est e a ovest, a nord e a sud del mondo? Non è così. I metalli, più o meno preziosi, non servono soltanto a costruire la merce del passato, energivora e inquinante; anche gli oggetti-simbolo di un nuovo modello di sviluppo, come i pannelli solari, hanno molto a che fare con la trasformazione industriale dei metalli. Inoltre, evocare modelli di vita, consumo e sviluppo ecologicamente e socialmente compatibili, non fa fare molta strada se non si individuano le forme necessarie a costruirli, le tappe, le risorse, le alleanze. A chi chiede di cambiare sviluppo e consumi dobbiamo ricordare che insieme alla finalità del lavoro e alla ricerca di un nuovo valore d’uso marxiano, bisogna rimettere mano, contemporaneamente e non domani, anche al modo di produzione.

Guardando alla filiera dell’acciaio siamo tornati nei luoghi in cui l’acciaio italiano è nato centodieci anni fa, a Bagnoli, e poi a Genova, due luoghi simbolici la cui esperienza, purtroppo, ha insegnato ben poco. Per progettare un futuro più pulito e democratico, per chi lavora e per tutti quelli che respirano, sarebbe il caso di fare, paradossalmente ma non troppo, un tuffo nel passato, quando gli operai pretendevano di controllare l’intero ciclo produttivo per uscire dalla schiavitù della parcellizzazione, dell’alienazione e dell’ignoranza delle loro azioni. Quegli operai scoprirono la suggestione del rischio zero e gridarono che la salute non si vende e non si scambia, volevano essere attori delle scelte, decidere cosa, come, dove e perché produrre. Erano i primi anni Settanta, il sindacato era quello dei consigli di fabbrica, dei delegati di gruppo omogeneo eletti democraticamente dai lavoratori e non, come oggi, dal padrone come avviene alla Fiat, o altrove nominati dalle organizzazioni sindacali. Erano loro i tutori della salute, in linea e fuori dalla linea di montaggio, erano loro a dare agli scienziati le informazioni sui rischi, mentre oggi se va bene le ricevono. Se la salute è peggiorata per tutti, non solo a Taranto, è anche perché, insieme alla rappresentanza politica, è saltata anche la rappresentanza sociale, e con essa l’autonomia sindacale e di classe.
Liberarsi dal modello Riva e, materialmente, dalla proprietà di Riva a Taranto e in Italia, è il solo modo per avviare una discussione seria sulla siderurgia e sul destino di stabilimenti mastodontici, come quello pugliese, appunto. Per liberarsi da questo modello bisogna che il sindacato riconquisti la sua autonomia come ha iniziato a fare la Fiom. Per liberare l’Ilva è necessaria un’assunzione di responsabilità politica. Sequestrare gli impianti e i capitali di Riva per sanare quel che Riva ha inquinato (ambiente e coscienze) è davvero una provocazione? Si direbbe di sì, visto che l’unico sequestro effettuato da parte della magistratura, che aveva sigillato prodotti finiti e semilavorati per più di un miliardo, è stato annullato da una legge dello Stato chiamata “salva Ilva”, con la successiva benedizione della Corte costituzionale. Una mossa, quella coraggiosamente effettuata dai magistrati tarantini, che forse avrebbe dovuto essere accompagnata dalla confisca dei beni del vero untore, per impedire che i capitali accumulati prendessero il volo verso altri lidi, tra il Lussemburgo e lontani paradisi fiscali nelle Antille olandesi. Il solito gioco della scatole cinesi ha portato a un ridisegno della struttura finanziaria del gruppo Riva, al fine di isolare l’Ilva, che pesa per i due terzi sugli affari di famiglia. La proprietà si dichiara disponibile a investire 400 milioni di euro per intervenire sull’impianto per la riduzione delle emissioni, un decimo del danaro necessario che ammonta a 4 miliardi. Ma lo scorporo dell’Ilva dalle casseforti lussemburghesi – con le dépendance caraibiche di Curaçao – potrebbe salvare i beni di famiglia.
Ma finalmente anche i trucchi finanziari della famiglia Riva per trasferire il plus valore dell’Ilva in scatole finanziarie protette – operazione iniziata, a dire il vero, già da molti anni, addirittura dal momento stesso del passaggio dell’azienda dallo Stato a Emilio Riva – sono stati scoperti dalla magistratura, in questo caso dai pubblici ministeri di Milano. Nella terza settimana di maggio del 2013 è stato effettuato un sequestro di un miliardo e 200 milioni di euro, il corrispettivo del danaro che la famiglia di imprendi- tori bresciani ha sfilato dall’Ilva collocandolo in otto trust nell’isola di Jersey nel Canale della Manica “per occultare la titolarità dei beni”. Si tratta di capitali sottratti al fisco, scudati con operazioni irregolari, anche e soprattutto per impedire che quei soldi potessero essere confiscati per sostenere le spese di risanamento industriale e ambientale dell’Ilva. Per fortuna, però, non sono bastati trucchi, prestanome e scatole cinesi per mettere in salvo la famiglia Riva dalle sue gigantesche responsabilità. Dunque, non sono solo i magistrati tarantini a “tramare” contro i Riva, è una “persecuzione” dell’intera magistratura. Ad ascoltare gli avvocati di famiglia, sembra di assistere alla proiezione di un film già visto e in cui cambia solo il nome dell’attore-imprenditore.

Fatta eccezione per Riva e i suoi accoliti, tutte le persone coinvolte in questo reportage sono convinte di una cosa: Riva è ormai incompatibile con Taranto, e forse persino con l’intera siderurgia italiana. Si tratta di capire se una diversa Ilva sia ancora compatibile, e a quali condizioni, con questa città. L’unica strada per tentare di salvare lavoro, economia e salute è quella di liberarsi dal giogo di chi si è reso responsabile del disastro di Taranto, facendogli pagare i costi della bonifica.

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La voce del padrone https://www.carmillaonline.com/2013/06/26/la-voce-del-padrone-prima-parte/ Tue, 25 Jun 2013 23:00:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6797 di Sandro Moiso

His_Master's_Voice

Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.

Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese [...]]]> di Sandro Moiso

His_Master's_Voice

Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.

Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese oppure dalle tavole catastrofiche ed allucinate di Katsuhiro Ōtomo*. Un corpo politico e amministrativo che in tutte le sue componenti, anche le più periferiche, assume un comportamento che definire bipolare  è ancora poco. Un’attitudine comunicativa che si muove tra una falsa sicurezza per la durata del Governo e la sua capacità operativa (sempre più compromessa dalle sentenze degli ultimi giorni) e la disperazione per la situazione del lavoro e dell’economia nazionale e per le sue più che probabili conseguenze sociali.

  Il Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni,  ha affermato che “la crisi attuale è peggiore di quella del ‘29”, ma è difficile dire se tale affermazione volesse giustificare le difficoltà del Governo, legate principalmente alla sua composizione, oppure costituisse la presa d’atto di un dato di fatto ormai scontato per numerosi economisti. Mentre Jacopo Morelli, presidente dei giovani industriali riuniti nel convegno annuale di  Santa Margherita Ligure, ha affermato che: ”Senza prospettive per il futuro, l’unica prospettiva diventa la rivolta. Le istituzioni democratiche vengono contestate e possono arrivare alla dissoluzione, quando non riescono a dare risposte concrete ai bisogni economici e sociali”.

 Affermazioni che sono ricorse , magari in forme  e da fonti differenti, più volte nell’ultimo periodo e che, sinceramente, sembrano oggi ripetute fino alla nausea dopo l’ubriacatura di ottimismo montiano ormai seppellito con i professori della Bocconi, nonostante il ritorno, in alcune sporadiche interviste televisive, del Prof. per eccellenza. Eppure, eppure… queste parole, che sembrano voler prendere atto della gravità della crisi in atto e delle sue possibili conseguenze sociali, non nascondono altro che una seconda fase dell’offensiva contro i giovani e i lavoratori che il governo attuale, senza dubbio debole ma sicuramente autoritario, intende mettere in atto.

 Se nella Fase 1 (definizione utile ad individuare, per comodità, l’azione del governo Monti dall’autunno del 2011 ai primi mesi del 2013) si è operato a beneficio delle banche e della finanza, attaccando direttamente i risparmi e le garanzie sociali degli italiani (pensioni, sanità, etc.), con la Fase 2 (quella apertasi con il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta, voluto e benedetto da Papa Giorgio) si è passati direttamente ad operare a beneficio delle imprese (piccole, medie e grandi), attaccando direttamente i costi del lavoro e le leggi che ne regolamentano le condizioni.

 Mentre nella Fase 1 gran parte dell’attenzione si era concentrata, per quanto riguardava il lavoro, intorno alla difesa o meno dell’articolo 18 (già riguardante un numero tutto sommato esiguo di lavoratori), oggi l’azione del governo è diretta a sradicare qualsiasi ostacolo alla libertà dell’impresa di assumere e licenziare chi e quando vuole, prolungando all’infinito la possibilità di promulgare i contratti a termine e abbattendo sia i costi diretti del lavoro (salario) che quelli indiretti ( oneri sociali, sicurezza). Così la tanto sbandierata azione a favore dei giovani e del lavoro, collegata al cosiddetto Decreto del Fare, non è altro che un’azione tutta rivolta a lasciare mano libera alle imprese, in tutti i sensi.

 D’altra parte cosa possono nascondere le parole di Sergio Marchionne quando afferma che “l’Italia nell’economia globale non è più interessante come mercato di consumo” oppure “chiediamo che ci lasci liberi di lavorare (NB: il governo) senza ostacoli”? Di fatto una esplicita richiesta che il nostro paese diventi un paese di produttori a bassissimo costo (come il cosiddetto terzo mondo di un tempo).

Elencare qui e, conseguentemente, commentare gli ottanta punti contenuti nel Decreto Sviluppo approvato in questi giorni, richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Così si è costretti a restringere l’analisi ad alcuni punti tra quelli tanto sbandierati, la cui efficacia, non ci si può esimere dal ripeterlo, tornerà soltanto a vantaggio delle imprese. Ma , per farlo, è utile tornare ad utilizzare strumenti critici immeritatamente abbandonati alla polvere da troppo tempo, a favore di un nuovo sospetto e poco efficace.

 Certo uno degli argomenti che colpiscono di più l’immaginario è quello delle difficoltà che le imprese incontrano quando devono far ricorso al credito, soprattutto se piccole. Su questa difficoltà, il cosiddetto credit crunch,  si tende a costruire una sorta di unità di intenti e di bisogni tra lavoratori, giovani e impresari tutti alle prese con le stesse difficoltà nei confronti delle banche e del credito. “Siamo tutti sulla stessa barca” può affermare così, falsamente, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Tutti preoccupati dal fatto che il credito invece di favorire mutui per l’acquisto della prima casa o prestiti per investimenti produttivi, soprattutto in una fase di crisi, finisca invece con l’essere diretto verso la speculazione finanziaria.

 Rosa Luxemburg, però, scriveva già nel lontano (?) 1898, in un articolo significativamente intitolato “Riforma sociale o rivoluzione?”: ”Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo aver, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove esso sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.

 Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi modi in relazione col determinarsi delle crisi. Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una una perturbazione per ogni minimo motivo.

 Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente attenuare la crisi è, tutt’al contrario, un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere al massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi” ( Rosa Luxemburg, op.cit. in Scritti Politici Vol.1, pp.170 – 171, Editori Internazionali Riuniti, 2012).

 L’articolo della Luxemburg era rivolto, già allora, a criticare le posizioni riformistiche di Eduard Bernstein, uno dei fondatori del revisionismo in seno alla Socialdemocrazia tedesca e contrario all’abbattimento violento del potere dello Stato e del Capitale; ma è facile vedere come in esso fossero già rinvenibili le tracce di tutto ciò che sarebbe  avvenuto in seguito e, in particolare, nel corso dell’ultima crisi, iniziatasi nel 2008 (mutui sub-prime americani, affaire Enron, speculazioni finanziarie e chiusura attuale dei rubinetti del credito in Europa e, domani, negli USA  per opera della Fed, solo per fare degli esempi).

 Sempre gli stessi giovani di Confindustria, più sopra citati, hanno poi invitato il governo attuale “a dare un progetto  concreto di futuro, a disegnare l’Italia che sarà tra 10 anni […] La capacità di visione per un leader è essenziale. Non un governo che faccia miracoli ma che agisca sulla competitività del Paese “. Le prime mosse dell’esecutivo non sembrano convincere però i giovani imprenditori, poiché più che l’Imu, la priorità dovrebbe essere costituita dal “livello di tassazione su lavoro e imprese“.

 Ecco, prima di tutto le tasse e in particolare quelle sul lavoro. Altro tema coinvolgente, dal punto di vista di Squinzi. Peccato, però, che da una detassazione del lavoro salariato, poco abbiano da guadagnare i lavoratori dipendenti (poche decine di euro in più in busta paga in cambio di una ulteriore sensibile riduzione dei servizi prestati in futuro dallo Stato a causa delle minori entrate) e molto gli imprenditori che vedrebbero, di fatto, abbassato il costo del lavoro. Insomma, milioni di euro di guadagno per le imprese in cambio di pochi spiccioli per i lavoratori.

Non a caso la cosa piace a tanti, dalla Lega alla CISL e, ormai, anche alla CGIL e alla Sinistra istituzionale come abbiamo potuto ben capire dai discorsi fatti in Piazza San Giovanni, il 22 giugno scorso, in occasione della manifestazione nazionale unitaria dei sindacati. Tutti uniti nel  far fronte alla crisi. Tutti schierati con gli imprenditori. Tutti sulla stessa barca. Nessuna richiesta di aumenti salariali, nessuna richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, nessuna richiesta esplicita di una severa patrimoniale progressiva. No, i posti di lavoro verranno creati, se saranno creati, esclusivamente a spese dei lavoratori.

 Tutti insieme appassionatamente a difendere l’economia nazionale e i diritti dell’impresa e del profitto. La società dello spettacolo portata alle sue più estreme e nefaste conseguenze: il lavoro trasformato da attività creatrice tipica della specie ad assunto dell’immarcescibilità del capitale e dei suoi sacri valori. Lavoro, lavoro! A qualsiasi costo per i disoccupati e purché scarsamente retribuito, a vantaggio degli imprenditori. Evviva! Bravi!! Solidali con le leggi del Capitale!!!

 Tanto che il vero pericolo, oggi, è costituito dal non  saper più riconoscere e denunciare l’autentica lue della borghesia italiana, da Giolitti in avanti. Una borghesia vile, profittatrice, capace di espandere i propri profitti soltanto attraverso il basso costo del lavoro e le prebende statali; capace di affondare quelle sue stesse componenti che avrebbero voluto seguire un percorso diverso, magari basato sulla ricerca, l’investimento tecnologico e un diverso rapporto con i lavoratori (Adriano Olivetti, tanto per fare un nome); incapace di liberarsi dal legame politico ed economico che la legano, a doppi e triplo filo, con le mafie locali fin dai tempi dello “statista” cuneese; capace soltanto di barcamenarsi in continui giri di valzer tra un possibile alleato e l’altro (oggi l’Europa, domani gli USA  e viceversa), senza mai potersi permettere un’autonoma politica estera (troppo impegnativa per la classe dirigente, da sempre, più vile del pianeta); capace di spacciare per machiavellismo ciò che è soltanto desiderio di abbuffarsi a spese altrui, senza correre troppi rischi; bigotta e lasciva allo stesso tempo come un programma televisivo domenicale per famiglie; che ha finito col far prevalere un’opposizione (politica e sindacale) costruita a sua immagine e somiglianza: piagnona, falsa, accattona e rapace (sempre a spese dei lavoratori).

 La legittima soddisfazione per la condanna di Silvio Berlusconi, emessa dal Tribunale di Milano,  non deve perciò far dimenticare il marciume ideologico, morale, economico e politico che caratterizza nel suo insieme l’intera classe dirigente italiana fin dalle sue origini, perché altrimenti si finirebbe col rendere credibili le bugie e le millanterie dei nomi nuovi espressi oggi dalla stessa, da Letta a Renzi passando magari attraverso le confuse proposte di Grillo. Mentre un orecchio ben allenato all’ascolto dei suoni prodotti dal vociferare degli stessi e dei fin troppo numerosi cantori  o degli pseudo-critici del regime potrebbe rivelare senza ombra di dubbio che, in fin dei conti, quella che ascoltiamo è sempre la stessa musica, incisa sempre per la stessa etichetta discografica: His Master’s Voice, la Voce del Padrone.

* Autore del fumetto, e in seguito film di animazione, cult Akira (1988).

Postilla metodologica sull’uso delle citazioni.

 L’uso della citazione di autori appartenenti alla migliore tradizione del movimento operaio e antagonista non ha e non deve avere nulla di talmudico o di sacrale. Piuttosto le citazioni, adeguatamente selezionate, devono avere la funzione di esprimere nella migliore e più chiara maniera possibile intuizioni, teorie, ipotesi e soluzioni riguardanti problemi complessi (e Dio solo lo sa se non è complesso tutto ciò che riguarda l’analisi politico-sociale delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico!), senza ricorrere ad inutili giri di parole o fumisterie filosofiche destinate soltanto a confondere le idee di chi legge. Certo, come avrebbe detto Amadeo Bordiga, “non si possono ridurre i macigni in pillole”, ma occorre tener conto che molti degli autori citati (Marx, Lenin, Engels, Luxemburg) scrivevano spesso per un pubblico di operai e di militanti e, proprio  per questo motivo, i loro scritti dovevano essere obbligatoriamente sintetici, chiari ed efficaci. Operai che spesso si erano formati o sulla stampa militante oppure, tra la fine dell’ottocento e il primo ventennio del ‘900, nelle scuole “di partito”. Spesso più efficaci e “colte” delle attuali scuole pubbliche. Un pubblico esigente e niente affatto codino, sempre pronto ad interagire nel dibattito politico e sindacale. Citazioni, quindi, come esempio di chiarezza, sintesi e intuizione rivoluzionaria, il cui contenuto e il cui stile possono risultare estremamente utili ancora oggi.

 (Fine prima partecontinua)

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