secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

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Hard working men / 3: Dark As A Dungeon https://www.carmillaonline.com/2017/06/01/hard-working-men-3-dark-as-dungeon/ Wed, 31 May 2017 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38528 di Sandro Moiso

MinersIt’s dark as a dungeon way down in the mine” (Merle Travis, 1946)

“E’ scuro come in una prigione, là al fondo della miniera” recitano i versi di una delle più belle e strazianti ballate del folk americano. In cui il termine dungeon, oggi spesso conosciuto per via dei giochi di ruolo, non rinvia affatto a labirinti magici o a misteri d’oltretomba ma alle celle segrete, magari proprio quelle sotterranee in cui venivano/vengono ancora tenuti i prigionieri più sfortunati. Quelli, troppo spesso, destinati alla fine più tragica o ad una morte violenta.

A scrivere la canzone e [...]]]> di Sandro Moiso

MinersIt’s dark as a dungeon way down in the mine” (Merle Travis, 1946)

“E’ scuro come in una prigione, là al fondo della miniera” recitano i versi di una delle più belle e strazianti ballate del folk americano. In cui il termine dungeon, oggi spesso conosciuto per via dei giochi di ruolo, non rinvia affatto a labirinti magici o a misteri d’oltretomba ma alle celle segrete, magari proprio quelle sotterranee in cui venivano/vengono ancora tenuti i prigionieri più sfortunati. Quelli, troppo spesso, destinati alla fine più tragica o ad una morte violenta.

A scrivere la canzone e a inciderla per la prima volta, nell’agosto del 1946, fu Merle Travis, figlio e fratello di minatori nelle miniere di carbone del Kentucky. Ripresa più volte da cantanti e gruppi come Johnny Cash (nel suo “Live at Folsom Prison”) o la Nitty Gritty Dirt Band (nell’epico triplo album “Will The Circle Be Unbroken” realizzato con i migliori musicisti di Nashville) oppure ancora da band rock-wave come i Wall of Voodoo (nel disco “Seven Days in Sammystown”), fu utilizzata anche per accompagnare le immagini iniziali del film-inchiesta “Harlan County, USA” di Barbara Kopple. Film che le fece vincere l’Oscar per il miglior documentario nel 1976 oltre a numerosi altri premi.1

harlan C Il documentario narra, in presa diretta, lo sciopero di Brookside, la lotta di 180 minatori del carbone e delle loro mogli contro la Duke Power Company, di proprietà della Eastover Coal Company’s Brookside Mine and Prep Plant, della contea di Harlan ( South-West Kentucky) nel 1973.
Barbara Kopple, che era stata a lungo un avvocato del lavoro, si era trasferita lì fin dal giugno del 1972 per documentare lo sciopero dei minatori supportati dall’UMWA (United Mine Workers of America), il sindacato statunitense dei lavoratori delle miniere di carbone.

Come and listen you fellows, so young and so fine,
And seek not your fortune in the dark, dreary mines.
It will form as a habit and seep in your soul,
‘Till the stream of your blood is as black as the coal.
2

La lotta documentata dal film era portata avanti per migliorare le condizioni di salute, lavoro e salario: tre semplici, chiare ed evidenti richieste di classe. Per fare questo la Kopple con la sua troupe seguì i minatori nelle gallerie della miniera, ai picchetti fatti davanti alla Borsa di New York, mentre i minatori venivano feriti con armi da fuoco dalle guardie padronali durante la lotta e filmando le interviste con coloro che erano stati colpiti dalle malattie polmonari dovute all’aver respirato polvere di carbone per tutta la vita.

barbara kopple 2 La Kopple, nata nello stesso anno in cui Travis aveva scritto e inciso la canzone, nel 1972 aveva già partecipato alla realizzazione del film Winter Soldier, insieme ad altri 19 filmmaker che avevano lavorato in maniera anonima per la realizzazione, sotto la sigla comune Winterfilm Collective, di un documentario contro la guerra in Vietnam destinato a documentare l’evento di tre giorni, denominato Winter Soldier Investigation, organizzato a Detroit, tra il 31 gennaio 1971 e il 2 febbraio 1972, dall’organizzazione dei Veterani del Vietnam contro la guerra (Vietnam Veterans Against the War -VVAW). In quell’occasione 109 veterani avevano denunciato le criminali politiche militari americane nel Sud Est Asiatico, rivelando i crimini cui avevano assistito o che avevano commesso durante la guerra tra il 1963 e il 1970.

It’s dark as a dungeon and damp as the dew,
Where danger is double and pleasures are few,
Where the rain never falls and the sun never shines
It’s dark as a dungeon way down in the mine.
3

Ma le immagini scarne della vita nelle miniere e nei poveri borghi che le circondavano, così come le parole dei minatori e delle loro mogli nelle assemblee pubbliche oppure l’arroganza dei rappresentanti delle forze dell’ordine o delle milizie arruolate, insieme a i crumiri, dalle società minerarie colpivano ancora di più. Spettatori e critici. Tanto da far sì che il critico cinematografico Dennis Schwartz definisse il film come “Uno dei migliori e più stimolanti film realizzati sulla guerra di classe in America”. Nel 1990 il film fu scelto per essere conservato presso il National Film Registry della Libreria del Congresso degli Stati Uniti essendo “significativo sul piano culturale e storico e dal punto di vista estetico.

La Kopple fu anche accusata però di non essere stata sufficientemente obiettiva nel rappresentare le due parti in lotta. Cosa che fece dire alla regista, allora non ancora trentenne: “Non era questione di obiettività. Credo che sia importante fare chiarezza su questo: la troupe non ha fatto finta di essere obiettiva. Hanno detto, stiamo col sindacato, e questo è come stanno le cose dal nostro punto di vista. E direi che non puoi metterti a discutere con le immagini. Le immagini non mentono. E le cose che si vedono nel film sono successe davvero.”4

harlan women 1 Le scene in cui i picchetti delle donne sono prima aggrediti e poi presi a colpi d’arma da fuoco, nell’oscurità della notte, dalle guardie che scortano i crumiri sono testimoniati dalle immagini girate dalla Kopple e dai suoi assistenti. Che furono aggrediti e malmenati dalle forze del disordine così come i minatori e le loro donne. E’ ancora la Kopple a ricordare la scena: “Era buio e stavamo lì come tanti anatroccoli, e tutto ad un tratto arrivano i thug,5 e cominciano a sparare razzi illuminanti che accendevano tutta la china della montagna. I thug passarono e io sentivo che dovevo stare in prima fila, così nel film si vedono i miei capelli e le cuffie, che si muovono in avanti; e i thug mi buttarono a terra, e buttarono a terra Anne [Lewis, l’aiuto regista] e mi prendevano a calci, ma io avevo un Nagra, che era il mio registratore, poggiato sul petto, così quando mi davano i calci non sentivo niente, e avevo come una lunga canna da pesca con un microfono in cima e cominciai a darglielo addosso. Ma fu un momento di paura, di paura vera. Fu una scena che ci scosse tutti e capimmo che lo sciopero stava cambiando, lo sciopero stava svoltando un altro angolo, lo sciopero stava diventando molto più violento e poteva scapparci il morto6

I lavoratori però si sarebbero presentati ai picchetti successivi a loro volta armati e determinati a far fuoco su chiunque avesse tentato ancora di forzare i picchetti sulla strada della miniera. Dando vita a fronteggiamenti che potevano durare anche ore, in cui entrambe le parti spianavano le armi l’una contro l’altra.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi.» Così recita il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, così inviso ai benpensanti e alla Sinistra politically correct che vedono in tale principio soltanto un favore fatto all’industria delle armi. Senza cogliere nello stesso, affermato durante la lotta di liberazione anti-coloniale e anti-britannica, il diritto del popolo a ribellarsi e ad organizzarsi contro un governo autoritario, negando allo Stato il diritto di essere l’unico a poter detenere il monopolio della forza e della violenza organizzata. Su questo si basava la possibilità dei minatori di contrapporsi adeguatamente ai loro assalitori.

Così oggi, nell’Italia democratica di Minniti e del PD, il diritto ad armarsi dei cittadini è stato accolto, ma in chiave leghista e protofascista, in difesa della proprietà privata. Ecco a cosa ha portato, come al solito, la cancellazione della memoria di classe e storica, la negazione del diritto delle masse alla ribellione e ad un’autonoma organizzazione politica e militare. Dimenticando che anche alcuni illustri padri della Costituzione, come Aldo Capitini, avrebbero voluto vedere accolto nel suo testo il diritto alla sollevazione dei cittadini contro uno Stato iniquo. Diritto che fu aspramente negato sia dalla DC di De Gasperi che dal PCI di Togliatti.

The midnight, the morning, or the middle of day,
Is the same to the miner who labors away.
Where the demons of death often come by surprise,
One fall of the slate and you’re buried alive.
7

miner's son Il maggior elemento di scontro all’interno della vertenza era rappresentato dalla volontà della compagnia mineraria di inserire una clausola che prevedesse la rinuncia ad ogni forma di sciopero all’interno del contratto, mentre i minatori erano consapevoli che l’accettazione di ciò li avrebbe privati della principale arma in loro possesso per la difesa delle loro condizioni di lavoro. Opporsi alla proposta della compagnia significava comunque rientrare in quel ciclo di lotte che tra il 1967 e i primi anni settanta avevano visto i lavoratori americani rifiutare spesso gli accordi proposti dai sindacati e dare vita al numero più alto di scioperi selvaggi di qualsiasi altro periodo precedente.

Insomma sia la lotta di Harlan County che il film della Kopple non sorgevano dal nulla. Il terreno era stato ben concimato e successivamente, tra il dicembre del 1977 e il marzo del 1978, 166.000 minatori avrebbero bloccato completamente le miniere della regione degli Appalachi, riducendo enormemente le riserve di carbone in un momento in cui la classe dirigente stava cercando di fare della crisi energetica l’arma principale di una nuova politica economica.

miners wage Gli obiettivi dei minatori scesi in lotta non erano esclusivamente economici. Infatti il contratto firmato dai dirigenti dell’U.M.W.A. il 12 febbraio 1978 e respinto in massa dai lavoratori, prevedeva un aumento del salario del 37% in tre anni. Ma per i minatori ciò che contava di più erano le condizioni di lavoro, di vita e di libertà di organizzazione e di azione collettiva. Nonostante nel 1975 i profitti di imprese come la Duke Power Company fossero cresciuti del 170%, i salari del 4% e il costo della vita del 7%, gli operai e i lavoratori americani lottavano ancora principalmente contro il lavoro e le sue condizioni coatte.

La lotta di Harlan aveva costituito un frammento, significativo ma pur sempre un frammento, di tale scontro. Un frammento, però , i cui alcuni minatori avevano perso la vita. Come era successo a Joseph Yablonski, un appassionato rappresentante popolare del sindacato, amato da molti minatori, che nel 1970 era stato trovato ucciso in casa sua, con tutta la sua famiglia. Oppure al giovane Lawrence Jones, minatore con una moglie sedicenne e padre di un bambino, che era stato colpito a morte durante lo sciopero. Episodio, quest’ultimo che aveva condotto al tavolo delle trattative gli scioperanti della miniera di Harlan e i rappresentanti della compagnia mineraria.

Lawrence Jones era stato colpito a morte da Bill Brunner, sorvegliante della compagnia, che gli aveva sparato in faccia a bruciapelo, da pochi metri di distanza, con un fucile a pallettoni. Bill Brunner, che a sua volta era rimasto ferito nella sparatoria esplosa successivamente, fu processato per omicidio a Harlan e fu assolto per “legittima difesa”.

It’s a-many a man I have seen in my day,
Who lived just to labor his whole life away.
Like a fiend with his dope and a drunkard his wine,
A man will have lust for the lure of the mines.
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miners 5 Spesso mentre interpretava la canzone Merle Travis si interrompeva per narrare questa storia: “Non riuscirò mai a dimenticare quella volta in cui, essendo tornato per una breve visita ai miei famigliari a Ebenezer, giù nel Kentucky, mi misi a parlare con un vecchio amico di famiglia che conoscevo fin da quando ero nato. Egli mi disse, «Figliolo, tu non sai quanto sei fortunato ad avere trovato un buon lavoro lontano da qui e a non dover scavare ciò di cui vivere sotto queste vecchie colline e a non dover urlare come io e tuo padre siamo abituati a fare». Quando gli chiesi perché non avesse mai lasciato quel lavoro per trovarsene un altro, egli mi rispose «Nossignore, non puoi farlo. Una volta che la polvere del carbone ti è entrata nel sangue, tu non potrai essere altro che un povero minatore per il resto dei tuoi giorni. Diventa un vizio, come masticare tabacco!»

In uno scritto riportato sullo United Mineworkers’ Journal , Travis avrebbe poi ricordato anche il fratello: “Taylor, il mio fratello più vecchio, era solito arrivare a casa e lavarsi via lo sporco. Ricordo benissimo la tinozza al centro del pavimento – la grande pentola nera di acqua caldissima versata dentro – il vapore – e l’acqua fredda per portare il tutto alla giusta temperatura Quando lo spiavo mentre si lavava via la polvere del carbone dal tatuaggio che rappresentava una piccola rosa sul suo braccio, sognavo di quando anch’io avrei potuto lavorare nella miniera e portare un tatuaggio come il suo… Poi egli si ruppe ogni costola del suo corpo per un incidente nella miniera e la sua vita cambiò completamente…9

Il lavoro visto come schiavitù, come “vizio” e come malattia, che soltanto la lotta di classe e l’azione autonoma e collettiva può contrastare, questo ci insegnano la lotta di Harlan e la canzone di Merle Travis. Una lezione che i lavoratori americani di oggi, quelli di cui da un po’ di tempo andiamo parlando dopo l’elezione di Donald Trump, sembrano aver dimenticato. Come il 62,5% dei voti accordatigli proprio nel Kentucky, purtroppo, ben dimostra.

Cosa rimane oggi della Contea di Harlan, in cui esistevano e lottavano donne come Lois Scott che, in una delle scene più famose del documentario estrae da sotto le vesti una pistola mentre arringa uomini e donne e li spinge ad avere fiducia nella loro lotta? Poco, molto poco, Soprattutto di quella coscienza, di quell’orgoglio e di quella autentica comunità umana documentata dal film. In un bacino minerario ormai privo di importanza, in cui le promesse di Trump di rilanciare l’uso e l’estrazione del carbone sembrano riprendere le lusinghe di cui parlava Merle Travis nella sua canzone.

harlan women 2 In una contea in cui gli ex-minatori vivono di espedienti mentre i loro figli trafficano in droga, unendo metaforicamente la realtà all’esempio tracciato nei versi finali di “Dark As A Dungeon”. E in cui, al posto del bellissimo documentario della Kopple, è stata girata in anni recenti la serie televisiva Justified, trasmessa in Italiano dal 2011come Justified-L’uomo della legge, in cui il protagonista è un Marshall degli Stati Uniti, Raylan Givens, che deve mantenere l’ordine proprio nella disperata e corrotta Contea di Harlan di cui è originario. La storia è ribaltata, le forze del disordine hanno vinto e i minatori e i loro parenti sono i cattivi. Mentre l’unico a salvarsi sembra essere Dave Alvin con la canzone della sigla: “Harlan County Line”.

( 3 – continua)


  1. Qui il link per accedere alla visione del film su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=CsNtc7Uxspw  

  2. Venite qui intorno e ascoltate compagni, così giovani e così orgogliosi / Non andate a cercare fortuna nelle scure e cupe miniere / Perché quel lavoro si infiltrerà nella vostra anima come un vizio / Finché il vostro sangue non sarà nero come il carbone – Traduzione dell’autore 

  3. E’ scuro come in una segreta e umido come la rugiada / Dove il pericolo raddoppia e i piaceri sono pochi / Là dove non piove mai e altrettanto non risplende il sole / E’ proprio scuro come in una prigione laggiù nella miniera  

  4. cit. in Alessandro Portelli, AMERICA PROFONDA. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli editore 2011, pag.408  

  5. gun-thug era il nomignolo affibbiato dai minatori alle guardie armate della miniera  

  6. A. Portelli., op. cit. pp. 410-411  

  7. Mezzanotte, il mattino oppure il pomeriggio / Non fanno differenza per il minatore che lavora sempre. / Là dove i demoni della morte possono spesso presentarsi all’improvviso, / Basta la caduta di una lastra di pietra e sarai sepolto vivo.  

  8. Nei miei giorni ho visto più di un uomo / spendere la sua vita solo per lavorare sempre. / Così come un tossico fa con la sua droga o un ubriacone con il suo vino, / Uomini che hanno subito le lusinghe della miniera.  

  9. Riportato in Edith Fowke e Joe Glazer, Songs of Work and Protest, New York 1973, p. 51  

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