scoperta dell’America – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/3 – Il passato vive ancora nel presente https://www.carmillaonline.com/2024/08/21/avanti-barbari-3-il-passato-vive-ancora-nel-presente/ Wed, 21 Aug 2024 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84010 di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro. Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte [...]]]> di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro.
Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro
AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte popolari e di classe avvenute a cavallo tra Medio Evo ed Età moderna, proprio quando ebbe inizio il salto definitivo verso la società dominata dal modo di produzione capitalistico.

La rivolta di Thomas Müntzer, dei suoi seguaci contadini e delle sue conseguenze è già stata in passato oggetto di numerose ricerche storiche, riflessioni politiche e narrazioni romanzate1, ma l’insieme dei testi qui presentati, che si spingono ben al di là dei confini temporali della guerra contadina, è tenuto insieme soprattutto dalla convinzione espressa chiaramente nel testo riguardante l’esperienza dei diggers guidati da Gerrard Winstanley nell’Inghilterra della rivoluzione seicentesca.

La storia dei Diggers, che nell’Inghilterra del Seicento si opposero a enclosures e privatizzazioni occupando terre comunali per «lavorare insieme e insieme spezzare il pane», non fu che un capitolo di una guerra più grande. L’affermazione della modernità industriale, infatti, fu tutt’altro che un pacifico e lineare progresso. Al contrario, soltanto una vera e propria guerra civile, che insanguinò l’Europa per secoli, rese possibile l’imposizione della proprietà privata e del lavoro salariato, il disciplinamento dei corpi e dei territori, lo sradicamento dei diritti consuetudinari delle comunità rurali.

L’Europa, di cui troppo spesso oggi si lodano e cantano le origini cristiane, si è formata nel sangue e nelle rivolte sconfitte contro i valori che il cristianesimo, il nascente Stato moderno, l’economia di mercato e lo sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo e sulla natura portavano con sé e che dovettero essere imposti a forza, a suon di repressioni, processi, torture e terrorismo organizzato dal braccio armato della Chiesa e dello Stato che ne avrebbe ereditato la funzione sia giudicante che di formazione degli uomini e delle donne, secondo dottrine del tutto estranee agli interessi materiali di questi ultimi e alle loro credenze e conoscenze.

Un autentico processo di cristianizzazione forzata e di colonizzazione che anticipò e accompagnò quello che si scateno sui popoli indigeni delle colonie successivamente all’espansione europea nelle Americhe e negli altri continenti appena “scoperti” e conquistati. Come si donmanda Luciano Parinetto nel suo testo: «Tra il ‘500 e il ‘600 la cultura del capitale si instaura in Occidente e si sviluppa, anche grazie all’accumulazione originaria permessa dalla conquista dell’America. Fra ‘500 e ‘600 dilaga (in Europa e in America) la caccia alle streghe. Vi è un rapporto tra i due eventi?»2

Evidentemente una domanda retorica che serve allo studioso per spiegare come, a partire dall’esempio tratto dai Paesi Baschi, il diavolo degli inquisitori e dei giudici dei primi anni del Seicento non fosse altro che la rappresentazione demoniaca e immateriale di processi di produzione e riproduzione della vita che sfuggivano alle logiche dell’accumulazione capitalistica, negandole e rifiutandole.

Questo diavolo dei Baschi, piuttosto, pare incarnare la stessa economia basca, nel momento in cui quella, capitalistica, della monarchia francese, la stava cancellando, con l’annessione di una piccola regione al grande Stato, che avrebbe distrutto quella originale e diversa. Il rogo delle streghe basche serve infatti alla monarchia francese per eliminare una cultura autonoma antichissima, portatrice di una economia alternativa, quanto mai diversa da quella del capitale. […] Un’economia basata sullo sperpero e non sull’accumulo e, in quanto tale, somigliante a certe economie “selvagge” 3 che i conquistatori dell’America si erano trovati davanti agli occhi fin dai tempi di Cristoforo Colombo. […] Una economia del dispendio, fiduciosa nella materna e feconda natura che tutto spreca e tutto ridona, opposta a una economia che va cancellando la natura dietro lo streben incessante all’accumulo, alla valorizzazione4.

Sarebbe stato proprio un inquisitore dell’epoca, Pierre de Lancre, consigliere del re al parlamento di Bordeaux, incaricato da Enrico IV di Francia di condurre una crociata contro le streghe del Labourd, territorio basco ai confini tra Francia e Spagna, a mettere «in rapporto gli stregati baschi e gli stregati amerindi! I Baschi sono diversi, le streghe sono diverse, gli amerindi sono diversi; il Potere impersonale di Lancre è invece normale, come normali sono le stragi che compie per mantenersi e accrescersi»5.

Si potrebbe aggiungere, in virtù del titolo scelto per questa serie di interventi e recensioni, che Baschi, streghe e amerindi sono barbari ovvero estranei al sistema sociale e culturale che si è andato affermando, con la forza, in Europa nei secoli successivi al Mille. Sistema che, al di là delle banalità di base espresse dal movimento femminista borghese attuale e da Me Too, ha visto proprio nelle conoscenze e nelle pratiche femminili, nonché nell’autonomia economica e culturale delle donne, un autentico “mostro” da estirpare a qualunque costo. Così come dimostra il terzo dei tre testi qui recensiti, quello di Starhawk, Il tempo dei roghi. Nel quale, come affermano i curatori dello stesso:

L’autrice si domanda non tanto il perché della caccia alle streghe ma piuttosto perché si sia dispiegata proprio in quel preciso momento storico (non il “buio Medioevo” ma il “luminoso Rinascimento”). Così ci conduce nei secoli XVI e XVII, i secoli della grande trasformazione, che seguono la “scoperta del nuovo mondo” e la riforma protestante, i secoli dell’affermazione dello Stato nazione, della scienza moderna e dell’economia capitalistica. Un processo che si fonda innanzitutto sull’esproprio delle terre, delle risorse comunitarie, dei saperi e dell’immaginario a esse collegati. Le donne furono le più colpite da questo cambiamento in quanto il loro ruolo di cura e di controllo sugli eventi biologici rappresentava l cuore della vita e dell’autonomia delle comunità rurali. Perciò divennero il bersaglio della nuova classe di medici e burocrati borghesi e del loro ”sapere scientifico” – rigorosamente maschile – che non poteva ammettere conoscenze e pratiche estranee al loro monopolio (proprio come la Chiesa non poteva tollerare alcuna conoscenza a sé estranea). E’ proprio a partiredalla posizione delle donne del mondo contadino depositarie, delle conoscenze legate alle erbe e ai gesti terapeutici così come ai rituali e alle credenze precristiane, che si è costruita la figura della strega. Ma è un ritratto nato nelle carte dei processi e nel sangue delle torture e dei roghi6.

L’autrice, infatti, ci dimostra come il vero e proprio assalto condotto dallo Stato e dal Capitale contro le donne intese come streghe costituì, di fatto, il grimaldello con cui fu indebolita e fatta saltare l’unità di conoscenze e pratiche delle comunità contadine nell’epoca degli espropri e delle privatizzazioni delle terre e dei saperi in nome del profitto e dell’arricchimento individuale.

Un processo che, certo, non durò un giorno ma che, più o meno coscientemente, portò all’attuale società dei saperi e delle ricchezze separate dal corpo sociale che le ha prodotte. In cui l’arricchimento del singolo individuo è diventato il segno del suo valore sociale e della su “perfezione” di stampo calvinistico, per cui il lavoro non costituisce più uno degli aspetti della vita collettiva, ma un’autentica etica cui sottomettere tutti gli altri parametri di giudizio e analisi dei risultati raggiunti.

Una trasformazione che ha completamente marcato i tempi successivi fino ad oggi, cercando di cancellare qualsiasi traccia della barbarie ancora presente in noi, anche qui in Occidente, e negli altri popoli ancora sottomessi alle logiche del Capitale e del colonialismo. Costringendoci a chiederci ancora di che cosa siamo stati espropriati e che cosa può aiutarci a resistere nella battaglia contro un nemico che è ancora in gran parte lo stesso di allora.


  1. Come ad esempio in Q (1999) di Luther Blissett/Wu Ming che non hanno mai apertamente dichiarato il grande debito nei confronti dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar (1968) per quanto riguarda le vicende ambientate nella città di Münster degli anabattisti guidati da Jam Matthyjs.  

  2. L. Parinetto, Transe e dépense, Tabor/porfido 2024, p. 5.  

  3. A proposito di “economie selvagge, potrebbe rivelarsi utile per il lettore la consultazione di R. Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, Bruno Mondadori editore 2008 e M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Casa editrice Valentino Bompiani, Milano 1980. 

  4. L. Parinetto, op. cit., pp. 13-14.  

  5. Ivi, p. 14.  

  6. Starhawk, Il tempo dei roghi, Tabor/Erbas e salude 2024, pp. 5-6.  

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“Straniero, è finalmente giunto il momento di incontrarci da stranieri nella stessa epoca?” https://www.carmillaonline.com/2018/07/30/straniero-e-finalmente-giunto-il-momento-di-incontrarci-da-stranieri-nella-stessa-epoca/ Mon, 30 Jul 2018 20:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47576 di Giacomo Marchetti

Quella che segue è un’intervista a Silvia Moresi, traduttrice e curatrice di Undici pianeti, scritto da Mahmud Darwish, uno dei più importanti poeti del Novecento, nel 1992. Un lavoro, forse, tra i più completi del poeta palestinese, legato a una data chiave per la storia araba e mondiale, il 1492 anno della scoperta dell’America e della definitiva espulsione di musulmani ed ebrei dall’Andalusia, pubblicato quest’anno da Jouvence.

L’ultimo componimento di “Undici Pianeti”, “Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno)” è per certi versi una poesia profetica, perché [...]]]> di Giacomo Marchetti

Quella che segue è un’intervista a Silvia Moresi, traduttrice e curatrice di Undici pianeti, scritto da Mahmud Darwish, uno dei più importanti poeti del Novecento, nel 1992.
Un lavoro, forse, tra i più completi del poeta palestinese, legato a una data chiave per la storia araba e mondiale, il 1492 anno della scoperta dell’America e della definitiva espulsione di musulmani ed ebrei dall’Andalusia, pubblicato quest’anno da Jouvence.

L’ultimo componimento di “Undici Pianeti”, “Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno)” è per certi versi una poesia profetica, perché parlando della “prima guerra del Golfo”, tratta di una delle tappe più significative della fine del mondo bipolare e dell’avvio di tendenza alla guerra che tutt’ora continua permane. La poesia sembra “annunciare” ciò che sarà una sequenza di fatti tragici che continuerà, dopo questa prima tappa, con l’aggressione e l’invasione a guida nord-americana dell’Iraq nel 2003 e più recentemente con il periodo di massima estensione dell’ISIS (o Daesh).

La guerra, così come l’esilio, e il rapporto con un passato che accompagna costantemente il flusso storico sono fortemente presenti qui come in tutta la raccolta, e nell’intera opera.
C’è un verso che colpisce particolarmente tra gli altri: Amico mio siamo mai riusciti a distinguere tra vista e visione? In cui è rinchiuso il significato della poesia, o meglio di questa “alterazione percettiva” che è connaturata all’utopia poetica, e che sembra stagliarsi sopra le disgrazie belliche. Puoi parlarci di come “questa” sindrome caratterizza l’opera di Darwish, e si ritrovi in Undici Pianeti?

Non è un caso che Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno) sia il componimento che chiude l’opera; era il 1992 quando Darwish compose Undici Pianeti, e l’Iraq, appena devastato dalla prima guerra del Golfo, rappresentava il nuovo collasso della Storia araba, iniziato in Andalusia, ma soprattutto l’ennesimo e ultimo cimitero dell’umano.
L’intera raccolta è caratterizzata da un flusso storico circolare, tragedie e devastazioni si ripetono in spazi e tempi lontani, ma i protagonisti cambiano, le vittime diventano aggressori e viceversa, sono la distruzione e la morte ad essere identiche sempre e ovunque. È in questo senso, forse, che quest’opera di Darwish può dirsi profetica e ammonitrice. Il poeta palestinese è riuscito a fare in modo che, ad esempio, leggendo dell’esilio di Arabi ed Ebrei dall’Andalusia, o del genocidio dei nativi americani, ritrovassimo tracce di una tragedia, quella palestinese, avvenuta quasi cinquecento anni più tardi, e che, leggendo “dell’Iraq assassinato”, ci venissero in mente tutte le altre guerre e brutalità che in questi anni si sono succedute e moltiplicate, e alle quali Darwish, morto nel 2008, non ha nemmeno assistito. Il poeta palestinese racconta così non una tragedia specifica, ma la tragedia umana che sembra non aver fine, e in cui tutti siamo coinvolti. Come spezzare il cerchio di questa lunga sequenza di morte? È qui che entra in scena la poesia, un luogo utopico. Darwish sapeva bene che la poesia non è in grado cambiare il mondo, ma credeva che, forse, raccontando le cose semplici, i sentimenti, e rivolgendosi all’identità umana e non a quella nazionale e ideologica, la poesia potesse avvicinare le persone, svuotando di significato una parola come “straniero”, concetto purtroppo molto attuale nell’Italia di oggi.
La poesia di Darwish è “casa” e “patria” per milioni di esuli palestinesi, è tomba per milioni di vittime, è lapide che racconta di queste vittime dimenticate dalla Storia, è rifugio dalle violenze e dalla disumanizzazione. La poesia non è una pavida fuga dal mondo, ma il luogo nel quale ristabilire le priorità, io stessa, di frequente, mi trovo a dover chiedere asilo alla poesia quando sento che la realtà, inevitabilmente, sta corrodendo la mia umanità.

La battaglia contro l’oblio è uno delle finalità poetiche di Mahmud Darwish, come di tutto il Movimento di Liberazione Palestinese, un antidoto a ciò che un giorno disse Golda Meyer a proposito della Catastrofe palestinese (Nabka) del 1948: «i vecchi moriranno, i giovani dimenticheranno». Darwish non si presta a nessuna operazione di “invenzione della tradizione”, ma rivisita il passato, intreccia le storie gemellari di più popoli, con la consapevolezza che la narrazione è l’antidoto alla rimozione per esempio della questione del “diritto al ritorno profughi”, questione per cui tra l’altro romperà con l’OLP in seguito ai contenuti degli Accordi di Oslo che escludevano questa storica rivendicazione.
In ultima sera di questa terra, l’Andalusia è più una metafora a cui potrebbero adattarsi vari contesti, quasi la condizione umana stessa, e sembra essere la prima e propria vera “cesura” della storia araba, l’inizio di un ciclo verso cui indirizzare la propria attenzione. Come interpreti i versi finali del componimento: Dov’era l’Andalusia? Qui o lì… Sulla terra… o in una poesia? Che apre la raccolta e contribuiscono a dare la cifra di tutti gli altri componimenti.

La geografia e la Storia del popolo palestinese sono state distrutte, materialmente dalla rampante colonizzazione israeliana, che prosegue ancora oggi con la costruzione di nuovi insediamenti, ma anche dalla retorica del movimento sionista che, attraverso un sistema ben progettato di narrazione distorta, negazione e interdizione della realtà, ha tentato di rendere “invisibili” i palestinesi, degli “assenti”, dei fantasmi. La Storia la scrivono i vincitori, la letteratura, invece, è spesso il “megafono” delle vittime e degli sconfitti. Tutta l’opera di Mahmud Darwish, e in particolare Undici Pianeti, rappresenta, assieme al resto della letteratura palestinese, una “resistenza culturale”, la resistenza di cui questo popolo ha più bisogno per non soccombere ad un tragico “memoricidio”. Soprattutto in Una pietra cananea nel Mar Morto e in Sceglieremo Sofocle, Darwish scava nel passato del popolo palestinese per riappropriarsene, e riporta alla luce quei “nomi” che furono cancellati attraverso il processo di riebraizzazione della terra. La realtà fu resa irriconoscibile per i palestinesi che diventarono così, per un fantasioso capovolgimento della realtà, una comunità che “non era più al suo posto”.
La Palestina era già stata “scritta” prima del sionismo, così affermava il grande poeta palestinese; Israele, da settant’anni, porta avanti un violento progetto di “sovrascrittura”, ma la Palestina è sempre lì con le sue pietre, i suoi ulivi e le sue storie, basta scavare un po’, gli scrittori e i poeti palestinesi la riporteranno sempre alla luce.
Darwish non risparmiò mai critiche alla dirigenza dell’OLP, soprattutto dopo la beffa degli Accordi di Oslo, e non credo che oggi sarebbe più clemente, anzi. In una situazione di totale smarrimento politico e offuscamento di obiettivi, come quella che si vive oggi in Palestina, poter ascoltare ancora la voce e il pensiero di un intellettuale come Darwish sarebbe stato essenziale; ma la sua morte è stata un’enorme perdita per il mondo intero, popolato ultimamente da troppi ciarlatani.
I versi di Ultima sera su questa terra che tu citi, si riferiscono, invece, a mio parere, a quell’eden perduto che fu l’Andalusia, ma anche la Palestina prima del sionismo, cioè il luogo della coesistenza pacifica tra Arabi ed Ebrei, che oggi, purtroppo, sembra non essere mai esistito nel mondo reale, ma solo in qualche poesia.

La cacciata di Arabi ed Ebrei dalla penisola iberica è una tragedia che accomuna il destino di due popoli di un luogo in cui, come nella Palestina Storica, la convivenza era uno stato di fatto e non un anelito, e di cui la Storia non può essere cancellata: non ero un narcisista, ma difendevo la mia immagine nello specchio è uno dei versi d’apertura di Un giorno siederò sul marciapiede. La matrice comune della Storia è difesa e rivendicata come un terreno di conflitto rispetto ad una ricostruzione che vuole “eliminare” la presenza d’altro, legittimando la propria politica di potenza. Ma oltre il fare riemergere la storia è nell’“erranza”, il perdersi nell’altro sembra esserci che sembra celarsi la possibilità di trovarsi: Camminavo verso il me stesso racchiuso negli altri, ed eccomi qui, smarrisco me stesso e gli altri, scrive in Chi sono io… Dopo la notte della straniera. Questa è la fonte di una identità in divenire in dialettica con l’altro che sembra essere l’unica soluzione per l’umanità sofferente, non solo per il popolo palestinese. Puoi parlare di come questa identità non statica e ripiegata su sé stessa viene sviluppata nel corso della raccolta?

Sul finire del 1800, l’identità palestinese si stava formando mescolando le sue diverse appartenenze: araba, ebraica, islamica, cristiana, ottomana, familiare, tribale etc. L’arrivo del sionismo bloccò questo naturale processo, negando l’esistenza della Palestina e del suo popolo, che fu poi frammentato dopo la nascita dello Stato di Israele.
Mahmud Darwish sapeva bene che sulla sua terra erano passate innumerevoli culture, e rivendicava il diritto di potersi identificare con tutte le voci risuonate in Palestina; ma l’altro, il sionismo, Israele, condannano ancora oggi i palestinesi ad essere degli “stranieri”, rivendicando il “monopolio dell’autenticità”, e proclamandosi come unici e legittimi “padroni” di quella terra.
Al contrario, in tutta la raccolta, Mahmud Darwish, scavando nella memoria del suo popolo, non ha alcun timore di “incontrare” tracce dell’altro: Adesso io ti vedo nel passato così come sei arrivato, sei tu a non vedermi, scriverà in Una pietra cananea nel Mar Morto.
Il punto focale di Undici Pianeti, infatti, è proprio l’importanza di sapersi percepire sempre come “stranieri”, una facoltà capace di creare identità in divenire, fluide ed accoglienti, opposte alle identità statiche e separatiste degli Stati etnici, come Israele: Straniero, è finalmente giunto il momento di incontrarci da stranieri nella stessa epoca? (Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco).
La lotta del popolo palestinese per riconquistare la “patria”, per riaffermare la propria esistenza nella Storia, non ha creato di riflesso, come spesso accade, una identità chiusa e immobile, e questo risulta evidente in letteratura, dove alcuni scrittori arrivano molto vicini al concetto di post-nazionale.
Nel verso che tu citi c’è la parola “specchio”, una parola presente in quasi tutti i componimenti, e che si lega alla questione identitaria. L’atto di specchiarsi e riconoscersi nell’altro può essere spesso un atto positivo, ma, in Undici Pianeti, diventa il modo per appropriarsi dell’identità altrui, e poi negarla. Il sionismo (come molti movimenti coloniali), infatti, ha tentato, e tenta ancora oggi, attraverso l’istruzione, di proporre una improbabile continuità storica tra il popolo israeliano e quella terra, e lo fa “rubando” parti di cultura palestinese: Storia, tradizioni, gastronomia, abbigliamento. Se pur di recente immigrazione dall’Europa o dall’America, l’israeliano deve apparire come un nativo di quella terra per potersi sostituire al “palestinese reale” e farlo così “scomparire”.

L’Olocausto dei Nativi Americani coincide con la “scoperta dell’America”, che è uno dei temi portanti della Raccolta, il componimento di Darwish del ’92 prende spunto anche da questo. In particolare in Penultimo discorso del “Pellerossa” all’uomo bianco, il poeta riprende e reinterpreta una famosa lettera che “Seattle”, capo della Nazione Duwamish, aveva scritto e inviato al presidente americano Franklin Pierce nel 1854. Questa missiva è una messa a nudo della concezione che della Terra avevano (ed hanno) le elités nord-americane ed un atto di denuncia di ciò che sarà l’”ecocidio”, e che il poeta fa arrivare fino ad oggi in un continuum di un progresso regressivo e distopico dove: dai nostri cimiteri aprirete strade che portano ai satelliti. Come fa dialogare queste tragedie e resistenze gemellari Darwish?

Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco è il componimento in cui, a mio parere, sono forse più evidenti i rimandi alla colonizzazione palestinese e alla retorica sionista, ma i versi raccontano anche benissimo il genocidio dei nativi americani. Questa perfetta sovrapposizione di mondi è frutto sicuramente, e in buona parte, della eccezionalità di Darwish come poeta, che riesce a narrare più storie contemporaneamente, ma anche della corrispondenza delle pratiche coloniali nel tempo e nello spazio. Sfruttamento brutale del territorio, distruzione nel mondo precedente, disumanizzazione e conseguente sterminio dei nativi, che, nel migliore dei casi, vengono ridotti a manodopera, sono i punti saldi di tutte le imprese di tipo coloniale.
Ritenere e descrivere gli altri come inferiori, ad uno stadio di sviluppo ancora infantile, e pensare alle società non industriali, ma più legate alla terra, come comunità da “civilizzare” o da far scomparire, è il leitmotiv di ogni movimento coloniale, e non solo di quello delle elités nord-americane, e penso, ad esempio, ai territori del Sud America o all’Algeria, per fare due esempi temporalmente e spazialmente distanti.
Darwish, con questi versi, sembra volerci dare un avvertimento, esattamente come fece Primo Levi: “Meditate che questo è stato”, ma purtroppo è ancora e ancora sarà, se non riuscirà a spezzare questo mortifero cerchio.

Un’ultima domanda, riguarda l’intreccio tra la storia personale, autobiografica, e la Storia in senso generale, in cui condizione individuale (quella del poeta), specifica (quella del popolo palestinese), e universale (quella dell’essere umano) si intrecciano, si sovrappongono e dialogano all’interno di due polarità: la guerra e l’amore sostanzialmente, in un linguaggio ricco di metafore, denso di simboli e di rimandi storici. Leggendo la tua traduzione uno riesce ad immaginare a stento lo sforzo intellettuale nel rendere intellegibile la poesia di Darwish, e la passione da “decifratore di sciarade” che serve. Quali difficoltà hai incontrato in questo lavoro di “scavo” per carpire il significato delle sue poesie e per renderlo al pubblico italiano?

Il lavoro di studio e, successivamente, di traduzione di questo testo è stato molto lungo, ogni volta che pensavo di aver terminato, mi rendevo conto che c’era ancora da “scavare”, c’erano nuovi racconti da portare alla luce. Darwish, in Undici Pianeti più che altrove, gioca con la lingua araba, e in una sola poesia, in un solo verso ma anche con una sola parola, riesce a far dialogare mondi, a metterli in connessione. La maggiore difficoltà è stata proprio la scelta delle parole, parole che riuscissero a raccontare di una storia, senza “nascondere” le altre storie.
Poter tradurre i versi di Mahmud Darwish è stato un onere, ma anche un grande onore, vista la grandezza di questo poeta. Io forse ho sentito maggiormente il “peso” di questo lavoro perché ritengo il pensiero di Darwish una parte importante della mia formazione culturale. La sua coerenza intellettuale e personale, così poco di moda oggi, è quella con cui io provo a confrontarmi, e i suoi versi sono la lente di ingrandimento con cui guardo il mondo. Anche per questo spero di aver fatto un buon lavoro.

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