sciopero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 2: qualche luce, molte ombre e tanti abbagli. In attesa del Primo Maggio e dell’arrivo dei “siberiani”. https://www.carmillaonline.com/2023/04/29/cronache-marsigliesi-2-qualche-luce-molte-ombre-e-tanti-abbagli-in-attesa-del-primo-maggio-e-dellarrivo-dei-siberiani/ Sat, 29 Apr 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77004 di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 aprile, il presidente Macron non ha fatto alcun passo indietro, firmando la legge che, dall’autunno prossimo, vedrà i francesi andare in pensione con due anni di ritardo rispetto a ora. In un articolo precedente (“Cronache marsigliesi. Non è tutto oro ciò che brilla” – Carmillaonline, 3 aprile 2023) avevamo evidenziato come il movimento contro il prolungamento dell’età pensionabile fosse, a conti fatti, molto circoscritto e come, nei suoi confronti, gran parte della classe operaia e del proletariato francese si mostrasse a dir poco tiepida. A uno sguardo minimamente attento era evidente come a scendere in piazza fosse quella quota, in Francia assai corposa, di classe operaia e proletariato garantito occupato nel settore pubblico mentre gli operai del settore privato, i precari e i disoccupati osservassero tutto ciò rimanendo alla finestra. La stessa adesione studentesca vedeva una sostanziale spaccatura tra gli studenti del ceto medio, entrati massicciamente in lotta al fianco dei lavoratori, e gli studenti proletari i quali, con questa lotta, hanno ben poco interagito.

Anche in questo caso, come la volta precedente, i nostri interlocutori sono stati V. R., una ragazza del Collectif Boxe Marseilles, M. L., un uomo del Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille e una ragazza, S. D., del Collectif Boxe Marseilles ma attiva, soprattutto, nel lavoro territoriale. A questi abbiamo aggiunto M. C, una donna precaria ex gilets jaunes, oggi attiva nel Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille con la quale ci è parso interessante porre a confronto il movimento odierno con quello dei gilets jaunes.

Iniziamo, pertanto, ascoltando V. R. operaia precaria delle pulizie e abitante nel quartiere Fèlix Pyat notoriamente noto come uno dei quartieri più malfamati di Marsiglia. Ciò che ci sembrava importante capire era il tipo e il grado di coinvolgimento sia dei precari, sia degli abitanti del suo quartiere nelle mobilitazioni e se, dal 6 aprile in poi, vi fossero stati significative modifiche rispetto alle mobilitazioni precedenti.

Eravamo rimasti evidenziando quanto a dir poco tiepida fosse la partecipazione dei precari, dei disoccupati e in generale degli abitanti dei “quartieri malfamati” nei confronti della lotta sulle pensioni. Questo lo constatavamo prima del nuovo sciopero generale del 6 aprile al quale ha fatto seguito quello del 12. Macron, da parte sua, ha tirato dritto e ha firmato la legge che proroga di due anni l’accesso al pensionamento. Tutto ciò ha cambiato qualcosa tra di voi?
Come è facile constatare il movimento si è abbastanza ridotto. Qua a Marsiglia la cosa è stata quanto mai evidente. Questo è anche facilmente comprensibile se consideri il fatto che la città di Marsiglia ha circa 900.000 abitanti dei quali almeno 400.000 vivono nei quartieri segregati e quindi sono precari, disoccupati, illegali o, come spesso succede, tutte e tre le cose messe insieme. Io sono un’operaia precaria delle pulizie, mia madre precaria nella ristorazione, mio fratello è un po’ qua e un po’ là e mio padre, per fortuna, non lo vediamo da anni. Questa mia condizione non ha nulla di speciale ma riflette la condizione media dei nostri quartieri. I nostri problemi chiaramente sono altri, la polizia tanto per incominciare che con noi non simula lo scontro ma ci va giù pesante per qualunque cazzata. Il razzismo della polizia e delle istituzioni e la vita di merda che dobbiamo fare. Io vivo dentro questa realtà e con me la vivono almeno altri 400.000 marsigliesi ed è abbastanza chiaro che questa condizione ha ben poco a che fare con quella di chi è sceso in piazza o meglio il nesso c’è ma non è così facile farlo capire e soprattutto trovare delle convergenze in grado di unificare queste due condizioni proletarie.

Voi, come collettivi precari, di quartiere ma anche come collettivo boxe in questo periodo come vi siete mossi, che bilancio potete fare della vostra attività?
Noi siamo stati dentro a tutte le manifestazioni e agli scioperi organizzando dei nostri spezzoni ma, soprattutto, abbiamo continuato il nostro lavoro di organizzazione e di lotta sui posti di lavoro e nei quartieri. Nel terzo stiamo facendo molto bene soprattutto sul fronte delle occupazioni di case ma di questo è meglio che ne parli con un’altra compagna che dentro a questa cosa ci sta dentro direttamente. Sicuramente possiamo rilevare una nostra crescita perché le lotte che stiamo mettendo in piedi hanno sicuramente un seguito e quindi stiamo portando in piazza anche un certo numero di persone ma, questo bisogna dirlo, rispetto alla gran massa sono solo avanguardie anche se, questo mi sembra importante dirlo, non sono avanguardie politiche in senso generico ma avanguardie di lotta ossia compagne e compagni del tutto interni alle realtà operaie e proletarie. Questo ci permette di guardare all’immediato futuro con un po’ di ottimismo.

Quanto ascoltato offre già un quadro abbastanza preciso della realtà marsigliese. Sulla scia di ciò proseguiamo ascoltando S. D. proveniente anche lei dall’ambito del Collectif boxe e attiva soprattutto nel lavoro di quartiere. Questo ci è sembrato particolarmente importante perché, proprio per le caratteristiche che la nuova composizione di classe riveste, l’ambito territoriale assume un aspetto spesso strategico. Questo per almeno tre buoni motivi. Per un verso l’obiettiva debolezza che le attuali condizioni di lavoro impongono dentro la produzione possono essere ribaltati sul territorio così che, a differenza del passato dove il “potere operaio” di fabbrica si espandeva sul territorio, l’organizzazione della forza operaia e proletaria sul territorio può riversarsi dentro i posti di lavoro del resto, avendo a mente l’Italia, non si tratterebbe di un fenomeno poi così nuovo. Negli anni Settanta furono proprio le ronde e le squadre operaie a supportare dall’esterno le lotte operaie delle piccole fabbriche e aziende dove il controllo padronale e poliziesco inibiva ogni forma di organizzazione autonoma operaia. In seconda battuta, la lotta territoriale, consente di articolare una lotta sul salario indiretto che non è sicuramente meno importante della battaglia salariale sui posti di lavoro. Infine, e certamente non per ultimo, la lotta sul territorio consente di costruire spazi di contropotere effettivo e dare vita a “zone liberate” dove la gestione dello spazio pubblico sfugge al controllo statale. Molto sinteticamente abbiamo parlato di questo con la nostra pugile.

Voi, come precari e disoccupati, pur stando dentro al movimento che sta agitando la Francia avete svolto una attività parallela specificamente rivolta a quel settore di classe che non sembra particolarmente interessato alla lotta sulle pensioni. Potresti spiegarmi, molto sinteticamente, come avete maturato questa scelta e quali tipi di risposte avete ricevuto?
Abbiamo aperto un intervento all’interno del terzo, che è anche il mio quartiere, il quale è considerato uno dei quartieri più poveri d’Europa. È un quartiere prevalentemente arabo dove disoccupazione e illegalità sono ciò che Marsiglia offre ai suoi abitanti. Credo che sia persino inutile ricordare la violenza quotidiana che i suoi abitanti subiscono da parte della polizia, il razzismo che circonda questo quartiere insieme alla sua povertà. Chiaramente in questo quartiere una lotta come quella sulle pensioni non ha senso così come le modalità sostanzialmente pacifiche di questo movimento non hanno molto da dire agli abitanti del quartiere. Qua gli scontri con la polizia hanno ben altro tenore e non sono certo paragonabili a quelli che si sono visti nel corso degli scioperi generali. Insieme agli altri del collettivo di quartiere abbiamo individuato nel problema abitativo uno dei problemi essenziali delle persone che abitano qua. Su questo abbiamo deciso di muoverci. Chiaramente lo abbiamo fatto attraverso un lavoro di inchiesta, cioè non siamo arrivati dall’alto dicendo: “Occupiamo le casa” ma costruendo l’occupazione con le reti che abbiamo all’interno del quartiere. Abbiamo così individuato due stabili e li abbiamo occupati. Sarebbe interessante, e anche utile, raccontare la storia e le dinamiche di questa occupazione ma non è questo il luogo. Ciò che mi preme dire è come la gestione dell’occupazione sia stata ed è una vera e propria “scuola politica” per il quartiere. La sua gestione e la sua difesa è interamente in mano agli abitanti e molti di loro sono già, a tutti gli effetti, delle avanguardie di lotta. Questa prassi consente di costruire quadri e organizzazione. Vorrei aggiungere ancora una cosa che mi sembra veramente importante: il rapporto con le varie gang di zona. Anche qua si apre un capitolo che andrebbe affrontato in altro modo ma, anche se in poche battute, mi preme dire che proprio grazie al lavoro che stiamo facendo siamo riusciti a instaurare un buon rapporto con queste. Queste sono realtà che non si possono ignorare perché migliaia di ragazzi vi sono dentro e si tratta di gente nostra che non può e non deve essere abbandonata al suo destino. Dobbiamo, e lo stiamo facendo, lavorare con il proletariato a partire dalle sue forme concrete e le gang, piaccia o meno, ne sono una sua forma.

Questo, molto sinteticamente, l’aria che si respira tra le fila di quel proletariato che, sino a ora, è rimasto sostanzialmente alla finestra. Sulla scia di ciò passiamo a ascoltare M. C. focalizzando l’attenzione, in particolare, sull’esperienza dei gilet jaunes ponendole a confronto con quanto sta andando in scena in questi giorni.

Per prima cosa, anche se in maniera estremamente stringata, vorrei chiederti cosa ti ha portato dai gilet jaunes al movimento dei precari e dei disoccupati.
L’esperienza con i gilet jaunes è stata molto utile e importante ma aveva un limite la sua incapacità di costruire organizzazione e programma politico tra gli operai e i proletari. In poche parole non aveva, e per sua natura neppure poteva averla, una linea di classe. Questo è abbastanza normale in movimenti che mettono insieme diversi settori e strati sociali e, almeno all’inizio, questo ci sta. Nelle situazioni di crisi entrano in gioco tutti quelli che della crisi sono vittime per cui la genericità del movimento è più che comprensibile, ma se questa genericità si perpetua allora diventa un limite enorme. Questo è ciò che è accaduto con i gilet jaunes. Bisogna rilevare, infatti, che non si è stati in grado di bloccare la produzione, di organizzare uno sciopero generale nonostante, nel movimento la presenza di operai, precari e disoccupati fosse notevole. È indicativo il fatto che le nostre manifestazioni si tenessero il sabato e non avessimo mai neppure pensato di bloccare la Francia in un qualche altro giorno. Inevitabilmente quel movimento, privo di una chiara linea di classe, si è spento. Personalmente avevo iniziato a distaccarmene, nel senso che non avevo più un ruolo attivo e militante, già prima che il movimento si esaurisse e mi sono indirizzata verso l’attività del Collectif Chomeurs Precaires che qua a Marsiglia iniziava a muovere i suoi primi passi. Ho fatto questo perché, come ti ho detto, ciò che ho riscontrato dentro l’esperienza dei gilet jaunes è stata proprio l’assenza di un programma operaio e proletario ma vorrei anche precisare meglio quanto detto proprio perché il collegamento tra l’esperienza dei gilet jaunes e l’approdo al Collectif ha una sua continuità. Come ti ho detto dentro i gilet jaunes vi era una componente proletaria rilevante ma di quale proletariato stiamo parlando? La componente proletaria presente tra i gilet jaunes era proprio quel proletariato precario, disoccupato e quella classe operaia impiegata nel settore privato, cioè la nuova composizione di classe la quale vive una condizione di marginalizzazione ed esclusione politica e sociale. Una condizione che, tra l’altro, mi appartiene. Questo il motivo per cui, dopo l’esperienza dei gilet jaunes, mi sono collocata in una realtà formata essenzialmente da precari e disoccupati. Una condizione che, qua a Marsiglia, è quella ormai maggioritaria.

Sulla base della tua esperienza ci sono, e nel caso di che tipo, delle differenze tra il movimento che sta scuotendo la Francia in questi giorni e i gilet jaunes?
Sicuramente sì, le differenze ci sono e neppure di poco conto. Per prima cosa la composizione di classe. Il movimento sulle pensioni è essenzialmente un movimento legato al lavoro subordinato pubblico le cui condizioni sono del tutto diverse da quelle degli altri operai e proletari. Per capirsi ormai c’è una grossa fetta di proletariato per il quale la pensione è solo un miraggio per cui è ovvio che nei confronti di questa lotta è abbastanza tiepido. Nella loro confusione i gilet jaunes esprimevano una loro radicalità, generica, indistinta, tanto è vero che dentro c’era un po’ di tutto, anche molta frustrazione propria delle classi sociali che più che in via di proletarizzazione sono in via di pauperizzazione anche se, questa è una cosa che in molti non notano, oggi proletarizzazione e pauperizzazione tendono a essere la stessa cosa, insomma per quanto caotico e senza alcuna prospettiva, era un movimento carico di una notevole radicalità. Tutto ciò, nel movimento attuale, non c’è. Basta vedere le dinamiche di piazza e i comportamenti della polizia.

Cioè?
Se guardi a quello che succedeva nel corso dei sabati dei gilet jaunes e a ciò che accade nelle manifestazioni attuali, la cosa è evidente. Il livello di scontro è imparagonabile e teniamo presente, perché è fondamentale, che in quel caso la pratica della violenza aveva veramente una dimensione di massa con anche forme di auto organizzazione non proprio trascurabili. Nel movimento di oggi questo non c’è e i rari episodi di scontri e attacchi, continuamente sovra esposti dai media, sono soprattutto il frutto di alcuni gruppi con l’estetica del conflitto che battaglie di strada vere e proprie. Dei gilet jaunes si può dire tutto, e io non credo di essermi sottratta a una critica anche piuttosto dura nei loro confronti, ma non che avessero l’estetica o la simbologia del conflitto. Nei sabati dei gilet jaunes la battaglia di strada c’è stata a tutti gli effetti. Il comportamento della polizia mi sembra abbastanza eloquente. Oggi la polizia, nei confronti di questo movimento, si muove con il freno a mano tirato sapendo benissimo che, in fondo, siamo di fronte a delle scaramucce e nulla di più. Al proposito basta confrontare il modus operandi della polizia a Sainte – Soline a quello che si è visto nelle piazze recenti. Il livello di scontro è decisamente basso e la polizia, o meglio il governo, si guarda bene dall’innalzarlo. A Sainte – Soline la polizia ha operato dentro uno scenario di guerra perché di fronte aveva un movimento con determinate caratteristiche non certamente prono a una qualche forma di mediazione cosa che, invece, mi sembra si possa tranquillamente dire della stragrande maggioranza dell’attuale movimento sulle pensioni.

Quindi, secondo te, questo movimento non è in grado di radicalizzare lo scontro e non ne ha neppure l’intenzione poiché, alla fine, immagina di poter giungere a una qualche forma di accordo?
La cosa non è così scontata perché la situazione è in movimento e tante tensioni sono nell’aria. Certo è che se a dominare la scena sarà la composizione di classe che ha condotto la lotta sino a questo momento le prospettive non sono delle migliori basta pensare che, il massimo che c’è stato dopo la firma di Macron sono state le battiture delle pentole ma, come ti ho appena detto, la partita è tutt’altro che chiusa perché la possibilità che nell’immediato futuro a scendere in campo siano anche gli altri settori operai e proletari non è così impensabile. Mi auguro che non sia solo una mia speranza.

Giunti a questo punto chiudiamo la seconda puntata delle nostre “Cronache marsigliesi” ascoltando M. L. al quale abbiamo chiesto un approccio maggiormente politico e analitico.

Ciao, la prima cosa che vorrei domandarti è una valutazione complessiva su quanto sta accadendo in Francia e, ovviamente, con un occhio particolare sulla realtà marsigliese. Hai avuto modo di sentire quanto raccontato nelle precedenti interviste per cui ti chiederei, per capirsi, più astratto che concreto.
Intanto cominciamo con il dire che tanto la giornata del 6 quanto quella del 12 hanno visto un certo riflusso. Inutile nasconderlo i numeri sono calati. Il Congresso della CGT ha visto l’affermazione della sua ala più destra che, nell’immediato, ha comportato l’epurazione di tutte quelle situazioni dove militanti di estrema sinistra avevano raggiunto un qualche ruolo organizzativo. La CGT ha asfaltato la sinistra e tutti quegli spazi che per un certo periodo si erano aperti al suo interno si sono chiusi. Vedo che in Italia in molti guardano alla CGT bé dalla Francia posso dire che è un abbaglio clamoroso e lo dice uno che, comunque, non si è fatto problemi a interagire con questa organizzazione. Qua a Marsiglia dove, per la sua composizione sociale, questa lotta è di fatto una lotta di minoranza l’entusiasmo è stato notevolmente ridotto. Gli altri settori di classe non sono entrati in gioco e quindi, tutto quello che quel movimento poteva dare lo ha dato. La natura sociale di questo movimento è per sua natura riformista poiché si tratta di quella composizione di classe che ha il “patto socialdemocratico” nel suo DNA. Quindi, il suo orizzonte, è sempre stato tutto interno al sistema capitalistico il che non significa che questo settore di classe non abbia fatto, almeno in passato, lotte di notevole spessore e radicalità. Sicuramente il “patto socialdemocratico” è stato anche nelle corde della borghesia che su quello ha costruito interi decenni di dominio ma occorre anche ricordare che i termini di questo “patto” sono sempre stati oggetto di una lotta serrata perché la borghesia mirava a costruire un patto al ribasso, concedendo il minimo, mentre gli operai miravano al massimo. Le condizioni di vita di questo proletariato garantito sono state il frutto di lotte e battaglie e, usando un termine che a voi italiani piace molto, una forma non proprio irrilevante di esercizio di potere operaio. Tutto ciò, ovviamente, appartiene alla storia di ieri perché il modello capitalistico attuale non prevede alcuna possibilità di “patto”. L’attacco di Macron mira esattamente a questo, destrutturare del tutto le postazioni di forza di ciò che, in qualche modo, possiamo definire come aristocrazia operaia. Si tratta di un progetto non solo francese tanto che, qualcosa di simile, lo stiamo osservando anche in Inghilterra e Germania. Anche in quei paesi tutto ciò che rimanda a forme di rigidità operaia, postazioni di forza, esercizio di potere sui posti di lavoro è sotto attacco. A fronte di ciò mi sembra che si possa parlare di offensiva unitaria del comando capitalista contro le vecchie fortezze operaie. Questo movimento, se rimane all’interno delle coordinate attuali, non può che essere sconfitto poiché non si rende conto che i padroni hanno completamente cambiato le regole di gioco.

Quindi consideri questa battaglia inesorabilmente persa?
Non sarei così drastico o meglio credo che questa situazione sia in movimento e alcuni inizi di rottura all’interno di questo fronte iniziano a manifestarsi. Per dire, qua a Marsiglia, l’occupazione spontanea della stazione ferroviaria e il blocco dei treni è stata opera dei ferrovieri, cioè di quella composizione di classe che è scesa in piazza dietro alla CGT. Dobbiamo tenere presente che Macron vuole spazzare via e destrutturare le condizioni di vita di questo proletariato e che non vi sarà mediazione possibile. Qualcuno lo sta capendo, bisogna vedere se il fenomeno sarà limitato o assumerà connotati di massa.

Secondo te, questo movimento potrebbe cambiare pelle?
Cambiare proprio pelle non credo perché è difficile pensare che un settore sociale abituato a vivere in un certo modo, diciamo da ceto medio, possa approdare a modalità di lotta e di scontro di un certo tipo ed è anche difficile che, in tempi brevi, metabolizzi il fatto che è la borghesia a imporre un determinato livello di scontro. Quello che può succedere è che inizino a esserci delle contaminazioni tra questo settore di classe e il resto del proletariato, in questo caso lo scenario inizierebbe a cambiare ma anche in questo caso dobbiamo andare cauti con i facili entusiasmi. Per essere chiari, capisco l’entusiasmo che in molti nutrono per la banlieue ma se tutto quel potenziale non trova una forma politica organizzata rischia di essere, come già sta accadendo, semplice materiale per la saggistica sociologica.

Ma voi, come precari, disoccupati, organismi di quartiere come vi state muovendo?
Intanto stiamo preparando, attraverso continue iniziative di lotta, il Primo Maggio che potrebbe essere già un primo banco di prova di tutto ciò che si sta muovendo. Per il resto lavoriamo alla costruzione di forme di organizzazione stabili perché lotta e organizzazione non possono che marciare unite. Le lotte senza organizzazione non vanno da nessuna parte, l’organizzazione senza le lotte è solo micro burocrazia.

Chiudiamo qua, in attesa del Primo Maggio, la seconda puntata delle “Cronache marsigliesi”. Sono molti i nodi che queste corrispondenze stanno portando al pettine per questo, dopo il Primo Maggio, cercheremo di ragionare, sulla base di quanto i “materiali empirici” ci hanno fornito, in termini decisamente più analitici per il momento auguriamoci solo che i “siberiani” non rimangano alla finestra.

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Come un’onda che sale e che scende* https://www.carmillaonline.com/2023/01/25/come-unonda-che-sale-e-che-scende/ Wed, 25 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75695 di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta [...]]]> di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.

L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.

Il testo qui recensito segue il percorso della lunga onda, che sale e scende attraverso i secoli e le società, delle lotte dei lavoratori e dei ceti disagiati fin dal comparire di un’economia di mercato in età medievale, moderna e, infine, contemporanea. Un’analisi delle rivolte e della loro organizzazione che, secondo l’autore, è possibile svolgere proprio a partire dal lavoro di Marx sulla sfera della produzione e su quella della circolazione. Sostenendo, sulla base degli scritti del rivoluzionario tedesco, che la seconda non si riduce, come sosterrebbero gli “ortodossi” alla sola sfera dello scambio, ma che farebbe invece da sfondo all’agire sociale nel suo insieme poiché, come spiega Clover nel poscritto all’edizione italiana: «Una volta che l’agricoltura di sussistenza e il baratto locale sono sradicati, e le forme di servitù assoluta trasformate oppure occultate dalla legge, il proletariato, di qualunque tipo esso sia, si trova a dipendere dal mercato»2. E quindi ad agire all’interno di essa.

E’ in questo contesto che si svilupparono i riot del tardo medioevo e della prima età moderna, che raccoglievano poveri delle città, contadini rovinati dal progressivo diffondersi di norme economiche e legali che ne impedivano la sopravvivenza secondo le vecchie tradizioni comunitarie e strati sociali il cui unico orizzonte era rappresentato dalla necessità di ottenere un abbassamento dei prezzi per poter sfamare la propria persona e/o la propria famiglia. Riot in cui spesso erano protagoniste le donne che vivevano sulla propria pelle tutte le condizioni appena riassunte e che cercavano, nella sostanza, di imporre una forma di riduzione o di controllo dei prezzi delle merci.

Sono questi riot che precedono lo sciopero nel titolo. Sciopero che, tra mille difficoltà e durissimi scontri, diventerà la forma di lotta e di organizzazione della forza lavoro fin dall’apparire in Inghilterra della Rivoluzione Industriale e che rimarrà, nei fatti e nell’immaginario collettivo, lo strumento determinante per la battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Almeno fino alla seconda metà del ‘900 in Occidente.

Forma di lotta prevalente all’interno della sfera della produzione che, però, finiva col costituire anche una forma di controllo dei prezzi attraverso un innalzamento del valore della forza lavoro.
In qualche modo la lotta intorno al mercato del lavoro finiva col sostituirsi a quelle intorno al mercato popolare e urbano. Forma di lotta spesso vincente sul lungo e medio periodo, ma che spesso ha finito coll’escludere dall’orizzonte proletario forme di lotta e fasce sociali che non potevano vantare un’appartenenza alla classe operaia o lavoratrice. Ma, c’è sempre un ma…

Storicamente, la forza dei lavoratori si è basata sulla crescita del settore produttivo e sull’abilità nel prendere possesso di una parte del sovrappiù in espansione. Dalla fine degli anni Settanta in poi, i movimenti dei lavoratori sono stati costretti a negoziati difensivi, venendo obbligati a tenere in vita le aziende capaci di fornire i salari e rendendo manifesta la dominazione del capitale in cambio della sua stessa preservazione. Chi lavora compare sulla scena in un periodo di crisi in quanto lavorator* e affronta una situazione nella quale “lo stesso fatto di agire come una classe appare come una costrizione esterna”. Tale dinamica, che potremmo descrivere come la trappola dell’auto-affermazione, è diventata una forma sociale generalizzata e un quadro concettuale, la razionale irrazionalità della nostra epoca. Il disordine intrinseco al riot può essere inteso come un’immediata negazione di tutto questo3.

Sottolinea più volte l’autore, nel corso del testo, che l’analisi delle lotte non può essere scissa da una teoria della crisi e da un’analisi materialistica delle condizioni in cui vengono a svolgersi e del contesto generale in cui si sviluppano.

Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti4.

Potremmo aggiungere, come fa lo stesso autore in altra parte del testo, le lotte valsusine contro il TAV e dei Gilet Jaune in Francia, che proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore intorno alla questione dell’innalzamento dell’età pensionabile proposta da presidente Macron e dal suo governo.

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo5.

Come si afferma ancora nella Nota editoriale del Gruppo di Ricerca Ippolita che ha voluto la pubblicazione del testo in Italia:

Il libro di Clover contribuisce a ridare dignità politica al riot, aiuta a ricostruire storicamente le sue trame costituite in gran parte da rivendicazioni più che legittime, ne propone una teoria in chiave marxiana. C’è, però, un elemento che, più di altri, ci ha convint* a pubblicarlo nella collana “Culture radicali”: il fatto che invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico. Esso pertanto comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’economia di produzione perde di centralità a vantaggio di quella di circolazione. Ciò fa sì che non sia solo il luogo e il modo a mutare, cioè la fabbrica e lo sciopero, ma necessariamente anche il soggetto che si riconfigura lungo gli assi della razza e – aggiungiamo – del genere, oltre a quello tipico della classe. Elemento, quest’ultimo, che comunque si ridefinisce comprendendo quelle fasce di popolazione tradizionalmente escluse dal concetto novecentesco di proletariato: i corpi che non contano. È sotto gli occhi di tutt*. In una congiuntura unica tra necropolitica di stato, disastro ecologico, neoliberalismo da rapina, tecnologie del dominio, violenza di genere e razzismo, negli ultimi dieci anni ha avuto luogo una serie straordinaria di eventi insurrezionali in ogni angolo del mondo […] In questo groviglio inseparabile di istanze e lotte, la tradizionale contrapposizione tra sciopero e riot salta, non funziona più perché figlia di un’altra epoca. Chi oggi insorge chiede migliori condizioni di vita – non solo un salario migliore –, chiede giustizia nelle sue diverse e numerose declinazioni. Questo percorso è ancora in divenire e, se è difficile prevederne l’esito, è, invece, facile immaginare che questa marea sia solo all’inizio e che non si placherà tanto facilmente. Di tutto ciò Joshua Clover propone una teoria brillante e sofisticata; il nostro intento, pubblicandolo, è che questo testo possa diventare uno strumento utile per le lotte di oggi e di domani6.

Certo, all’interno della teoria e della pratica del riot c’è stato un salto qualitativo rispetto a quelli ancora definiti dal Riot Act emanato da re Giorgio I nel 1714. Non a caso nel testo di Clover l’evoluzione è indicata dall’uso della formula riot-sciopero-riot’ che rinvia immediatamente a quella marxiana dell’accumulazione D-M-D’ , marcando un passaggio per accumulo di esperienze e di istanze che rendono i riot contemporanei diversi da quelli del passato. Intanto perché nel capitalismo attuale la sfera della circolazione si è ampliata ben al di là del mercato come luogo di scambio di merci.

Partendo dall’assunto marxiano che «La circolazione e lo scambio di merci, non crea nessun valore»7, Clover osserva che:

Sono categorie infinitamente problematiche e in questo hanno un peso i limiti di questo tipo di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, uno dei tratti distintivi della nostra epoca, sembrerebbe in un primo momento garantire una soluzione adeguata a questo problema, portando a una circolazione dei prodotti che tende verso la realizzazione come profitto del plusvalore valorizzato altrove. Altri sostengono la tesi contraria, e cioè che lo spostamento nello spazio aumenti il valore di una merce. Di fatto, nella loro accezione più ristretta, i “costi puri di circolazione” potrebbero limitarsi a quelle attività che istituiscono lo scambio stesso, il trasferimento astratto del titolo di proprietà: vendite, contabilità e attività simili. Inoltre, anche la finanziarizzazione e la “globalizzazione” (termine con cui si estende l’estensione verso i confini planetari delle reti e dei processi logistici, guidati dall’innovazione informatica) dovrebbero essere intese come strategie temporali e spaziali orientate verso l’internalizzazione di nuovi input di valore provenienti, rispettivamente, da altri luoghi e da altri tempi. Questo, tuttavia, può soltanto corroborare l’assunto secondo cui la fase attuale del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo; è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza. I dati sono, in questo senso, illuminanti. Come osserva Brenner, «[d]al 1973 a oggi, la performance economica degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone è peggiorata secondo tutti gli indicatori macroeconomici standard, ciclo dopo ciclo, decennio dopo decennio (con la sola eccezione della seconda metà degli anni Novanta)»8. La crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del lungo boom precedente. Anche se stabilissimo che il trasporto può essere parte tanto della valorizzazione quanto della realizzazione del profitto, dovremmo in ogni caso confrontarci con il fatto che i grandi avanzamenti sul piano del trasporto globale e l’accelerazione del tempo di turnover rispetto agli anni Settanta coesistono, nelle maggiori nazioni capitaliste, con il ripiegamento della produzione. […] In ogni caso, né la spedizione delle merci né la finanza sembrano aver arrestato la stagnazione e il declino della redditività globale. […] Tuttavia, questo non significa che tra gli effetti non ci sia stato quello di consolidare i profitti delle singole aziende, che possono ottenere vantaggi competitivi dal calo dei loro costi di circolazione, in una politica beggar thy neighbour (“impoverisci il tuo vicino”) trasposta nell’era dell’informatica. […] Senza addentrarci troppo nel labirinto marxologico, possiamo affermare in modo piuttosto incontrovertibile che nel periodo in questione il capitale, di fronte a profitti notevolmente diminuiti nei settori produttivi tradizionali, va a caccia degli utili oltre i confini della fabbrica – nel settore FIRE (Finance, Insurance e Real Estate), secondo le rotte predisposte dalle reti globali della logistica – pur non trovandovi alcuna soluzione percorribile alla crisi che, in prima battuta, l’ha allontanato dalla produzione. Anzi, l’agitazione è sempre più frenetica, gli schemi più elaborati, le bolle più grandi, e più grandi le esplosioni. In un moto di disperazione dialettica, lo stesso meccanismo che ha incluso il capitale nella sfera fratricida della circolazione a somma zero opera più o meno allo stesso modo nei confronti di un numero crescente di esseri umani. Crisi e disoccupazione, i due grandi temi de Il Capitale, sono entrambi espressione del tragico difetto del capitalismo che, nella ricerca del profitto, deve prosciugarne la sorgente, scontrandosi con i suoi limiti oggettivi nell’incessante rincorsa all’accumulazione e alla produttività […] L’unitarietà di questo fenomeno rende manifesta anche la contraddizione tra plusvalore assoluto e relativo. Le lotte intercapitaliste per ridurre i costi di tutti i processi correlati arrivano alla reiterata sostituzione della forza lavoro con macchine e forme di organizzazione più efficienti, e questo, nel tempo, aumenta la ratio del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, espellendo l’origine del plusvalore assoluto dalla lotta per la sua forma relativa. La crisi è uno sviluppo di queste contraddizioni fino al punto di rottura. Ciò prevede non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione. Le fabbriche vanno tranquillamente avanti. Cercando salari altrove, chi è stat* licenziat* scopre che l’automazione che avrebbe dovuto ridurre la sua fatica si è ormai generalizzata nei vari settori. Adesso il lavoro non utilizzato si accumula gomito a gomito con la capacità produttiva non utilizzata. È la produzione della non-produzione. Siamo tornati, in una forma in qualche modo diversa, a una questione di classe, nella forma in cui Marx la descrive nel Capitale come “sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiori infine sono lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”9.

Chi è espulso, o sta per esserlo, dai luoghi di produzione e dal mercato del lavoro non può far altro che colpire il capitale là dove finge ancora di aggiungere valore ai suoi prodotti ovvero bloccando reti stradali e autostradali, ferroviarie, informatiche e porti. Forse per questo le leggi sui blocchi stradali, come qui in Italia, vanno organizzandosi in forme sempre più dure.
Motivo per cui mentre nel ‘700

lo stato era lontano, mentre l’economia era vicina. Nel 2015, lo stato è vicino e l’economia lontana. La produzione è nebulizzata, le merci sono assemblate e distribuite secondo catene logistiche globali. Anche i prodotti alimentari più basilari possono essere stati prodotti in un altro continente. Nel frattempo, si è sempre a tiro dell’esercito permanente interno d ello stato, progressivamente militarizzato con il pretesto di dover fare la guerra alle droghe o al terrore. Il riot’ non può fare a meno di sollevarsi contro lo stato: non c’è alternativa10.

Tra gli obiettivi immediati, lo abbiamo visto negli Stati Uniti con i riot avvenuti dopo l’uccisione di afroamericani dal 1992 a Los Angeles fino ad oggi, vi sono infatti i commissariati di polizia, luoghi in cui la violenza e la sopraffazione statale espongono spesso il loro vero volto. Ma anche i supermercati o catene di negozi il cui saccheggio odierno finisce col riunire il riot’ con il suo predecessore più antico

La principale difficoltà nella definizione del riot deriva dalla sua profonda correlazione con la violenza; per molti, questa associazione è talmente connotata dal punto di vista affettivo, in una direzione o nell’altra, che è difficile da dissipare, rendendo arduo, in questo modo, osservare anche altri aspetti. Non c’è dubbio che molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. […] Che i danni alla proprietà siano equiparabili alla violenza non è tanto una verità, quanto l’effetto di un’adozione di un particolare discorso sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implica una specifica identificazione degli esseri umani con una ricchezza astratta di qualche tipo e che porta, ad esempio, alla considerazione giuridica delle corporations in termini di “persone”. In ogni caso, l’enfasi sulla violenza del riot riesce efficacemente a oscurare la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che giorno dopo giorno perseguita le vite di gran parte della popolazione mondiale. La visione di una socialità generalmente pacifica nella quale la violenza scoppia soltanto in circostanze eccezionali è un immaginario che solamente alcuni si possono permettere. Per gli altri – la maggioranza – la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa uno strumento di esclusione, indirizzato non tanto contro la “violenza”, ma contro gruppi sociali specifici. Inoltre, per più di due secoli, anche gli scioperi hanno spesso fatto ricorso alla violenza: battaglie campali tra chi lavora, da un lato, e poliziotti, crumiri e picchiatori mercenari, dall’altro, che al loro culmine assomigliavano a scontri militari11.

Occorre, per motivi di spazio chiudere qui il discorso su un testo che presenta molti validi motivi per essere letto e diffuso, costituendo una sorta di storia del capitalismo e delle sue crisi attraverso lo sguardo dal basso che proviene da chi lotta, in un mondo in cui razializzazione delle lotte e coincidenza tra chi lavora e chi è comunque costretto a consumare apre nuovi e problematici orizzonti di ricerca per il lavoro militante, non soltanto teorico. E anche se molti attivisti e militanti di “sinistra” vorrebbero avere a che fare con lotte e obiettivi già ben delineati e “facili” da perseguire, Clover sottolinea ancora come una caratteristica di queste lotte possa essere quella di una certa familiarità con le destre.

Il tentativo di pseudogolpe attuato negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è stato senza dubbio un riot di destra, la piazza Syntagma della reazione. Un anno più tardi, sono stati i “Freedom Convoys” ad apparire in varie località, con il blocco delle principali arterie e dei corridoi commerciali come protesta contro i protocolli medici imposti dagli Stati in risposta alla pandemia. I blocchi più duraturi sono avvenuti in Canada, e la parentela di questi riot con la variante nazionale canadese dei gilets jaunes, nel 2019, non è passata inosservata. Tuttavia, quei riot portavano con loro anche i ricordi dei blocchi indigeni sugli assi di comunicazione transfrontalieri, economicamente cruciali, tra il commercio canadese e gli Stati Uniti. Tale deriva attraverso lo spettro politico chiarisce quello che dovrebbe essere già evidente: le lotte della circolazione sono una tecnica. Non hanno un contenuto politico prestabilito. In un certo senso, anzi, il loro contenuto è la mancanza di contenuto: sono lotte che ricevono una definizione in funzione della loro apertura a un ampio ventaglio di attori sociali, e possono quindi diventare la via maestra per l’espressione di una vasta gamma di tensioni sociali. D’altro canto, non si tratta di una situazione completamente amorfa. Questi riot di destra hanno un carattere nazionalista, razzista, devoto alle gerarchie e alle pratiche di dominazione, che non può passare sotto silenzio. Per contro, tale analisi non può essere svincolata dalla constatazione che il declino nelle opportunità di vita è arrivato a lambire quei gruppi sociali che per lungo tempo non ne erano stati toccati: la “classe media”, la petite bourgeoisie, e così via. Il motivo per cui tutto questo arriva talvolta a lambire la sinistra (come per buona parte del movimento Occupy) e talvolta la destra (come per i Freedom Convoys) non è chiaro. Siamo entrati in un periodo storico in cui i palliativi e i disciplinamenti dell’economia sono sempre meno a disposizione, e lo stato è sempre più obbligato a imporre con la forza il proprio ordine, apparendo sempre di più come il principale antagonista in campo. Potrebbe essere che questo sviluppo corrisponda a un indebolimento dello stesso spettro politico destra-sinistra, il cui orientamento, ormai, non è facilmente individuabile tra i poli-, pro- e anti-stato, pro- e anti-capitalismo. Allo stesso tempo e indipendentemente da una simile volatilità ideologica, queste forme di contestazione continuano a essere le armi a disposizione di chi subisce l’esclusione dalla buona vita, di chi soffre lo spossessamento delle proprie terre (senza che vi sia alcun assorbimento nella classe operaia), di chi riceve il marchio generazionale dell’essere stati proprietà di qualcun altro e di chi sperimenta la degradazione nell’ambito del lavoro domestico. È il conflitto che sceglie i propri attori, e non viceversa; questo, tuttavia, non sminuisce in alcun modo le lotte, gli sforzi, i rischi e la furia morale che informano i conflitti, così come non sminuisce il fatto che questa individuazione si basa, tra l’altro, sul fatto che le storie di depauperazione sono anche storie di formazione di classe. Tutto ciò non sminuisce le speranze di emancipazione che hanno queste persone. Ed è questo che, con ogni probabilità, manda in tilt l’equilibrio rappresentato dalla terza ambiguità. Le lotte della circolazione, in costante crescita, non si assoggettano con facilità ad alcuna volontà politica e sono qui per restare. In questo frangente, le loro tecniche possono essere appropriate da qualsiasi tipo di gruppo sociale, anche da quelli che aspirano a una distruzione reciproca. Chi continuerà a ribadire la qualità emancipatrice di tali lotte dovrà accettare il fatto che dentro alla rivoluzione ce n’è sempre un’altra: non una rivoluzione centrata sul significato di queste lotte, ma su quello che esse riusciranno a realizzare, sul loro ambiguo futuro12.

* Il titolo scelto vuole costituire un omaggio a uno degli studi più significativi sulla violenza nella storia e nella società, Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine di William T. Vollmann. Pubblicato all’inizio deI 2004 negli USA ha visto, l’anno successivo, l’uscita di una versione ridotta a un solo volume che rappresenta il frutto di oltre vent’anni di lavoro, uscita in Italia con il titolo Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (Mondadori 2007 – oggi ripubblicato da Minimum Fax, 2022).


  1. Cfr.: M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Bollati Boringhieri 1989 e la polemica tra Togliatti ed Elio Vittorini sui contenuti di «Il Politecnico», una rivista di politica e cultura fondata dallo stesso Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre1947. Il periodico basato su un programma antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”, conteneva, tra le altre cose, saggi di sociologia e testi di letteratura americana. Cosa che continuava la ricerca di nuove e vitali esperienze letterarie già avviata da Vittorini con la sua celebre antologia Americana, uscita nel 1942 ma accompagnata, come afferma Michela Nacci nel suo lavoro sull’antiamericanismo, da «un’introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere; la letteratura americana è “letteratura barbara, o in certo qual modo primitiva”, è “come dementata e percossa dal ballo di san Vito”» ( p. 14). Tale introduzione all’antologia sarebbe stata rimossa soltanto nell’edizione Bompiani del 1968.  

  2. J. Clover, Lotte della circolazione: tre ambiguità in J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, p.220  

  3. J. Clover, Riot. Sciopero. Riot, op. cit., p. 49  

  4. Ibidem, p.21  

  5. Ibid, p. 19  

  6. Gruppo di Ricerca Ippolita, Nota editoriale in J. Clover, op. cit., pp. 9-10.  

  7. K. Marx, Das Kapital [1867]; tr. it. di A. Macchioro, B. Maffi (a cura di), Il Capitale, UTET, Torino 1996, p. 214  

  8. R. Brenner, What’s Good for Goldman Sachs, prologo all’edizione spagnola di The Economics of Global Turbulence [2006], La economía de la turbulencia global, Akal, Madrid 2009, p. 6.  

  9. J. Clover, op. cit., pp.41-45  

  10. Ibidem, p. 48  

  11. Ibid., pp. 30-31  

  12. Ibid, pp. 230-232. Sugli stessi temi si veda anche S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

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Ti ricordi del 15 ottobre… Due movimenti e un paese in caduta libera https://www.carmillaonline.com/2021/10/16/ti-ricordi-del-15-ottobre-due-movimenti-e-un-paese-in-caduta-libera/ Fri, 15 Oct 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68718 di Jack Orlando

È il 15 ottobre del 2011. A Roma. Una turba inferocita devasta il centro storico. Il tentativo di convogliare l’opposizione sociale alle misure di austerity sotto un cartello di compatibilità riformista va in fumo, assieme a un blindato dei carabinieri, in frantumi con la celeberrima madonnina di coccio. L’indignazione ha ceduto il passo alla rabbia. E menomale.

È un biennio movimentato, quello del 2010-2011, in mezza Europa.

Nel portare avanti lo scontro c’è una composizione eterogenea di lavoratori, disoccupati, teppisti, occupanti di casa e democratici arrabbiati, ma soprattutto c’è una grossa componente di giovanissimi, a cavallo tra [...]]]> di Jack Orlando

È il 15 ottobre del 2011. A Roma. Una turba inferocita devasta il centro storico. Il tentativo di convogliare l’opposizione sociale alle misure di austerity sotto un cartello di compatibilità riformista va in fumo, assieme a un blindato dei carabinieri, in frantumi con la celeberrima madonnina di coccio. L’indignazione ha ceduto il passo alla rabbia. E menomale.

È un biennio movimentato, quello del 2010-2011, in mezza Europa.

Nel portare avanti lo scontro c’è una composizione eterogenea di lavoratori, disoccupati, teppisti, occupanti di casa e democratici arrabbiati, ma soprattutto c’è una grossa componente di giovanissimi, a cavallo tra le scuole superiori e l’università, reduci e colpo di coda dell’Onda studentesca che, nel loro piccolo, hanno appreso l’arte dell’esercizio della forza in piazza, sanno come respirare in mezzo ai gas lacrimogeni, sanno avanzare e indietreggiare, erigere una barricata e disselciare un viale. Una componente che vive quel giorno anche come un salto di qualità, un possibile inizio.

Invece il salto è un inciampo. Si cade a terra tra i distinguo e i “però”, tra le dissociazioni e le dietrologie, tra le scuse al capo dello Stato e il paternalismo forcaiolo dei salotti TV.

Un giorno è poca roba nel grande schema delle cose, eppure quel giorno il mondo guarda Piazza San Giovanni, una festa di fuoco e pietre che volano, i giornali sono in fibrillazione, i commentatori tra lo scatenato e l’attonito, la politica dissimula il brivido sulla schiena con una caterva di contumelie e intimidazioni. La Grande Minaccia, il pericolo per la democrazia, è una gioventù che ha scritto sul suo vessillo di guerra “non chiediamo il futuro ci prendiamo il presente!”.

Non ci si è presi nulla poi, se non carichi pendenti. Ma son cose che capitano. Essere giovani e non essere schedati è una contraddizione quasi biologica.

Dieci anni fa. Un secolo, un mondo fa. A guardarsi attorno viene quasi un senso di vertigine a pensare alla distanza incolmabile con quel ieri. Di mezzo ci stanno le stagioni dei populismi, degli odiati tecnocrati, dei movimenti sociali che tentano la via della rappresentanza, delle mareggiate sovraniste. È invecchiato tutto in un batter di ciglia. Gli incendiari populisti si son fatti tiepidi amministratori della miseria, i malefici tecnocrati sono diventati i primi ministri del consenso unanime, il NO dei referendum alle riforme strutturali capovolto nel NO della catena di comando, perché gli ordini si eseguono non si discutono; i sovranisti tentano di dismettere con imbarazzo le vecchie croci uncinate e i cappucci a punta.

In coda alla carrellata, la Pandemia: il colpo apoplettico che fa stramazzare l’organismo ormai sfinito e manda tutto a carte e quarantotto.

Di quella gioventù che un decennio fa accarezzava la minaccia del rovesciamento dell’ordine delle cose è rimasta a malapena un ombra sbiadita, l’assalto al cielo le è scivolato tra le dita, piano, giorno per giorno, in una generosa pantomima di militanza sempre più autoreferenziale e sconnessa dai propri soggetti di riferimento ed in una quotidiana precarietà che ha inibito il riscatto.

Ora, dopo un decennio di anniversari di quella giornata campale a San Giovanni, celebrati a colpi di post malinconici e altisonanti sulle bacheche dei social, tipo veterani di una guerra di indipendenza dimenticata dal resto del mondo, gli antagonisti si scervellano sulle nuove mobilitazioni contro il green pass, quelle per cui questo 15 ottobre sarebbe dovuto diventare (l’ennesimo) “primo giorno della rivoluzione”. Starci dentro, stare contro, o dentro e contro?

Ancor di più, si scannano sul dare o meno solidarietà a un sindacato confederale attaccato da una banda di neofascisti durante un corteo No Green Pass.

È un vecchio vizio, radicato come un riflesso pavloviano, quello della tifoseria e della solidarietà automatica, per cui qualunque cosa accada bisogna schierarsi dal lato di uno dei due pretendenti, pure quando entrambe le parti ci sono egualmente nemiche, pure se schierarci vuol dire stare dalla parte dei garanti dello status quo, soprattutto, senza mai chiedersi qual è il nostro possibile peso nelle vicende. Questo, specialmente, quando di mezzo ci sono i fascisti; la tara del frontismo antifascista non molla mai la presa.

E allora, quel sindacato il cui servizio d’ordine che esattamente dieci anni fa placcava i dimostranti strappandogli il passamontagna, consegnandoli ai gendarmi e a giorni di galera, mesi di cautelari e anni di peripezie giudiziarie e personali; quel sindacato che (pur andando lungamente a ritroso nel tempo) ha sempre ostacolato l’iniziativa dei lavoratori, ha boicottato, avversato e criminalizzato qualsiasi ipotesi lo travalicasse, che si è immancabilmente schierato dalla parte dei padroni; ora sembra un fratello ferito, un baluardo di dignità. Solo perché si è preso due ceffoni da un paio di gorilla neonazisti e cocainomani.

E si scomodano paragoni roboanti, a sottolineare la misura dello scollamento dalla realtà, che verrebbe da ridere se non scadessero nell’osceno: due vetri rotti, qualche scrivania scassata rievocano il 1921, quando ai sindacalisti li prendevano di notte e gli sparavano in faccia davanti alla famiglia o li appendevano ai lampioni nudi e massacrati; tre vasi di fiori schiantati in terra e una cornicetta frantumata equivalgono alla strage di Odessa, quella dove la sede dei sindacati è bruciata da cima a fondo, con donne incinte strangolate col filo del telefono e innocenti con le gambe fracassate per essersi buttati dalla finestra nel tentativo di fuggire dal fuoco vennero finiti a bastonate sul selciato.

Landini pare un novello Di Vittorio, che manco quando prese le manganellate con gli operai della Thyssenkrupp, la CGIL come le truppe del maresciallo Tymoshenko alla riva del Volga.

Bisogna dargli solidarietà! Anche se li abbiamo sempre (giustamente) considerati dei venduti, dei collaborazionisti, dei nemici. Bisogna essere affianco a loro perché altrimenti si è automaticamente e inequivocabilmente dalla parte dei fascisti!

Da queste pagine si è parlato a più riprese di epidemia delle emergenze, ovvero della produzione di emergenzialità come forma di governo e della difficoltà a sottrarsi all’agenda stabilita dal nemico.

Sempre là stiamo. Nell’incapacità di uscire da dicotomie imposte e problemi falsati, nel non trovare lo spazio per fare un passo a lato e schivare il colpo: fanculo la CGIL e fanculo ai camerati!

Semmai il punto dev’essere, perché l’iniziativa è potuta partire da un gruppuscolo insignificante che vive di pagliacciate mediatiche, di estetica del conflitto patriottarda, e non dalla nostra parte?

Perché può esprimersi quella forma della politica e non un’altra?

Senza stare a rimestare il tema della crisi della militanza, pur sempre valido, si può cominciare guardando alle stesse mobilitazioni cui stiamo assistendo.

Una composizione acefala ed eterogenea, spuria, che si mobilita contro un dispositivo di controllo sociale in difesa della propria libertà, personale e di impresa. Ci stanno lavoratori, ci stanno imprenditori grandi e piccoli, studenti, qualche prete, qualche gruppo di matti complottari e anche strutture politiche, Forza Nuova come anche collettivi a noi più vicini.

Di certo interessante, se fossimo sociologi. Se siamo animali politici, molto meno.

Questo perché in politica, come nello sport, il tempo è fondamentale. Il timing.

La medesima piazza, la medesima composizione, in differenti momenti può esprimere un segno completamente opposto. Il 6 novembre è troppo presto, dice Lenin, l’8 sarà troppo tardi.

Così, le piazze datesi alla chiusura del Lockdown potevano essere attraversate con spirito d’inchiesta, con la curiosità verso uno spazio inedito che si stava aprendo, ma nulla se ne poteva cavare fuori: troppa la confusione sotto il cielo, troppa l’impreparazione nostra.

Meglio le proteste dello scorso ottobre, quelle del “Tu ci chiudi, tu ci paghi”, dove il rapporto tra spontaneità, rivendicazione e disposizione al conflitto faceva presagire dei margini di intervento e radicamento in quella composizione, dove le parole d’ordine erano ancora sufficientemente ambigue e contraddittorie da permettere una loro torsione in senso antagonista. Così non è stato, e non avrebbe senso star qui a dire “è colpa mia, è colpa tua”. È un dato di fatto, come si è aperta quella parentesi, così si è chiusa.

Ora, in quella chiusura si dà l’opposizione al Green Pass, il focus si è ristretto, la parola d’ordine è netta. Il Green Pass deve essere ritirato. Perché lede il nostro diritto a disporre del nostro corpo, perché è obbligatorio, perché mette un’ipoteca sulla nostra libertà personale, perché sono io a decidere quello che posso o non posso fare. Eccolo qua, il nocciolo.

Probabilmente mai, negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un sussulto così liberale dell’opinione pubblica. A fare mostra di sé per le strade è il vessillo della libertà personale: il cardine morale, culturale e antropologico di una società incentrata sul suo ceto medio con la sua propria libertà di impresa e la sua mentalità bottegaia elevata a spirito di popolo, all’apice di una crisi di nervi. Io faccio il cazzo che mi pare. Questo è il vero mantra di fondo.

A chi dice che in mezzo a quei cortei non ci si può stare perché son tutti fascisti, vorremmo sottolineare questo non secondario aspetto, della centralità assoluta e inarginabile della libertà personale, che ne fa la piazza perfetta per la difesa della cultura liberale di questo paese, allattata a decenni di Democrazia Cristiana e berlusconismo. Altro che fascismo, che legge e ordine, qua si grida “aprite le gabbie”. Poi, certo, si potrebbe pure notare che le sortite dei camerati, in un frangente di mobilitazioni diffuse a livello nazionale, si sono concentrate praticamente tutte su Roma, unica città dove sussiste il nocciolo duro di una formazione abbastanza spregiudicata da mettersi puntualmente in mostra sotto i riflettori.

Chi invece guarda ai quei dimostranti come una massa di trogloditi creduloni, terrapiattisti, maniaci del complotto e fuori di testa vari, dovrebbe far mente locale, tornando a quel 15 ottobre di dieci anni fa, al seguito che avevano le stramberie sui massoni che governano l’UE, sul “signoraggio bancario”, lo straseguito pseudo-documentario Zeitgeist. Certo i complottismi avranno pure subito una mutazione qualitativa e quantitativa, ma la differenza fondamentale con oggi, la faceva la presenza di una determinata parte e ipotesi politica, la “nostra”, in grado di tenere banco. E gli altri vengono a catena. Anche la stessa rivendicazione piccolo-borghese, a ben vedere era presente dieci anni fa. Ma sono i rapporti di forza a stabilire il segno della parola d’ordine e dentro quelle piazze, di forza da mettere sul piatto, ce ne stava.

Che il Green Pass sia buono oppure no, che venga ritirato o no, lo spazio di possibilità si è già chiuso. Per noi e pure per i camerati. Se ne sta, bello e buono, tutto dentro il campo di internità al sistema democratico. Non è una strada, è un vicolo cieco.

E che di istanza liberale si tratta, ce lo dimostra questo nuovo 15 ottobre, questo nuovo appuntamento con la Storia risoltosi in un nulla di fatto. Come per tutte le fasi di questo movimento, vige la norma della ciclotimia, per cui ad una fase di crescita, di comizi partecipati e belle marce segue l’appello all’insurrezione, il rilancio in grande stile, magari preceduto da qualche tafferuglio, come stavolta. Ma al giorno dell’appello non si presentano in molti, era successo alle stazioni dei treni, è successo stavolta. Finché si tratta di berciare, di fare teatro o di minacciare di bastonare il sindacato e di giustiziare i giornalisti son tutti d’accordo, quando si chiama all’adunata generale tutti fanno sì con la testa. Poi, quando il sindacato viene bastonato, il giornalista preso a calci, quando si tratta di affrontare la potenza dello Stato, scuotono la testa inorriditi. La violenza, l’azione diretta, lo scontro reale sono estranei a tale composizione che, nonostante i toni, non chiede altro che un intervento dello Stato e dei suoi apparati, per la difesa della libertà individuale. Un corto circuito su impianto democratico.

Ecco dove urge quel passo a lato, quella rottura del dispositivo di produzione d’emergenzialità.

La rivendicazione della libertà soggettiva è il grido di un mondo che si vede scivolare la terra sotto i piedi, domandandosi se ci sarà posto per lui dopo la ripresa, dopo la grande ristrutturazione del mercato. La libertà del cittadino democratico resta, volente o nolente, la libertà proprietaria. Quella vecchia e consunta di lockesiana memoria, per la quale chi non ha, semplicemente, non è.

Ma cosa ci dovrebbe fare con questa libertà, quello strato di popolazione che di terra sotto ai piedi non ce ne aveva nemmeno prima, cui la pandemia ha oscurato una prospettiva di futuro che già di per sé aveva ben poca luce e tante nebbie?

È il caso di tornare al quel primo 15 ottobre, a quel Ci prendiamo il presente. Riprendere l’iniziativa, riprendere la centralità del conflitto, riprendersi un proprio Tempo per tornare ad essere.

Essere soggetto e motore di sconvolgimento sociale, di rovesciamento dello stato di cose. Ecco l’unica libertà per chi da questo modo di produzione non ha nulla da guadagnare, per chi aspira ad essere classe e avanguardia di classe. Ribaltiamo la questione, la nostra di libertà è disciplina collettiva, lavoro di talpa, predisposizione allo scontro. È decisione politica.

Il passo a lato, dicevamo poco sopra. Il merito più grande di queste ultime mobilitazioni è stato di rendere esplicito, più di quanto non fosse, il tema davvero centrale della fase: la Ripresa. Nella condanna unanime dello Stato agli eccessi delle piazze si è subito parlato di stretta repressiva e di intolleranza verso qualunque “attacco alla ripartenza”. Come se al porto di Trieste o di Genova avessero messo in piedi uno sciopero per bloccare il PNRR.

Lo strumento Green Pass è una minuzia appariscente in un mastodontico piano di ristrutturazione del capitale che muterà gli assetti dell’economia del paese e, di riflesso, della sua politica interna ed estera, con grosse quanto ancora imprevedibili ricadute sociali; della collocazione dell’Italia all’interno del sistema Europa, oggi più impaziente che mai di aumentare il suo peso in un incerto e mobile scacchiere internazionale.

Dalle strette di mano nei vertici globali, ai piani d’investimento, alle aziende che chiudono battente, giù fino all’ultimo fattorino che bestemmia per il rincaro della benzina, c’è un enorme sommovimento tellurico che ancora non ha fatto sentire i suoi scossoni più pesanti e che è comunque sotto i nostri occhi.

Questo è un passo a lato che occorre fare, una battaglia che è tutta da preparare, con cura, prima ancora che da combattere; l’unica progettualità autonoma possibile è quella che gioca d’anticipo sui tempi dello scontro. Per discutere di green pass, giusto o sbagliato che sia, è bello che tardi, figuriamoci per conquistarsi una centralità antagonista lì dentro. Altre piazze si daranno, altri tumulti, altre parole d’ordine, altri 15 ottobre. Ma perché siano fecondi, quello a cui occorre prestare attenzione è al grande processo e alle sue ricadute materiali e particolari. Quello che occorre fare è organizzare l’imprevedibile.

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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile https://www.carmillaonline.com/2020/03/04/sullepidemia-delle-emergenze-e-sulla-catastrofe-come-campo-del-possibile/ Wed, 04 Mar 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58473 di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e [...]]]> di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.

Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.

Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.

La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.

Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di un’epidemia reale con effetti reali e che, a meno che non si sia studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli esplodere possibilmente, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è sempre stata ostile.

C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di tutto il pianeta2?

Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari, taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre, assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
E’ anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico. Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei suoi motori.

Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi mostrano tutta la loro fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza disinteressata.

Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.

A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media, Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.

Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa, respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano statunitense3.

Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare, da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.

E’ come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto, la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.

Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto, attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.

Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa; ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere sfruttata.

Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il fallimento.

L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6. Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima emergenza è in casa del nemico.

Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti eccezionali come la militarizzazione dei territori.

La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale, e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in condizione di difficoltà nel trasmetterlo attraverso una catena del comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.

Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale, il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora, assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli infermieri8; è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei, vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di auto-organizzazione, ed qui che si deve inserire l’antagonista militante per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.

Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia. Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui). Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare l’accumulazione di capitale.

Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e spesso ostili, nazionalità9. Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del loro soggetto cardine.

Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste. Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei rapporti sociali dovrebbe imporre.

È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità, lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.

Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima catastrofe10 .

Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo, fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?

Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.


  1. Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978  

  2. Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui  

  3. Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane  

  4. Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus  

  5. Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019  

  6. È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non  

  7. Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
    “Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)  

  8. Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo  

  9. “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020  

  10. L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento…
    Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione… A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale  

  11. Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982  

  12. Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019  

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Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/estetiche-del-potere-i-manifesti-dopo-il-68/ Fri, 04 Sep 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24241 di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono [...]]]> di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.
1969-operai-studenti-unitiLa prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistra rivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dalla produzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazione essenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spesso provocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simboli e modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze e contraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosi alle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spetta anche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffonde negli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altre fonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo di matrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazione grafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cinese viene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedi politiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente la sinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quanto riguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla “comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicative dei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politica istituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono ad incidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

tesseramento pci 1979__1980Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politica istituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alle tecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative dei movimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad una sostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Il sistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere la trasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed il ritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine del paese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domande che si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposte istituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistema capitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzione radicale.
L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio degli anni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo La Malfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di uno stile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispetto all’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista al fine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppur rinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie con l’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano la tradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.
Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative dei partiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panorama politico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali che animano la scena: giovani, operai e donne.

psi 1972Il mondo giovanile, sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinito graficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fine anni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loro autorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vista grafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverli rappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurata attraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente il Partito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendo a fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente, a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nella continuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano ad utilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma, tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschio risulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa ad esaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, in sostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi la medesima immagine viene utilizzata con finalità opposte. Fgci1977_tesseraGambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto di Uliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzata dalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvare l’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana per ricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorrono alle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quello specifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsi attraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, ad esempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifesti vuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intende associare il partito alla giovinezza.

1968_fabbrica_pciGli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partiti politici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare il mondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia, preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamente un cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio, adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partiti della sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede un lavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi da lavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandona l’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio in marcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del ’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomo maturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenze dell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione di conflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteo conflittuale ed allo sciopero.
Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi di fantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo la caricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questa viene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

manifesto_dcLa donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistema politico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta di una rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da una parte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra a depotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempi antichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale, raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventano consumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processo di “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruita dall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per vendere merci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsi all’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando non esclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglie nell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, molti manifesti politici ripropongono la tradizionale associazione “donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengono contestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto alla sinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presa di parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simboli femministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa, l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature e fotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni di questa nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette a divulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versi partito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immagine femminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

manifesto_psi_00Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e, successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile non solo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e il volto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8 marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a una giornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979, quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forza politica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua a mantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo diviene quello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflitto per renderla narrazione epica”.
Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni ’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

pci 1975 donna_jpgIn un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invito esterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nel manifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anche mio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonista del suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In un manifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti per la prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immagine mostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena è associato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche in questo caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che, agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.
La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a parte l’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali) nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifesti femministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni alla famiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessun partito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpo femminile”.

1975_violenza_jpgParlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese.
La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.
dc_76_violenzaMolti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni, fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte ad una comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e della conflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politica si avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tanto che, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusi attraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

 

 

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)
– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)
– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)
– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)
– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)
– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)
– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)
– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)
– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)
– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)
– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)

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