Scientology – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 15 Sep 2025 22:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 ‘O rumore mio… https://www.carmillaonline.com/2016/11/03/o-rumore-mio/ Thu, 03 Nov 2016 22:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34181 di Sandro Moiso

postindustriale Marcello Ambrosini, POST-INDUSTRIALE. La Scena Italiana Anni ’80, con una prefazione di Luther Blisset e un CD con 9 brani ( della durata di 55’ e 32’’), GOODFELLAS 2016, pp.288, € 22,00

«Gli strumenti a corda, i fiati, gli ottoni, ecc. devono essere sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] E quanto al mezzo del suono sarà preferibile usare l’elettricità, il magnetismo, la meccanica, in quanto essi escludono più efficacemente l’intromissione dell’individuale» (Piet Mondrian, 1922)

La storia del rumore nella musica italiana, come riassume bene il testo appena pubblicato da Goodfellas nella collana Spittle, ha [...]]]> di Sandro Moiso

postindustriale Marcello Ambrosini, POST-INDUSTRIALE. La Scena Italiana Anni ’80, con una prefazione di Luther Blisset e un CD con 9 brani ( della durata di 55’ e 32’’), GOODFELLAS 2016, pp.288, € 22,00

«Gli strumenti a corda, i fiati, gli ottoni, ecc. devono essere sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] E quanto al mezzo del suono sarà preferibile usare l’elettricità, il magnetismo, la meccanica, in quanto essi escludono più efficacemente l’intromissione dell’individuale» (Piet Mondrian, 1922)

La storia del rumore nella musica italiana, come riassume bene il testo appena pubblicato da Goodfellas nella collana Spittle, ha ormai più di un secolo di vita. Risale infatti ai primi esperimenti del futurista Luigi Russolo che lo teorizzò nel suo “L’arte dei rumori” comparso a Milano presso le Edizioni futuriste di «Poesia» agli inizi di Settembre del 1916 e lo espresse musicalmente a partire da un primo concerto pubblico tenuto a Modena il 2 giugno 1913.

In un paese in cui la tradizione “classica” e, soprattutto, del “bel canto” hanno dato e continuano a dare il peggio di sé avendo inficiato ogni genere musicale dal folk fasullo della canzone napoletana alle colonne sonore di Ennio Morricone passando per la passione per la musica lirica e il pop dei Pooh fino al mefitico Festival di San Remo, era inevitabile che, prima o poi, la reazione in termini artistici ed espressivi dovesse essere radicale e violentissima.

Anche se la musica post-industriale italiana degli anni ’80 ha preso per lo più spunto dagli esperimenti di musica industriale che alcuni gruppi come i Throbbing Gristle, i Nurse With Wound, i Cabaret Voltaire, i Clock DVA oppure i primi Einstürzende Neubauten avevano avviato fin dalla fine degli anni Settanta, in una sorta di marxiana “negazione della negazione” rispetto al punk nato tra il 1976 e il 1977,1 risulta evidente, a seguito di uno sguardo più attento e approfondito, che lo specifico culturale e musicale italiano ha avuto un peso enorme nel determinare l’estensione di un fenomeno che, ovviamente, senza avere avuto importanti risultati di mercato ha segnato in maniera importante l’ambiente della musica undeground nazionale. E non solo.

Ho citato alcuni esempi e vorrei chiarirli. E’ noto che tutta la musica napoletana più celebrata, da ‘O sole mio a ‘O surdato ‘nnammurato tanto per intenderci, non fu affatto il prodotto della cultura popolare ma piuttosto quello di poeti, giornalisti e musicisti che vollero ricondurre il canto sgraziato e i ritmi percussivi, poi riscoperti negli anni Settanta dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, della tradizione partenopea all’interno del bel canto espresso dalla prima musica pop italiana della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento: quella lirica che infiammava le platee e i palchi dei teatri e faceva sgorgare lacrime di commozione tra gli ascoltatori di ogni estrazione sociale. Alimentando quel mercato degli spartiti che avrebbe fatto la fortuna della Casa Ricordi e che non sarebbe potuto esistere sulla base della semplice produzione dal basso della musica folk, sempre modificata nei testi e nelle esecuzioni, secondo l’esperienza dell’oralità.

Così mentre in altri paesi, dal Nord Europa agli Stati Uniti, le dissonanze, il mancato rispetto dei canoni delle partiture musicali istituzionalizzate e le basi ritmiche e poliritmiche rimanevano a segnare la distanza tra un suono e l’altro e tra una cultura musicale “bassa” ed una “alta” all’interno delle musiche popolari o folk (dal blues ai reel scoto-irlandesi, tanto per semplificare con degli esempi), in Italia veniva istituzionalizzata e canonizzata la “musica d’autore”, con tutte le limitazioni creative e i guadagni che questa finiva col produrre.

Mentre, per fare un esempio, fin dalla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti rimaneva chiara la differenza tra la musica prodotta a Tin Pan Alley2 e quella di origine nera o derivata dal folk di origine europea, qui in Italia la musica popolare fu per eccellenza quella riconducibile ad un autore, possibilmente colto. Tanto da far sì che anche i canti della lotta partigiana finissero con l’essere il risultato dell’adattamento di canzoni di origine sovietica o slava, spesso entrati nella tradizione “resistenziale” pur essendosi diffusi a posteriori. Valga per tutti l’esempio di “Bella ciao”, il cui percorso di formazione è piuttosto complesso e contraddittorio, ma che nel contenuto, sostanzialmente nazionalistico e patriottico,3 rivela la propria funzione moderatrice e di unità nazionale e partitica, alla faccia di chi ancora adesso la intende come una canzone di lotta “rivoluzionaria”.

Ma, scusandomi con il lettore per essermi forse spinto troppo oltre con questo sintetico excursus, è giunto il momento ritornare all’argomento del libro in questione che espone, in maniera dettagliatissima, un’esperienza che, per quanto artigianale (come la definisce Luther Blisset nella prefazione) e molto spesso ai limiti della clandestinità, ha segnato significativamente i suoni dell’ultimo trentennio, tracciando, se mi è permessa la forzatura, una sorta di arco temporale e creativo ideale tra Russolo e certa visual art, la musica techno e la ricerca sonora degli ultimi decenni.

l-arte-dei-rumori Con le schede contenenti la storia e le discografie di più di cinquanta artisti e band, il testo di Ambrosini si presenta come l’opera più documentata su un genere musicale che non è stato accettato in ambito istituzionale e neppure in quello pop, per quanto alternativo. L’unico testo prodotto precedentemente in questo campo era stato quello inserito da Paolo Bandera all’interno del Manuale di cultura industriale edito dalla Shake.4

Per questo motivo e per il fatto che “il post-industriale (e la cassette culture più in generale) è una scena in cui l’estrema artigianalità del prodotto fatto-in-casa – come le copertine con singoli collage originali e titoli scritti a mano – e anche l’amatorialità e la mancanza di tecnica musicale paiono essere non dei disvalori bensì dei pregi.”,5 si potrebbe inserire il movimento in una sorta di folk o post-folk radicale, definizione che sicuramente potrebbe suscitare i brividi o l’opposizione di alcuni dei suoi membri e cultori.

Se non che “Si tratta del culto condiviso col punk per il non musicista (creativo) visto anche come estremo sberleffo alla patinata e vuota “professionalità” del mainstream, alla prevedibilità omologata dell’industria del rock (ma, attenti, quella del “genio dilettante” è soltanto una faccia di un poliedro dai molti lati, ci sono perfino artisti industrial diplomati al Conservatorio!). Tra i nuovi valori introdotti dal network non solo post-industriale ci sono tuttavia, per dirla col tape-artist Hal McGee, quelli della triade di principi operativi “Contatto – Comunicazione – Collaborazione”, che ci permettono di leggere il nuovo attivismo di rete anche in chiave di prolungamento e aggiornamento delle istanze controculturali delle generazioni beat-hippie, andando magari a riconsiderare anche l’occultato “lato oscuro” dei Cinquanta-Sessanta in reazione a un ventennio di “buonismo” di facciata (vedi la Family di Charles Manson, spesso citata e rivisitata al pari di altre inquietanti sette para-religiose, da Scientology a The Process). Le “tattiche dello shock” che caratterizzavano gli albori industrial, dando vita ad ambiguità politiche a non finire (critica e indagine “per non ripetere gli errori del passato”, o fascinazione ed exploitation di temi morbosi e perversi?), i suoni urticanti e le parossistiche urla in feedback del power electronics, sono una delle tante sembianze di una scena multimediale che si è poi avvalsa di strategie articolate e sofisticate, non solo rumore-e-grida ma anche impeccabile collagismo ed eretica improvvisazione post-lisergica (coi Nurse With Wound come capiscuola), rigorose disamine del linguaggio delle macchine (trovando nuovi e obliqui utilizzi per synth, drum machines, computer e strumenti auto-costruiti), un ritorno alle origini rituali e magico-religiose del ritmo, ricerche sulla “musica metabolica” e i poteri segreti del suono, esercizi nel riciclo di suoni catturati nell’ambiente naturale e urbano (seguendo i consigli del manuale burroughsiano «The Electronic Revolution» più che i maestri della musique concrète), rarefazioni concettuali che si abbeverano alle sorgenti dell’audio art e della performance art, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.6 Cosa che di fatto lo trasferisce e lo trattiene, quindi, all’interno di una modernità artistica ancora non superata.

«Ricordo che negli anni Ottanta, con 20.000 lire andavamo da un rottamaio e procuravamo strumenti per tutta la band; ferraglie abbandonate e arrugginite che prima erano servite per tutt’altri scopi. Riutilizzare materiale che a suo tempo era servito per il lavoro è stata per noi una sorta di rivendicazione».7 Questa dichiarazione di Osvaldo Orioli delle OFFICINE SCHWARTZ, gruppo nato a Bergamo nel 1983, riassume sicuramente bene un aspetto importante della prima generazione post-industriale.

Il suono della musica industriale, caratterizzato dall’impeto meccanico proveniente dalla macchina, è assorbito e restituito dalle Officine Schwar¬tz sotto forma di canto popolare. Le Officine, sorte a Bergamo nel 1983, sono i primi a considerare rilevante il fattore umano: la macchina non esisterebbe senza l’uomo, e sempre senza l’uomo non funzionerebbe. La fabbrica è il risultato di questa interazione, luogo che si nutre della vita dell’operaio rendendolo un ingranaggio, uno dei tanti, apparentemente superfluo.
Il fulcro del discorso affrontato dalle Officine parte proprio da questo binomio: da una parte il macchinario, dall’altra l’ingranaggio superfluo.
8

Però questa scelta è soltanto una di quelle possibili all’interno del magmatico e variegato movimento in cui, spesso, i nomi scelti dagli artisti e dai gruppi (Pankow, Mauthausen Orchestra, Laxative Souls, Swastika Kommando, solo per citarne alcuni) ci ricordano che l’intento provocatorio si abbinava ad un’indole iconoclasta che riprendeva, ampliava e per alcuni versi “aggravava” gli atteggiamenti musicali e la scelte estetiche del primo punk.

Sorgeva da quei solchi, ma sarebbe meglio dire nastri, un urlo, un bisogno di rottura che, in maniera magari più contenuta e intellettualistica era già stato espresso dalle sperimentazioni del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza (GINC), fondato a Roma nel 1964 da Franco Evangelisti ed operativo fino alla metà degli anni Settanta, che alcuni rappresentanti del Post-industriale, però, come Pietro Mazzocchin avrebbero portato alle estreme conseguenze.

Attivo tra l’82 e l’85, Mazzocchin ha disseminato il panico sonoro attraverso
svariate sigle: Swastika Kommando, Observation Clinique, New Sadism, Noise & Kreg, Metabolismo Tossico, Terrorismo Genetico e Lyoto Music, quest’ultima in collaborazione con Zoppo.
L’opera di Mazzocchin è tra le più impressionanti e intense del panorama
europeo anni Ottanta. Nella sua musica ogni cosa è ridotta a maceria, come fosse stata distrutta da un terremoto e poi abbandonata. A volte si percepisce nella furia disumana un brandello di ritmo, e i pochi resti sono coperti da una colata di rumore bianco che, come vento forte e gelido, porta via anche l’ultima possibilità di vita. Il feedback è il sudario col quale Mazzocchin copre il cadavere della musica.
Quello operato da Mazzocchin è un attacco di immane potenza contro la realtà con cui quotidianamente si confronta. Le armi che utilizza scaturiscono da sintetizzatori e oggetti elettronici di uso comune, dai quali ottiene feedback, noise, riverberi e interferenze che utilizza per comporre maratone rumoristiche che spesso raggiungono anche la mezz’ora di durata. In tutti i suoi lavori, nessuno escluso, Mazzocchin porta avanti un discorso sin dall’inizio estremo […] In una società programmabile e programmata, Pietro Mazzocchin compie un’azione di valore uguale e contrario al comune modo di pensare e fare musica: caos sonoro allo stato puro, che va oltre l’udibile, oltre il dolore percepibile.
9

Divisi in una prima e in una seconda generazione e poi ancora suddivisi in Power Electronics e Post-industrial Esoterico, gli artisti raccontati e presentati da Ambrosini marcano una significativa differenza con le possibili musiche parallele e di ciò ci rende sonicamente edotti l’interessantissimo cd, abbinato al testo, in cui brani registrati tra il 1982 e il 1988 da Mauthausen Orchestra, Sigillum 5, Thee Three Rings, TAC, Tasaday, Luke X’s Ah Nahm Inc, Ain Sopha e F:A.R. finiscono col dare vita a una colonna sonora ideale per la sua lettura. In un tripudio di suoni disarmonici, tecniche estreme di cut’n’mix e rumori ottenuti dagli strumenti e dalle macchine più disparate.

Nonostante alcune ingenuità espressive, le autentiche degenerazioni sonore in cui sembravano precipitare i suoi principali esponenti e le sue talvolta ambigue proposte politico-musicali, il post-industriale italiano, nel suo tentativo di infrangere una retorica musicale e culturale soffocante, ha finito così con il ricollegarsi alle formulazioni più avanzate della teoria musicale del secondo Novecento.
«Noi abbiamo chiamato la nostra musica concreta poiché essa è costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia esso rumore o musica tradizionale.
Questi elementi sono poi utilizzati in modo sperimentale,mediante una costruzione diretta a realizzare una composizione senza l’aiuto, divenuto ormai impossibile, di una notazione musicale tradizionale
» (Pierre Schaeffer, Traitè des objects musicaux, Edition du Seuil, Paris 1966)10

Buona lettura e buon ascolto dunque, poiché chiunque sia realmente interessato alla storia delle evoluzioni della musica contemporanea, in tutte le sue forme, non si pentirà di averlo fatto.


  1. Nel vuoto lasciato dal fallimento della retorica apocalittica del punk rock, l'”industriale” sembrava una buona idea. La concentrazione implicita del punk, nella sua forma più pura, sulla teoria situazionista […] aveva lasciato la porta aperta a un approfondimento ancora maggiore del decadimento del capitalismo. Nell’atmosfera surriscaldata della Londra del 1977, quando il 1984 (se non l’Apocalisse) appariva dietro ogni angolo degradato, quando migliaia di occhiali scuri nascondevano una paranoia clinica, quando la struttura della società inglese sembrava essere stata dipanata dal punk rock, in viscidi fili di lotte intestine settarie – violenza fascista e di sinistra nelle strade, crisi finanziaria – tutto sembrava possibile e, anzi, necessario. Il punk a quel tempo non era andato abbastanza lontano: il suo stile era diventato una posa, cosmesi da vetrina ‘produci e consuma’ attraverso i soliti canali commerciali. C’era bisogno di qualcosa di nuovo: ma cosa c’era? Se, fino a quel momento, l’industriale era stato l’esame più completo del decadente ambiente inglese, da un punto di vista sia fisico che psichico, allora era anche una reazione molto appropriata contro quello che era diventato il punk rock – buon vecchio rock’n’roll.” Jon Savage, Linee guida della New Music, Londra 1983, cit. in Manuale di cultura industriale (vedi oltre) pag. 19  

  2. Nome dato all’industria musicale newyorkese che dominò il mercato della musica popolare nordamericana tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo. In seguito il termine fu usato per designare l’intera industria musicale” https://it.wikipedia.org/wiki/Tin_Pan_Alley  

  3. Non contiene alcun accenno all’abbattimento del fascismo nostrano, ma soltanto alla lotta contro lo straniero invasore  

  4. Paolo Bandera ( a cura di), Manuale di cultura industriale. Socio-patologia musicale dagli anni Settanta al ventunesimo secolo, Shake nella collana Re/search, prima edizione 1997, seconda edizione ampliata 2011  

  5. Luther Blisset, Prefazione. Rumori e grida, pag.13  

  6. idem, pp.13 – 14  

  7. Cit. in Marcello Ambrosini, pag.90  

  8. idem, pag.87  

  9. ibidem, pp.168-169  

  10. cit. ivi, pag.27  

]]>
Nuova Rivista Letteraria n. 3 – Utopie/Distopie https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/nuova-rivista-letteraria-n-3-utopiedistopie/ Mon, 27 Jun 2016 22:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30882 Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata [...]]]> Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata Luca Gavagna) al cristianesimo di base in Nicaragua; dalla resistenza delle donne maya ixil all’utopia autoritaria dei militari in Guatemala alle libere repubbliche No Tav della Val Susa; dall’anarchia tra Benevento e Campobasso di fine ‘800 alla  Colombia di Eduar Lanchero; dal municipalismo libertario dei curdi a Scientology e alle altre sette religiose nate dalle utopie naufragate dei movimenti di lotta. E poi ancora potrete l’utopia che alimenta la fantascienza, l’architettura, il cinema, la letteratura, la medicina, la follia, l’adolescenza, l’idea di una vita eterna e quella di spremere acqua dal vento. Qua sotto potete leggere un piccolo estratto per ogni singolo articolo che compone il volume].

Editoriale / Utopia.. pia… pia… – Giuseppe Ciarallo
Ma l’utopia è davvero qualcosa di irrealizzabile, e gli utopisti dei folli visionari, o quella di affibbiare l’etichetta di “utopico” è la maniera più comoda e veloce per liquidare un progetto che non si ha voglia, la capacità e il coraggio di realizzare? Perché se è innegabile che molte esperienze utopiche siano naufragate, è altrettanto vero che di utopia sono venate molte situazioni che invece esistono e strenuamente resistono opponendosi a una realtà che sempre più chiaramente mostra il proprio volto distopico.

Le immagini / L’utopia abitabile di Mondeggi – Silvia Albertazzi
Torna alla mente, di fronte a queste immagini, quanto Roland Barthes ebbe a scrivere sulle foto di paesaggi: che devono essere abitabili e non visitabili. Qui, Mondeggi, in effetti, non appare come un luogo per turisti, da visitare per poi passare oltre: tanto gli esterni quanto gli interni di Gavagna suscitano, piuttosto, la voglia di vivere in quei luoghi, fosse pure per un attimo.

letteraria_3dNicaragua / Gesù nella guerriglia – L’utopia del cristianesimo di base – Agostino Giordano
Nell’immaginario collettivo dei cosiddetti «cristiani del dissenso», non solo sudamericani ma anche europei e italiani in particolare, l’esperienza sandinista ha rappresentato senza dubbio un riflettore molto illuminante del percorso di lotta politica convergente con le istanze del marxismo-leninismo.

Colombia / Nel fango, l’oro dei passi – Paolo Vachino
Eduar Lanchero, non un personaggio di fantasia ma un uomo, un filosofo, un paladino dei diritti umani, un rivoluzionario, nato e vissuto in Colombia, le cui intuizioni, le sue letture del conflitto colombiano, la sua proposta di creare un modello alternativo alla violenza e allo sfruttamento, hanno scritto una pagina molto importante della Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Anarchia / Il paese di Utopia? A metà strada tra Benevento e Campobasso – Giuseppe Ciarallo
La folla era entusiasta e le parole di Cafiero conquistarono persino il parroco il quale, nella foga del momento, pare che inneggiò alla rivoluzione sociale, paragonò il Vangelo al socialismo e definì gli internazionalisti, apostoli della parola di Cristo. Nel paese di Gallo, gli anarchici ripeterono l’azione e anche qui vennero accolti come liberatori.

No Tav / Le «libere repubbliche» no tav della Val di susa – Wu Ming 1
Un movimento è rivoluzionario se converte i riferimenti agli spazi in un linguaggio e una prassi che liberano i tempi. Nella frase «resteremo qui finché vorremo», l’elemento più importante non è il «qui» – una piazza, una scuola occupata, un prato, una casa sull’albero – ma il «finché vorremo». È la rottura del tempo a dare senso allo spazio.

Fantascienza / Essere rivoluzione per abbandonare l’utopia. Una questione di fantascienza? – Alberto Sebastiani
Il capitalismo e le società su esso fondate non possono avere (ma soprattutto non vogliono) alternative, e il gruppo di Attentato all’utopia decide di debellare il “virus”: distruggere ogni traccia di questa società. Il quinto principio (2009) si fonda sul medesimo concetto di omologazione totale violenta. Il capitalismo realizzato (la sua utopia) presenta nell’ultimo romanzo di Catani una casta di ricchi abitanti della tecnologicamente avanzatissima città Diaspar (anagramma incompleto di “Paradiso”), isolata e nascosta al resto del mondo, il Mondo B, in cui le persone comuni sono rese sostanzialmente schiave del tricolon “produci, consuma, crepa”.

Lunga vita / Vivere a lungo, vivere male: utopia della longevità e liberismo – Wolf Bukowski
Ognuno desidera una lunga vita, ma quando questo desiderio è fatto proprio da un potere oppressivo assume una dimensione politica costitutivamente reazionaria. La vita lunga viene giocata contro la vita dignitosa, esattamente come la vita eterna promessa dalle religioni è posta come alternativa a una vita piena qui e ora, ed è ostacolo alla lotta per una vita emancipata su questa terra. E non è un caso che oggi, quando il socialismo sembra uscire dalla storia (anche se in verità, vecchia talpa!, sta scavando sottoterra), riprendano fiato l’illusione escatologica e i crudeli progetti divini.

letteraria_3b

Brazil / Il realismo dell’impossibile – Silvia Albertazzi
Sono moltissimi i film e i romanzi che raccontano di comunità immaginarie create da personaggi in fuga da realtà di oppressione, distruzione o morte: nella maggior parte dei casi, gli sforzi di questi pionieri dell’impossibile sono destinati a infrangersi contro le perversioni del reale; quasi sempre, le comunità utopiche nate dalla migrazione ai confini della realtà (e oltre) si danno leggi, norme, governanti che presto trasformano il sogno in incubo. Non è un caso, infatti, che in narrativa il numero delle distopie superi di gran lunga quello delle utopie, a suggerire come l’umanità sia incapace, persino nel mondo fantastico, di realizzare dal basso una comunità perfetta.

Architettura / Arte, architettura e geografia utopica. Nel bene e nel male – Cristina Muccioli
Il trionfo della disciplina si celebra sulle ceneri di una precedente, grandiosa utopia di origine proto rinascimentale, quando a Filippo Brunelleschi venne richiesto di progettare in Firenze un palazzo in grado di ospitare e soccorrere, crescere ed educare gli individui più fragili, più deboli, indifesi e improduttivi della società: i bambini abbandonati. Così nacque a partire dal 1419 lo Spedale degli Innocenti, nome comune diventato poi cognome per molti che testimoniano di questa discendenza da salvati. Fu il primo brefotrofio d’Europa, progettato per accogliere, tutelare e proteggere, non per controllare e inibire, o per meglio dirla con Foucault, per sorvegliare e punire.

Medicina / Restare umani – l’ultima utopia della medicina moderna – Franco Foschi
La storia della medicina è stracolma di utopisti e visionari. Tra quelli che preferisco, perché proveniente dai miei ambienti di lavoro della sala parto e delle neonatologie, il dottor Semmelweiss, così ben raccontato da quella detestabile e ambigua persona, medico dei poveri e gran scrittore, di Céline: Semmelweiss coltivò il sogno realistico di vivere in un ambiente privo di infezioni – e come molti utopisti realisti venne sbeffeggiato, allontanato, perseguitato, e morì solo e pazzo.

Febbre / Le radici del cielo – l’utopia visionaria di Gary – Massimo Vaggi
Non è dunque un caso che adori tra gli altri anche Romain Gary, e che consideri Le radici del cielo non solo e non tanto – come è stato affermato – il primo vero romanzo ecologista, ma un grandissimo romanzo visionario, un paradigma dell’utopia estrema.

letteraria_3Orto dei tu’rat / Un progetto ambientale che pratica l’utopia dell’oasi spremendo acqua dal vento – Milena Magnani
L’immagine di un’utopia che si persegue nel piccolo, tra gli interstizi di sassi che resistono, quella di cui si fa esperienza incontrando il progetto ambientale Orto dei Tu’rat, un paesaggio di pietra e vento che sfida l’inarrestabile avanzata del deserto. Un progetto nato in Salento, che è una delle aree europee indicate dalle ultime ricerche sull’ambiente come quella a maggior rischio di desertificazione, zona in cui i fenomeni di erosione e salinizzazione dei suoli stanno mostrando da tempo il loro aggressivo aspetto di non ritorno.

Libri per ragazzi / Senza famiglia: liberi adolescenti in libero stato – Sergio Rotino
C’è un desiderio che tutti gli adolescenti – anche noi, quando stavamo attraversando tale “tappa evolutiva” – hanno in qualche modo vagheggiato. Almeno, tutti gli adolescenti prima dell’avvento dei Social, prima dell’arrivo di quello che appare un meraviglioso (ma anche pericoloso perché ancora da testare) subsistema di democrazia diffusa, basata sull’elettronica di consumo. Il desiderio è, in pratica, quello di vivere in un mondo dove gli adulti non esistano. Spariti, come per incanto, per qualche misterioso motivo. Spariti e basta.

I matti / La città dei matti e l’utopia della realtà – Alberto Prunetti
Liberare i pazzi è stata un’utopia che si è realizzata. Che tanti psichiatri radicali hanno reso possibile. Un’utopia della realtà, per citare Franco Basaglia, un’utopia che poi deve fare i conti con una realtà che non ha più nulla di utopico, con un senso comune che è sempre più recintato dai paletti del conformismo. Insomma, aperti i manicomi, bisogna adesso ricominciare da capo: liberare le città, i quartieri, i condomini, perché il disagio psichico è diffuso quanto la tristezza e la paura.

Kurdistan / Società senza stato – Marco Rovelli
Mexmur è stata la prima città dove si è sperimentato il confederalismo democratico, che è la proposta politica lanciata da Ocalan dopo il suo arresto, e che adesso viene realizzata su più larga scala nel Rojava, il Kurdistan siriano. Una svolta teorica considerevole, quella del Pkk: da essere un partito, come tanti nati negli anni Settanta, di stampo marxista-leninista, che aveva al suo centro la richiesta di uno Stato-nazione curdo, a una teoria e a una pratica libertarie, mutuate in gran parte dai libri di Murray Bookchin, uno dei massimi pensatori anarchici del Novecento, e dalla sua teoria del “municipalismo libertario”.

letteraria_3cIsis / Dove non c’è futuro: distopia e stato islamico – Lorenzo Declich
Può essere utile, per capire questo punto, osservare che lo Stato Islamico ha riviste in lingue diverse – inglese, francese, turco, arabo – ognuna con contenuti specifici, diretti insomma a una certa comunità linguistica o nazionale (lo vedremo meglio più avanti). Pescando invece fra le varie pubblicazioni digitali troviamo testi “strategici” dedicati ai diversi contesti. Lo Stato Islamico, in “Occidente”, vede un futuro – e qui torniamo a “La Haine” – in cui dai “lupi solitari” si passa a “gang musulmane” che, fra le altre cose, “si infiltrano in altre gang”. Ecco qua. Con questa valigetta degli attrezzi parliamo di una “visione” dello Stato Islamico che – viste le premesse – non potrebbe essere altro che distopica, perché invita all’azione e alla partecipazione chi un’utopia non ce l’ha e un futuro non lo vede, chi si pone il problema di vivere “da protagonista” e/o in maniera più o meno eroica un presente senza vie d’uscita.

Sette religiose / Linguaggio utopistico e manipolazione – Giuliano Santoro
Dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in poi sappiamo che l’efficacia di ogni controrivoluzione è data dalla sua capacità di sussumere, inglobare, pervertire le istanze prodotte dalla rivoluzione. Il linguaggio del fascismo prova costantemente a impadronirsi di parole provenienti da sinistra. La grammatica neoliberista, da Reagan a Zuckerberg, è intrisa di utopie libertarie e retoriche partecipative. La sconfitta di un ciclo di lotte, il suo momentaneo esaurimento, producono sempre lo sfondamento della reazione nel campo delle narrazioni rivoluzionarie.

Mondeggi Bene Comune / Immagina, rievoca, viaggia nel tempo, veloce come il pensiero – Adriano Masci
Mondeggi, per Alessio e Duccio, non è solo un laboratorio, è invece, a tutti gli effetti, una realtà, un modello di risoluzione o comunque di risposta alla marginalità, al disagio periferico, alla disoccupazione, quando le istituzioni non cambiano nulla o aggravano le cose. In questo senso c’è uno scavalcamento del “rifiuto del lavoro” che imperversa negli anni dell’orda d’oro, ’68-’77, quando il lavoro non manca ma è sfruttamento disumano e rifiutarsi, disobbedire, sabotare, è giusto. Ora invece il lavoro è qualcosa da rifondare, perché è succube dell’algoritmo finanziario, sfrutta attraverso la flessibilità contrattuale, inibisce tramite la precarietà pervasiva, e la lotta passa attraverso l’immaginario pratico di un modello altro, che è possibile. Non senza rischiare, certo, non senza oltrepassare la legalità quando questa non coincide affatto con la giustizia sociale.

Guatemala / L’utopia nella voce – Simone Scaffidi
Ti vedi tu, ragazzo? In questo momento, fra me e te, chi ha il monopolio della parola? Forse tu non mi denuncerai ma di sicuro tradirai la mia voce con le tue mille traduzioni. Io già mi sto sforzando di parlarti in castigliano, in una lingua che non è la mia, tu dal castigliano trascriverai le mie parole nella tua lingua… e della mia di lingua che cosa rimarrà?
Il tuo monopolio. E qualche briciola del mio mais.
Per quanto tu ti possa sforzare di raccogliere le nostre testimonianze rimani un pelle di latte con il pene, e un pelle di latte con il pene può solo abbozzarlo il cammino di noi donne indigene.

]]>
L’era del manicomio chimico diffuso. Il cavallo di Troia sotto forma di pillola https://www.carmillaonline.com/2016/05/28/30383/ Sat, 28 May 2016 21:30:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30383 di Gioacchino Toni

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoPiero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2015, 256 pagine, € 15,00

«il problema in questo nuovo secolo moderno non è più il manicomio tout-court, il manicomio come lo conoscevamo, il manicomio concreto fatto di lacci, fasce, muri, sbarre, chiavistelli, porte, ma il vero manicomio si è fatto astratto, invisibile, inafferrabile, il vero manicomio, ora, si è trasferito direttamente nella testa, si è trasferito nei pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano, il vero manicomio, in questo nuovo secolo appena iniziato, [...]]]> di Gioacchino Toni

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoPiero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2015, 256 pagine, € 15,00

«il problema in questo nuovo secolo moderno non è più il manicomio tout-court, il manicomio come lo conoscevamo, il manicomio concreto fatto di lacci, fasce, muri, sbarre, chiavistelli, porte, ma il vero manicomio si è fatto astratto, invisibile, inafferrabile, il vero manicomio, ora, si è trasferito direttamente nella testa, si è trasferito nei pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano, il vero manicomio, in questo nuovo secolo appena iniziato, sono i farmaci, il vero, pericoloso, subdolo manicomio è quello chimico (e ciò che lo precede, e lo giustifica, ovvero la diagnosi» Piero Cipriano (p. 35)

Il saggio Il manicomio chimico di Piero Cipriano, per certi versi la continuazione del precedente La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), rappresenta un grido d’allarme contro la diffusione sconsiderata di psicofarmaci. Il paziente, anziché essere internato tra mura e sbarre, si trova ad assumere il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco. Il manicomio si è trasferito nella testa del paziente attraverso un moderno Cavallo di Troia che ha la forma simpatica e colorata di una pillola che, spesso, sin dal nome, promette un immediato e duraturo sollievo.
In questo libro Cipriano pubblica frammenti di “cronaca in diretta” desunti delle sue esperienze di “psichiatra riluttante” in quelle che definisce le “fabbriche della cura mentale” (SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). A tali esperienze, l’autore aggiunge riflessioni derivate dalla partecipazioni a convegni, suggestioni dettate dalla lettura di saggi e romanzi o dalla visione di film. Capitolo dopo capitolo il testo alterna dati scientifici, episodi di vita tra i pazienti e storie d’invenzione, in tutti i casi utili esempi volti a far comprendere al lettore la deriva farmacologica in atto e la funzione, a monte, esercitata dalla diagnosi. Un ruolo importante nella ricostruzione dell’invasione psicofarmacologica in atto spetta sicuramente al libro di Robert Whitaker, Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci (Fioriti Editore, 2013), testo a cui lo stesso Cipriano ricorre continuamente.

Il manicomio chimico ricostruisce i passaggi principali che hanno portato all’era della psichiatria chimica. Tutto può essere fatto risalire, secondo l’autore, al senso di frustrazione provato, sul finire degli anni Cinquanta, dagli psichiatri che si sentono gli unici medici incapaci di ottenere terapie efficaci. Entro la prima metà del Novecento la comunità medica ha a disposizione antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc. Tali farmaci erano stati individuati identificando l’agente eziologico del disturbo e, successivamente, era stata sviluppata la terapia specifica. Nel caso degli psicofarmaci, continua l’autore, «è successo il contrario: prima, accidentalmente, è stata trovata una molecola, e dopo sono state formulate delle ipotesi, più o meno verosimili, sulla causa del disturbo mentale. Ipotesi che poi, surrettiziamente, sono diventate prove (e dunque teorie), grazie a una straordinaria campagna informativa delle aziende farmaceutiche» (p. 52).
Quando, nel 1949, Hanri Laborir, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), osserva che questa alleviava il dolori nei pazienti precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico, può dirsi iniziata “la rimonta della psichiatria”. Sulla base delle osservazioni di Laborir si giunse ben presto alla sintetizzazione della clorpromazina, capace di rendere i pazienti sottoposti a precedente intervento chirurgico in una sorta di stato crepuscolare. Dal 1952 la clorpromazina venne somministrata ai pazienti psicotici di Parigi e, pochi anni dopo, nei manicomi di tutta Europa. «Siccome i pazienti, trattati con la clorpromazina, apparivano atarassici, come degli zombie […] chiamarono questa molecola, giustamente, neurolettico, perché induceva una neurolessia, nel senso che rallentava il sistema nervoso centrale, determinando sintomi simili a quelli prodotti dall’encefalite letargica» (p. 53).

whitaker indagine epidemiaEd è così che, scoperta dopo scoperta, nell’arco di nemmeno un decennio, la psichiatria si trova ad aver individuato «tre farmaci capaci di aggredire tre importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina per i malati agitati, aggressivi, maniacali, psicotici; il clordiazepossido per gli ansiosi e l’iproniazide per i depressi. Tre farmaci scoperti casualmente e prescritti secondo il criterio che ancor oggi regola la prescrizione degli psicofarmaci: ex adiuvantibus. Secondo giovamento» (p. 54). Grazie al successo commerciale ottenuto dalla clorpromazina in poco tempo si arriva a sintetizzare le principali classi di neurolettici di prima generazione, dal butirrofenone ad attività neurolettica, l’aloperidolo, il neurolettico più prescritto al mondo fino agli anni Novanta, quando fanno la comparsa neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. Tale seconda generazione pare determinare con minor frequenza effetti collaterali (come il parkinsonismo) e risultare più efficace nel trattamento delle psicosi gravi. I dati riassunti dall’indagine di Whitaker a cui fa riferimento Cipriano, sono impressionanti: «Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti. Qualcosa non funziona in questa rivoluzione farmacologica» (p. 62).

Secondo la ricostruzione proposta da Cipriano, le responsabilità della deriva farmacologica della psichiatria ricadono principalmente su quattro istituzioni americane: l’American Psychiatric Association (APA), le case farmaceutiche, il National Institute of Mental Health (NIMH) e la National Alliance for the Mentally Ill (NAMI). Nel corso degli anni Ottanta l’APA si legò fortemente alle industrie farmaceutiche ed il NIMH, che è l’organo governativo di ricerca, da parte sua, «esordì con l’eliminare dalla scena della nuova psichiatria basata sui farmaci Loren Mosher, lo psichiatra sociale che con il suo Soteria Project aveva procurato molto fastidio al pensiero unico dell’approccio psicofarmacologico. In seguito, nel corso degli anni Ottanta, il NIMH promosse una campagna detta Depression Awareness Recognition and Treatment (DART), un programma di consapevolizzazione, di riconoscimento e trattamento della depressione, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di riconoscere e curare i disturbi depressivi […] per favorire un sempre maggiore utilizzo della terapia psicofarmacologica» (p. 112). A tutto ciò si aggiunse la NAMI, un’associazione di familiari di pazienti psichiatrici «fondata da due madri e nata come protesta contro le teorie freudiane incolpanti la madre, per cui l’associazione intendeva sostenere il contrario, e cioè che la malattia mentale ha basi biologiche e non c’entra niente con lo stile di accudimento materno» (p. 112). Tale gruppo venne sostenuto finanziariamente dalle aziende farmaceutiche dal momento che il suo punto di vista finiva col coincidere con quanto portato avanti dalle altre istituzioni e, in quanto associazione di parenti dei pazienti, facilmente otteneva una certa visibilità mediatica. Quella che Cipriano definisce la “santa alleanza in nome del farmaco”, poteva dunque contare su un ente che garantiva autorevolezza scientifica (APA), sui finanziamenti economici dalle aziende farmaceutiche, sul sostegno governativo garantito da NIMH e dalla “garanzia etica” dell’associazione NAMI; «perché i familiari non sarebbero mai andati contro gli interessi dei loro cari, no?» (p. 113).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleWhitaker ritiene che a questo fronte di sostenitori della psicofarmacologia abbia contribuito, tra gli anni Settanta ed Ottanta, anche una quinta colonna: Scientology. Quando Ron Hubbard pubblicò il testo Dianetics, ove avanzava le sue proposte per affrontare la sofferenza mentale, venne deriso dalla comunità scientifica e ciò lo portò, per reazione, a scatenare un attacco frontale nei confronti della psichiatria e tale offensiva venne portata avanti congiuntamente al precursore dell’antipsichiatria Thomas Szasz costituendo la Citizens Commission on Human Rights. Si scatenarono così campagne contro gli psicofarmaci, contro l’elettrochoc e la lobotomia ma il fatto che tali attacchi provenissero da parte di una Chiesa di scarsa credibilità come Scientology prestò il fianco agli psichiatri dell’APA. La mancanza di credibilità degli oppositori alla chimica venne colta ed abilmente sfruttata anche dalle industrie farmaceutiche che giunsero, in gran segreto, a finanziare le attività di Scientology e della Citizens Commission on Human Rights. Un nemico così, se non ci fosse stato, lo si sarebbe dovuto inventare. Occorre sottolineare come l’inaspettata alleanza tra Ron Hubbard e Thomas Szasz non abbia giovato alla causa dell’antipsichiatria perorata da quest’ultimo.

Sarebbe sbagliato pensare che l’invasione degli psicofarmaci riguardi soltanto “i malati”, visto che, sostiene Cipriano, agli psichiatri ed alle case farmaceutiche interessano anche altri soggetti. Da qualche tempo la diagnosi sembra sottostare all’urgenza burocratica di considerare “malattia” qualunque disagio psichico e, come abbiamo visto, la sua cura proposta, facilmente, prevede il ricorso ai farmaci. Oggi, mette in guardia l’autore, si può diventare pazienti psichiatrici senza saperlo; per ogni stato emotivo forte esiste “il farmaco giusto” e se, ad esempio, un lutto determina uno stato di tristezza prolungato, in un attimo questa può essere rubricata come depressione e curata attraverso psicofarmaci. Soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, se un bambino, ad esempio, è diagnosticato iperattivo rischia di essere “curato” con farmaci che lo deprimono e questo stato depressivo, a sua volta, viene curato con farmaci eccitanti. A quel punto il bambino è arruolato all’interno del circuito farmacologico ed è condannato ad essere un giovane psicotico.

ciprinao_deviantiCipriano tiene a sottolineare che non intende proporre di rifiutare totalmente i medicinali ma di ricorrere ad essi con molta parsimonia, soltanto nei casi più gravi e per brevi periodi perché l’assunzione prolungata di un farmaco comporta una modificazione dell’equilibrio chimico del cervello e ciò porta ad una dipendenza da quella sostanza. Altro spunto di riflessione interessante toccato dal testo riguarda un sempre più accentuato “uso cosmetico del farmaco” che, sempre più spesso, viene richiesto al medico non per un reale bisogno ma per migliorare ulteriormente il proprio stato, per un sentirsi “ancora più in forma” e migliorare le proprie prestazioni. Degli effetti collaterali sembra non importare a nessuno; viviamo pur sempre in un mondo competitivo che richiede performance sempre più elevate, no?

_________________________

E’ in uscita, sempre per l’editore Elèuthera, il nuovo volume di Piero Cipriano, La società dei devianti (2016), opera che chiude la “trilogia della riluttanza” iniziata con La fabbrica della cura mentale (2013) e proseguita con Il manicomio chimico (2015).
Nel nuovo volume, che ci riproniamo di affrontare, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale che la nostra scoietà ha sbrigativamente definita depressione.

]]>