schiavo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Lo schiavo si libera di notte https://www.carmillaonline.com/2022/08/26/lo-schiavo-si-libera-di-notte/ Thu, 25 Aug 2022 22:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73803 di Jack Orlando

George P Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, DeriveApprodi, Roma 2022, 18€, 267pp.

La piantagione del vecchio Sud, con la sua frusta e i suoi Sambo, i Nat Turner e i padroni terrieri, è uno dei capitoli più profondi e incisivi della saga americana. Del resto, la stragrande parte di quella gigantesca minoranza chiamata afroamericani, ha origine proprio in quei campi.

Andare a cercare le tracce concrete di quella realtà impone in primo luogo di muoversi spezzando tanto le narrazioni pietistico paternalistiche quanto quelle reazionarie e razziste, entrambe facce [...]]]> di Jack Orlando

George P Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, DeriveApprodi, Roma 2022, 18€, 267pp.

La piantagione del vecchio Sud, con la sua frusta e i suoi Sambo, i Nat Turner e i padroni terrieri, è uno dei capitoli più profondi e incisivi della saga americana. Del resto, la stragrande parte di quella gigantesca minoranza chiamata afroamericani, ha origine proprio in quei campi.

Andare a cercare le tracce concrete di quella realtà impone in primo luogo di muoversi spezzando tanto le narrazioni pietistico paternalistiche quanto quelle reazionarie e razziste, entrambe facce della stessa medaglia di supremazia bianca, le prime improntate al senso di colpa le seconde al livore, e mettersi quindi sotto i piedi secoli di cultura in cui il pregiudizio razziale ha fatto da benedizione ad un sistema di sfruttamento.
Soprattutto, mette in condizione lo storico di interrogare il soggetto centrale di quella storia: lo schiavo; è a lui che si rivolge Rawick, attingendo alle dirette memorie autobiografiche di centinaia di schiavi, per comprendere quale fosse la dimensione esistenziale, quotidiana e collettiva del soggetto nero americano.1

La parola al soggetto. Atto di per sé che salva dal destino cosificato della vittima, restituendogli la sua voce e la sua verità, senza che a parlare per lui siano dei padroni bianchi o dei caritatevoli filantropi (comunque bianchi).
E dalle parole dei protagonisti emerge l’autonomia della comunità e degli individui rispetto ad un sistema sociale oppressivo, se ne sente tutta la costante ambivalenza che lacera la soggettività tra autocommiserazione e ribellione, si vede come dentro, attorno e contro alle piantagioni e alle baracche di tronchi un’intera vita comunitaria sia nata e cresciuta, costretta a riadattarsi dopo una emigrazione forzata ed a ingegnarsi per ritagliare lo spazio di realtà ai propri sogni in un reale fatto soprattutto di divieti, ostacoli ed ostilità.

L’afroamericano, che non è un mero riflesso/caricatura del bianco anglosassone come ebbe a riconoscere amaramente più di un pio abolizionista, né un africano in terra straniera, come scoprirono gli stessi leader del Black Power; è un soggetto sociale specifico e particolare, nato dall’ambiguo e violento rapporto con una società che lo aveva destinato ad un gradino della scala sociale prossimo a quello delle bestie (o delle cose) e che solo la resistenza e le sue mille tattiche di lotta permisero di conservargli e imporre la propria umanità.

Non soltanto le grandi rivolte degli schiavi, né solo l’articolata struttura informale della underground railroad, ma l’intera vita sociale e comunitaria costituiscono forme di resistenza e autoaffermazione; dalla famiglia nucleare alla cucina comunitaria, dall’integrazione della dieta con caccia, pesca e orticoltura (e, perché no, riappropriazione dalla dispensa padronale) alla ritualità religiosa clandestina, fino alle fughe, agli scioperi e al sabotaggio dell’economia che porterà alla fine al drammatico dilemma per l’esercito sudista “di arrendersi ai negri o agli yankee”.
Se dall’alba al tramonto lo schiavo viveva e lavorava per la prosperità dei suoi padroni, dal tramonto all’alba era proprietario del proprio tempo e poteva lavorare all’affermazione della propria umanità.
Un’autonomia individuale e collettiva vissuta e costruita alla luce della luna, una vita strappata con determinazione alla luce del giorno e dei sorveglianti.

Questo intreccio di comunità, resistenza e adattamento ha disegnato il profilo del soggetto sociale più inquieto degli Stati Uniti e ne ha fatto la testa d’ariete radicale di tutti i movimenti sociali fino ad oggi.
Non perché più sfruttato di altri (sottoproletariato bianco e nero hanno sempre condiviso simili condizioni strutturali d’altronde) o più brutalizzato; ma perché prodotto allo stesso tempo più avanzato e più ostile delle trasformazioni del capitalismo americano, colui su cui sono stati scaricati i costi più duri e che più si è addestrato a resistergli.
Nel ricercare le origini del razzismo americano, che nella piantagione ha la sua culla (si pensi solo a quanti distretti di polizia siano, ben oltre e al di là delle connivenze suprematiste, diretti eredi di quelle lugubri pattuglie di cacciatori di schiavi) non solo si va alla radice di un elemento fondativo della modernità capitalista, la supremazia bianco-cristiana come legittimazione del dominio e della rapina, ma si pone un’istanza di metodo che è tanto storica quanto politica.

Se infatti quella della schiavitù americana è una pagina determinata e particolare nella storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non di meno essa è parte integrante di quel ciclopico processo di disciplinamento e messa al lavoro delle masse subalterne che ha strappato intere comunità umane ai propri ritmi e forme di vita, annichilendone istinti e tradizioni, per gettarle nell’inferno della produzione capitalista forzandone l’adesione, a costo del sangue, ad un tipo di umanità adatta allo sfruttamento intensivo che venne imposto come naturale.

Analogamente a quanto fatto con le memorie degli schiavi, ed è lo stesso Rawick a suggerirlo, si può ricostruire il profilo della classe operaia (stesso discorso valga per ogni altra soggettività subalterna) andando ad ascoltarne e leggerne la diretta voce; scoprendone i tratti di ambivalenza, le resistenze e la forma di vita sociale che ha sotteso ai suoi balzi in avanti. Non per puro amore di conoscenza, ma per strapparne la storia alle mistificazioni dei padroni, quelli caritatevoli e quelli brutali, e per strappare l’ipotesi delle rotture e degli avanzamenti dagli ideologismi e dalle velleità astratte.

Nessun sistema, per quanto totale, ha il controllo pieno dei suoi sottoposti; esistono sempre e ovunque notti e zone d’ombra dove la vita si dispiega libera ed autonoma.
Ogni storia è anzitutto storia di collettività che negano la propria sottomissione e negano sé stesse in quanto dominate. Ogni processo degno d’essere studiato è una costante fuga dal dominio ed un sabotaggio del padrone.


  1. giova precisare che la pubblicazione originale è del 1972 ed è quindi da intendersi come parte integrante di quella fase di riscoperta storica e autodeterminazione sociale messa in campo dagli afroamericani nella stagione dei ‘60 

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Nemico (e) immaginario. Metafore zombie: rimossi, tensioni e paure delle società di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2017/06/23/37271/ Thu, 22 Jun 2017 22:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37271 di Gioacchino Toni

horde12Sulla rivista “Trópos”, all’interno di un interessante numero dedicato a La morte nell’epoca della cultura digitale (nr. 2/2016), è pubblicato un contributo di Antonio Lucci intitolato “Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie” ove lo studioso, partendo dalla presa d’atto che la morte è un evento liminale e che quando si parla di essa non si può che parlare di “metafore della morte”, concentra la sua attenzione su una metafora di morte particolare che ha ampia diffusione nell’immaginario contemporaneo: la metafora dello zombie.

Lo zombie [...]]]> di Gioacchino Toni

horde12Sulla rivista “Trópos”, all’interno di un interessante numero dedicato a La morte nell’epoca della cultura digitale (nr. 2/2016), è pubblicato un contributo di Antonio Lucci intitolato “Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie” ove lo studioso, partendo dalla presa d’atto che la morte è un evento liminale e che quando si parla di essa non si può che parlare di “metafore della morte”, concentra la sua attenzione su una metafora di morte particolare che ha ampia diffusione nell’immaginario contemporaneo: la metafora dello zombie.

Lo zombie è una figura sospesa tra morte e non-morte che proprio grazie al suo essere figura di soglia assume una serie di significati particolari che meritano di essere indagati storicamente. L’ipotesi da cui prende il via l’analisi di Lucci – autore di cui ci siamo già occupati [su Carmilla] all’interno della serie Nemico (e) immaginario – è che «nell’immaginario culturale occidentale (soprattutto statunitense) e “occidentalizzato” (vale a dire, quello in cui le ondate mediatiche di interesse sviluppatesi in un contesto americano hanno la maggior possibilità di sviluppo) lo zombi ha nel corso degli anni ricoperto ruoli e posizioni diverse – per lo più marginali -, fino ad arrivare, nell’ultimo quindicennio, a ricoprire un ruolo fondamentale nel sistema di rappresentazione e metaforizzazione collettiva. Questo mutamento di posizione corrisponde a un mutamento interno alla figura dello zombie, che gli ha permesso di ricoprire più posizioni nello scacchiere psichico-rappresentativo del soggetto collettivo» (p. 102). Dunque, l’autore, evitando ogni suggestione ontologica, adotta un approccio culturologico volto a ricostruire le trasformazioni subite dallo zombie e le corrispettive funzioni metaforiche.

Corpi al lavoro e corpi perdigiorno. Dalla schiavitù all’inoperosità

Le radici dello zombie, sappiamo, lo vogliono un individuo indotto alla morte al fine di essere risvegliato come schiavo. Lo zombie originario è il prototipo dell’asservimento totale al lavoro cui nemmeno la morte pone fine; «il terrore che lo zombie incute non è (tanto) quello relativo alla pericolosità, quanto quello di diventare come lui: lo schiavo senza volontà che nessuno vorrebbe essere» (p. 103). Lo zombie, a differenza di altri essere mostruosi occidentali, è slegato da un orizzonte trascendente; è puro corpo. Inoltre è collegato a «una biopolitica immaginaria dei corpi dei lavoratori. In un orizzonte ove esiste solo la carne, solo il corpo, lo zombie è l’archetipo di una corporeità totale che viene messa al lavoro: pensata e (culturalmente, attraverso il rituale) “costruita” per il lavoro, e solo per questo, senza che essa possa avere accesso al godimento e alla ricreazione, tipici di una dimensione psichica che allo zombie è preclusa» (p. 104).

Vi è stato un vertiginoso aumento di produzioni cinematografiche statunitensi incentrate sugli zombie in concomitanza con i periodi di governo più reazionario e, sottolinea Lucci, il potenziale antisistemico dello zombie è stato raccolto anche dai movimenti come Occupy Wall Street che «hanno inscenato zombie-walks proprio incarnando la radicale – anticapitalistica – inoperosità racchiusa nella figura di questo particolare undead» (p. 108). Lo zombie post-romeriariano «distrugge l’ordine esistente non tanto e non solo perché uccide le persone, quanto perché è in grado, con un solo morso, di mutare un elemento attivo e produttivo della società in uno sciatto bighellonatore delle strade, indifferente alle mode (non a caso gli zombie sono quasi sempre vestiti in maniera trasandata) e a ogni forma di coercizione» (pp. 107-108).

Le origini diversamente ciniche. Dalla malvagità individuale al complotto sistemico

In Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero lo zombie non è più frutto della volontà perversa di un individuo malvagio (uno stregone) ma di un complotto a cui prendono parte scienziati, militari e politici. Nella sua prima opera sugli zombie Romero presenta ancora una spiegazione, seppur labile, dell’origine degli zombie: i morti vengono riportati alla vita dal malfunzionamento di un satellite e vengono tirati in ballo tanto il mondo scientifico quanto quello militare con le autorità intenzionate ad insabbiare la vicenda. Nonostante nelle opere successive il regista eviti di fornire spiegazioni circa l’origine del risveglio dei defunti la teoria del complotto non viene meno.

TheCrazies896A livello cinematografico il tema del complotto, nella sua versione moderna, viene fatto risalire da Lucci a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero, film non strettamente appartenente al genere zombie ma che mostra con esso evidenti parallelismi, ove al complotto si somma l’idea di epidemia. Qua l’infezione si è propagata a causa dell’accidentale precipitare di un aereo militare con a bordo armi batteriologiche e di fronte alla minaccia della perdita del controllo il potere affronta la popolazione in maniera tanatopolitca: la sterilizzazione della località e l’eliminazione dell’intera popolazione. Secondo lo studioso «l’essere soggetti a macchinazioni bio-tanato-politiche da parte del governo, e il sospetto che le istituzioni non stiano – nei momenti dello “stato d’eccezione” – dalla parta della popolazione, rappresentano due rimossi fondamentali della società americana, che trovano sempre maggiore espressione nelle figurazioni del mostruoso incarnate dalle narrazioni zombie» (p. 110).

Dalla rimozione/ritorno della morte alla malattia. Dalla medicalizzazione della società allo stato di natura

La serie di film sugli zombie inaugurata nel 1968 da George Romero introduce importanti differenze rispetto alle produzioni precedenti a partire dall’attenzione per la morte fino ad allora assente e dal fatto che, rispetto all’immaginario haitiano, all’idea di una malvagità esterna agli zombie che li manovra sembra sostituirsi una loro pericolosità intrinseca. Con Romero gli zombie diventano morti che risorgono e che vanno a caccia di esseri umani viventi per farli diventare a loro volta zombie. Con Romero, sostiene Lucci, lo zombie «riporta la morte al centro dell’attenzione collettiva, confronta i protagonisti con l’onnipresenza – attiva – della finitezza, della finitezza propria e di quella dei propri cari» (p. 105). Inoltre l’opera romeriana è esplicitamente un’opera di critica sociale ove vengono toccate tematiche come il razzismo, il militarismo, le questioni di gender, il mondo dei media e, soprattutto, la denuncia del complotto. Lo zombie romeriano, secondo lo studioso, «rappresenta nella forma più eclatante possibile l’idea freudiana che il rimosso sia condannato a tornare: laddove la morte rappresenta una rimozione basale per le società post-illuministiche […] il ritorno nella forma allucinatoria del morto vivente entro i confini della società rappresenta una elaborazione sul piano dell’immaginario collettivo di questa assenza concerta della morte» (p. 106).

Se si pensa alla tendenziale separazione, rimozione, sottrazione dei morti dalla vita quotidiana che si è sviluppata in Occidente in età contemporanea allora, sottolinea Lucci, il cinema horror può essere visto anche come modo, per quanto fantasmatico ed immaginario, di inclusione della morte nel complesso sociale e gli zombie si pongono all’origine di tale nuova inclusione della morte nell’immaginario collettivo sostituendosi ad altre figurazioni del mostruoso dominanti fino a quel momento.

[Con gli zombie] la più antica credenza metafisica dell’umanità, quella della vita dopo la morte, viene sradicata tramite un crudele inveramento […] I morti, infatti, risorgono e sono mostruosi, non portano in sé nulla di quello che erano prima della risurrezione, nessuna traccia di quella identità individuale che li aveva resi persone – ed in quanto tali uniche – in vita, nessuna beatitudine, nessuna redenzione. Lo zombie è una delle pochissime forme di mostruosità che rappresenta un cut deciso nei confronti della trascendenza che ormai non gioca più nessun ruolo: tutto è in mano agli uomini, che sia la sopravvivenza, la ricerca di una “cura”, la creazione di un senso. Il ruolo dei mediatori della trascendenza (sciamani, streghe, maghi, preti) che in altri tipi di narrazione della mostruosità avevano il ruolo di intermediari tra il mondo dei vivi e quello delle entità mostruose che andavano combattute e scacciate, viene preso da scienziati e militari, versioni secolarizzate delle figure precedentemente elencate (pp. 108-109).

Facendo riferimento al frammento Kapitalismus als Religion del 1921 di Walter Benjamin si può affermare, sostiene Lucci,

che lo zombie è la figura della trascendenza totalmente immanente che il capitalismo come religione provoca nell’immaginario quotidiano. Laddove il capitalismo come religione “kennt keine spezielle Dogmatik, keine Theologie”, bisogna glossare che esso non conosce pure alcuna forma di trascendenza, giocandosi tutto sul piano del culto (del capitale) e dell’immanenza. Lo zombie rappresenta il rimosso, lo scarto, del capitalismo come religione: figura dell’improduttività immanente, aggressiva e distruttiva, ben incarna l’assenza di trascendenza che una religione basata solo sul culto porta con sé. Laddove, infatti, la religiosità si riferisce alla pura immanenza, anche le forme di negatività ad essa collegate, come scarto rispetto alla “positività” che essa propone, rimangono sul piano immanente, esattamente come gli zombie rispetto al capitalismo. Anche nelle figurazioni fantasmatiche in cui gli zombie distruggono l’impianto socio-economico capitalistico […] essi ne mantengono e perpetuano l’assenza di orizzonte trascendente (p. 109).

A partire da 28 Days Later (28 Giorni dopo, 2002) di Danny Boyle gli zombie si trasformano profondamente; non sono più morti che tornano alla vita ma degli infetti. Alla rimozione ed al ritorno della morte si sostituiscono la rimozione ed il ritorno della malattia e dell’epidemia. Un esempio interessante di tale trasformazione viene indicato dallo studioso nel film I am Legend (Io sono leggenda, 2007) di Francis Lawrence, tratto dal celebre romanzo di Richard Matheson, ove i mostri nel film, così come avveniva in The Crazies, non sono propriamente zombie ma degli infetti e la paura che incutono, come per gli zombie haitiani, è di tipo proiettivo; il timore è di divenire come loro. In questi, così come in svariati altri casi recenti, «non è tanto importante che essi siano univocamente, ontologicamente, “zombie”, che rispondano a caratteristiche precise […] Sono zombie perché rientrano nello schema narrativo-evolutivo […] che ha spostato l’operatore semantico-zombie dalla paura fondamentale della morte a quella della malattia, della pandemia e dei risultati sulle strutture socio-istituzionali di questi stati di eccezione» (p. 111). Tale trasformazione dello zombie in infetto, secondo Lucci, si inserisce in un immaginario del tutto in linea con un mondo secolarizzato dal quale è bandito ogni aspetto trascendente; «la pandemia e la conseguente apocalisse non portano alcuna apocatastasi, ma lasciano i sopravvissuti in un mondo irredento, anche se totalmente cambiato» (p. 111). L’apocalisse assume le sembianze di un’apocalisse secolarizzata priva di orizzonte trascendente e le cause di ciò «rientrano nel complesso di colpa che – secondo Benjamin – caratterizza il capitalismo come religione: di solito è a causa di esperimenti e sfruttamenti eccessivi del bios e del mondo naturale che l’apocalisse ha inizio» (p. 111).

Dunque, a tale senso di colpa corrisponde una distruzione dell’esistente priva di progettualità politica e tutto ciò, continua lo studioso, porta alla riformulazione del paradigma zombie espressa dalla serie televisiva The Walking Dead (dal 2010) tratta dai fumetti di Robert Kirkman. Dai timori della medicalizzazione della società imposta dal potere si passa al relegare la figura dello zombie sullo sfondo come mero espediente narrativo utile ad indagare piuttosto la dimensione antropologica e morale dell’essere umano: «si è tornati a un hobbesiano stato di natura […] dove gli zombie sono solo l’espediente che permette agli autori di descrivere la loro visione di una società che si deve organizzare da zero, dopo che le strutture socio-politiche sono andate perdute a causa dell’epidemia […] sono le interazioni tra le persone e i gruppi umani a farla da padrone nella narrazione kirkmaniana» (pp. 111-112). Nella serie viene mostrata una situazione post-apocalittica ove le strutture sociali sono saltate ed ove vige la legge del più forte e di chi è in grado di adeguarsi alle mutate condizioni ambientali.


Qua l’intera serie Nemico (e) immaginario

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