Saw – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La violenza nel cinema contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/10/21/la-violenza-nel-cinema-contemporaneo/ Wed, 21 Oct 2015 21:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25382 di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, [...]]]> di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, autore del saggio “Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo”, si ravvisa la certezza che le immagini della violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva ed, inoltre, in entrambi i casi, si ripropone l’annosa questione circa la difficoltà, se non l’impossibilità, di misurare la disposizione alla violenza di un individuo prima e dopo aver osservato immagini violente. Di maggiore utilità, secondo l’autore, risultano gli studi che, anziché preoccuparsi delle reazioni del pubblico di fronte alla violenza cinematografica, si occupano di come la violenza che attraversa la società influenzi il desiderio di assistere a film violenti.

Voglio-vedere-il-sangueUno dei motivi del successo della violenza cinematografica è dovuto al fatto che le regole del cinema narrativo impongono alla violenza sullo schermo di non essere gratuita, di avere un senso ed una struttura, cioè che vi sia consequenzialità tra gesti e comportamenti dei personaggi. Il cinema, a differenza di altri media in cui le immagini tendono ad essere decontestualizzate, offre allo spettatore una logica narrativa capace di far comprendere la violenza senza che per forza la si debba condividere. Nel cinema dell’epoca del codice Hays, ad esempio, la censura più che alla rappresentazione della violenza è interessata alle modalità di rappresentazione del mondo del crimine; “Il problema, ieri come oggi, non consiste nel tasso di violenza e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale a partire dalla quale – attraverso la narrazione – il film ordina e struttura le proprie immagini”. La violenza in un film, per poter essere socialmente e culturalmente accettata, necessita di una giustificazione che permetta allo spettatore di valutarla moralmente. La morale sembra dunque rappresentare, ben più delle reazioni dello spettatore e delle sue inclinazioni all’aggressività, un elemento di collegamento importante tra la violenza reale e quella immaginaria, in quanto gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.

wild-bunchNel cinema classico hollywoodiano, l’accettabilità della violenza considerata legittima deriva dal fatto che i film permettono di confrontarla con una violenza malvagia, fonte di disturbo per la morale dello spettatore. Nel saggio viene argomentato come i film, maggiormente discussi a proposito della rappresentazione della violenza, tendenzialmente sono quelli che scompaginano il rapporto tra violenza malvagia e violenza legittima.
Probabilmente “il momento in cui, nella rappresentazione cinematografica della violenza, la morale e l’estetica non risultano più del tutto funzionali l’una all’altra” è databile attorno alla fine degli anni ’60, quando escono film come Gangster Story (1967, di Arthur Penn) ed The Wild Bunch (1969, di Sam Peckinpah). A risultare spiazzanti sono: “la dimensione estetica della violenza” (es. uso di immagini rallentate nelle scene più crude); il fatto che a risultarne vittime siano proprio i personaggi per cui simpatizzano gli spettatori; una narrazione che induce il pubblico ad identificarsi con fuorilegge. Ecco allora che, secondo Gandini, “senza un chiaro giudizio morale a reggerla, la violenza cinematografica si carica improvvisamente di una componente di ambiguità che lascia interdetta la critica e induce il pubblico a reazioni, per l’epoca, sorprendenti e inattese”.

Per quanto riguarda il cinema moderno e contemporaneo, molti studiosi hanno notato come il parziale affrancamento della violenza cinematografica dalla struttura narrativa porti spesso ad una maggiore complessità della messa in scena della violenza e come ciò provochi negli spettatori reazioni molto diverse; da un lato tutto ciò può produrre nel pubblico un’attrazione emotiva nei confronti della violenza mostrata slegata dalle valutazioni morali, dall’altro lato può produrre, invece, in base alle scelte estetiche adottate dal film, una sorta di straniamento dello spettatore rispetto alla violenza, inducendolo a concentrarsi “sul modo della rappresentazione più che sui contenuti”. Secondo diversi studiosi, è a partire dai tardi anni ’60, quando “diventa ‘celebrativa’, che la violenza viene resa oggetto di processi di stilizzazione elaborati al punto da richiamare (…) l’attenzione del pubblico sull’eleganza della forma più che sulla brutalità dei contenuti”.

BronsonIl saggio si sofferma su di una serie di film – Strange Days (1995, di Kathryn Bigelow), Sucker Punch (2011, di Zach Snyder), Kick Ass (2010 di Matthew Vaughn), Natural Born Killers (1994, di Oliver Stone), Bronson (2008, di Nicolas Winding Refn) – che, pur in maniera decisamente diversa, pongono interrogativi circa il rapporto tra violenza e sguardo, sui meccanismi della visione, sulle modalità con cui lo spettatore, attraverso un processo di straniamento, si mantiene a distanza dagli eventi e sulle implicazioni morali.
A partire dagli anni ’70, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia ad esibire sempre più palesemente la violenza, tanto che l’autore parla di un passaggio dall’avarizia espressiva alla bulimia estetica che ha condotto tanti registi contemporanei “a rispecchiare la violenza più che a riflettervi, a renderla più accattivante che legittima”. Non è infrequente che ad uscirne sacrificata sia proprio la morale a scapito dell’estetica. Con la crescita dell’estetica della violenza, della sua massima visibilità, si è avuta una contrazione dell’immaginazione e lo spostamento della questione morale in un ambito di discussione esterno al film.

L’autore individua anche alcuni film in cui la violenza, anziché descritta, viene semplicemente evocata. La parsimonia nell’esposizione della brutalità al cinema è storicamente legata a ragioni di carattere morale ma, tale modalità, funziona in quanto costringe il pubblico a supplire con la fantasia alla carenza visiva: deve immaginare ciò che il film non mostra fino in fondo. Tale coinvolgimento in termini di immaginazione induce lo spettatore a contribuire direttamente alla rappresentazione. A tal proposito nel saggio vengono esaminati film come Dogville (2003, di Lars Von Trier), Manderlay (2005, di Lars Von Trier) e Redacted (2007, di Brian De Palma). I primi due film del regista danese, che trattano il ruolo della violenza nei rapporti sociali, presentano una smaterializzazione estrema della scenografia, con una voce narrante che commenta in maniera asettica gli eventi che portano la vittima ad optare per una forma di ritorsione violenta. Le due opere di Lars Von Trier vengono indicate da Gandini come “un’illustrazione delle modalità con cui i meccanismi della sovranità popolare partoriscono, legittimano e realizzano atti di violenza ai danni del singolo”, dunque, continua lo studioso, è a tale “idea della sovrapposizione fra violenza e diritto che si attiene lo stile dei film, nei quali i momenti di aggressività e sopraffazione vengono rappresentati con la medesima, inesorabile pacatezza con cui il popolo di Dogville e quello di Manderlay emettono le loro sentenze di morte, schiavismo e punizione corporale”. Visivamente la rappresentazione della brutalità sottostà “al principio di astrazione e razionalizzazione che governa i due film sul piano tematico, caratterizzandosi come un evento inessenziale, prosaico, ancorato alle ordinarie dinamiche di amministrazione democratica di una comunità. La violenza perde qui completamente i suoi tratti di sregolatezza, innanzitutto nel senso etimologico del termine, poiché entrambi i film ci mostrano come essa di fatto sia né più né meno che una regola, in virtù della quale viene tutelato il benessere delle due comunità”.
De Palma, nel suo Redacted, ricorrendo all’assemblaggio di filmati derivanti da fonti diverse (video amatoriali, reportage televisivi, immagini notturne ai raggi infrarossi, riprese delle telecamere di sorveglianza ecc.), sembra quasi realizzare un film che prende le distanze da quelle immagini, “il fatto che i materiali che compongono la tessitura visiva del film siano estrapolati da altri contesti e riproposti in forma sintetica e frammentata dispensa lo spettatore dalla reazione emotiva che pure essi avrebbero potuto o dovuto suscitare nella loro forma originaria”. Nel suo presentarsi come riproduzione di una violenza catturata da altri media, il film depura l’evento dal suo tratto più “sensazionale”, consentendo così alla riflessione di sostituirsi all’indignazione.
Sia nei film citati di Von Trier, che in quello di De Palma, si sostiene nel saggio, “la forma determina una distanza che permette al regista di sollecitare lo spettatore non tanto a guardare la violenza, quanto a guardare alla violenza, vagliandone cause e conseguenze che la generano e diffondono”. Gli aspetti violenti e sensazionalistici che toccano l’emotività degli spettatori vengono qui decisamente limitati nel tentativo di “rendere lo spettacolare non spettacolare”. Secondo Gandini, in tali opere, si attua un doppio atto di negazione. “Da una parte viene rinnegata l’immediatezza propria delle fotografie più cruente sull’argomento, dall’altra sono ripudiate le occorrenze stilistiche e narrative che corredano abitualmente la rappresentazione cinematografica del tema. È necessario, per dare risalto alla violenza e renderla nuovamente eccezionale, calarla in un contesto nel quale il cinema possa guardarla – e farla guardare agli spettatori – come fosse la prima volta”. Attraverso la strada dell’astrazione, nel danese, e della rimediazione, nello statunitense, tali opere determinano “un effetto straniante, indispensabile in un’epoca nella quale i media affrontano il tema dispensando a getto continuo visioni sempre più stereotipate a beneficio di spettatori sempre più distratti”.

funny game - remote controlNel saggio viene affrontato anche il film austriaco Funny Games (1997, di Michael Haneke) – di cui esiste un remake americano del 2007, ad opera dello stesso regista – opera in cui la violenza tende, per lunghi tratti, ad essere nascosta allo sguardo dello spettatore. La macchina da presa indugia spesso su luoghi diversi da quelli in cui si sta compiendo violenza affidando al sonoro il compito di farla immaginare allo spettatore. Il fatto che uno dei due assassini volga più volte lo sguardo in macchina, contribuisce a coinvolgere lo spettatore negli eventi, inoltre, suggerisce Gandini, tale espediente “accorcia ulteriormente la distanza fra i due personaggi e il regista, poiché alla fredda crudeltà con cui Haneke distilla la violenza ai suoi spettatori si unisce l’impressione, generata appunto dagli sguardi in macchina, che i due ragazzi operino da registi interni della vicenda, dettandone tempi e modi anche alla macchina da presa, nella piena consapevolezza che ‘lì fuori’, oltre lo schermo, qualcuno li sta guardando”.
Mentre nei film di Von Trier e di De Palma “la forma della violenza viene utilizzata per riflettere sulla sua genesi ed evoluzione”, nell’opera di Haneke essa “serve a mettere sotto i riflettori le sue conseguenze”. L’austriaco intende “smantellare ‘l’innocente complicità’ che correda la violenza cinematografica” e “portare lo spettatore a solidarizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici”. Haneke non concepisce la sua estetica della violenza “in termini di contenuto, ovvero nei suoi tratti di cruento sensazionalismo, ma di ricezione, ovvero dal punto di vista di una possibilità di lettura, oltre che di visione, della brutalità umana. È per questo che in Funny Games alle inquadrature fuori campo (…) ne fanno puntualmente seguito altre in campo, dove allo spettatore è data piena possibilità di cogliere nel dettaglio gli effetti della violenza che in precedenza aveva potuto percepire soltanto sul piano sonoro”.
In Dogville, sul finire del film, quando Grace decide di vendicarsi, vi è una sequenza in cui la violenza si palesa sia sul piano visivo che drammatico, analogamente anche in Funny Games si giunge a “dare al pubblico un assaggio di quello che il film, sotto il profilo estetico, non vuole essere”: si tratta della scena, girata e montata in maniera diversa dal resto del film, in cui la protagonista riesce a sparare alla testa di uno dei due giovani comportando l’affannosa ricerca, da parte dell’altro ragazzo, del telecomando per “riavvolgere gli eventi”. Il saggio si sofferma sulla logica di tale sequenza che proietta l’attenzione dello spettatore “sul carattere illusorio e manipolabile della violenza cui ha assistito sino a quel momento (…) La natura convenzionale del frammento espulso non riguarda (…) solo il piano stilistico ma anche quello narrativo, poiché la scena vede la vittima ribellarsi e vendicarsi del suo carnefice. La vicenda dunque ritrova qui, sia pure solo per un pugno di inquadrature, una logica morale, basata sulla ritorsione”.
Riflettendo sul frammento “anomalo” di Funny Games, Gandini sottolinea come lo spettatore giustifichi il ricorso alla violenza della donna in quanto reazione ad una violenza invece ingiustificabile operata dai due giovani. Per certi versi, con tale sequenza, il pubblico “viene attirato nell’orbita di violenza alla quale si illudeva, attraverso la condanna dei personaggi, di rimanere estraneo. Provando sollievo e soddisfazione per il modo con cui la moglie si sbarazza del ragazzo, egli smette di rinnegare la violenza in quanto tale, proprio perché in quel punto assume verso di essa un atteggiamento di approvazione e complicità (…) lo spettatore sin lì crede di poter uscire dal film confortato nella sua convinzione che la violenza è comunque odiosa e sbagliata, mentre in realtà, a causa di quella scena, dovrà uscirne con la convinzione che la violenza può essere sbagliata oppure legittima, a seconda delle circostanze morali che la preparano e motivano. Nello stesso tempo quel frammento – riavvolto con suprema disinvoltura in virtù di un telecomando – ci dice anche che la violenza del cinema, per quanto possa suscitare in noi sentimenti di adesione ai personaggi che la subiscono e di avversione per quelli che la infliggono, è volatile, inconsistente e relativa”.
In diversi film la questione della legittimità morale o meno del ricorso alla violenza diventa problematica, si pensi, ad esempio, ad A Clockwork Orange (1971, di Stanley Kubrick), pellicola in cui la classica contrapposizione “fra tutori e trasgressori della legge non poggia su una distinzione morale in grado di giustificare la brutalità dei primi e condannare quella dei secondi”.

sawLa produzione cinematografica degli ultimi decenni risulta decisamente variegata, tanto che non mancano esempi di film volti a tranquillizzare lo spettatore che la “violenza dei giusti” finisce col prevalere su quella “dei malvagi”, d’altra parte, sostiene Gandini, il pubblico “non ha mai smesso di volere un cinema capace di essere, al contempo, violento e morale (…) Può essere che talvolta non apprezzi la morale di un film se non la vede scritta nel e col sangue; ma certamente vuole che il sangue, nel corso del film, prima o poi si incanali lungo percorsi di retribuzione e castigo, colpa ed espiazione”. Non è, pertanto, affatto detto che un’estetica violenta neghi implicazioni di carattere etico o morale. Allo stesso tempo non è nemmeno detto che una maggior complessità estetico-narrativa comporti la scomparsa della morale.
L’imbarazzo morale provato dallo spettatore che, al cinema, osserva con piacere episodi violenti, si stempera grazie alla promessa narrativa che, prima o poi, quella violenza verrà giudicata e punita, pertanto, secondo l’autore, ad ogni “dilatazione visiva” della violenza corrisponde una narrazione in grado di giustificarla. A tal proposito ci si può riferire a quelle opere in cui la figura del killer moralista/moralizzatore agisce per punire la dilagante corruzione che lo circonda. In Seven (1995, di David Fincher) il serial killer agisce in preda ad un bisogno morale e la coppia di detective che indaga sui suoi omicidi, per dargli la caccia, si trova a doversi sintonizzare sulla “lunghezza d’onda morale del suo avversario”. Analogamente anche in Saw (2004, di James Wan) i crimini derivano dalla volontà di punire individui rei di colpe condannabili moralmente. In opere come Seven e Saw “estetizzazione e moralizzazione della violenza” coincidono e, secondo l’autore, se da un lato tali film sembrano “mettere in guardia lo spettatore contro gli eccessi della morale”, dall’altro “possiamo vedere nelle figure dei killer-moralizzatori, in quanto curatori ed artefici di messe in scena della violenza di grande complessità, un equivalente del regista dei film che li contiene, col quale condividono l’attenzione congiunta per l’etica e l’estetica del delitto. La loro condotta criminale rimanda implicitamente all’obbligo di dare alla violenza quei tratti di necessità (morale) e appariscenza (visiva) senza i quali essa oggi non può essere presentata né apprezzata”.
Nel libro non manca una riflessione su Fight Club (1999, di David Fincher), film ove, invece, la violenza diviene terapeutica; si ricorre ad essa per alleviare e curare le ferite della società contemporanea ormai totalmente anestetizzata.

reservoir-dogsL’ultima parte del saggio affronta alcune opere recenti che affrontano la violenza facendo i conti con la tradizione del cinema, soffermandosi su alcuni film di Quentin Tarantino – Reservoirs Dogs (1992); Pulp Fiction (1994); Kill Bill (2003 e 2004); Django Unchained (2012); Inglorious Basterds (2009) – e di Clint Eastwood. In questo ultimo caso, è inevitabile che, nel momento in cui le sue opere recenti affrontano la violenza, la sua presenza fisica nei film rimandi alla sua icona giovanile, dunque si inneschi un dialogo col passato.

gran-torinoIn Gran Torino (2008, di Clint Eastwood) l’ormai anziano protagonista si trova a fare i conti con il rimorso per le violenze compiute in gioventù nel corso della guerra in Corea. Il film si presenta dunque come una storia di “rimorso, pentimento ed espiazione” che, per compiersi, richiede al protagonista di riappacificarsi con la sua identità giovanile e di cimentatisi, un’ultima volta, con la violenza ma, stavolta, non in qualità di giustiziere, bensì di martire, “facendo del sacrificio del proprio corpo un atto di giustizia”.

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 62 https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-62/ Thu, 18 Sep 2014 20:44:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17191 di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005 Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi [...]]]> di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005
Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi te lo devi finire. La prima parte del film, preparatoria, è irritante nella sua linearità, con degli imbecilli studenti americani in Interrail e che hanno praticamente la patata tatuata in fronte. Beh, anch’io ero partito per il classico viaggio post liceo pieno di aspettative verso leggendarie valchirie pronte a sbranarsi il bel pezzo di manzo che ero. Invece era finita che m’ero messo con Barbara. Perlomeno fino a stasera, visto che durante la visione del film borbotta più volte. I protagonisti, comunque, beati loro, si fanno una drogata tappa copulativa ad Amsterdam e son tentati dal colpo grosso: sono attirati a Bratislava per trombare ancor più, alla grandissima. E trombano, con gran sollazzo di regia (Eli Roth) e spettatore lubrico: ci manca che Barbara mi asciughi la bavetta alla bocca. Però per troppa foga e amor di figa i due rimangono invischiati in un gioco mortale: il film allora prende quota e c’è una certa astuta cattiveria visiva e narrativa che non lesina pelle, sia nuda che lacerata e sanguinolenta. Il film si pretende sia ambientata in Slovacchia, ma siamo nella Repubblica Ceca e la fauna locale che appartiene alla categoria “macrognocche da infarto”, viene esibita abbondantemente senza nascondere la natura maschile e maschilistica di questo esercizio sadico, rivolto a un pubblico preciso. Son moralista? Macché! Mi piacciono pure le donne nude – pensa te – ma mi dà fastidio il ricatto quando è così scoperto, senza nessuna astuzia se non l’esibizione (in cui casco a piedi giunti, è chiaro. E capisco anche il protagonista: il chiavatone che si fa vale una mutilazione permanente). Comunque: ritorno in me e faccio il prof dalla voce nasale: il problema generale di Hostel è essere un film che fa dell’esposizione oscena la sua ragione. Un po’ come quella stronzata di Saw, horror efferato, cinematograficamente furbetto e di cui mai vedrò i seguiti, neanche sotto tortura, quella tortura. (Diretta Sky; 6/10/07)

ddv6202662 e 663 – L’ha scritto Balzac E.R. (Anno 3 e 4) di Michael Crichton e Aa.Vv., USA 1996/97
Vi è mai successo? Avete voglia di un bel filmone fluviale, una di quelle faccende che rimani nel buio della sala, o tramortito sul divano, e pensi: questi personaggi sono vivi. Io li conosco, gli voglio bene, devo sapere cosa gli accadrà domani. Perché per quella porzione di tempo che ti ha preso il film tu sei entrato nella loro vita, nei loro problemi, hai condiviso la loro felicità o i drammi, i dubbi, i successi e le sconfitte. Ecco: penso a La maman et la putain… Leaud dove sarà ora? Starà ancora parlando e parlando, indeciso su cosa fare della sua vita? Beh, avevo voglia di una cosa così e mai mi sarei aspettato di trovarla in un serial televisivo. Perché la tivù di solito banalizza, attutisce, tranquillizza, consola, distrae, addormenta. E invece ecco che quel E.R. che ho schifato per tanti anni mi dimostra che può avvenire anche il contrario. Intendiamoci, ero esaltato anche dalle prime due serie ma con queste terza e quarta stagione si ascende ad ancora più alte sfere celesti. Si tratta di un capolavoro. È la Commedia Umana del ventesimo secolo, il documento visivo più completo per capire cosa siano gli Stati Uniti, degli anni Novanta e di oggi: lavoro, Aids, razzismo, rapporti uomo donna, omosessualità, disgregazione della famiglia, assistenza sanitaria, classismo, ricerca medica, mutuo, povertà, droga, delinquenza, armi, consumi, le gang, gli homeless, il Capitale, la vita e la morte… c’è tutto, con uno sguardo democratico, mai estremista, talvolta cerchiobottista ma mai falso o moralista (è lo show, credo, più visto di tutti i tempi: queste serie viaggiavano su una media di 30 milioni di spettatori. No, dico: 30 milioni. Intesi?). Ottimo il cast, il montaggio, le musiche, il ritmo, la regia, la psicologia dei personaggi, la verosimiglianza quotidiana e anche esistenziale. Tutto. Perfetto. Quando lo vedeva solo Barbara mi stava sul cazzo (E.R., non lei), poi, visto in originale l’episodio pilota della prima serie, sono rimasto completamente schiavo. È l’optimum televisivo: l’Heimat che gli americani non sanno di aver prodotto. E so già che un giorno dovrà arrivare a conclusione. E dove finiranno tutti loro, eh? E io? Argh. (Dvd; ottobre e novembre 2007)

ddv6203665 – Il finto The Prestige di Christopher Nolan, USA 2006
A Genova, per un blitzkrieg weekend, con pupattola al seguito. Dopo cerimonie voodoo, scongiuri e pratiche animistiche per addormentarla, ci concediamo un film e papà ci precede, un po’ aggressivo, come a dire di non cominciare a rompere: “Ho un dvd ottimo, con responsi critici da favola”. Ahia, qui finisce a schifio. Lo produce dalla borsa e io faccio la faccia un po’ così, da vera merda. Siccome si irrita subito perché distruggergli i film che mi propone è il mio sport preferito, lo ammansisco dicendogli che anche l’amico Pif lo ha trovato splendido, per intreccio e sorprese. Lo vediamo e, invece, sarò io un genio, ma mi erano chiari tutti gli inghippi con abbondanti mezz’ore di anticipo. E siccome io NON sono un genio vuol dire che il film è una vaccata. E per la cronaca mio padre non ha invece capito una mazza e s’è pure addormentato. Messo in scena benissimo, The Prestige è però freddo e lunghetto e sembra il compitino di un primo della classe che vuole sempre stupirti, sennonché a Nolan il prestigio non viene per nulla, secondo me. Con Memento il regista ci riusciva prima di diventare noioso, qui no. Il cast gronda dollari e oltre ai divetti Hugh Jackman e Christian Bale ci sono anche il classico Michael Caine, l’elegante David Bowie e la fatalona Scarlett Johansson, che com’è fotografata qui sembra una caricatura: è alta un metro e un barattolo, la forma del viso ricorda quello di un divieto di sosta con labbra carnosissime e ha tette che la precedono di un quarto d’ora buono. No, non è sessismo mio, è sessismo loro, credetemi. Vabbeh, film che passa ma che delude anche. L’unica cosa che mi ha divertito è stato Bowie nella parte dello squinternato e geniale Tesla. Basta. Comunque Pif ha messo su un suo programma su MTV, Il testimone, ed è bellissimo, questo sì. Semplice nella forma, ricchissimo nella sostanza: un distillato di intelligenza del mio piccolo amico, uno che farà carriera, son sicuro. (Dvd; 7/12/07)

ddv6204666 – Una porcata, Homecoming di Joe Dante, USA 2005
Papà ci riprova e mi dice, mani avanti: “Oh, Joe Dante! Ci siamo capiti? Dante!”. Beh, ne ho letto qui e là e in effetti molti critici erano in erezione marmorea per ‘sto filmetto. L’idea di partenza è folgorante (i cadaveri dei soldati USA morti in Iraq riemergono da sottoterra perché vogliono votare contro Bush) ma lo svolgimento è paratelevisivo a voler essere generosi, con attori che non se li imbarcherebbero neanche i Legnanesi in una replica parrocchiale. Mamma mia che brutto, una schifezza umiliante. Siccome Dante è pur sempre Dante, gli perdonano qualunque cosa, ma già La seconda guerra civile americana era una stupidaggine che si sgonfiava dopo aver semplicemente letto il riassunto sui quotidiani. E anche stavolta c’è solo un’intuizione e non un adeguato sviluppo nonché una forma degna di tal nome. E poi mi hanno un po’ rotto il cazzo gli americani liberali che della guerra in Iraq si ricordano sempre le vittime statunitensi e mai i centomila civili iracheni stecchiti (a volare bassi con le stime). Più gli altri (soldati, ribelli, pure terroristi) che son uomini anche loro. Se per loro un filmetto così è buono per pulirsi la coscienza, io aggiungo che mi ci pulirei qualcos’altro. E dài, eh. (Dvd; 8/12/07)

ddv6205667 – L’inaspettato Munich di Steven Spielberg, USA 2005
Non pago, dopo due cocenti delusioni, papà insiste ancora con le sue proposte cinematografiche e stavolta fa centro nella maniera più inusitata. Vedo il dvd di Spielberg e comincio a lamentarmi. Perché diverse cose sue recenti mi hanno irritato e certa poetica infantile non mi piglia più, non so. Che poi sa mettere in scena – e chi dice di no – però, boh. “Ma lo guardiamo, papà, dài, non offenderti”, e… ammazza che film! Va come un treno, è sottilmente ambiguo, per nulla compiacente, ricco e pure appassionante, limpidissimo e zeppo di fughe di “genere”. Insomma: il capolavoro che non ti aspetti, snobbato dal grande pubblico al botteghino e rifiutato sdegnosamente dagli israeliani (il che fa capire molte cose). Voglio dire: quale azione terroristica è risultata mai più odiosa dei fatti di Monaco, dell’uccisione di quegli atleti israeliani nel luogo dove dovrebbe vigere la tregua olimpica? Quanto può aver allontanato dalla comprensione della causa palestinese quell’atto? Eppure Steven (ebreo, sempre attentissimo alla memoria del suo popolo) riesce a metterci anche il punto di vista *loro* e si sforza di capirlo e costringe lo spettatore a mettersi in discussione come il protagonista, chiedendosi il senso della vendetta, del sangue che non lava altro sangue, ma ne farà versare ancora. E dove siano la ragione e il torto. Oh: mai amato troppo Spielberg, ma un film così mi fa perdonare tante cose. Per me – in un ambito mainstream e con cotanta paternità – perfetto. (Dvd; 9/12/07)

ddv6206669 – Ancora un capolavoro: Grizzly Man di Werner Herzog, USA 2005
Film incredibile, scomodo, folle e irritante come sa essere la vita. E la morte. Lo sguardo glaciale di Werner, senza giudizi, sull’esistenza irregolare di Timothy Treadwell, un ambientalista sui generis che ha deciso di votarsi all’impossibile convivenza con dei grizzly, cari e buoni finché non han fame. La storia è perlopiù narrata attraverso i filmini che Treadwell ha realizzato (un centinaio di ore di materiale, accuratamente selezionato e montato), accompagnati dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto (l’ex fidanzata, la sorella, un medico, una guardia forestale), tipi che non paiono meno strani dell’oggetto dell’investigazione filmica. Ma Herzog, come sempre, sembra chiederci: qual è la normalità? E possiamo piegare la natura ai nostri desideri? Le immagini documentarie di Treadwell sono curiose e danno un sapore particolare e agghiacciante al racconto, anche se ci vengono negate le sequenze finali della sua vita, che viviamo solo attraverso lo sguardo allucinato della sorella che invece le vede. Scelta etica che diventa anche cinematograficamente potentissima. Gran film, tanto per cambiare, tra l’altro musicato da quel genio che è Richard Thompson, uno dei miei musicisti preferiti (definizione preferita: “suona come se Chuck Berry fosse uno scozzese cresciuto in Libano”; in Italia quanti saremo ad avere tutti, ma dico proprio tutti, i suoi dischi?). (Dvd; 14/12/07)

ddv6207672 – Droga tagliata un po’ male: 24 – Stagione quattro di Aa.Vv., USA 2005
Siccome sono rimbambito ho visto la quarta serie prima della terza. Amen, più mistero ancora. In realtà non si gioca tanto sui tradimenti, perché è una serie un po’ fascistona e schematica, con buoni e cattivi schierati, morale busheggiante e arabi amorali, pronti ad ammazzare i figli. Stavolta non c’è teoria del complotto, ma pura e semplice azione. Jack Bauer agisce trasgredendo ordini e protocolli, risolvendo quello che i burocrati culi di piombo affrontano con leggerezza, incompetenza e lentezza. E intanto fa secchi un centinaio di arabi (o simili, anche se sono iraniani per gli yankee è la stessa cosa) traspiranti e puzzoni, anche quando plurilaureati. Per salvare la faccia ci sono anche arabi buoni che denunciano le attività dei fratelli cattivi. Unica (involontaria?) contraddizione: il discorso del cattivone di turno, tale Marwan, alla nazione americana, che riassume in due frasi la rabbia di chi odia la politica USA. Lo fa in maniera così precisa e ficcante che dubito che chi l’abbia scritta non ne intravedesse la verità. Rispetto alle prime due serie è tutto un po’ raffazzonato: più di un personaggio è dimenticato durante la narrazione (puf! Scomparsi!), molte volte gli impicci nascono da leggerezze francamente incoerenti (mancanza di uomini, tecnologia o abilità) e lo schema narrativo (indizio, ricerca del personaggio, interrogatorio, tortura, successo) è ripetuto troppe volte. Grande adrenalina, poco fosforo. Me ne farò una ragione. (Dvd; dicembre 2007 e gennaio 2008)

ddv6208674 – Il tristanzuolo Kontroll di tale Antal Nimrod, Ungheria 2004
Un film autoriale ungherese che trovo poco risolto: quando si bordeggia la commedia si ride a denti così stretti che ti fai male. Nelle parti drammatiche o poetiche è invece tutto sfuggente o un po’ banalotto. Bellissima fotografia sotterranea (il film è ambientato nella metropolitana di Budapest), okay, qualche attore dalla faccia interessante, una certa tenerezza, ma non cerchiamo scuse: Kontroll risulta – stringi stringi – una magiara rottura di coglioni come poche. (Dvd; 26/1/08)

ddv6209681 – Lo storico Barbarella di Roger Vadim, Francia/Italia 1968
Siccome l’hanno visto in milioni, siccome di Jane Fonda manca poco che si veda anche una gastroscopia, siccome i costumi li ha disegnati Paco Rabanne, siccome la psichedelia fantascientifica arrivava alle masse (virata pop e vagamente cartoonish), siccome c’era la liberazione sessuale, siccome tutte queste cose, Barbarella è un film che va visto. Lo faccio e mi ritengo autorizzato a definirlo una cagata dove salvo solo il grandissimo Ugo Tognazzi, perché il timbro della sua voce è splendido e perché – perlomeno sulla scena – si bomba la Fonda. Mi direte: ma questo film aveva un senso allora, non oggi, e l’erotismo e bla bla. Okay, ma io l’ho visto adesso, c’è già YouPorn e son nervoso, per cui fatevene una ragione. (Dvd; 29/2/08)

ddv6210682 – Scappo in Madagascar, di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2005
Un filmetto piacevole che ci mette mezz’ora ad ingranare e poi cresce bene. Il tratto un po’ spigoloso non mi piace granché ma molte scene (per presenza di masse – la tribù di lemuri imbecilli –, o architetture – Grand Central Station) non sono niente male. Il gioco citazionistico è spinto al massimo per dare motivo d’interesse agli adulti a seguire una vicenda abbastanza esile e perfetta per i pupattoli. Talvolta funziona (La febbre del sabato sera) altre è pura menzione (Momenti di gloria). Ma Madagascar si fa vedere, coinvolgendoti con la stupidità assoluta dell’orgiastico Re Julien o della pattuglia di stolidi ed efficaci pinguini che vogliono tornare in Antartide. Tra miraggi carnivori, comicità demenziale e anche un’insospettabile scorrettezza politica, viene fuori un film per bambini e adulti rimbambiti. Per cui ottimo per me. Ricordo diverse critiche perché sostanzialmente gli animali, ritornati al loro habitat naturale, ripensano nostalgicamente alla cattività urbana: come sempre l’ironia è un vento gelido che sfiora i polemisti da quotidiano. (Diretta Tv, Italia1; 4/3/08)

ddv6211683 – L’incredibile Zardoz di John Boorman, Gran Bretagna 1973
Solamente gli anni Settanta potevano partorire una cosa così: un film magnificamente astruso nei dialoghi e nel racconto della società futura e contemporaneamente sempliciotto nello svolgimento narrativo (e comunque complicato da rivelazioni che arrivano poco a poco). Costumi tra l’inventivo e il risibile, scenografie di plexiglass coloratissime e una generale atmosfera psichedelica e drogata, esaltata da una fotografia splendente; Sean Connery irsutissimo e seminudo, con uno slippino in pelle molto sadomaso a infagottare il pacco, l’adorata Charlotte Rampling sempre splendida. Fu un insuccesso clamoroso e la cosa non mi stupisce. Però gli vuoi bene, perché un film costa miliardi e c’è un matto, Boorman, che li ha messi di tasca propria per concedersi questa follia che oggi ha un immenso valore nel raccontarci come si poteva far cinema allora. E cosa passa talvolta nella testa degli uomini. (Dvd; 8/3/08)

ddv6212684 – La mitologica visione di Medea di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Assente Barbara per le vacanze pasquali, procedo a uno spietato repulisti della videoteca, valutando per ogni cassetta qualità della registrazione, futura obsolescenza, reperibilità con altre fonti. Sarà una banalità, ma ormai su Youtube trovi veramente di tutto, è la nastroteca virtuale galattica dove c’è ogni cosa. Per il resto, il proibito, connessione veloce e peer to peer e – mulo o torrente – trovi il resto. E se proprio non lo trovi vai su Amazon e non rompere più le palle, dài. Eliminando le vhs ho sacrificato decine di film e spezzoni di Springsteen, Negrita, Gialappa, Fuori orario, amenità varie e Blob… anche se qualcosa mi sono rivisto, non ho saputo resistere. Come Fede che mette le bandierine durante le regionali del 1995, i funerali di Falcone, l’arresto di Giovanni Brusca, di nuovo Fede in orgasmo durante l’attacco all’Iraq del 1991, Achille Occhetto che piange alla Bolognina, Giuliano Ferrara tracimante in ogni dove, il sonoro ceffone di Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, Enrica Bonaccorti che becca un concorrente telefonico che risponde (esattamente: “Eternit”) prima della domanda del cruciverbone, Antonella Clerici che dichiara che pensa sempre al cazzo… Poi, messo via Miracolo a Milano (regalato, non buttato, ma l’ho visto almeno 5 volte), ho pensato che voglio più bene a Vittorio De Sica (il primo De Sica) che a Rossellini (specialmente l’ultimo). E che Herzog è immenso, specie quando la sua vita finisce nei film in cui ne racconta altre (e le vhs di Werner le ho tenute tutte). E che come certo cinema sperimentale degli anni Venti e Trenta, così libero, inventivo e geniale non c’è stato più niente. Poi ho rivisto il corto The Waiting Room di Jos Stelling, piccolo capolavoro erotico, e a spizzichi e bocconi Sign ‘O’ the Times esagerato film concerto con Prince al top: tutto feeling e ritmo, che grande chitarrista! Ma qualcosa l’ho assunto anche integralmente, tanto da elaborare un giudizio più meditato: è il caso di questa Medea di Pasolini. E il giudizio è: epico stracciamento di palle. E poi – scusate – hai sempre la sensazione che le masse rurali, che PPP metteva davanti alla cinepresa, non capissero una mazza di quello che dovevano fare. Attori presi dalla strada, dell’Anatolia però. Vedi gente che a comando fa qualche movimento, con sguardi persi verso la cinepresa, e poi si ferma come ad aspettare un cenno d’assenso. Una sensazione straniante, se vogliamo salvare la regia; un effetto tra il comico e il tragico se dobbiamo dire la verità. Perché Pasolini era un genio, è chiaro. E se decidiamo che l’ingenuità registica e narrativa siano un valore, va bene, era anche un bravo regista (che io, personalmente, ho sempre amato). Però francamente preferisco che l’inquadratura sia un po’ più curata, magari non traballante; così come il montaggio. E gli attori, pure. Se no vedersi una cosa come Medea diventa un continuo giustificarsi col tuo angelo custode cinematografico che ti ricorda che dovrebbe essere un capolavoro. La scelta delle location è formidabile (specialmente la Piazza dei miracoli di Pisa), i colori e i costumi sono molto evocativi. La vicenda – se conosci il Mito – è abbastanza leggibile; altrimenti è un florilegio di dialoghi al contempo declamatori ma anche doverosamente esplicativi – se no non si capirebbe veramente una minchia – seguiti da ellissi siderali e silenzi agghiaccianti che menano gran strage di spettatori. Ritmo, manco a parlarne. Maria Callas appare in un’intervista prima del film e non è quel che si dice una strafiga, ma è simpatica, molto intelligente e soprattutto affascinante: sprigiona energia ed erotismo. Poi la vedi nel film ed è veramente mostruosa, truccata come un reperto archeologico, boh. Medea l’ho visto con impegno meritevole di miglior ricompensa dopo aver già rinunciato a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette: al quindicesimo del primo tempo ho avuto il sospetto che mi stesse crescendo un terzo coglione e ho deciso che poteva bastare: dialoghi ammorbanti, montaggio sgradevole, attori con facce da culo, vicenda che non mi intriga e densa di nomi che dimentico appena sento. Sarà colpa mia, ma non ho più l’età. (Vhs da RaiDue; 16/3/08)

ddv6213685 – A bocca aperta davanti agli Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, Italia 1970
L’idea è: cerchiamo nella giovane Africa libera gli attori e le location per girare il mito di Oreste. Accompagnati dalla voce del Poeta, il film gira quando PPP si dimentica di associare Oreste e company alle immagini e racconta ciò che vede. Quando invece spiega il delirante progetto a degli studenti africani a Roma ci sono momenti spiazzanti, da supercazzola. Del resto rispondere a Pasolini che chiede se sia meglio ambientare l’Orestiade nell’Africa di allora (1970) o della prima decolonizzazione (1960), sembra uno scherzo crudele, oltre tutto fatto a gente che parla l’italiano stentatamente. L’impressione fortissima è che con questa specie di documentario il Pierpa si sia pagato il viaggio in Africa (col nasale Alberto Moravia al seguito, sai che spasso), oppure abbia messo una pezza a un progetto finito (ma anche pensato) male ed astruso. La musica originale è di quell’altro mio idolo che è Gato Barbieri, che però a un certo punto è vittima di un pentimento della regia in corso d’opera. Non bastassero le difficoltà precedenti, Pier Paolo si chiede: e se la tragedia fosse cantata? Giuro. Così, su atonale e ululante musica free, due cantanti neri devono anche impersonare Agamennone che scazza con Clitemnestra, raggiungendo vette degne del prof. Biscroma di Bracardi. Questo filmettino da oltre 60 minuti l’ho visto perché buttare via un nastro registrato 12 anni fa senza neanche dargli una possibilità mi sembrava brutto. Diciamo che è stato un omaggio alla mia passata passione cinefila. Che, grazie a dio, è passata. (Vhs da RaiTre; 17/3/08)

ddv6214686 – La burla Echelon controllo totale di un cialtrone, Francia 2002
Il documentario che dovrebbe raccontarci come siamo controllati in ogni nostra mossa comunicativa: cellulari, Internet, Sms, etc. Solo che è tutto narrato (da tale David Korn-Brzoza) in modo fiacco senza neanche la cialtronaggine croccante di un Voyager televisivo, per dire (e non basta usare il widescreen per fare cinema: serve un’intenzione). La fatidica rivelazione del complotto mondiale contro la nostra privacy è gestita coi piedi, buttata lì, quasi non fosse importante. L’ho mollato dopo dieci minuti di improperi: non si fa così, se no poi diventa tutto teoria del complotto e le denunce vengono attribuite ai soliti paranoici, eh. (Vhs da Tele+; 17/3/08)

(Continua – 62)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>