Samuele Cerea – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 08 Dec 2025 13:43:50 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Globale è bello? Su “Capitale Mondo” di Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2022/12/18/globale-e-bello-su-capitale-mondo-di-robert-kurz/ Sun, 18 Dec 2022 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75190 di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi [...]]]> di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi un tantino surreali. Nel frattempo le élite occidentali elogiano entusiasticamente la logica dei blocchi, auspicano con ansia la fine della dipendenza energetica, mettono in guardia sollecitamente contro il “pericolo giallo”, gli Stati-canaglia vecchi e nuovi e le torme dei falliti globali che si preparano ad assediare la “fortezza Occidente” (o il “giardino meraviglioso” nella poetica lezione di Josep Borrell).

Mentre Big Brother e Goldstein vivono ormai da tempo con noi e anche Oceania sembra a portata di mano vale ancora la pena leggere un libro pubblicato in Germania nei primi anni Duemila, quando le medesime élite politiche ed economiche urlavano dai tetti la buona novella della globalizzazione, trattando con un misto di sufficienza, di fastidio e di apprensione coloro che, ed allora erano davvero tanti, contestavano con ragioni più o meno condivisibili, l’utopia-distopia del mondo unificato?

Il saggio in questione ha per titolo “Il Capitale-mondo” (“Das Weltkapital”, 2004). L’autore, il tedesco Robert Kurz, ha finora goduto di scarsa fortuna e notorietà in Italia anche se taluni rivoli del suo pensiero affiorano talvolta nelle opere di qualche autore nostrano come fiumiciattoli carsici. Scomparso una decina di anni or sono, autore, a partire dagli anni Ottanta, di una decina di libri e di un numero assai maggiore di contributi, apparsi generalmente sulle riviste Krisis e Exit!, nonché di moltissimi articoli per quotidiani come il berlinese “Neue Zeit” e la “Folha” di San Paolo, Robert Kurz può contare da noi, negli ultimi anni, sulla traduzione de Il collasso della modernizzazione e del testo qui presentato oltre che di altri saggi più brevi.

Va detto che Kurz sconta il fatto di aver commesso numerosi peccati contro lo spirito (dei tempi). Anzitutto, contravvenendo agli anatemi postmoderni e alla tendenza attuale verso la “divisione del lavoro” filosofica, nemici giurati della “totalità” e alquanto inclini alle cineserie intellettuali, è l’orgoglioso aedo di una nuova “grande narrazione”. Animata per giunta non certo da una postura contemplativa ma decisamente rivolta verso il sovvertimento dell’ordine sociale esistente. In secondo luogo ha posato le fondamenta di questa impresa sulla base, a dir poco insidiosa, del paria ideologico Karl Marx. E nemmeno su quelle parti della teoria di Marx più o meno sopravvissute allo sconquasso successivo al 1989, come la “lotta di classe” o lo “sfruttamento”, bensì su frammenti, intuizioni, filoni, idee che si stagliano nel panorama del pensiero del filosofo di Treviri come massi erratici o come smarriti isolotti in un esteso arcipelago. Terzo, la teoria di Kurz ha un grave fastidio: analizza e interpreta la realtà sociale ma non contiene nulla che possa essere convertito in breve tempo in un programma politico, al servizio dei partiti della “sinistra” (oggi meno che mai), dei sindacati o dei movimenti di protesta.

Ma veniamo al saggio in questione. Il Capitale-mondo è un libro di grossa mole e non certo di facile lettura. E del resto, da buon seguace di Marx, anche Kurz scrive per lettori che vogliano imparare qualcosa con la propria testa. Aiuterebbe certo una conoscenza almeno elementare del quadro teorico in cui si muove l’autore ma ciò esula dai limiti di una semplice recensione. Si rimanda ad altre opere dal carattere propedeutico. Ci limitiamo a dire che la diagnosi operata da Kurz sui destini della modernità ha il suo fulcro nella critica dell’economia politica di Marx e sulle categorie, in crisi irreversibile, di valore e lavoro (astratto).

Come il riccio di Archiloco anche Robert Kurz conosce una sola cosa ma è grande. Il sistema sociale che indichiamo comunemente in una prospettiva storica con il nome di modernità o società moderna e in una prospettiva socio-economica come società capitalistica o capitalismo tout court è giunto a fine corsa e minaccia di schiantarsi. Buone notizie per gli oppositori del sistema? Non tanto. Il capitalismo ha già imboccato la strada che porta verso il cimitero dei pachidermi della storia. Il guaio è che a sotterrare il capitalismo non saranno audaci schiere di lavoratori organizzati, o qualunque surrogato sulla piazza, ma le sue stesse contraddizioni, che Kurz condensa nel concetto del “limite interno”. Il corollario di questa concezione è però che non è affatto detto che il capitalismo venga seguito da una nuova società più stabile e giusta, da un nuovo ordine coerente; al momento l’alternativa più probabile è che il capitalismo entri in una nuova “era delle tenebre”, caratterizzata dall’implosione delle istituzioni sociali e delle strutture economiche. Come ha detto altrove il nostro autore, “la prigione è in fiamme ma qualcuno ha serrato le finestre e i prigionieri sono bloccati al suo interno”.

La storia del capitalismo è quella di una dinamica irreversibile con le sue fasi. Quella analizzata da Kurz in questo saggio è l’apogeo della fase neo-liberale, iniziata alla fine dei Settanta, poi traumatizzata dalla crisi del 2008. La narrazione assembla l’analisi storica con la critica dell’ideologia, alterna capitoli in cui la natura della globalizzazione viene sviscerata sulla base di una grande quantità di dati economici (il cui filo non è sempre agevole da seguire) ad altri in cui si esaminano le conseguenze della frammentazione sociale, la crisi del denaro e della politica. Da sottolineare, in particolare, la disamina del capitale finanziario e del suo ruolo nel meccanismo dell’economia moderna. La ricchezza di temi è amplissima e Kurz ama dialogare, generalmente in termini polemici, con una moltitudine di voci presenti e passate, da Ulrich Beck a Joseph Stiglitz, da David Ricardo a Rudolf Hilferding, da Michel Aglietta a Peter Sloterdijk. Sarà possibile solo un breve excursus sul carattere generale dell’opera cui uniremo alcuni spunti critici circa numerose convinzioni diffuse oggi tra i contestatori del sistema.

Cosa turba l’apparente imbattibilità del sistema? La sua stessa logica. Nella prospettiva di Kurz la globalizzazione non è il sintomo dello stato di salute del capitale, che abbandona le mura nazionali per propagarsi con le sue catene produttive in tutto il globo ma una chiara conseguenza del fatto che il ristagno della produzione di valore, dovuto all’intervento della tecnologia informatica, della robotica – cioè della Terza Rivoluzione industriale –, costringe le imprese a una concorrenza disperata e cannibalesca, disperdendo le loro fasi produttive per il globo per approfittare del divario dei costi e delle condizioni sociali e giuridiche messe a disposizione degli Stati. Gli investimenti oggi non sono più investimenti per l’espansione ma per la razionalizzazione. Ma se le imprese se la passano male, per gli Stati va anche peggio, costretti dalla crisi delle finanze pubbliche a indebitarsi sempre più sui mercati finanziari, a privatizzare e a tagliare le infrastrutture sociali.

In quest’ottica un effetto salutare del libro potrebbe essere quello di fare piazza pulita di tutta una serie di false idee sulla crisi del sistema e sulla possibilità di venirne a capo. Il primo punto lo si potrebbe intitolare “Com’era verde la mia nazione!” E qui entra naturalmente in gioco la categoria del “sovranismo”, la testa di turco preferita dell’establishment politico-finanziario-mediatico neoliberale. Il problema del sovranismo è che i suoi apostoli più riflessivi, per la maggior parte, non sono né ottusi campanilisti, né irriducibili fustigatori della contaminazione multiculturalista, né fanatici nazionalisti, adusi ad esterofobe campagne aggressive. Il loro errore consiste invece nel credere in ciò che un tempo si chiamava il “primato della politica”, cioè nella convinzione che uno Stato-nazione, ben radicato nelle sue istituzioni, guidato da una classe dirigente volenterosa, sia in grado di controllare, governare, correggere la propria economia di mercato, dirigendola verso obiettivi consoni agli interessi nazionali e della popolazione. Questa idea, che predica l’autonomia dello Stato nei confronti dell’economia o addirittura uno status gerarchico superiore, viene però sconfessata da Kurz. Lungi da essere il nocchiero del mercato, lo Stato e con esso, in generale, la sfera politica, dipende dall’accumulazione di capitale al suo interno, da cui esso preleva ciò di cui abbisogna per le sue “politiche” (sostanzialmente allocazioni di denaro in favore di obiettivi più o meno “democraticamente” prefissati). Ma una volta che il modello dell’accumulazione fordista entra in crisi, anche lo Stato manifesta la sua natura “secondaria” rispetto alla base economica. Di fronte alla transnazionalizzazione e alla razionalizzazione dell’economia, lo Stato, come osserva argutamente Kurz, non può “transnazionalizzarsi” a sua volta, né tantomeno “licenziare” i propri cittadini ma solo operare una “razionalizzazione” distruttiva, rinunciando gradualmente a finanziare le proprie infrastrutture sociali, indebitandosi fino al collo sui mercati finanziari e arrangiandosi così da attirare la quantità maggiore possibile di investimenti.

La critica “sovranista” non vuole comprendere questa relazione causale e interpreta, ad esempio, l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea, non come una strategia opportunistica, per quanto miope, al fine della sopravvivenza del paese nel mercato mondiale ma come l’esito del “tradimento” di una casta politica di infedeli (Prodi, Ciampi, Amato etc.), cui sarebbe necessario rispondere con una rinazionalizzazione per la quale non sussiste il benché minimo fondamento.

Del resto tra i medesimi apologeti del sovranismo vale anche il grido “Que viva Keynes!” Da tempo, nel campo della “sinistra” più o meno radicale, l’icona di Keynes gode almeno di altrettanto favore di quella di Marx. Il motivo è presto detto. Il nome dell’economista di Cambridge è associato nella memoria di ogni buon socialdemocratico con i “trenta gloriosi” del XX secolo, con la realizzazione dello Stato del benessere, con il ruolo dello Stato nell’economia. Ciò ha perfino condotto a ritenere qualcuno che la teoria di Keynes sia fondamentalmente anti-capitalista. Ma la “nostalgia keynesiana” della sinistra e per il mondo di cui è stato l’augure è necessariamente legata alle fortune dello Stato-nazione e non è più adeguata al mondo attuale.

Dunque chi ha vinto la lotta di classe? Secondo una battuta attribuita a Warren Buffett, la sua, almeno per il momento. L’idea che la globalizzazione o, più in generale, l’epoca dei movimenti di capitale senza controllo coincida con una “rivincita” dell’élite globale capitalistica, dopo il micidiale affondo delle classi subalterne del secondo dopoguerra è stata sostenuta in tempi relativamente recenti, ad esempio, da David Harvey, secondo il quale il neoliberismo nel suo complesso sarebbe una colossale strategia di intervento del potere privato, delle grandi società industriali e finanziarie, le quali stanche di veder erosi i loro tassi di profitto a vantaggio della classe lavoratrice avrebbero plasmato le classi dirigenti al fine di rilanciare il dominio del potere economico sulla società.
Ma per Kurz l’avanzata della dottrina neoliberale alla fine degli anni Settanta non è stata altro che la risposta “passatista”, perché basata su di un recupero di alcuni aspetti della teoria dell’economia neoclassica, già falliti nell’epoca delle due guerre, alla crisi economica intervenuta in quel periodo. Era stata proprio la difficoltà nell’accumulazione del capitale, dovuta ai primordi della Terza Rivoluzione industriale, e la conseguente crisi del modello keynesiano, a suggerire la necessità di flessibilizzare il lavoro, ridurre la spesa pubblica, privatizzare tutto ciò che era possibile, fino allo sviluppo estremistico del settore finanziario. Dunque alla radice di questa vittoria della “classe sbagliata” c’era il fallimento del vecchio modello, quello della “classe giusta”, non una forma di revanscismo sociologico.

La principale illusione è quella di credere che l’economia di mercato e la democrazia politica non siano in sé cose troppo negative e che il problema consista solo nel combattere tutti quei soggetti che deformano il sistema per il proprio tornaconto. E allora per invertire la tendenza verso la crisi basterebbe che la politica smettesse di concentrarsi solo sul debito pubblico e sul prodotto interno lordo, come chiedono gli eurocrati, ma pensasse invece a promuovere posti di lavoro e aumenti salariali, che si chiudesse una volta per tutte con le privatizzazioni e con la socializzazione delle perdite del settore bancario e finanziario, che si ponessero paletti alla delocalizzazione delle imprese. In poche parole, occorrerebbe ripristinare un “mercato corretto”, immune dall’influenza dell’establishment e dei suoi lobbysti. Il progressivo degrado delle condizioni di vita non sarebbe quindi figlio della dinamica del capitalismo ma solo il frutto di strategie politiche manipolative.

La conclusione più reale è invece che le spaventose disuguaglianze che caratterizzano l’era del capitalismo neoliberale non sono il risultato di una strategia consapevole di élite ben decise a riaffermare il proprio punto di vista di classe ma la conseguenza logica e coerente del fatto che il capitalismo fallisce in ciò che esso ha di più essenziale, vale a dire l’accumulazione di valore effettivamente valido. La società dei “trenta gloriosi” del secondo dopoguerra, l’apoteosi del capitalismo “socialdemocratico”, nei limiti del mondo dell’Occidente sviluppato, con il suo solido capitalismo industriale in espansione, accompagnato da un settore creditizio e finanziario ancillare, si è estinta proprio perché tale modello fatto di sostanziale piena occupazione, di Stato sociale, di crescita dei redditi etc., si era ormai infilato in vicolo cieco fatto di stagnazione e inflazione.

L’abnorme crescita del capitale finanziario, favorita con ogni mezzo sul piano giuridico e normativo dalle classi dirigenti di ogni paese (anche se naturalmente non dappertutto con la stessa prontezza e la stessa rapidità) era dunque necessaria per simulare una crescita economica in totale assenza di una valorizzazione reale del capitale. La soppressione di tutte le catene che ostacolavano la libera circolazione del capitale finanziario era indispensabile, non solo perché lo esigevano gli interessi soggettivi degli attori interessati, ma soprattutto per una imperativa esigenza sistemica: il salvataggio, in ultima analisi illusorio, del sistema di mercato.

Si aggiunga inoltre che questa eclatante asimmetria di ricchezza e di reddito che caratterizza la nuova era neoliberale non è affatto eccezionale nella storia del capitalismo. Come illustra lo stesso Kurz in un altro saggio (“Schwarzbuch Kapitalismus”, 1999) la tendenza del capitalismo è sempre stata quella di ridurre al minimo il consumo delle masse, di deteriorare fino all’estremo la vita sociale. Questo fa sì che la relativa “cuccagna” dell’Età dell’oro fu un evento eccezionale, una sorta di effimero periodo di tepore in un’epoca di glaciazione.

Ne risulta che l’idea del “primato della politica”, della possibilità da parte di una classe dirigente benintenzionata e “popolare” possa ripristinare l’Eden fordista mediante misure redistributive e una nuova strategia di sviluppo economico è una mera illusione. L’“estate di san Martino” del capitalismo non tornerà mai più, tantomeno per mano di un sovranismo progressista.

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Le due facce della modernità secondo Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2018/06/10/le-due-facce-della-modernita-secondo-robert-kurz/ Sat, 09 Jun 2018 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46193 di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a [...]]]> di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a Massimo Maggini e Riccardo Frola – da anni si dedica alla cura e traduzione delle opere di questi autori tedeschi. Non possiamo perciò che essergli grati (ed essere grati all’opera di diffusione portata avanti da questi appassionati, grazie anche alla rivista online “L’anatra di Vaucanson”) per la recente traduzione, per i tipi di Mimesis – editore presso il quale sono precedentemente usciti anche altri testi di tali autori – del saggio di Robert Kurz intitolato Il collasso della modernizzazione (Der Kollaps der Modernisierung), uscito in Germania nel 1991. Kurz è infatti un autore fondamentale per comprendere le contraddizioni della modernità e della contemporaneità, uno studioso che purtroppo è stato spesso trascurato o incompreso. Prematuramente scomparso nel 2012, Kurz è uno dei fondatori della rivista e del gruppo tedeschi “Krisis” e, successivamente, fautore della scissione del gruppo “Exit”. Fra le opere più significative degli autori del Gruppo Krisis è doveroso ricordare il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e, nel 2003, in traduzione italiana per “DeriveApprodi” [su Carmilla].

La tesi centrale di questo libro di Robert Kurz di recente traduzione italiana è basata su una interpretazione della modernità come una specie di “Giano bifronte”, a due facce. Giano, infatti, era il dio “degli inizi” (nonché il dio della porta) della religione romana, raffigurato con due volti perché può guardare il passato e il futuro, l’interno e l’esterno. In un saggio uscito qualche anno fa per Mimesis (ma successivo a Il collasso della modernizzazione), Ragione sanguinaria, sempre tradotto dallo stesso Cerea, la razionalità illuministica del capitalismo borghese è interpretata come dispensatrice di irrazionalità e di violenza: «Il Capitalismo sta trionfando fino alla morte, sia sul piano materiale che su quello ideale. Quanto più brutalmente questa forma di riproduzione, trasfigurata a società globale, devasta il mondo, tanto più micidiali sono le ferite che si autoinfligge e tanto più seriamente essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza».

Una interpretazione siffatta della modernità deve naturalmente molto agli studi di Horkheimer e Adorno e alla loro Dialettica dell’Illuminismo. Tuttavia, Kurz si spinge al di là delle teorie dei due filosofi, cercando, con sguardo critico, di ‘scavalcare’ il loro pensiero. In conclusione del volume, Kurz afferma infatti che non si tratta di realizzare una sorta di «uomo nuovo» «come pensavano Horkheimer e i suoi», ma di esercitare «una ragione pratica assolutamente immanente, che dovrà quindi limitarsi al superamento di questa specifica situazione storica, senza più rivendicare la pretesa assolutistica dell’ormai irreale “ragione universale” borghese-illuministica».

Ma procediamo con ordine. Il libro, scritto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta (è uscito in Germania nel 1991), all’indomani del crollo del regime sovietico, vuole essere una lucida e spietata analisi della struttura sociale ed economica di questo regime, il quale altro non è, appunto, se non l’altra faccia dello statalismo occidentale e, successivamente, della società capitalistica. Kurz analizza abilmente il crollo economico del regime per dimostrare come, alla fine, la crisi investa l’intera società capitalistica e come lo stesso capitalismo, ormai, non sia solamente preda di una crisi passeggera, ma sia invece entrato in un processo inesorabile di autodistruzione e autodissolvimento. Lo strale critico dello studioso è dapprima scoccato contro il «lavoro astratto come macchina fine a se stessa». Il lavoro astratto (marxianamente, in contrapposizione al «lavoro concreto», un lavoro umano slegato dagli aspetti qualitativi e dall’utilità, unicamente volto alla realizzazione del valore di scambio), infatti, non fu una prerogativa esclusiva dell’ideologia borghese, ma caratterizzò anche il marxismo del movimento operaio. A questo proposito, Kurz ricorda anche una significativa frase di Thomas Mann il quale, riflettendo nei suoi Diari sulla composizione del suo romanzo La montagna incantata, osserva che «la differenza etica tra il capitalismo e il socialismo è irrilevante, poiché per entrambi il lavoro è il principio supremo, l’assoluto». Non c’è quindi da meravigliarsi «che nel socialismo reale ricompaiano tutte le categorie capitalistiche di base: salario, prezzo e profitto (guadagno aziendale)». Il modello concreto di capitalismo di stato, cui guarda l’Unione Sovietica, è la Germania di Bismarck, dalla quale deriva anche la militarizzazione della società. Contemporaneamente, un altro modello tenuto presente è il giacobinismo della rivoluzione francese, per cui – osserva Kurz – «la violenza eccezionale della modernizzazione borghese sovietica è dovuta al fatto che essa concentrò un’epoca bisecolare in un intervallo di tempo estremamente breve: mercantilismo e rivoluzione francese, processo di industrializzazione ed economia di guerra imperialista, tutto in un colpo solo». E, in questo processo, la Germania orientale fu «più sovietica dei sovietici»: «Nella Repubblica Democratica economia al passo dell’oca e socialismo da caserma diedero vita a un’evoluzione aberrante della modernizzazione capitalistica; in termini biologici, un vero e proprio “incubo darwiniano”».

La vera crisi per il socialismo sovietico (come il movimento operaio marxista, incapace di «percepire con chiarezza» la testa di Giano della modernità) iniziò dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’entrata in crisi del sistema capitalistico fordista e con l’introduzione di sempre nuovi processi di automazione, fino ai più recenti sviluppi della microelettronica e dell’informatica. La profonda irrazionalità del sistema capitalistico è stata profondamente introiettata dal socialismo reale e dalla sua «economia di guerra». Un produttore può produrre indifferentemente torte al cioccolato, ordigni nucleari o scavare buche per poi riempirle: tutto ciò non è importante, ciò che conta è solo l’astratto interesse monetario. Vincitore è perciò chi sperpera forza-lavoro e materiale manifestando la massima indifferenza per i propri prodotti, creando la maggior quantità possibile di valore. Specchio di questo sistema, nell’economia di Stato sovietica, è la costruzione di ‘cattedrali nel deserto’, di edifici grandiosi perfettamente inutili «la cui realizzazione si trascina indefinitamente nel tempo, come per le cattedrali medievali». Ma di questo non dobbiamo stupirci se anche nel sistema capitalistico – si potrebbe aggiungere – questa è la norma. Per ricordare esempi vicini a noi, basti citare la costruzioni di inutili infrastrutture la cui realizzazione si prolunga indefinitamente, come ad esempio la realizzazione della TAV in Val di Susa.

In questo calderone irrazionale, guardare all’Ovest, per il socialismo sovietico, si trattò soltanto di passare dalla padella alla brace: «La crisi dell’Est si mescola in maniera diabolica alla crisi dell’Ovest e in questo dilemma tra Scilla e Cariddi si evidenzia con cupa chiarezza come per il sistema produttore di merce non esista più alcuna via di scampo». Collassato una volta per sempre il vecchio sistema, quello nuovo si dimostra essere ancora più disumano: l’apertura all’esterno di questi mercati vedrà come unica conseguenza la distruzione delle industrie locali e la loro invasione da parte degli imprenditori occidentali. Mentre in Occidente si manifestava per la prima volta il limite di sfruttamento astratto di forza-lavoro e si determinava una crescente disoccupazione di massa, l’Unione Sovietica dovette «trasformare l’intera società in una macchina da lavoro astratto, governata in modo quasi militare, così da imporre la logica del capitale». Gli ex cittadini dell’est, aspirando quindi ad una nuova forma di ‘libertà’ economica e sociale, non possono fare altre che unirsi a quei soggetti del denaro senza denaro che compongono la gran parte della popolazione mondiale, costrette a vivere in un lazzaretto sociale che si sta estendendo su tutto il pianeta.

Il saggio di Kurz, in alcuni momenti, suona anche lucidamente e terribilmente profetico, quando leggiamo, ad esempio, una frase come questa: «Il “mondo unico”, finalmente realizzato e riconosciuto come tale, confinato nella forma feticistica del sistema della merce in dissolvimento sotto i colpi della crisi, getta la maschera, rivelando il volto orribile e terrorizzante di una guerra civile mondiale ai suoi inizi, senza più fronti ben definiti, ma solo esplosioni di violenza cieca ad ogni livello». Ed è doveroso riportare anche quest’altra riflessione, un po’ più lunga:

Ma le istituzioni, i poteri e i rappresentanti (o i portabandiera politici) di questo «mondo unico» non sembrano affatto intenzionati a mettere in discussione l’automatismo del processo del mercato mondiale. Essi invece vogliono imporre la conservazione di queste regole mediante l’ultima ratio della forza militare. Ora però non possono più legittimarsi mediante il vecchio conflitto sistemico con il presunto «impero del male». Devono intervenire, come forza di polizia internazionale, contro le rivolte della fame, le esplosioni di disperazione, le campagne di vendetta e gli attacchi terroristici della schiera dei miliardi di perdenti, ma anche contro tutte quelle forze e quelle figure, tutt’altro che filantropiche che, nella battaglia globale per la spartizione della sempre più esigua massa di valore, perseguendo interessi particolari, si spacceranno per vendicatori degli oppressi.

L’immagine tratteggiata è alla fine quella di una sorta di Impero romano in piena decadenza, con le sue frontiere settentrionali e orientali invase da migrazioni di popoli. All’interno di questo quadro (in cui tra l’altro, osserva Kurz, «il fondamentalismo islamico conquisterà il potere in altri paesi», pronto a devastare con armi anche atomiche le metropoli occidentali), delineato nel 1991 dal lucido studioso tedesco, hanno poco senso, quindi, nel 2018, le politiche xenofobe di un Trump o di un Salvini o dei movimenti e regimi destrorsi e xenofobi forti anche in Europa. Si tratta inequivocabilmente di una condizione reale che non si può modificare, tutto sta a prenderne lucidamente atto. È necessario, inoltre, prendere atto del fatto che i settori vincenti, in Occidente, non fanno altro che scavarsi la fossa da soli anche a causa del potenziale di distruzione ecologica del sistema della merce. La dialettica tra Stato e mercato, fra statalismo sovietico e mercato capitalista – che ha percorso le riflessioni più pungenti di questo saggio – non ha più ragione di essere: entrambi sono inesorabilmente falliti. E l’invito a una lucida presa di coscienza di questo stato di cose ci viene adesso da queste spietate e profetiche pagine di Robert Kurz.

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