salute – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 May 2024 10:35:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Il Messico sfida la morte: Vergine di Guadalupe, tempra nazionale, o necessaria illusione? https://www.carmillaonline.com/2020/05/31/il-messico-sfida-la-morte-vergine-di-guadalupe-tempra-nazionale-o-necessaria-illusione/ Sat, 30 May 2020 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60556 di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel [...]]]> di Stefano Bigliardi

[Intervista* con Fabrizio Lorusso, dal Messico, pubblicata su L’Atea. Rivista di cultura atea, agnostica e razionalista, Numero unico maggio 2020]

La conoscenza che in Italia si ha del Messico è scarsa. A livello popolare, sono diffusi stereotipi veicolati da film vecchi e nuovi, che ne creano una percezione superficiale e frammentaria, il che porta a ignorare come la repubblica federale messicana, con il suo vastissimo territorio (che comprende 32 Stati più la capitale), la sua diversità culturale, e la sua storia complessa, sia in realtà, nel bene e nel male, un enorme laboratorio politico e sociale. Un laboratorio in cui, al netto di elementi tipicamente e irripetibilmente e messicani, si sono tentati esperimenti, e si sono osservati fenomeni destinati a ritrovarsi anche in forma dilagante nel resto del mondo. Tanto per citarne alcuni: l’opposizione tra una dimensione indigena e rurale e quella globalizzata e urbana, la contraddizione tra rivendicazione culturale autoctona e anelito alla way of life statunitense, il neoliberismo portato alle estreme conseguenze, l’affermazione delle chiese evangeliche, la migrazione di massa e clandestina verso il vicino più ricco, la militarizzazione del Paese in risposta alla criminalità organizzata. Ci è sembrato dunque importante rivolgere lo sguardo al Messico, e per farlo ci siamo affidati alla competenza di Fabrizio Lorusso. In Messico da vent’anni, di cui una quindicina trascorsi nella capitale, attualmente professore-ricercatore presso l’Università Iberoamericana di León, giornalista freelance, Lorusso annovera tra le sue numerosissime pubblicazioni il libro Santa Muerte. Patrona dell’umanità (Stampa Alternativa, 2013), e Narcoguerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga (Odoya, 2015). 

Stefano Bigliardi (SB). “Cominciamo, Fabrizio, con qualche dato. Com’è la situazione attuale in Messico? Quali sono le previsioni?”

Fabrizio Lorusso (FL). “I numeri ovviamente cambieranno e i lettori potranno trovarli facilmente, ma nel momento in cui ti parlo ci sono 174 morti accertati e oltre 3500 contagi. Ma c’è una stima che va dai 26.000 ai 30.000 possibili casi, che il Ministero della Salute ha divulgato proprio ieri [7 aprile, NdR]. Occorre tenere conto che, in proporzione al territorio nazionale, il numero dei test effettuati è scarso. Morti e contagi sono concentrati a Città del Messico [8,85 milioni di abitanti, NdR] e nel suo hinterland, che è lo Stato del Messico [16,20 milioni di abitanti, NdR]. Per ora sembra che la ‘curva’ proceda abbastanza lentamente rispetto ad altri Paesi, e che il picco sia previsto verso la fine del periodo di quarantena attualmente decretato, il 30 aprile, anche se la stima dei contagi è basata su cifre imprecise, quindi ci si aspetta che le misure di distanziamento sociale siano prolungate oltre la fine del mese”.

(SB). “Che decisioni sono state prese dalla politica, e sulla base di quali idee (o ideologie)? Hanno interferito motivi religiosi? Si sono registrati slittamenti di posizione nel tempo?”

(FL). “Nelle decisioni prese dalla politica abbiamo riscontrato un pragmatismo caratterizzato anche da un certo anticipo rispetto ad altri Paesi. La cosiddetta ‘Fase 1’ è durata fino a fine/metà marzo e però già durante quella, quando ancora i decessi erano pochissimi, si erano prese misure da ‘Fase 2’; in altre parole, tra il 17 e il 20 del mese sono state chiuse le scuole e sono stati proibiti gli assembramenti. Per contestualizzare ulteriormente bisogna ricordare che il sistema sanitario messicano è carente, a causa di trent’anni di crisi e di tagli. C’è un settore pubblico, frammentato e corporativo, che non ha copertura universale; la spesa sanitaria è circa il 3% del PIL, dato da paragonare al 6-8% dell’Italia, e a spese superiori all’8% in altri Paesi dell’OCSE. Il settore privato è analogamente frammentato, con sotto-settori che servono gli strati medio-bassi della società, e altri per i ricchi o comunque per chi ha un lavoro fisso e un’assicurazione privata. In questo quadro sono state prese misure anche prima che lo facesse il Ministero, e pare che abbiano rallentato la ‘curva’, grazie all’esperienza maturata durante l’epidemia di H1N1 del 2009. Alla fine di marzo si sono prese le decisioni più dolorose per l’economia, vale a dire, la dichiarazione di emergenza sanitaria e la chiusura di tutte le attività non essenziali, quindi anche i piccoli negozi, fabbriche, servizi. Misure peraltro non del tutto rispettate, anzi. Ricordiamo che quasi il 58% dell’economia messicana è informale, il 45% della popolazione è considerata sotto la soglia della povertà e quindi vive alla giornata. Comunque è da circa un mese che la popolazione è bombardata dagli spot pedagogici sulla sana distancia, una misura che non rappresenta uno stato d’eccezione, come in altri paesi latinoamericani, e che sta risultando più o meno efficace a seconda delle diverse zone del Paese. In tutto questo, ripeto, si vede un pragmatismo da parte del governo, che ha seguito un percorso tecnico, se non proprio tecnocratico, e che d’altro canto scontenta le imprese, per le quali si prevede un altissimo numero di fallimenti che poi avranno costi a carico dello Stato.

Ma attenzione, come sempre in Messico, la situazione è complessa e non sempre coerente. Ci sono attualmente due piani della politica, rappresentati da due diverse istituzioni che comunicano al pubblico con modalità diverse e che sono sfasate temporalmente nell’arco di una stessa giornata. Uno è appunto il Ministero della Salute. L’altro piano è rappresentato dal presidente Andrés Manuel López Obrador, noto con l’acronimo AMLO, classe 1953, in carica dal 1° dicembre 2018, e alla guida del Movimiento Regeneración Nacional. Si tratta di una figura carismatica dalle notevoli doti oratorie. Tiene una conferenza stampa tutte le mattine (peraltro divagando anche su altri temi rispetto al virus), mentre il Ministero della Salute si fa sentire alla sera attraverso il sottosegretario ed epidemiologo Hugo López-Gatell.

Il presidente ha suscitato polemiche, non solo con le dichiarazioni, ma anche con il comportamento, Specialmente in marzo, all’inizio della crisi. I discorsi di López Obrador hanno incluso elementi folkloristici e messianici, per esempio quando si è presentato con un’immaginetta della Vergine di Guadalupe asserendo che fosse la sua protezione [sarebbe apparsa nel 1531 ed è una vera e propria icona nazionale, NdR]. Anche prima della crisi AMLO non ha mai nascosto le sue credenze religiose nei discorsi ufficiali e ha sempre usato un linguaggio vicino a una parte del popolo e basato sulla superstizione. Ricordiamo anche che aveva stretto un’alleanza elettorale con il PES, Partido Encuentro Social, legato alle chiese evangeliche. Il presidente si è quindi sempre mosso tra cattolicesimo tradizionale e ‘nuovo cristianesimo’, che rappresenta un certo potere, in crescita. Certo, non parliamo di un messianismo ai livelli di Trump o di Bolsonaro, ma per esserci c’è, ed è mescolato alla volontà di non far cadere a picco l’economia. A questo, in tempi di COVID-9, il presidente ha aggiunto un altro elemento, il richiamo alla resistenza stoica e storica del popolo messicano.

La ‘sfida’ del presidente non si è limitata alle parole, ma si è notata anche nelle azioni: infatti ha tenuto comizi, ha inaugurato autostrade, si è trovato in mezzo ad assembramenti, e fino a qualche giorno fa toccava e baciava le persone. È persino sceso dalla pur austera macchina presidenziale per salutare la madre del Chapo Guzmán, donna di novantadue anni che gli aveva scritto esprimendo il desiderio di visitare il figlio in carcere negli USA prima di morire. Il presidente, il mattino dopo, si è dovuto giustificare in conferenza stampa, ed è ricorso a dei giri di parole sulla figura della madre, che culturalmente fa presa, anche se in questo caso si tratta della madre di uno dei più grandi trafficanti della storia, con decine e decine di omicidi a suo carico. Con quell’atto si è determinata, in piena crisi da COVID-19, una doppia crisi di legittimità. Ricordo poi che in altre conferenze ha sostituito i santini con dei quadrifogli portafortuna come elemento di protezione, ma la sostanza, ecco, è quella”.

(SB). “Al di là della politica, che reazioni popolari si notano? Le religioni hanno giocato un ruolo degno di nota?”

Foto: a San Miguel de Allende, statunitense con mascherina della Madonna di Guadalupe (Notimex, Paola Hidalgo)

(FL). “Per quanto riguarda la popolazione, che è parte del mio vissuto oltre che di quello che leggo, ci sono da registrare altre reazioni, con sicuramente delle intersezioni rispetto a religione e religiosità. Ancora in marzo, dei preti anche molto in vista, per esempio nello Stato di Guerrero, hanno dichiarato che a loro il virus non interessava e che avrebbero continuato a celebrare cerimonie e messe. Questa ‘sfida’ si è poi ridimensionata in aprile. Tuttavia, nonostante le proibizioni, le chiese, come del resto certi negozi e certe imprese, sono sempre aperte. Non ho visto manifestazioni di massa, ma piccoli assembramenti di persone sì: e pensiamo che ne è delle misure sanitarie quando si usa l’acqua santa, quando ci si siede sulle panche e c’è un viavai di fedeli senza mascherina. Tanto nella religione quanto nella piccola economia si riscontra quindi una volontà piuttosto ‘tiepida’ di mettere in atto le misure, e spero non costi contagi e vite. Dipende poi molto dalle regioni messicane e dallo zelo dei governi locali nell’implementare le misure di sana distancia, per cui in alcuni casi, compresa la capitale, ci sono state riduzioni nei trasporti e movimenti del 70-80%, mentre in altre zone solo del 30%.

Io vivo a León, nello Stato del Guanajuato, profondamente conservatore e cattolico, e ho notato altri fenomeni degni di nota. Il discorso del presidente sulle protezioni divine, anche legate a veri e propri amuleti (López Obrador ha mostrato lo scapolare in TV), che pure nel corso del tempo è andato diminuendo, è in accordo con reazioni popolari, o le suscita. Si vedono tutto d’un tratto effigi di Cristo attaccate alle porte, le persone fanno discorsi sulla protezione divina (peraltro sta per arrivare la Semana Santa della Pasqua), il tutto in una zona grigia tra superstizione e fede. Da aprile, comunque, non si registrano dichiarazioni di sacerdoti volte a sminuire la pericolosità del contagio o, al contrario, a creare una ‘comunità del dolore’. Ho visto però delle piccole processioni, non legate alla Semana Santa ma all’epidemia, con fedeli muniti di megafono che andavano per le strade invocando protezione dalla malattia e richiamando alla fede”.

(SB). “Qual è la concezione della morte in Messico?”

(FL). “Sulla concezione della morte in Messico sono state scritte biblioteche, perché è parte del patrimonio tradizionale nazionale, ed è stata anche esportata, commercialmente e culturalmente. In realtà questa concezione è formata da diversi ingredienti che possono mescolarsi, ma non sempre lo fanno, e che non hanno necessariamente un’origine comune. Ci sono le celebrazioni dell’1 e 2 novembre, per il Día de muertos, che sono patrimonio dell’UNESCO e sono molto apprezzate tanto dai messicani quanto dai turisti. In quei giorni si crea una “vicinanza” tra vivi e morti, si costruiscono altari multicolori con tutte le cose che piacevano ai defunti, e la celebrazione collettiva crea un legame tra ambiente domestico, piazze pubbliche e cimiteri. C’è il culto per la Santa Muerte, devozione popolare nata decenni fa, in clandestinità, che in seguito è stata trasposta in film e serie TV che la associano, con una certa semplificazione, ai narcos. Ci sono le Catrinas, statue e illustrazioni che rappresentano scheletri vestiti in abiti da dama dei primi anni del XX secolo, creati come satira dell’incisore José Guadalupe Posada [1851-1913] che si burlava con la sue opere dell’élite filo-francese all’epoca del presidente-generale Porfirio Díaz [1830-1915]. La morte, in particolare quella di Cristo, è rappresentata all’interno dell’iconografia cattolica popolare, e a tinte forti, sottolineando la sofferenza fisica; sempre la chiesa cattolica, però, respinge ufficialmente la devozione per la Santa Muerte. In parte, tutto questo ha risonanze culturali con una tradizione indigena antichissima, il culto per Mictecacíhuatl e Mictlantecuhtli, coppia di divinità mesoamericane della morte, e la credenza negli inferi. Queste risalgono all’epoca precolombiana e ai culti delle popolazioni autoctone mesoamericane, annichilite dalla conquista e da tre secoli di dominio coloniale iberico, e ricostituitesi in seguito intorno a certi nuclei linguistico-culturali, rifluendo infine nella cultura nazionale messicana del secolo XX. Questo accadde dopo la Rivoluzione [1910-1917] quando nella nazione furono incorporati i popoli originari, o comunque una versione ricostruita della loro eredità culturale, e gli antichi messicani furono oggetto di una “re-invenzione romantica”. In tutte queste forme la morte, nella società attuale, è onnipresente. A questo si aggiunge la morte violenta, truculenta, riflessa nei media, e sistematicamente causata dalla cosiddetta guerra al narcotraffico, che altro non è se non un conflitto armato interno, per una serie di risorse, tra attori statali, parastatali e delinquenziali, spesso confusi tra loro. Anche questa morte è stata esportata, sia dai canali dell’informazione che dell’intrattenimento, specie attraverso la mediazione statunitense, suggerendo superficialmente che l’intero fenomeno narcos fosse caratterizzato da un ‘culto deviante’ della morte”.

(SB).  “Tutto questo come si amalgama, e come potrebbe portare i messicani a filtrare gli eventi attuali e a scegliere un corso di azione rispetto ad un altro?”

(FL). “In generale, l’atteggiamento popolare messicano rispetto alla morte si potrebbe chiamare, semplificando un po’, ‘nichilista’, ‘fatalista’, o forse persino ‘menefreghista’, e potrebbe indurre a ignorare i rischi. Questo atteggiamento si fonde con la religiosità popolare, della quale ho già detto, e che potrebbe avere gli stessi effetti. In altre parole, si potrebbe essere portati o a minimizzare il rischio di morte con atteggiamento di ‘sfida’, o a pensare di godere di una protezione divina, andando in ogni caso contro le misure igieniche. Questa è una congettura, e potrebbe anche rivelarsi infondata. In giro, però, come dicevo in precedenza, ci sono segni di un comportamento di questo tipo.

Un’altra idea diffusa è che la morte sia ‘democratica’ (infatti tocca a tutti, e i fedeli della Santa Muerte la vedono come icona di giustizia proprio per questo). Sempre a livello popolare, allora, si potrebbe essere tentati di estendere questa concezione anche al virus, con il risultato di ignorare il fatto che, se è vero che nessuno è completamente al riparo dal contagio, il COVID-19 può falcidiare e far soffrire soprattutto le comunità più deboli (come già si è notato negli Stati Uniti), attuando una vera e propria pulizia etnica e sociale. C’è da temere per le comunità indigene, anche tenendo conto che i materiali informativi sulle pratiche di prevenzione non sono stati tradotti nelle lingue locali, per non parlare degli strumenti sanitari concreti, che scarseggiano persino negli ospedali di Città del Messico, quindi figuriamoci in Chiapas, nel Guerrero o nelle comunità rurali in cui gli ospedali nemmeno ci sono.

Tornando al presidente, López Obrador [nella foto, cortesia di Gob.Mx] conosce il ‘Messico profondo’: non solo quello indigeno ma soprattutto quello delle comunità rurali, che lui ha sempre visitato, e ha saputo captare tutti gli elementi che ho discusso. Se si tiene conto di tutto il contesto, si chiarisce senza giustificarlo, cioè si comprende in tutta la sua ambiguità, il discorso del presidente. Il richiamo al ‘resistere uniti’, se da un lato può suonare come un invito ragionevole, dall’altro, a uno sguardo approfondito, risulta essere una mistificazione della realtà, che è quella di un Paese non omogeneamente preparato e protetto rispetto al contagio e alle sue conseguenze, specie in considerazione del fatto che si è pragmaticamente scelto di non bloccare totalmente l’economia o tollerare la violazione delle misure d’isolamento, anche per non annullare l’economia popolare e “di strada”. C’è almeno un 50% di popolazione, su circa 125 milioni totali, in povertà. Chiudere tutto anche solo per una settimana significa rischiare di ridurre alla fame quell’immenso numero di messicani che lavorano senza contratti e garanzie, guadagnandosi il pane letteralmente giorno dopo giorno. Inoltre il 66% dei messicani, quindi anche chi non si trova in condizioni di povertà, presenta una qualche vulnerabilità sociale rilevante. Mancano, in particolare, di copertura assicurativa e il sistema sanitario è come l’ho descritto in precedenza. Se anche non si chiude tutto pur di salvare l’economia, nel caso in cui il virus dovesse infuriare, soffrirà molto chi è vulnerabile in termini di copertura sanitaria, o chi ha sì accesso a strutture ospedaliere, ma mal equipaggiate. Si capisce allora che tutti i discorsi sulla ‘protezione speciale’, sulla ‘sfida alla morte’, evangelici, cattolici o anche laici che siano, altro non rappresentano che un ‘far di necessità virtù’, che li si ritrovi in bocca al presidente o a un comune cittadino. Le famiglie svantaggiate non hanno scelta rispetto al resistere con pochi mezzi o al non prendere misure straordinarie, e, da qualunque parte la si guardi, la situazione è inquietante.

Tanto per farti un esempio aneddotico, la signora da cui compro abitualmente le verdure mi ha chiesto, un paio di settimane fa, se il virus è reale. Chissà se la domanda era spontanea, o se era influenzata da qualche discorso negazionista, veicolato da radio e TV. Il linguaggio del corpo, devo dire, non era quello di chi nega la malattia. Questo riesce difficile, ai messicani, vista la presenza di gravi malattie stagionali e tropicali su cui, a ogni ondata, si concentrano i discorsi. Eppure, paradossalmente, anche alla luce di questo fatto molto concreto (l’ortolana di cui ti parlo e suo marito novantenne, l’anno scorso, hanno avuto il dengue) può scattare un meccanismo volto a esorcizzare il COVID-19, se si arriva cioè a sostenere che malattie come il dengue e lo zika sono appunto reali e tipiche del Paese, mentre il coronavirus sarebbe proprio dei Paesi più freddi e quindi tutto sommato meno preoccupante. Questo è un discorso ‘eccezionalista’ che, non a caso, sempre López Obrador ha fatto suo e diffuso, almeno in una prima fase, peraltro senza precisare alcun dato scientifico sulla temperatura esatta che avrebbe fatto la differenza. Certo, nei deserti messicani c’è una notevolissima escursione termica, ma non ci sono le persone, il che rende ogni discorso al proposito, quand’anche fosse scientifico, non applicabile alle città, in cui al momento c’è un clima simile a quello del mese di maggio in Italia.

La signora ortolana, insomma, cerca di afferrarsi a questo o a quell’altro motivo come meccanismo di auto-rassicurazione per poter andare avanti. È vero che vende un bene essenziale, ma è anche vero che la natura del suo commercio, le condizioni igieniche dello stesso, e la sua età, la espongono al contagio, e comunque, finanziariamente, lei non può permettersi di chiudere così come non potrebbe permettersi cure adeguate. Purtroppo, in quella signora, si ritrova rappresentato, se non tutto il Messico, una sua grande parte”.

* L’intervista si è svolta attraverso WhatsApp tra il 7 e l’8 aprile 2020. Il presente adattamento è stato approvato da Fabrizio Lorusso, che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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La libertà ai tempi del morbillo https://www.carmillaonline.com/2017/05/20/la-liberta-ai-tempi-del-morbillo/ Fri, 19 May 2017 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38371 di Giovanni Iozzoli

popolo_minorenneCosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti.

Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica.

Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato [...]]]> di Giovanni Iozzoli

popolo_minorenneCosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti.

Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica.

Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle ASL a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat.

Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo.

Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.

Una volta, il camice bianco, lo scienziato, il “dottore” (figura archetipale della Conoscenza oscura e salvifica), con il solo carisma della funzione e del titolo di studio, esercitavano un’indiscussa egemonia sul popolino, che ne riconosceva acriticamente l’autorità specialistica. Idem per le altre figure preposte alla direzione della società: il politico-amministratore, il banchiere, il dirigente di polizia, il giudice.

Mettere in discussione ruoli e competenze delle élite era possibile solo per ristrettissime minoranze critiche, perché la stragrande maggioranza della popolazione non aveva gli strumenti culturali per dissentire dai “gruppi dirigenti”, dai loro linguaggi specialistici, dalle loro ingiunzioni spesso inspiegabili. Chi stava “in basso” era più o meno rassegnato a delegare ai piani superiori la gestione delle grandi questioni che oggi collochiamo nella dimensione etica e bio-politica.

Oggi non è più così. Una larga fetta di popolazione, generalmente i settori un po’ più dinamici e informati, nutre un sospetto e uno scetticismo critico “a priori” sulle competenze e sui moventi di ogni gruppo dirigente. È un fenomeno trasversale e secondo alcuni questa sorda e ostile sfiducia di massa, che corre lungo l’asse verticale “ basso-alto” della società , è l’essenza di quello che viene definito “populismo”.

Una recente inchiesta statistica lamenta il fatto che molti genitori sono andati in questi anni a cercarsi sul web informazioni sui vaccini, finendo vittime di quelle che, i curatori delle inchieste, definiscono costernati come le “solite bufale”. Senza entrare nel merito di una faccenda medico scientifica assai complessa, pare un atteggiamento saggio quello di muoversi autonomamente e acquisire informazioni. Perché si dovrebbero delegare acriticamente la salute propria o dei figli ad un medico di base o, peggio, alle burocrazie sanitarie? Perché ci si dovrebbe rassegnare all’idea che sia il presidente della Regione – non di rado mediocrissimo funzionario di partito – a decidere le delicatissime strategie di salute pubblica? Non è forse più saggio esercitare un giudizio critico “a priori” rispetto all’affidarsi (sempre “a priori”) a quella classe medica che ogni tanto – in autorevoli suoi segmenti – viene investita da inchieste giudiziarie (non bufale, ma atti delle Procure) mentre esercita sperimentazioni di massa sui pazienti del Servizio Sanitario pubblico per conto di Big Pharma? È a costoro che si dovrebbe consegnare integralmente il delicato tema politico della salute?

Tra l’altro l’impressione è che spesso i medici, massa proletarizzata di lavoratori della sanità pubblica, non facciano che ribadire i contenuti delle circolari ministeriali che gli arrivano sulla scrivania. Non hanno le competenze proprie dell’immunologo o dell’epidemiologo, non adottano nemmeno il protocollo minimo richiesto da qualsiasi somministrazione medica: conoscenza preventiva della storia del paziente e osservazione successiva e prolungata nel tempo degli effetti del farmaco somministrato (tutte pratiche incompatibili con il “vaccinificio industriale”).

È in tale quadro che il cittadino cerca autonomamente informazioni dove e come può, essendo sostanzialmente vietato da un clima isterico (decisamente antiscientifico) ogni serio e rigoroso dibattito pubblico in materia. E qui si apre l’altro grande nodo di questi tempi: l’uso del web e la questione di chi gestisce l’infosfera ingovernabile della “pubblica opinione”, che tanto inquieta le élite globali.

Esisteva un tempo una verità ufficiale capace di imporsi nel discorso pubblico, a cui tutti gli operatori del settore umilmente concorrevano. Tale monopolio del discorso pubblico (di cosa si parla e come se ne parla) pare ormai decisamente incrinato. Si mettano l’anima in pace scienziati, politicanti e giornalisti. I buoi sono usciti e sempre meno gente aderirà ciecamente al pastone mainstream che viene propinato ogni sera nei telegiornali o nei compunti editoriali antipopulisti.

E l’Alitalia? Cosa ha a che fare l’Alitalia con la questione vaccini?
Il nesso tra i due contesti – vaccini e vertenze – va cercato sul medesimo terreno minato, quello del consenso e della fiducia nei “dirigenti-specialisti”.

Nell’ultimo referendum in cui i lavoratori del gruppo hanno votato in massa contro l’ipotesi di accordo, in ballo c’era proprio un “pacchetto” di misure confezionato ad arte da tutti i “professionisti” della gestione delle crisi, convocati attorno a un tavolo in cui, come in una sceneggiatura, tutti i ruoli erano noti e definiti: gli amministratori del gruppo, gli investitori internazionali, i consulenti delle banche creditrici, i saggi politici intervenuti con sollecitudine per la salvezza della ex compagnia di bandiera, i sindacalisti buoni e responsabili.

Oltre alla supposta autorevolezza di queste figure, incombeva anche qui il clima terroristico che era alimentato abilmente dai mezzi di comunicazione: “O votate SÌ o domattina siete disoccupati”. Un ben curioso esercizio di dialettica democratica.

Si è detto ai dipendenti di Alitalia: “Ci dispiace, ragazzi; dobbiamo sforbiciare salari, tutele e occupazione, ma che volete mai, dovete conservare pazienza e fiducia, gli specialisti siamo noi, vorreste forse rivendicare il diritto alla gestione di una compagnia aerea? Dateci il vostro consenso, perché è attraverso quello che vi salveremo”.

Il no di massa dei lavoratori è stato definitivo e fulminante: un’epidemia di dissenso.

Qual è il segno politico di tale pronunciamento? Uno solo: “Non ci fidiamo più. Vogliamo vedere il gioco. Non ci fate più paura. Vediamo di cosa siete capaci”. Una sfida lanciata dal basso che ha sparigliato i soliti vecchi giochi, generando un panico confuso tra consiglieri di amministrazione, sottogoverno, sindacalismo di stato, editorialisti: una manica di cialtroni che alla prova dei fatti, sbugiardati e sfiduciati, mostrano tutta la loro pochezza, l’assenza di strategie e di ogni visione che non sia spolpare, spezzettare e svendere la memoria industriale di questo paese.

Torniamo ai vaccini. Se dovesse passare una legge sulle vaccinazioni coatte, che succederà di fronte a migliaia di genitori che rivendicheranno il diritto di decidere, comunque, della salute dei propri figli? Che succederà se sfideranno le autorità scolastiche, portando i loro ragazzi a scuola per adempiere a quello che, almeno fino ad oggi, in Italia, è un obbligo di legge?

Finirà che deciderà il Tar del Lazio. Come è “normale” che sia in un paese patetico come questo, in cui ai piani alti della società, mentre si esibisce la protervia modernizzatrice, serpeggia una ottocentesca paura del “popolo” – sempre evocato, omaggiato, blandito, ma sotto sotto temuto per le sue imprevedibili reazioni.

Le élite italiane sono oggi così deboli, prive di autorità e di egemonia, che ormai l’azione di governo si esercita solo attraverso il comando amministrativo, la decretazione d’urgenza a cui segue, di solito, l’ammucchiata bi-partisan.

Sul piano sociale, questa debolezza si manifesta in tante vertenze sindacali o territoriali: tra i Palazzi del potere e le comunità (critiche o rancorose) spesso c’è solo una sfilza di celerini. Niente altro in mezzo.

Nessun potere può reggere a lungo su una base di consenso così fragile: un po’ di truppe in camice bianco (i chierici delle varie corporazioni di regime), un po’ di truppe in divisa blu, e in mezzo uno sparuto drappello in giacca e cravatta che twitta moniti e minacce, isolato e intimorito.

Una nota finale sulla questione delle libertà. Il sistema tardo-liberale fa di questa parola la sua fonte di legittimazione e la sua bandiera: si va in Afghanistan a liberare le donne in burqa, si svende il patrimonio pubblico per liberalizzare l’economia, si ridisegna tutto il quadro dei diritti individuali per allargare la libertà della persona.

Ma se c’è un opzione o un diritto collettivo che cozza con gli imperativi del mercato (vedi la libertà di scelta terapeutica) la reazione del sistema è feroce come un missile Hellfire che piomba su una festa di matrimonio a Kandahar: la retorica pubblica sulle libertà, viene sostituita dalla riemersione delle vecchie care parole d’ordine della società disciplinare – proibire, censurare, espellere, ingabbiare, controllare.

Le retoriche del politicamente corretto, del contrasto al populismo, delle isterie securitarie, si sostituiscono in un battibaleno alle ciance sulla libertà e i diritti. Se hai abbastanza soldi puoi farti fare un figlio con maternità surrogata da una disgraziata in Romania: ma se il pupo si vaccina o no (ciò che attiene alle grandi scelte di salute pubblica e business) questo lo decideranno loro.

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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Il filo rosso dell’amianto e di Stephen Schmidheiny tra Italia e America Latina https://www.carmillaonline.com/2015/09/25/amianto-eternit-e-stephen-schmidheiny-tra-italia-usa-e-america-latina/ Thu, 24 Sep 2015 22:00:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25480 di Fabrizio Lorusso

Amianto dangerLo portavano sempre con sé i pompieri, dentro le loro uniformi. Isola tetti, pareti e tubature. E’ fibroso, incombustibile, mortale. Non è un indovinello, ma la descrizione dell’amianto o di una sua varietà, l’asbesto, un minerale di fibre bianche, flessibili e assassine.

“Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria. Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Amianto dangerLo portavano sempre con sé i pompieri, dentro le loro uniformi. Isola tetti, pareti e tubature. E’ fibroso, incombustibile, mortale. Non è un indovinello, ma la descrizione dell’amianto o di una sua varietà, l’asbesto, un minerale di fibre bianche, flessibili e assassine.

“Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria. Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile: l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate dalla fusione di un elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto”.

Così scrive Alberto Prunetti, autore del romanzo, basato sulla vita di suo padre e della sua famiglia, Amianto. Una storia operaia (Ed. Alegre, Roma).

amianto alegreEd è la storia di milioni di lavoratori che, spesso ignari del pericolo o manipolati dalle imprese che li contrattano, ancora oggi in decine di paesi nel mondo inalano e portano su di sé o dentro di sé le fibre tossiche che provocano mesotelioma, tumore del polmone e della laringe, o gravi patologie come la asbestosi. Parole forse complicate ma cause semplici: se in casa stai lavando dei vestiti con dei residui di amianto, potresti respirarne una fibra che mai più uscirà dal tuo corpo e potrebbe produrre malattia e morte. Da un fascetto di minerale spesso un millimetro si possono liberare cinquantamila microfibre respirabili.

L’amianto è un minerale silicato, varietà di serpentino o di anfibolo, di composizione varia, e in composizione con il cemento forma il fibrocemento, che è altresì un marchio registrato, brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Hatschek come “Eternit”, cioè eterno, data la sua resistenza. Ed eternamente sprigiona polveri fatali quando è maneggiato o quando si logora. Tutti noi, per esempio in Messico, dove vivo, e comunque ove non sono state proibite la sua estrazione ed il suo uso, o dove non sono state realizzate le bonifiche, siamo in pericolo. In terra azteca l’asbesto è onnipresente, sopra le nostre teste, nelle pareti, a ricoprire tubi o nei negozi in cui ancora si commercializza. E’ rischioso lavorare a contatto con il minerale, vivere nei pressi degli stabilimenti o avere lamine, tubature, pastiglie dei freni, giacche e guanti rivestiti di amianto. Paiono ammonimenti scontati e banali in Italia o in Europa, ma suonano come inquietanti novità in gran parte dell’America Latina.

Asbesto-America e Russia

In Europa la bonifica delle strutture infestate dall’amianto è durata anni, da quando a poco a poco negli anni novanta il materiale cominciò a essere messo al bando e poi, nel 2005, la misura fu estesa definitivamente a tutti gli stati membri della UE. Oltre 50 paesi (link lista e cronologia dei divieti), includendo, nelle Americhe, il Cile, l’Honduras, l’Uruguay e l’Argentina, hanno fatto la stessa cosa, vietandone l’uso all’interno del proprio territorio. Ma le economie più importanti del continente americano e ai primi posti nel mondo, come Stati Uniti, Canada e Brasile, pur avendone limitato gli usi e avendolo proibito totalmente in alcuni stati, non l’hanno del tutto proibito e continuano a promuoverne il commercio.

Infatti, il Canada è uno dei primi esportatori dell’amianto bianco o crisotilo, gli Stati Uniti sono molto attivi nell’import-export dell’amianto e il Brasile è il terzo produttore mondiale e lo utilizza ampiamente in casa propria. Gli affari della fibra-killer vanno a gonfie vele anche per Russia, Cina, Tailandia, India e Kazakistan, che sono tra i principali produttori (vedi mappe qui e progetto giornalistico di ricerca su vari paesi “Danger in the Dust” qui).

In Russia a Kazakistan le aziende leader sono rispettivamente la  Orenburg Minerals e la Kostanai Minerals, controllate dalla britannica United Minerals Group Limited dal 2003, secondo un report stilato dagli investitori di Kostanai Minerals. Nel 2004 la compagnia ha una quota del mercato mondiale dell’asbesto crisolito del 30% e cambia nome: diventa la Eurasia FM Consulting Ltd., ma non è chiaro se tuttora l’impresa controlli Orenburg e Kostanai. Cito da un reportage del 2010 del progetto “Dangers in the Dust”:

“Una compagnia con sede a Cipro, la UniCredit Securities International Ltd. — parte di UniCredit, uno dei gruppi bancari più grandi del mondo, con 10.000 filiali in 50 paesi — possiede partecipazioni sia in Orenburg Minerals che nella Kostanai Minerals “per conto di clienti occulti”, secondo quanto detto dal portavoce di UniCredit, Andrea Morawski, a ICIJ [International Consortium of Investigative Journalists] via mail. Morawski ha sottolineato, comunque: “Noi non esercitiamo nessun controllo su [Orenburg Minerals or Kostanai Minerals] né siamo beneficiari delle partecipazioni detenute. Fin dove siamo ragionevolmente a conoscenza, noi non siamo stati beneficiari di nessuna commissione/profitto derivante da attività legate all’asbesto”.

Asbesto MAPA 1 exporta5asbesto2

L’asbesto non è vietato negli USA che, al contrario, sono sempre stati un gran importatore d’asbesto e il maggior consumatore mondiale del minerale, mentre hanno fornito storicamente solo una piccola percentuale dell’output estratto globalmente. Riporto dal portale Asbestos.com (sezione “Storia”):

“Una regolamentazione presentata dalla Agenzia per la Protezione Ambientale, che bandiva la maggior parte dei prodotti contenenti asbesto, venne ribaltata dalla Corte d’Appello del Quinto Circuito a New Orleans nel 1991 per le pressioni dell’industria dell’asbesto. Anche se si tratta ancora di un bene legale ed è presente in molti edifici e prodotti d’uso comune nelle case, l’uso dell’asbesto è declinato considerabilmente negli Stati Uniti. L’ultima miniera è stata chiusa nel 2002, mettendo fine a quasi un secolo di produzione di asbesto nel Paese”.

Amianto fibraAd ogni modo negli USA, secondo il US Geological Survey relativo al 2012, sono entrate 1.060 tonnellate di asbesto dal Brasile. Fondamentalmente il commercio e gli affari non si sono mai fermati, l’amianto di tipo bianco-crisolito è ancora utilizzato nei materiali da costruzione, per l’isolamento, i freni delle automobili e in altri prodotti, malgrado esistano alternative valide per il settore manifatturiero. Di conseguenza una trentina di statunitensi muoiono ogni giorno per le patologie ad esso relazionate.

Da anni il Canada è additato come un “paese canaglia” per la sua reticenza nell’includere l’amianto nella lista internazionale dei materiali pericolosi. Le attività minerarie canadesi cominciarono intorno al 1850, quando furono scoperti i giacimenti di crisolito a Thetford, e un quarto di secolo dopo s’estraeva una cinquantina di tonnellate all’anno nel Quebec. Negli anni ’50 del secolo scorso la cifra arrivò a oltre 900.000 tonnellate.

Nel 2011, la miniera “Jeffrey Mine in Asbestos” del Quebec è finita al centro dell’attenzione dopo che il governo canadese aveva proposto un finanziamento da 58 milioni di dollari per riaprire la miniera. Siccome gli investitori privati fallirono nel tentativo di raccogliere 25 milioni di dollari per la data del primo luglio 2011, che era la deadline per acquisire la miniera, il finanziamento del governo del Quebec è stato rimandato a tempo indefinito. Questo spostamento è volto a dare più tempo agli investitori per raccogliere fondi. Di nuovo nel 2011 il Canada ha deciso di non supportare la decisione di aggiungere l’asbesto crisolito nella lista delle sostanze pericolose della Convenzione di Rotterdam, un trattato internazionale che promuove unità e responsabilità riguardo all’esportazione e importazione di sostanze e prodotti chimici pericolosi (su Canada e settore/compagnie minerarie segnalo il link Republic of Mines).

Asbesto entrega_de_laminas__2_Il Canada è l’unica nazione del G8 a non aver votato per includere l’asbesto nel trattato, un scelta che il governo ha sostenuto anche nel 2015. Internamente, però, l’uso del minerale è vietato, ma questo non accade, ipocritamente, per la sua produzione e commercializzazione all’estero. Ormai il paese non lo produce più, anche se lo commercia: il valore dei prodotti importati contenenti amianto è passato da 4,9 nel 2013 a 6 milioni di dollari nell’anno successivo, mentre le esportazioni di tali beni sono state di 1,8 milioni di USD.  Nel 2013 la Russia, lo Zimbabwe, il Kazakhstan, l’India, il Kyrgyzstan, il Vietnam e l’Ucraina si sono opposti in blocco all’inclusione, mentre il Canada per la prima volta ha potato per la neutralità.

Nonostante la sua posizione oltranzista, il Canada oggi di fatto usa molto meno amianto di prima, ma fino al 2011, anno di chiusura dell’ultima miniera, il Quebec da solo era il primo produttore mondiale ed esportava il 96% del minerale grezzo estratto nei paesi asiatici (vedi: Asbestos.Com) posizionandosi come superpotenza esportatrice del minerale. Le prossime elezioni federali canadesi, previste per il 19 ottobre, potrebbero segnare un punto di svolta in caso di vittoria del Liberal Party, da sempre ambiguo sull’amianto ma ora riconvertitosi a una linea “verde”, o del New Democratic Party, oggi all’opposizione e contrario a ogni tipo di asbesto, mentre una vittoria del Conservative Party di Stephen Harper sarebbe un toccasana per le lobby pro-amianto. Il Bloq Québéquois ha mostrato anch’esso non poche ambiguità e tentennamenti, ma pare orientarsi verso l’estensione delle restrizioni, così come il Green Party che da sempre combatte il blocco estrattivista.

Italia, Brasile, Messico

Pure l’Italia, in cui il divieto risale al 1992, continua a importarlo aggirando la normativa. “Negli ultimi anni ne abbiamo importato 34 tonnellate e i numeri sono indicati per difetto. I rumors si rincorrevano da mesi (…), la procura di Torino ha aperto un fascicolo d’indagine, ma la conferma ufficiale è arrivata solo qualche giorno fa alla Camera dei Deputati”, spiega Stefania Divertito su BioEcoGeo.

amianto mexico2Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, in un’interpellanza sull’argomento ha ottenuto una risposta chiara ma incompleta dal sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione: “No, noi non importiamo amianto ma manufatti contenenti amianto”. Cioè facciamo come Stati Uniti e Canada, per esempio, e tra il 2011 e il 2014 ne sono entrate 34 tonnellate in prodotti che non conosciamo, dato che il sottosegretario non ha fornito dettagli al riguardo. Di Maio ha precisato che “secondo un documento dell’ente minerario del Governo indiano, l’Italia nel 2011 e nel 2012 sarebbe risultato il maggiore importatore al mondo di amianto con rispettivamente oltre 1.040 tonnellate e 2.000 tonnellate”. Il minerale sarebbe ancora usato nell’edilizia e anche da una partecipata di Finmeccanica, la Agusta Westland che fornisce elicotteri alle forze armate ed è guidata da Daniele Romiti. Insomma lo sporco e mortifero business dell’amianto non molla la presa. E l’Italia è in buona compagnia dato che, per esempio, anche altri paesi, come Australia, Gran Bretagna, Svezia e Giappone, continuano comunque a commerciarlo malgrado il divieto di utilizzarlo internamente.

In Brasile si stima che l’amianto abbia ucciso 150.000 persone in 10 anni, cioè 15.000 in media all’anno, cifra che equivale a circa il 15% del totale mondiale. Nel gigante sudamericano operano 16 grandi aziende che “nelle elezioni finanziano trasversalmente tutti i partiti politici”, denuncia Fernanda Giannasi, ex supervisore del Ministério do Trabalho e attivista anti-amianto. I militanti come lei hanno sia i mass media che l’industria contro, visto che cercano d’informare la popolazione sui rischi e le complicità politico-imprenditoriali del settore in un intorno ostile e poco sensibile alla tematica. Se ne parla ancora poco e il pericolo non viene eliminato, però la sua percezione sì.

In Messico il mesotelioma è aumentato dai 23 casi del 1979 ai 220 del 2010, ma c’è una sottostima probabile del 70% che porterebbe la media annua a 500 casi e, secondo altre stime, anche fino a 1.500. La “cifra sommersa” si relaziona ai casi in cui non si diagnostica la malattia o non risulta dai documenti relativi al decesso, anche perché è conveniente non riconoscere le patologie come “lavorative”. L’asbesto è presente in innumerevoli strutture nel cuore delle città. La CTM (Confederazione dei Lavoratori Messicani, sindacato pro-governativo) ha addirittura difeso l’uso del materiale, dato che il settore impiegherebbe 8-10.000 persone e non ci sarebbero prove di decessi per mesotelioma, il che è falso e nasconde il problema. Insomma, è come tornare indietro di due o tre decenni almeno. L’estrazione mondiale di amianto è stata nel 2013 di 2,1 milioni di tonnellate e dal 1995 s’è mantenuta abbastanza stabile, tra le 2 e le 3 tonnellate, con un totale di oltre 1800 aziende che lo utilizzano (sul caso messicano: link 1: Datato, 1986 – Link 2: 2010-Mesotelioma Messico – Link 3 Globalizzazione e trasferimento di industrie pericolose).

amianto mexicoAnche se in Messico non esiste una vera e propria associazione di vittime dell’amianto o un movimento significativo contro l’uso del minerale, per cui lo Stato è sostanzialmente indifferente all’argomento, l’organizzazione messicana Ayuda Mesotelioma denuncia e lotta da 5 anni, vale a dire da quando le due fondatrici, Sharon Rapoport e sua sorella Liora, hanno visto come loro padre s’ammalava gravemente. In cinque decenni il Messico ha importato oltre 500.000 tonnellate d’asbesto e solo nella capitale lo utilizzano 42 imprese. Qui si può fare, maneggiarlo è legale, anche se eticamente deplorabile: i proventi per le quantità importate e processate internamente sono raddoppiate tra il 2011 e il 2012 passando da 9 a 18 milioni di dollari.

Amianto-Mondo

“A eccezione della polvere da sparo l’amianto è la sostanza più immorale con la quale si sia fatta lavorare la gente; le forze sinistre che ottengono profitti dall’amianto sacrificano gustosamente la salute dei lavoratori in cambio dei benefici delle imprese”, ha dichiarato l’ex eurodeputato olandese Remi Poppe. I sintomi del mesotelioma compaiono tra 15 e 50 anni dopo l’inalazione delle microfibre e non esiste realmente nessun livello “sicuro” di esposizione.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ogni anno muoiono 107.000 persone in seguito a malattie contratte per il contatto con l’amianto. Per lo stesso motivo nel secolo XX le morti premature furono 10 milioni e s’ammalarono 100 milioni di persone. Oggi 125 milioni di lavoratori rimangono esposti direttamente al minerale. La Commissione Federale per la Protezione dei Rischi Sanitari del Ministero della Salute messicano ha riconosciuto la sua tossicità, ma s’è limitata a suggerire che “le aziende ne controllino l’uso”.

amianto brasil abreaLa Legge della Salute di Città del Messico parla di “precauzioni” da prendere sull’amianto, ma non lo vieta. Secondo i dati dell’istituto di statistica nazionale il 21% delle case messicane ha un tetto di lamine metalliche, cartone o asbesto e l’1% ha pareti di cartone, amianto, fusti di piante, bambù o palma. Nel 2014 sono state concesse delle quote del Fondo di Apporto per la Struttura Sociale per strutture ad uso abitativo nel quartiere periferico di Iztapalapa e le regole stabilivano che per essere beneficiari del programma “i pavimenti, i muri e/o i soffitti devono essere di stanze da letto o cucine all’interno della casa in lamina di cartone, metallica, di amianto o di materiale di scarto”. In sostituzione, secondo la Gazzetta Ufficiale della capitale, si prevedeva di costruire pavimenti, tetti e muri di fibrocemento, quindi di Eternit!

La OMS, al contrario, ha chiesto: di eliminare l’uso di ogni tipologia di asbesto, compreso quello bianco o crisolito che le lobby del settore pretendono di presentare come “pulito”; apportare informazioni su soluzioni per sostituirlo con prodotti sicuri; sviluppare meccanismi economici e tecnologici al riguardo; evitare l’esposizione durante il suo uso e il suo smaltimento; migliorare la diagnosi precoce, il trattamento e la riabilitazione medica e sociale dei malati dell’asbesto; registrare le persone esposte attualmente o nel passato (link a mappe e grafici aggiornati sull’amianto nel mondo di International Ban Asbestos Secretariat-IBAS).

Il “guru” Stephen Schmidheiny, il Costa Rica, l’America Latina

asbesto1203-1000 COLOMBIALa filiera tossica dell’amianto passa anche per il Costa Rica, la cosiddetta “Svizzera del Centroamerica”. La Garita è un piccolo paradiso, un angolo tropicale nel centro del paesem vicino alla città di Alajuela. Le strutture della INCAE Business School, la miglior scuola di business latinoamericana, spiccano tra le palme, le fattorie, una placida strada a due corsie e una distesa di prati verdissimi. INCAE è famosa per il suo approccio basato sullo sviluppo sostenibile e l’etica d’impresa. Possiede un campus in Nicaragua e uno in Costa Rica. E’ un progetto per l’insegnamento e la ricerca in gestione d’impresa che nasce nel 1964 sotto l’egida della Allianza per il Progresso, lanciata in funziona anti-cubana dal presidente statunitense J. F. Kennedy, dalla HBS (Harvard Business School), dell’agenzia UsAid e dei capi di stato e gli imprenditori di sei paesi centroamericani (Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica e Panama).

Negli anni ’90 la sua storia s’incrocia con quella di un impresario che, soprattutto nelle Americhe, s’è costruito una fama di irriducibile guru dello sviluppo sostenibile, mentre in Europa è ben noto come il “Re dell’Eternit”: Stephen Schmidheiny. Uomo d’affari per vocazione ed eredità familiare (cementera Holcim, Wild-Leitz di strumenti ottici, l’elettrotecnica BBC Brown Boveri e la multinazionale Eternit), è nato a Heerbrugg, Svizzera, nel 1947, e ha ammassato una fortuna con il business dell’amianto. Il suo record personale è macchiato da processi giudiziari controversi e accuse pesantissime.

AVINA, Ashoka e lo spirito del filantrocapitalismo

INCAE STEPHEN SCHMIDHEINYLa fondazione AVINA, creata dall’impresario nel 1994 e attiva in 21 paesi latinoamericani, collabora da tempo con la scuola e nel 1996 Schmidheiny, che è stato amministratore di Eternit e oggi siede nel consiglio direttivo di INCAE, ha partecipato alla creazione del Centro Latinoamericano per la Competitività e lo Sviluppo sostenibile dell’università, il CLACDS. Ci sono altre organizzazioni senza fini di lucro fondate dal magnate svizzero: per esempio Fundes (1984) e il fidecommesso Viva Trust (2003) su cui si sostiene AVINA. In questo è confluito il valore della vendita della partecipazione dello svizzero in GrupoNueva, consorzio specializzato nel business forestale e dei derivati del legno che ha spostato la sua sede principale a San José, Costa Rica, nel 1999. L’imprenditore ha venduto anche le sue azioni del gruppo Eternit alla fine degli anni ’80.

Avina Logo-FundesLe fondazioni, a partire dai trasferimenti di capitale dello svizzero, si sono costituite come enti autonomi dai suoi precedenti asset e patrimoni d’impresa e promuovono attività istituzionali, come la rete SEKN (Social Enterprise Knowledge Network), di cui fa parte INCAE, filantropiche e anche alleanze su temi socio-ambientali: acqua, città sostenibili, energia, industrie estrattive, innovazione politica, riciclaggio e cambiamento climatico.

Esistono forti movimenti d’opposizione che applicano l’etichetta “filantrocapitalismo” quando si parla di AVINA e della sua alleata Ashoka, fondazione filantropica statunitense presente in 70 paesi. “Il capitale cerca di appropriarsi dei movimenti ecologisti ragionevoli per riconvertirli in capitalismi verdi addomesticati o forme di business con l’esaurimento del pianeta”, ha commentato al riguardo l’ingegnere attivista spagnolo Pedro Prieto di ASPO (Asociación para el Estudio del Auge del Petróleo y del Gas).

Revoke-Convicted-Asbestos-Criminal-Stephan-Schmidheiny-honorary-Yale-doctorate_edited-2Perché? “Gli imprenditori sociali lavorano con quelle popolazioni e la loro attività consiste nell’avvicinarle alle multinazionali mentre salvaguardano gli interessi di queste”, ha detto María Zapata, direttrice di Ashoka in Spagna. In un’intervista col portale spagnolo Rebelión, il ricercatore Paco Puche racconta che le fondazioni si infiltrano nei movimenti attraverso la “cooptazione di leader” e che “AVINA è vincolata al magnate svizzero Schmidheiny, che deve la sua fortuna al criminale business dell’amianto. Diciamo che tutti quelli che hanno ricevuto denaro e altri benefici da questa fondazione (e dopo averla conosciuta, non le hanno rifiutate) si portano dietro la maledizione della polvere dell’amianto nelle viscere”.

Processo Eternit

Nel febbraio 2013 il tribunale di Torino ha condannato Schmidheiny e il suo ex socio nella multinazionale Eternit Group, il barone belga Louis De Cartier, di 92 anni d’età in quel momento, a 16 anni di prigione per disastro doloso e rimozione di misure contro gli infortuni: la sentenza era attesa dai familiari di 3000 vittime. Il 3 giugno 2013 in appello la condanna è stata aumentata a 18 anni di reclusione, ma il nobile belga era morto pochi giorni prima. Lo svizzero “Re dell’Eternit” è stato condannato per le sue responsabilità come amministratore dell’azienda nel decennio 1976-1986 e assolto da altri capi d’accusa per il periodo 1966-1975. Le cause dell’asbestosi e del mesotelioma erano già state scoperte negli anni ’60 e, dopo quel decennio, i due magnati si sono avvicendati nella gestione dell’azienda.

Amianto eternit_sentenzaNonostante tutto, il business di Eternit continuò, per cui la condanna parla di “dolo”: gli imputati avrebbero nascosto consapevolmente gli effetti cancerogeni dell’amianto. Il 20 novembre 2014 la Corte di Cassazione, nell’ultimo livello di giudizio, ha annullato la sentenza precedente argomentando che i reati sono stati commessi ma che è sopraggiunta la prescrizione. E’ stato preso come inizio dei termini per la prescrizione l’anno 1986, quando Eternit ha dichiarato il fallimento, e la decisione è polemica, visto che il disastro ambientale ancora continua a succedere, non s’interrompe con il fallimento dell’azienda. E’ uno schiaffo a vittime, familiari e alla società intera. La giustizia s’allontana insieme alla possibilità di congrui risarcimenti.

Nel maggio 2015 s’è aperto il processo “Eternit Bis”: Schmidheiny non è più accusato di “disastro” ma di omicidio doloso aggravato di 258 persone, ex impiegati di Eternit o abitanti di Casale Monferrato, uno dei comuni in cui operava l’impresa che sono deceduti tra il 1989 e il 2014 per mesotelioma pleurico. Dal canto suo, il magnate sulla sua pagina web si presenta come “pioniere nell’eliminazione dell’asbesto nell’industria manifatturiera”. I magistrati di Torino considerano come aggravante il fatto che l’imprenditore avrebbe commesso il reato esclusivamente per “fini di lucro” e “in modo insidioso”, cioè avrebbe occultato ai lavoratori e ai cittadini l’informazione sui rischi che correvano, promuovendo una “sistematica e prolungata opera di disinformazione”.

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A fine luglio gli atti del processo sono stati inviati alla Consulta e il procedimento è stato sospeso in attesa della decisione della Corte circa le eccezioni di costituzionalità sollevate dai legali di Stephen Schmideheiny in base al principio del “Ne bis in ibidem”, secondo cui nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato. Nel frattempo i PM stanno integrando altri 94 casi di morti legate all’amianto da contestare al manager svizzero, nel caso in cui la Corte Costituzionale accolga le richieste degli avvocati difensori.

Purtroppo l’ecatombe dell’amianto durerà ancora per decenni e la tendenza, già in atto almeno da una ventina d’anni, è quella di un graduale spostamento dei rischi e dell’uso del minerale verso i paesi in via di sviluppo. Dunque la lotta per la sua messa al bando e la riparazione del danno provocato a milioni di vittime, pur con difficoltà e differenti percorsi più o meno avviati oppure solo incipienti, tende anch’essa a globalizzarsi, passando dall’Europa all’America Latina e agli altri continenti.

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La salute? Prima il profitto https://www.carmillaonline.com/2013/09/02/la-salute-prima-il-profitto/ Mon, 02 Sep 2013 21:50:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8993 di Gianmario Leone ilva

Questo articolo è stato pubblicato il 30.08.2013 sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line “Inchiostro Verde”. Come ricordato dall’autore in un precedente articolo, il decreto approvato sarà applicato non solo all’Ilva di Taranto, ma anche a quelle di e di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica, e varrà anche per tutti gli altri complessi industriali che dovessero trovarsi in una situazione analoga.

È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.197 del 23 agosto 2013 il decreto del 24 aprile 2013 sulle “Disposizioni [...]]]> di Gianmario Leone ilva

Questo articolo è stato pubblicato il 30.08.2013 sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line “Inchiostro Verde”. Come ricordato dall’autore in un precedente articolo, il decreto approvato sarà applicato non solo all’Ilva di Taranto, ma anche a quelle di e di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica, e varrà anche per tutti gli altri complessi industriali che dovessero trovarsi in una situazione analoga.

È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.197 del 23 agosto 2013 il decreto del 24 aprile 2013 sulle “Disposizioni volte a stabilire i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario (VDS) in attuazione dell’articolo 1-bis, comma 2, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n.207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231”, a firma dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi e dell’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Il tutto, come si ricorderà, trae spunto dalla legge 21/2012 “Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio sulle emissioni industriali inquinanti per le aree pugliesi già dichiarate ad elevato rischio ambientale”, approvata all’unanimità il 17 luglio del 2012 dal consiglio regionale della Puglia.

L’intento era quello di “prevenire ed evitare un pericolo grave, immediato o differito, per la salute degli esseri viventi e per il territorio regionale”. Il regolamento della legge regionale fu approvato il 3 ottobre dello scorso anno. Mentre la prima relazione redatta congiuntamente dall’Agenzia Regionale dei Servizi Sanitari (AReS), dall’Agenzia Regionale per la Prevenzione e la Protezione dell’Ambiente della Puglia (ARPA) e dall’Azienda Sanitaria Locale (ASL) competente per territorio (in questo caso di Taranto), che la legge regionale prevede sia prodotta almeno con cadenza annuale, oltre a basarsi sul registro tumori regionale e mappe epidemiologiche sulle principali malattie a carattere ambientale, ha inglobato i dati del registro tumori di Taranto (valido per gli anni 2006-07-08) e quelli dello studio Sentieri (dal 2003 al 2009) realizzato dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore della Sanità.

Presentata durante la riunione della V commissione regionale lo scorso 29 maggio e lunga ben 99 pagine, la conclusione della relazione della VdS fu la seguente: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comporteranno un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”. Indi per cui il consiglio finale per salvare il possibile, fu quello di chiedere la riduzione della produzione dell’Ilva dalle 8 milioni di tonnellate di acciaio previste dall’AIA alle 7 di ARPA Puglia.

Un mese dopo, il 26 luglio, il dott. Agostino Di Ciaula (ISDE, Medici per l’Ambiente) fu ascoltato dalla commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Il suo giudizio fu netto: anche grazie ai due decreti ‘salva-Ilva’, la salute dei tarantini resta negoziabile. Inoltre, Di Ciaula sottolineò come il calcolo espresso nella prima relazione sulla valutazione del danno sanitario prodotto dall’Ilva, fosse “solo parziale” e il dato sul rischio “fortemente sottostimato”. L’analisi, infatti, prende in considerazione i rischi tumorali legati alla sola inalazione di sostanze inquinanti, escludendo completamente le altre vie di assunzione delle sostanze tossiche emesse dall’Ilva per ingestione. Il rapporto ARPA, sostenne sempre Di Ciaula, “calcola i rischi che quelle concentrazioni di inquinanti causano in soggetti adulti di peso medio. Non considera che a parità di concentrazioni il rischio è decine di volte più alto per i feti e per i bambini”.

La legge regionale la contestammo subito. Troppo farraginosa e lunga nella sua applicazione. A cominciare dai 90 giorni di tempo previsti per la redazione della relazione sul danno sanitario, che poi sono diventati 207. Per continuare con i 30 giorni concessi all’azienda per presentare le sue osservazioni (evitiamo di riportare qui la polemica scoppiata a metà luglio tra ARPA e il commissario dell’Ilva Enrico Bondi). Non solo. Perché all’art.3 della legge regionale, che riguarda le “Emissioni in atmosfera”, si leggeva che “ove il rapporto evidenzi criticità, gli stabilimenti dovranno ridurre i valori di emissione massica in atmosfera degli inquinanti per i quali lo stesso ha evidenziato criticità. Tale riduzione sarà determinata in proporzione al danno accertato rispetto al valore medio calcolato sui dati disponibili dei precedenti 5 anni”. Solo in questo caso sarà “obbligatoria l’adozione di sistemi di campionamento in continuo delle emissioni convogliate di tutti gli inquinanti”: attenzione però, perché ciò avverrà soltanto “ove tecnicamente fattibile”. Come consolazione, è comunque previsto “l’obbligatorio monitoraggio in continuo degli IPA al perimetro degli stabilimenti”, peraltro già previsto nella legge regionale sul benzo(a)pirene varata nel settembre del 2011 (a cui l’Ilva oppose un netto rifiuto). Quella centraline, promesse nell’agosto dello scorso anno e previste anche dall’AIA, devono ancora essere installate. Poi, all’art.5, “Interventi per evitare la diffusione di polveri inquinanti in atmosfera e nell’ambiente”, si leggeva che “ove il rapporto evidenzi criticità, gli stabilimenti che impiegano per le loro attività materiali e composti polverulenti per i quali non risulta tecnicamente possibile la quantificazione delle relative emissioni massiche, dovranno essere dotati di idonei sistemi atti a prevenire ed evitare il diffondersi nell’ambiente circostante di polveri tal quali o derivanti da processi produttivi”. Ma della copertura dei parchi minerali, prevista anche dall’AIA, ad oggi non c’è nemmeno un progetto che sia uno. Quella legge prevedeva inoltre che entro 120 giorni, l’azienda avrebbe dovuto proporre un piano di riduzione delle emissioni. Che qualora non fossero cessate, avrebbero consentito all’Autorità sanitaria locale la possibilità di disporre la sospensione dell’esercizio dell’impianto.

morteNon è un caso quindi, se il decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale preveda “criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario” ancora più lunghi e complessi. E che comunque sia stato stabilito nel testo della legge ‘salva Ilva bis’ approvata lo scorso 1 agosto, che la VdS potrà al massimo comportare un ulteriore riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale, “finalizzata all’ulteriore contenimento dei contaminanti che li originano”. Perché “la continuità del funzionamento produttivo degli stabilimenti di preminente interesse pubblico, costituisce una priorità strategica di interesse nazionale”. La salute dei lavoratori e dei cittadini, così come la tutela dell’ambiente, sono ancora oggi “negoziabili”. Perché ancora oggi sono in molti a credere che sia giusto sottoporre uomini, donne, bambini e anziani ad un rischio cancerogeno “accettabile”.

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