salute pubblica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 21 Dec 2025 21:00:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il coronavirus ai tempi dell’Ecuador https://www.carmillaonline.com/2020/05/02/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador/ Sat, 02 May 2020 02:15:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59772 di Alberto Acosta

La gente non sta morendo di coronavirus. La gente in Ecuador sta morendo di capitalismo.  Di pessimi servizi pubblici e privati, non solo sanitari. Di mancanza di democrazia e assenza di giustizia. Di corruzione e incapacità di dialogo”. (Santiago Roldós, 2020)

La crisi del coronavirus è gigantesca. Rappresenta, senza alcun dubbio, la più grande prova per la società umana globalizzata. E per l’Ecuador, un piccolo paese arrampicato sulla cordigliera andina, la sfida risulta enorme. La pandemia mette a nudo situazioni laceranti di ogni tipo. Il [...]]]> di Alberto Acosta

La gente non sta morendo di coronavirus. La gente in Ecuador sta morendo di capitalismo.  Di pessimi servizi pubblici e privati, non solo sanitari. Di mancanza di democrazia e assenza di giustizia.
Di corruzione e incapacità di dialogo”.
(Santiago Roldós, 2020)

La crisi del coronavirus è gigantesca.
Rappresenta, senza alcun dubbio, la più grande prova per la società umana globalizzata.
E per l’Ecuador, un piccolo paese arrampicato sulla cordigliera andina, la sfida risulta enorme.
La pandemia mette a nudo situazioni laceranti di ogni tipo.
Il dramma umano che si sta vivendo ha per ora il suo massimo punto di espressione in Guayaquil. La barbarie sembra essersi instaurata in questa città portuale con l’arrivo del coronavirus (COVID-19): centinaia di famiglie devastate per la morte dei loro congiunti, cadaveri ovunque, cadaveri perduti, centinaia di operatori sanitari contagiati, e migliaia di persone costrette a scegliere se morire di fame cercando il sostentamento quotidiano nelle strade, o morire di coronavirus.
Questa situazione è già riscontrabile in diverse provincie della costa: Santa Elena, Los Ríos, El Oro … e anche – con meno rudezza – nel resto del paese, in un contesto duramente colpito da una grave crisi economica che, data l’incapacità del governo, sta causando licenziamenti di massa e ha portato sempre di più aziende sull’orlo della bancarotta, mentre affondano nella debacle migliaia di attività informali.

Come capita in tutte le crisi i più colpiti sono i più poveri.
Oggi la loro esistenza è sospesa letteralmente a un filo, sia per la malattia che per la fame.
Indubbiamente la pandemia mette a nudo con forza le diseguaglianze.
Inoltre la crisi sanitaria e la contemporanea recessione globale evidenziano come la normalità, così come la conosciamo, avrà un tragico destino se non si farà qualcosa, poiché di certo a tale anormalità non è possibile tornare.

L’Ecuador, già prima del coronavirus, stava affrontando una congiuntura economica densa di criticità fiscali, in un contesto internazionale molto difficile che teneva soffocati i suoi conti con l’estero.
La dimensione sociale, esasperata da una politica economica recessiva e da una gestione governativa caratterizzata dall’improvvisazione, è andata caricandosi di frustrazione e di proteste, come quelle a cui si è assistito lo scorso ottobre.
La domanda interna e la produzione erano in stagnazione dal 2015.

Malgrado ciò, non tutto ha un’origine congiunturale o internazionale. Nel paese tali emergenze esprimono una crisi economica strutturale, profonda e di lunga durata.
Una crisi dove si coniugano la crescente dipendenza dalle attività estrattive e il conseguente peso di una matrice produttiva basata sulle esportazioni di prodotti primari, livelli elevati di concentrazione dei mercati, delle finanze e della ricchezza, l’aumento della disoccupazione e della povertà (soprattutto nelle zone rurali e contadine), un indebitamento estero aggressivo a sostegno della liquidità interna, la mancanza di una moneta propria1 che non permette di disporre di uno strumento dinamico come la politica monetaria o cambiaria, e ovviamente la mancanza di una politica economica coerente e integrale.

Questa crisi nelle attuali circostanze diventa sempre più grave.
Con il brusco calo del prezzo del petrolio si sono praticamente dissolte le entrate petrolifere previste per quest’anno, una questione resa più complessa se si tiene conto che per vari giacimenti i costi di estrazione superano  di gran lunga il prezzo del greggio sul mercato internazionale, a cui c’è da aggiungere la rottura di due oleodotti a causa di una frana alle pendici amazzoniche delle Ande.
Inoltre questa economia dollarizzata soffre gli effetti dell’aumento della valutazione del dollaro, con la conseguente crescita dei prezzi delle esportazioni ecuadoriane.
A peggiorare le cose, la congiuntura internazionale coincide con un momento in cui per il paese, gravato dai problemi finora esposti, è diventato estremamente costoso il collocamento del debito estero, con un indice del ‘rischio paese’ che è scattato verso l’alto.
Tutto ciò mette fine a quell’indebitamento aggressivo e irresponsabile che ha sostenuto l’economia dal 2014.

Il momento è estremamente complesso.
Le logiche di apertura ai mercati internazionali si sono ulteriormente approfondite con la firma di un accordo di libero scambio con l’Unione europea (UE) nel 2016, che riafferma la fisionomia di economia esportatrice di risorse primarie,  cioè la causa di molte delle difficoltà menzionate.
Le misure recessive che il governo ecuadoriano ha imposto, soprattutto dal 2019, come conseguenza dell’accordo firmato con il Fondo monetario internazionale (FMI), approfondiscono la crisi.
Una questione ancora più perversa, dal momento che questo accordo fa acqua da tutte le parti, proprio perché l’FMI stesso ha ritardato – quando la pandemia era già una realtà – erogazioni di credito originariamente programmate per il mese di marzo 2020.
Risulta tra l’altro evidente che, se la maggior parte del finanziamento degli investimenti e dei programmi sanitari dipende dalle entrate delle attività estrattive, come i prodotti petroliferi, la caduta di queste entrate complica ancora di più la situazione sanitaria.
Di fronte ad una crisi strutturale così complessa e a congiunture così difficili, è  desolante constatare come il governo stia cercando di mantenere l’impostazione aperturista [verso i mercati esteri, NdT] e della flessibilità, con lievi adattamenti al copione neoliberista, tema che analizzeremo in un apposito paragrafo.

Come sempre accade, sulle urgenze della vita prevalgono le urgenze fiscali e il dogmatismo del libero scambio, così come il pagamento del marzo 2020 di $ 325 milioni per le obbligazioni firmate dal precedente governo a condizioni molto onerose.
C’è da tenere ben presente che questo esborso è avvenuto nonostante gli appelli contrari, provenienti persino dalla Asamblea Nacional [il Parlamento NdT], perché proprio in quel momento non c’erano soldi per soddisfare le richieste del settore sanitario sopraffatte dalla pandemia, come denunciato dal Ministro della Salute nella sua lettera di dimissioni, presentate quasi nello stesso momento in cui veniva pagato quel debito.

E tutto questo pandemonio viene esacerbato da un contesto politico sempre più estraniato, in cui emergono piccoli interessi di vari politici impegnati a pescare nel torbido, in uno scenario di crescenti disuguaglianze acutizzate dalla stessa pandemia.
In questo contesto si avvertono ancor più le carenze strutturali e congiunturali del sistema sanitario, che aggravano ulteriormente le suddette diseguaglianze.

Come il neoliberismo ha portato al collasso il fragile sistema sanitario progressista

A prima vista, la gravità della crisi sanitaria in Ecuador si spiega con i tagli brutali e irresponsabili degli investimenti sulla salute pubblica da parte del governo del presidente Lenín Moreno.
Dai 353 milioni di $ previsti nel Piano sanitario 2017 si è passati ai 302 milioni del 2018 ed ai 186 milioni del 2019, una riduzione aggravata dall’incapacità di stanziare effettivamente l’importo assegnato in bilancio — anche a causa delle pressioni derivate dall’austerità fiscale — che si è conclusa con un investimento reale di 241 milioni nel 2017, 175 milioni nel 2018 e 110 milioni nel 2019.
Questa riduzione, nel quadro dell’austerità imposta dal FMI, ha gravemente compromesso la disponibilità di forniture sanitarie, la costruzione di infrastrutture ospedaliere e persino l’esistenza di personale medico, che è stato licenziato in massa nel 2019 (si stima siano state licenziate circa 3.000 persone).

Anche il personale degli ospedali pubblici ha subito una riduzione dei salari di quasi il 30% (da $ 591 a $ 394), con un impatto immediatamente avvertito dai settori più poveri e vulnerabili del paese, che sono quelli che si rivolgono maggiormente ai servizi sanitari pubblici2.
L’insieme di queste politiche fiscali recessive ha comportato un grave impatto sulla capacità di assistenza in caso di emergenza.
Ma senza voler minimizzare la fallimentare decisione di ridurre gli investimenti nella salute, il problema è più complesso.

Arteaga Cruz, un’esperta in materia, segnala come lo stanziamento pubblico destinato al settore della salute – non solo per affrontare queste emergenze, ma per sostenere un sistema sanitario prevalentemente curativo e, in buona parte, di mercato – cada in “un pozzo senza fondo”3.
La tragedia sanitaria non è semplicemente una questione di risorse o capacità di risposta in situazioni di emergenza, ma è anche il risultato di un sistema pieno di carenze.
È opportuno approfondire rapidamente questa realtà.

Dopo la promulgazione della Costituzione di Montecristi nel 20084 era stato proposto un cambiamento sostanziale nella gestione dei servizi della sanità pubblica.
Per concretizzarlo si era stabilito che, oltre a considerare la salute come un diritto, le risorse per occuparsene dovevano essere aumentate in modo sostanziale: il 4% del PIL era l’obiettivo minimo fissato.
Secondo la narrazione ufficiale del governo di Rafael Correa (2007-2017) i risultati materiali risultavano evidenti: 13 nuovi ospedali e altri 8 in via di costruzione; 61 nuovi centri sanitari grandi e piccoli ed altri 34 in costruzione.
La vaccinazione era passata da 11 a 20 vaccini specifici somministrati dal sistema pubblico, con un investimento di 60 milioni di dollari.
Il numero di operatori sanitari era aumentato da 9 a 20 per 1.000 abitanti e la media giornaliera delle ore lavorate di questi professionisti  era raddoppiata. Nel 2016 erano state effettuate 41 milioni di prestazioni sanitarie.
L’investimento totale in 10 anni di governo Correa era ammontato a 16.188 milioni di $, e in termini di sicurezza sociale c’erano stati anche alcuni ampliamenti significativi.

Sebbene sia innegabile che tra il 2006 e il 2017 la copertura dei servizi sanitari sia stata modernizzata e ampliata, al di là della propaganda ufficiale i problemi sono molti.
Non solo perchè gli investimenti nella salute nei dieci anni della “revolución ciudadana” non hanno raggiunto l’obiettivo costituzionale del 4% del PIL, superando di poco il 2%, anche se  in crescita rispetto ai governi precedenti.
Ma, come osserva Arteaga Cruz, perché hanno promosso l’accumulazione di capitale nelle industrie di produzione dei beni, infrastrutture e servizi sanitari, prodotti farmaceutici e assicurazioni private, dando impulso allo smantellamento relativo della sicurezza sociale attraverso il trasferimento di fondi pubblici alle cliniche private.
Non sono serviti a fare in modo che le famiglie ecuadoriane spendessero meno per curarsi, visto che il 45% della spesa familiare è ancora destinata alla salute.

L’obiettivo era quello di realizzare un sistema sanitario che integrasse la sicurezza sociale e il sistema di salute pubblico e che fornisse una copertura universale.
Tuttavia, gli indicatori della salute pubblica che rivelano gli impatti delle politiche sanitarie del decennio correista non sono incoraggianti.
La propaganda glissa sullo smantellamento della sicurezza sociale a causa, tra l’altro, dell’eliminazione del contributo del 40% alle pensioni di anzianità da parte dello Stato, spiegabile con l’inadeguata e persino corrotta gestione dell’Istituto per la Sicurezza Sociale Ecuadoriana (IESS).
Non si dice nulla sui sovrapprezzi delle opere e degli acquisti delle forniture effettuate.

Si parla dell’aumento del numero di vaccini specifici, ma non si forniscono i dettagli sulla riduzione della copertura vaccinale nello stesso periodo.
La mortalità materna ha continuato ad essere una fra le più alte nella regione delle Americhe, con enormi diseguaglianze sociali. Un’adeguata copertura del controllo prenatale è stata assicurata solo per il 24,6%.
Arteaga Cruz ci ricorda come siano riapparse malattie come la malaria, che erano diminuite significativamente nei decenni precedenti.
La copertura universale del diritto alla salute – un obiettivo lodevole – è rimasta un sogno irrealizzabile nel momento in cui si è mantenuta una visione curativa propria del paradigma clinico, sanitario e commerciale, basato su soluzioni standardizzate.

Un’altra lacuna significativa è stata quella di trascurare l’enorme potenziale della prevenzione e, tra l’altro, le conoscenze ancestrali delle culture e dei popoli indigeni, che possono diventare un pilastro di un sistema sanitario forte, basato su pratiche comunitarie e partecipative.
In sintesi, ciò che si è ottenuto attraverso un processo di privatizzazione, come notò opportunamente Pablo Iturralde, è accumulare capitali nelle tasche del complesso medico industriale, emarginando altre potenti opzioni per costruire un sistema sanitario diversificato, forte ed efficace, focalizzando effettivamente la salute come diritto5.

Il settore sanitario, nel mezzo di questo “silenzioso” processo di privatizzazione (Arteaga Cruz dixit), è stato integrato all’interno del modello di amministrazione statale imposto dal Correismo, con il quale si pretendeva di modernizzare il capitalismo.
E che ha permesso ai più potenti gruppi economici di disputarsi le risorse pubbliche, rendendo possibile ai grandi beneficiari del governo Correa di inserirsi in tutti i settori.
La salute non ha fatto eccezione.
Arteaga Cruz è risoluta quando afferma:

L’investimento sulla salute nella decade di Rafael Correa è stato sperperato in grandi opere che hanno generato potere politico e ideologico, ma non sono riuscite a trasformare o costruire un sistema basato sulla promozione della salute. Al contrario, con la centralizzazione delle decisioni nello stato-nazione e con l’adozione di un modello medico curativo, si sono sciolte diverse organizzazioni di promozione di salute autonome, e il ruolo delle ostetriche è stato separato dalle comunità.
Non si è compreso che la salute non si riduce alla fornitura di servizi sanitari scadenti per i poveri (coloro che nel lungo periodo sono e saranno i più colpiti dalle attività estrattive e dalle modalità di produzione malsane)
.”

Ed è questo sistema sanitario, con alcune caratteristiche proprie della città di Guayaquil, quello che fallisce davanti al coronavirus, come vedremo più avanti.

Il privilegio di classe della quarantena

Tenendo conto che il coronavirus ha sorpreso i sistemi sanitari di tutto il pianeta, la decisione di stabilire una quarantena per tentare di rallentare la sua avanzata è ragionevole, specialmente nelle città più grandi.
“Restare a casa”, sì, ma la domanda è: chi può rimanere a casa e sopravvivere?
È già difficile restarsene in quarantena a casa per chi dispone di alcuni comfort e non subisce pressioni economiche.
La questione è molto più complessa per quei gruppi strutturalmente privi di protezione che non hanno alloggi adeguati, reddito stabile o risparmi e che vivono in condizioni subumane, nelle baracche o dormendo per strada.
Fino al 2016, secondo il Programma Nazionale per l’Edilizia Sociale, il 45% dei 3,8 milioni di famiglie ecuadoriane viveva in abitazioni precarie. Vi sono 1,37 milioni di famiglie che abitano case costruite con materiali inadeguati, prive di servizi sanitari di base e / o con problemi di sovraffollamento.
E questa situazione non è cambiata, anzi, con le politiche recessive che durano dal 2015, deve essere peggiorata.

Immaginiamo, allora, come può essere la vita di centinaia di migliaia di persone che non hanno una casa, una situazione ancora più complessa in una città di milioni di abitanti come Guayaquil, caratterizzata da enormi disuguaglianze.
Una città dove il tempo in questo periodo dell’anno è particolarmente duro a causa delle alte temperature e di altri disagi tipici di questa epoca.
Come richiedere adeguati comportamenti sanitari quando non c’è acqua potabile; come aspettarsi che l’istruzione o il lavoro a distanza funzionino se il 60% della popolazione del paese non ha accesso a Internet e non ha nemmeno un computer, come esigere che le persone anziane che vivono sole e in un’enorme precarietà rimangano a casa.
Teniamo presente queste realtà.
E poi, quante persone in Ecuador hanno un reddito stabile? Sappiamo che oltre il 60% della popolazione economicamente attiva, circa 5 milioni di persone, non ha un’occupazione adeguata.
Ciò significa che la maggior parte di queste persone vive alla giornata.

Sono venditori ambulanti, muratori, sarti, cucitrici, autisti, persone che forniscono assistenza in diverse aree e servizi. Ad esempio, le persone che vivono servendo pranzi in piccoli ristoranti sono totalmente prive di protezione.
L’infezione, mentre si diffonde, dimostra anche tassi di mortalità e contagio in termini di classe, approfondendo le differenze tra la città costruita (quella dei gruppi benestanti) e la città dei costruttori, che è spesso quella dei quartieri marginali o delle baraccopoli.

La pandemia, quindi, da un lato disvela brutalmente la realtà dell’ingiustizia sociale, della iniquità e delle disuguaglianze e, dall’altro conduce ad un aumento della povertà.
La Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL) prevede già – in base alle stime preliminari – che l’impatto del coronavirus potrà causare un aumento di 35 milioni di poveri in America Latina, senza considerare l’impatto della grave recessione economica mondiale che era già in corso prima della comparsa dell’epidemia6.
E l’Ecuador, negli scenari delle organizzazioni multilaterali, come la CEPAL stessa o il FMI, appare come il paese che soffrirà il maggiore impatto in questa crisi congiunta di pandemia e recessione.  (Continua)

(*) L’economista Alberto Acosta Espinosa è fra i padri della Costituzione dell’Ecuador.
Sostenitore della prima ora della Revolución Ciudadana, ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo di Rafael Correa, prima di maturare la rottura con il Correismo su posizioni antiestrattiviste ed antiautoritarie.
Attualmente è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, e pienamente interno al dibattito dei movimenti sociali latinoamericani.
Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.


  1. Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense. 

  2. Arteaga Cruz, E., Cuvi, J., Maldonado, X. , ¿Salud en tiempo de austeridad?, Ecuador Today, febbrio 2019. 

  3. Arteaga Cruz, E., El legado de la ‘Revolución Ciudadana en salud’: La historia de una ‘década ganada’ ¿para quién?, in AA. VV., El Gran Fraude ¿Del correísmo al morenismo?, Quito. 

  4. La Costituzione di Montecristi del 2008 è l’attuale costituzione dell’Ecuador. E’ una delle più avanzate del mondo sia perché sorta da un ampio processo partecipativo, sia per il riconoscimento della natura plurinazionale e interculturale dell’Ecuador, sia per il riconoscimento della Natura come soggetto di diritto. 

  5. Iturralde, P., Privatización de la salud en el Ecuador. Estudio de la interacción pública entre hospitales y clínicas privadas, Quito, Fundación Donum, 2015. 

  6. CEPAL, América Latina y el Caribe ante la pandemia del COVID-19. Efectos económicos y sociales”, Santiago, 2020. 

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Sull’epidemia delle emergenze/ Fase 5: i movimenti sociali al tempo della quarantena https://www.carmillaonline.com/2020/04/01/sullepidemia-delle-emergenze-fase-5-i-movimenti-sociali-al-tempo-della-quarantena/ Wed, 01 Apr 2020 21:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59070 di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

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di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

Abbiamo proceduto ad analizzare, allora, come questa crisi metta in discussione e demolisca molti degli assunti e delle posizioni consolidate fino a ieri; una catastrofe che non ha risparmiato alcuno spazio dell’agire umano e politico: dalle relazioni internazionali, al controllo sociale, alle relazioni, alla geopolitica, alla guerra o all’accumulazione di capitale. Tutto viene tritato a grande velocità e tutto, altrettanto velocemente, si rinnova buttando via ciò che è obsoleto.
Crediamo che i movimenti sociali non siano estranei a questo processo e che, certamente, non possano esserlo (chi ne rimane al di fuori, d’altronde, è più cera da museo che essere vivente). È all’analisi di questo altro elemento che vorremmo concentrarci adesso.

Nell’ultima settimana abbiamo assistito ad un rapidissimo espandersi del contagio a livello europeo e internazionale, con una forte accelerazione di processi geopolitici ed economici che sembravano premere ormai da un po’(qui).
Se per molti governi europei il caso italiano ha fatto in un certo senso scuola, sembra che anche i movimenti abbiano guardato all’Italia per elaborare le proprie risposte.
La reazione maggioritaria delle strutture politiche del Bel paese è stata quella di mettere in moto una grossa serie di piccole o grandi opere di solidarietà dal basso e mutuo appoggio; un’operazione importante di messa a sistema di quelle pratiche mutualistiche, che si erano da anni accumulate come patrimonio dell’autorganizzazione e dei centri sociali, dentro lo scenario di una crisi sanitaria e di un confinamento sociale inediti. A ruota sono seguite operazioni simili negli altri paesi, elemento che diventa allora di non secondaria importanza nel guardare i fenomeni in atto.

Se da un lato possiamo dire che la capacità di risposta autonoma e dal basso ai bisogni sociali sia un tassello essenziale della strategia antagonista per come la conosciamo, dall’altro non possiamo che rilevare come spesso questa risposta assorba la totalità dell’impegno non solo della prassi ma anche dell’orizzonte teorico di queste strutture.
Sembra, quindi, che l’ipotesi del conflitto venga allora definitivamente espulsa dal campo delle possibilità: nella tutela dei soggetti più fragili e nel lavoro di cura, il corpo militante si mette al servizio di una collettività da cui si era ritrovato ormai estraneo, e che attraversa ora andando a riempire i vuoti lasciati dalla macchina statale neoliberista. Ma se diamo per assodato il concetto per cui, al tempo del libero mercato, chi può essere messo a valore allora può beneficiare della macchina capitalistica mentre chi è inutile si arrangi da sé per non crepare; un lavoro di cura della fragilità finisce per essere sussidiario alle articolazioni assistenziali dello Stato e rischia, infine, di fare da agente pacificatore: gli “angeli che portano la spesa” vanno allora a spegnere o lenire quella frustrazione da cui può, in prospettiva, accendersi la miccia della rabbia sociale. Non è un caso che nell’ultimo decreto presidenziale, del 27 marzo, che è andato a rincorrere una tiepidissima ipotesi di insorgenza urbana, si sia fatto esplicitamente appello alla “catena della solidarietà”, o che diversi servizi televisivi abbiano lodato le gesta di questi giovani generosi, tacendo la loro provenienza dai famigerati centri sociali abusivi.

Non solo, nello schiacciarsi su questo volontarismo, si finisce per perdere di vista una tempesta che si avvicina a passi sempre più spediti: quando la quarantena sarà finita, quando si cercherà di tornare alla normalità dopo questa sospensione della vita, le città non saranno più le stesse. La loro fisionomia resterà invariata magari ma la loro sostanza, il tessuto vitale e le loro possibilità saranno ridotte in macerie. È un domani molto vicino quello in cui si inizierà a sanguinare per la disoccupazione, per il carovita, per la crisi degli alloggi, per i nuovi tagli fatali allo stato sociale. Ma a forza di lenire i graffi di oggi, non ci si accorge degli sventramenti che ci attendono; il rischio è quello di seguire una logica dei due tempi per cui oggi si temporeggia, domani si agisce; ma il tempo dell’azione non è rimandabile, i bastimenti vanno approntati quando la tempesta è in avvicinamento, non quando si scatena e sbalza i marinai fuori bordo, ad annegare tra le onde di una conflittualità che non si è saputo leggere.

Si differenzia in tale contesto, però, l’approccio di chi, dichiarandolo, organizza attività di sostegno alla popolazione per contrastare quell’opera della protezione civile e dei militari che portando aiuti si presentano con volto amico alla popolazione, poiché è proprio con queste strutture militari e paramilitari che si giocherà anche lo scontro per l’egemonia politica e sociale. La penetrazione del ‘repressore buono’ nelle menti oltre che nei quartieri proletari va denunciata sin da ora, non quando spareranno sui cortei, caricheranno i picchetti operai e faranno i rastrellamenti per le strade.

Parimenti, vediamo un’altra sensibilità che, anche quando non esclude l’ipotesi mutualistica, è più attenta al fronte che si sta costruendo e ai campi d’azione che già oggi emergono. Una sensibilità che però è spesso immobile ed incapace di agire. Nell’indicare la centralità del reddito per tutti, nel denunciare la colpevole inadeguatezza del sistema sanitario o la criminale carenza di misure di supporto alle fasce basse della popolazione piuttosto che l’infamia delle associazioni padronali, certamente si è colto nel segno dell’indicazione.
Ma un’indicazione senza prassi incisiva è poco più che uno di quei buoni propositi da capodanno la cui immancabile fine è il dimenticatoio di fine gennaio.
E se certo le condizioni ostiche della quarantena non aiutano lo sforzo d’immaginazione militante nel cercare altre pratiche, sempre quell’espulsione del conflitto come possibilità concreta sembra essere alla base di un raggio d’azione limitato alle campagne social, ai meme, al mailbombing, alla sensibilizzazione, o agli ambiziosi quanto velleitari annunci di scioperi degli affitti.

Altre esperienze, possono essere quelle attuate, ad esempio, a Milano, Varese, Genova, Trento e in Valle di Susa che hanno ripreso l’antica pratica dei tazebao e degli striscioni, con parole chiare su chi siano i responsabili di questa strage in corso, con testi semplici, comprensibili, richiedendo diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, denunciando la militarizzazione del territorio, lo smantellamento della sanità, evidenziando in modo esplicito la farsa di un governo che punisce le passeggiate e tiene aperte le fabbriche, che dona elemosine illuso di prevenire possibili sommosse, saccheggi e rivolte.
Semplici tazebao che invitano chi li condivide a riprodurli, diffondendoli così sulle mura dei quartieri e nei piccoli paesi di montagna … un modo per rendere tutti protagonisti, senza chiedere adesioni a forze politiche, un modo per prepararsi, per metter fieno in cascina .

Come ancora diversa può essere considerata l’iniziativa nazionale del 1° Aprile: con striscioni e battiture dai balconi e con fuochi nelle valli alpine per sostenere le detenute e i detenuti e chiedere amnistia e indulto per tutte-i. Diverse dal mutualismo caritatevole e importanti perché indicano forme, tutte da inventare nel periodo della quarantena, e che possono coinvolgere tutte/tutti: battiture, tatzebao, canzoni di lotta cantate dai balconi invece degli inni nazional-popolari, parlare con i vicini per costruire rapporti di complicità necessari oggi, fondamentali per il domani. Come avviene a Torino in alcuni quartieri operai.
Queste esperienze, seppur non estese come sarebbe necessario, indicano un modo per lottare anche dentro l’isolamento sociale prodotto dalla quarantena e per non agire solo sul piano virtuale.

Nulla è da escludere in una fase di sconvolgimento come questa, tutto è da rilanciare e nulla da lasciare al caso, ma ancor più centrale è la necessità di guardare all’esperienze in corso, alle tensioni, spesso sotterranee che si muovono sotto il cielo, comprendere come per la guerra che verrà ogni elemento utile vada incastonato nel mosaico di una strategia rivoluzionaria ancora tutta in divenire.

Un dato interessante che ci sembra di cogliere, per quel che riguarda le reti di solidarietà , più all’estero che dalle nostre parti a dire il vero, è come esse siano sorte del tutto o quasi al di fuori degli ambiti di movimento1 e come esse inizino a masticare temi prima appannaggio dell’habitat militante che ora diventano urgenza collettiva, come il reddito o l’affitto, ma restino sostanzialmente impermeabili al linguaggio politichese che tuttora le porta avanti. E se il rent strike2 passa sotto traccia, nondimeno ci si organizza autonomamente per autoriduzioni collettive o, più placidamente, si smette di pagare l’affitto al padrone di casa.
Una serie di smottamenti che interessano soprattutto quelle aree metropolitane, patrie dell’atomizzazione capitalistica, in cui le fragilità si ammassano più numerose e lo Stato lascia scoperti e abbandonati migliaia di individui per limitarsi a gestirne le escandescenze e proseguire il solito scorrimento delle merci. Le metropoli, o meglio i loro margini, iniziano a brontolare e rivendicare sommessamente il proprio spazio sulla scena. Un sussurro, per ora, ma che minaccia di essere presto un grido.

Un’altra indicazione feconda ci viene invece da quei territori, come l’Euskal Erria, dove le organizzazioni antagoniste e una certa cultura politica hanno storia e radici forti, dove quindi la prassi militante sembra riuscire ad intercettare l’autorganizzazione spontanea e diffusa e agire in sintonia con essa. Lì, dove le reti di mutualismo spontanee sono nate in ogni quartiere o cittadina senza reciproco coordinamento, incontrando spesso la capacità tecnica dei gruppi militanti, è emersa un’ipotesi di avanzamento del discorso politico relativo al contropotere territoriale fondata sul concetto di autodifesa e sostanziata tramite un doppio fronte, di lotta e di cura3.

Vi sono, poi, luoghi dove il conflitto è da anni già luogo di ‘conflitto in armi’ , di spazi dove le esperienze rivoluzionarie hanno il controllo di parti del territorio e di fronte a questa epidemia, prodotta dal tessuto sociale, economico e produttivo del capitalismo, hanno dovuto porsi la questione di garantire la difesa delle proprie zone e delle proprie comunità, sapendo assumersi tutte le responsabilità del caso nei confronti della catastrofe generata dal modo di produzione avverso.
.
Nel Chiapas, di fronte alla pandemia Covid-19, con le parole del subcomandante insurgente Moisés, l’EZLN ha dato disposizioni perché tutti i municipi autonomi e le organizzazioni amministrative aderenti alla lotta zapatista dichiarino l’allerta rossa, impediscano l’ingresso nei loro territori agli estranei e adottino misure igieniche straordinarie.
Come spiegano gli zapatisti, questa scelta non è dovuta solo alla pericolosità del virus bensì anche all’irresponsabilità dei vari governi del pianeta, tutti intenti a fornire dati e informazioni molto discutibili (se non addirittura falsi) finalizzati al controllo sociale e non alla reale difesa della salute pubblica.
Questa scelta che all’apparenza potrebbe sembrare una sospensione della battaglia in corso deve proseguire anche in questa situazione, trovando i modi necessari pur nelle condizioni attuali che impongono provvedimenti sanitari (qui).

Nella Siria del Nord, invece, mentre la Turchia approfitta del virus per colpire l’Amministrazione autonoma del Rojava continuando gli attacchi militari e togliendo l’acqua ai profughi e ai residenti, il Consiglio Esecutivo del Rojava ha posto in atto (a partire dal 21 marzo) misure di divieto di spostamento senza autorizzazione, la chiusura dei confini, la chiusura di negozi e scuole, il distanziamento e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, e esonera dal lavoro il 40% dei lavoratori dei panifici (attività essenziale in quelle zone per poter sfamare la popolazione) e di altre attività, arrivando anche a dover chiudere le ‘tende del commiato’. Misure drastiche, ma che rappresentano l’interesse collettivo.

Il Rojava ha anche adottato misure di distanziamento, in una situazione di vita comunitaria e quindi molto dificili da realizzare, non imponendolo in modo militarista come nel nostro paese, bensì tramite l’appello dei vari feriti di Kobane e delle grandi battaglie di questi anni e appellandosi all’autodisciplina rivoluzionaria, un tema che andrebbe ripreso con chi in Italia grida allo scandalo di dover stare in casa non per porlo come contraddizione con le fabbriche aperte, non per denunciare le angherie di militari e polizia contro una solitaria corsa o passeggiata, ma finendo, anche non consapevolmente, col contrapporre la libertà individuale all’interesse di classe e collettivo. Così, se nei paesi capitalisti, nel ventre della bestia, bisogna denunciare l’utilizzo del distanziamento a fini repressivi e nella logica dell’emergenza, va al tempo stesso ripreso il concetto di disciplina rivoluzionaria, di rinuncia individuale per gli interessi collettivi della vita e della comunità, utile già oggi ma fondamentale per il domani.

Ma proprio perché si tratta di un’esperienza rivoluzionaria, quella del Rojava, si trova con poche strutture, attrezzature e strumenti sanitari a causa di un duro embargo e del non riconoscimento da parte dell’ONU e, di conseguenza, non riceve aiuti alcuni per la popolazione (come i kit per rilevare il virus, le mascherine e i respiratori), il che dimostra, una volta di più, come solo la solidarietà rivoluzionaria può sostenere queste esperienze.
Altro che versare i fondi per la protezione civile, le ASL, la Caritas ecc.… Oggi è necessario praticare l’internazionalismo e quindi di sostenere con casse di resistenza le varie esperienze rivoluzionarie e di mutuo soccorso, soprattutto da costruire nelle fabbriche e sui territori, poiché in questo modo si costruiscono rapporti concreti per un’alleanza comune contro il capitalismo.
In questo senso l’esperienza in Francia della ZAD dI Notre-Dame-des-Landes che ha portato le proprie autoproduzioni alimentari alle varie lotte presenti in Francia, vale di più di mille dichiarazioni di principio sui sacri testi.

In altri termini, dove la gestione autoritaria ed emergenziale dello Stato semina dispositivi di contenimento che facilmente saranno convertiti in strumenti repressivi all’occorrenza, molto raramente corrisponde un contrappeso che va incontro ai bisogni generati dall’epidemia. È lì che si generano le fratture ed è lì che si inserisce il militante per convertire una ferita in una carica sovversiva.
D’altronde la natura di classe di questo sistema viene a galla in ogni piega di questa emergenza e disvela tutto l’orrore e l’insostenibilità a cui il quotidiano ci aveva abituati. Il sostegno alle grandi aziende e le briciole alle famiglie, la cassa integrazione pagata dallo Stato e le ferie forzate dei lavoratori, le fabbriche che restano aperte e gli operai costretti ad ammalarsi dentro i reparti, i medici che crepano di malattia e superlavoro negli ospedali pubblici mentre le cliniche private intascano soldi. Nessuna di queste cose passa inosservata agli occhi di chi vive dal basso questa società e per i più ottusi, che ancora nutrono buonafede verso questo sistema, ci pensano i portavoce del governo a togliere ogni dubbio, con la loro retorica di guerra che sempre più prende i contorni di minacce velate a chi avesse in mente di alzare la voce e pestare i piedi, o con il loro darwinismo sociale che innerva tanto i discorsi quanto le misure. Non sono vite quelle che si vogliono tutelare ma forza lavoro, carne da cui estrarre valore. L’alternativa resta sempre una: la nostra vita o il loro profitto.

È solo a partire da questo assunto, ormai visibile a chiunque, che è possibile cogliere il senso pieno della sfida attuale, su cui possiamo seminare il germe di una incompatibilità sistemica in grado di seminare gli scontri di classe che verranno.
È su questo assunto che l’indicazione dei padroni e degli imprenditori come vampiri e assassini è diventata chiara e assumibile da chiunque, creando una linea di spartizione tra chi ci è amico e chi no nell’ora del bisogno, intrecciandosi alla voce di quegli operai che spontaneamente hanno incrociato le braccia per dire che non erano disposti a morire per un salario di merda.

Ed è sempre qui che la problematica del reddito, che coglie l’antica quanto principale contraddizione del capitalismo, non è più soltanto una velleità, ma l’esigenza di milioni di persone cui il blocco dell’economia pone il serio problema di cosa mettere in tavola la sera. Un problema che non può più essere una richiesta velleitaria o riformista. Ma deve diventare uno dei cardini di un agire antagonista: se lo Stato non è in grado di provvedere ai nostri bisogni e questo mercato ci esclude da un reddito allora ci si deve organizzare da soli per ottenerlo. Dalle assemblee sui luoghi di lavoro, già fin da ora e dopo la riapertura delle aziende, al picchetto e il blocco della fabbrica che non è stata chiusa da un’ordinanza; dalle assemblee e i convegni territoriali da convocare subito, a partire dalle aree più colpite, dopo il parziale ritorno alla normalità all’autoriduzione dell’affitto e delle bollette nella loro insostenibilità, la richiesta oppure l’imposizione autonoma di un calmiere dei prezzi contro il carovita e lo sciacallaggio in atto fin dall’inizio della pandemia.

Ognuno di questi atti, organizzati o meno, politicizzati o meno, andrà nella direzione di riprendersi pezzi di reddito e di vivibilità in seno a questa catastrofe; il compito del rivoluzionario non è fare una campagna su una o l’altra di queste cose, ma fondere spontaneità e organizzazione, pratica e discorso. È la nostra stessa possibilità di vita che difendiamo e nulla ci legittima più di questo nel forare ogni dispositivo. La questione del mutualismo e della presa in cura della comunità, d’altronde, non può essere slegata da un discorso simile e non può che essere strumento di radicamento e costruzione di contropotere autonomo nei quartieri e sui territori, realizzando articolazioni sociali di un discorso politico più complessivo e di rottura.

Quella della cura collettiva è una pratica che non può essere mossa dalla generica solidarietà (cosa buona e giusta, la solidarietà, ma non è mai stata motore di processi rivoluzionari), ma dall’obbiettivo di costruire un rinnovato rapporto di forza, in vista degli sconvolgimenti che verranno, all’interno di un territorio. Quest’ultimo, nella sospensione della normalità, assume un rinnovato valore strategico ed è all’interno di questa situazione imprevista che, specialmente nell’atomizzato ambito metropolitano, possiamo legare i fili delle nostre possibilità. Chi oggi distribuisce la spesa alimentare dovrebbe porsi in prospettiva il problema di bloccare il flusso delle merci, di redistribuire il reddito indiretto, di scioperare, di indicare il nemico e di legarsi all’amico prima estraneo, tutto nel tentativo di costruzione di una forza in grado di smantellare ogni pezzo dell’attuale sistema di dominio.

Nulla oggi può essere lasciato intentato, nulla deve essere abbandonato al caso. Si buttino a mare gli ideologismi inutili e le formule stantie, è di prassi forte e teoria laica che abbiamo bisogno. Dobbiamo necessariamente cogliere, per dirla con Fanon, l’importante nel contingente.
Si prepara oggi uno scenario che forse mai più ci sarà dato di rivivere: in queste intemperie si colga l’occasione di liberare la prassi politica e la società dalle ragnatele del passato o ci si lasci morire.


  1. Un esempio è il caso della società inglese che, da iperatomizzata, scopre la comunità come ambito di forza http://commonware.org/index.php/neetwork/929-pinte-e-pandemia 

  2. https://www.thestranger.com/slog/2020/03/27/43264462/so-you-want-a-rent-strike  

  3. https://eh.lahaine.org/auzo-elkartasun-sareak-larrialdi-egoeraren  

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