salario – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 20 Aug 2025 18:30:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

]]>
Il salario minimo non vi salverà https://www.carmillaonline.com/2024/03/29/il-salario-minimo-non-vi-salvera/ Fri, 29 Mar 2024 22:57:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81958 di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo. In sintesi, ciò che [...]]]> di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo.
In sintesi, ciò che il libro evidenzia è l’inutilità se non la controproducenza di un salario minimo legale finché le politiche attuate nel nostro paese sono quelle neoliberiste, che mettono al centro la massimizzazione dei profitti, subordinando retribuzioni e qualità della vita a questo desiderata che di fatto è un imperativo indiscutibile per la classe padronale.

Il salario minimo ha a che vedere con il potere d’acquisto? È una prima sostanziale domanda da porsi.
Il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia, con il nostro paese che è diventato il fanalino di coda per livelli salariali in Europa e quindi con una misura come il salario minimo c’entra come la panna nella carbonara. Così ironizza Savino Balzano(1), sostenendo a giusta ragione che la contrazione salariale in questi ultimi trent’anni ha riguardato categorie le cui retribuzioni sono ben oltre la soglia di salario minimo che si vorrebbe introdurre, come i meccanici, i chimici, i bancari, i farmaceutici, il pubblico impiego, solo per fare alcuni esempi. Ciò pertanto non produrrebbe alcun effetto. Il salario minimo legale, nel contesto italiano e per come pensato da chi per decenni ha remato contro gli interessi dei lavoratori, non comporterebbe effetti significativi per la stragrande maggioranza della popolazione salariata. La correlazione tra salario minimo per legge e crescita delle retribuzioni è del tutto fittizia, in quanto non si ragiona (volutamente) sulle ragioni che hanno comportato la contrazione salariale nel nostro paese.

Ma di più, il salario minimo, a fronte di una precarietà dilagante e in rapporto al reale costo della vita, non farebbe altro che sancire ed estendere proprio questo stato di cose, che va così tanto bene al padronato piccolo o grande che sia. Si finirebbe, inoltre, con il parificare al ribasso, in un surrogato della contrattazione collettiva, i livelli salariali, come salario preso a parametro.

Salario, lavoro e mercato

Il lavoro è un mercato che segue le logiche di qualsiasi mercato. Per questo i datori di lavoro, o capitalisti, coloro che mettono capitale per trarre profitto dal processo lavorativo non desiderano un mercato del lavoro con una piena e o bassa disoccupazione, ma al contrario operano attraverso i governi per gestire l’eccedenza produttiva a proprio vantaggio, aumentarla fin quanto sia possibile in relazione alla tenuta sociale. Il padronato, la borghesia capitalistica, è una classe, che a differenza del proletariato agisce secondo calcolo, seguendo i propri interessi di classe. Uno degli obiettivi del neoliberismo, per altro raggiunto, è quello di portare attraverso la frammentazione sociale (scomposizione di classe, precarietà) e la produzione di consenso (falsa coscienza nell’uso dei media, manipolazione sulla percezione della realtà sociale e soggettiva), a una classe in sé che ha perso il senso della classe per sé, ossia la propria identità collettiva, dunque la sua forza materiale nella società e la sua capacità vertenziale di contrattazione. In definitiva ciò che era il movimento operaio in Italia e non solo, uscito dalla guerra e negli anni del boom economico.

Il mercato del lavoro, con la svolta neoliberale dei primi anni ’80, ha potuto godere di tre fattori pensati e voluti dalla reaganomics o tatcherismo, che hanno fatto il paio con la libera circolazione dei capitali: lo sviluppo dell’automazione nei processi produttivi (plusvalore relativo e riduzione del capitale variabile), la globalizzazione dei medesimi con le delocalizzazioni e il passaggio a un’economia terziaria, a una progressiva deindustrializzazione e l’outsourcing, ossia il contoterzismo e il subappalto con un distruzione di tutta l’architettura del lavoro stabile, garantito a date condizioni contrattuali, e l’avvio del lavoro precario generalizzato. A questo si aggiunge la appena menzionata terziarizzazione dove il precariato, l’eccedenza produttiva con un potere contrattuale inesistente, ha trovato collocazione non garantita e ricattata in settori come il trasporto e la logistica (2), la grande distribuzione organizzata come gli ipermercati e i discount alimentari e tessili, la sorveglianza, l’assistenza alla persona, la ristorazione, il turismo con la ricezione alberghiera e affini, l’agroalimentare del caporalato, tutti con salari da fame. Questa massa di lavoro precario, attraverso un salario minimo per legge preso a parametro, mettendoci anche i demansionamenti nei cambi di contratto per le stesse mansioni e posizioni, come prima accennato, andrà a impattare nelle contrattazioni di categoria per settori che hanno tutt’oggi dei livelli salariali più alti. Un cavallo di troia che allontana la necessaria unità dei lavoratori pur in queste differenziazioni, e quindi la ripresa del conflitto di classe da parte proletaria.

 

La disoccupazione…

La disoccupazione è un’eccesso di offerta di lavoro ed è per questo che le politiche neoliberali puntano a mantenere la disoccupazione a livelli adeguati a tenere bassi i salari. Oggi tutto questo è stato reso possibile in decenni di attacco al lavoro su più fronti: governi, sindacati concertativi, modifiche sovrastrutturali dei territori, ideologia del consumo, critica sociale basata tutt’al più sull’adattamento, ossia la resilienza. Il plusvalore e la valorizzazione capitalistici si basano anche su elementi sociologici e sulla gestione di una psicologia sociale che è espressione dell’egemonia di classe capitalistica sul resto della società.

Il salario minimo risponde a questa logica della resilienza in tempi di disoccupazione e precarietà, come lo era stato il reddito di cittadinanza (che hanno avuto la spudoratezza di togliere, togliendo quel poco che poteva dare qualcosa a chi vive una vita di privazioni), ossia un adattamento del lavoro e della vita delle persone alle dinamiche della produzione capitalistica e dei suoi profitti secondo le misure del TINA (there is not alternative), ossia del neo e ordoliberismo imperanti.

 

Salario e democrazia

Un altro punto su cui Balzano pone la questione del salario minimo è la democrazia, ossia il rapporto che intercorre tra condizioni di lavoro, reddituali inadeguate a una soglia di vita apprezzabile e la democrazia in una data società. È evidente che chi non ha il potere di contrattare sul proprio lavoro e la sua vita è incentrata, ossia limitata a sopravvivere di fronte a un rapporto iniquo tra salario e potere d’acquisto, tra bollette, mutuo, aumento dei prezzi e via dicendo, non ha neppure la possibilità di incidere con la sua partecipazione di cittadino sulla vita politica del paese, in preda a consorterie, politici corrotti e asserviti e infiltrazioni criminali nelle pubbliche amministrazioni, che su questo potere del capitale, delle sue oligarchie locali e internazionali sul lavoro ci prospera, aumentando il proprio potere decisionale e inquinando le istituzioni, corrompendone i meccanismi decisionali, modificando le leggi e la Costituzione stessa, stravolgendola a favore di una sottrazione sempre più arrogante di democrazia.
Il consenso più o meno passivo all’ideologia dominante (passivizzazione delle masse), di emergenza in emerganza, meriterebbe un intervento a parte e non svilupperò in questa sede questo argomento. Mi basti solo sostenere che il legame tra questione sociale, culturale e questione del lavoro nella società capitalistica della disidentificazione della classe per sé, ha portato alla distruzione di valori, progetti, visioni, che fino agli anni ’70 erano stati il sale di una sinistra che riformista o rivoluzionaria che fosse, si basava su una vasta partecipazione popolare e sui partiti di massa.

Fatte queste osservazioni fuori opera, ma del tutto assonanti alle analisi sul salario minimo poste da Balzano, riguardo la democrazia economica e sociale, possiamo addentrarci su alcuni aspetti e potenzialità di questa opera.

Fissare un salario minimo può sembrare un toccasana per chi vive di salario basso e ha condizioni di lavoro precarie. In realtà, il livello salariale fissato per legge è di fatto totalmente inadeguato a rispondere a quel passaggio della Costituzione che recita:

«Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quntità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”

Sappiamo benissimo che ciò non sarà così, e che partiti post-socialdemocratici come il PD e sinistreria varia, in inciucio con altre forze che concorderanno al ribasso tale provvedimento, potranno dire: abbiamo ottenuto migliori condizioni di lavoro e di vita per gli strati di lavoro meno abbienti. Potranno così spacciare per vittoria la fissazione per legge dei livelli salariali bassi che il lavoro salariato ha di fatto nel nostro paese, rispetto a tutta l’Europa, lavandosi poi le mani pilatescamente delle reali condizioni di lavoro e conseguentemente del tenore di vita di milioni di lavoratori.

Dunque, il salario minimo che potrebbe passare diverrà un parametro nei contratti nazionali di quelle categorie che andranno a contrattare adeguamenti salariali, che potranno essere così al ribassso. Stanti i rapporti di forza tra capitale e lavoro e lo svilimento del ruolo del sindacato in Italia, una siffatta legge sul salario minimo seguirà i desiderata di un padronato che non ha fatto altro che togliere ai lavoratori con governi complici e sindacati concertativi che hanno concertato la svendita di diritti sul lavoro e salari conquistati nell’onda lunga del movimento operaio del dopogerra fino agli anni Settanta.

Da ciò possiamo trarre due preziosi insegnamenti:

1. lasciare alla volpe l’indagine nel pollaio, ossia a un centrosinistra che da Treu in poi ha fatto politiche di distruzione dei diritti e dei salari andando incontro ai diktat del capitale e dell’UE in materia di lavoro, significa lasciare il campo definitivamente alle forze del capitale dentro la classe lavoratrice e stabilizzare uno stato di cose che nega il conflitto capitale/lavoro.

2. Che senza lotta di classe, senza riprendere un conflitto con il capitale e i suoi governi, contro la sinistra liberale e post-socialdemocratica dentro le fabbriche e nelle istituzioni rappresentative, ogni conquista è falsa e vana. E infatti non è un caso che sulla questione del salario minimo non vi è stata alcuna vertenza, alcuno sciopero e la partitocrazia di sinistra abbia avocato a sé l’iniziativa, esautorando le lotte e le vertenze  che potevano essere un collegamento concreto e in progress per una battaglia sul salario, sia a livello generale che nei contratti di categoria.

Ma sappiamo bene che ciò è possibile solo se riprende un protagonismo operaio, salariato nei luoghi di lavoro e si rende possibile attraverso l’unità dei lavoratori da parte di forze sindacali di base, un’autonomia di classe che rompa ogni tavolo concertativo, iniziando una lotta dura contro la precarietà, per la reintroduzione della scala mobile e per il salario. E a questo punto la battaglia per il minimo salariale va concentrata sui settori del lavoro maggiormente sottoposti a discriminazioni salariali. E non è solo sul minimo salariale, ma per i diritti molto spesso negati sui vari fronti: dalla previdenza (salario differito) agli straordinari, alle ferie, ai servizi (salario indiretto) che lo stato deve garantire ai lavoratori e che invece oggi sono oggetto di acquisizione e saccheggio nelle privatizzaizoni di pezzi di welfare pubblico. Per non parlare della sicurezza nei luoghi di lavoro, dei lavori usuranti. L’introduzione di una legge sugli infortuni sul lavoro, spesso veri e propri omicidi bianchi, è un altro aspetto vertenziale. Ma tutto ciò significa vincere poiché si incide sui rapporti di forza dati tra capitale e lavoro e qualsiasi legge sarebbe semplicemente la ratifica di tale mutamento favorevole alla forza operaia in campo e non dato da una sorta di bontà giustizialista (falsa) di un centrosinistra a guida PD che non sa più nemmeno dove stia di casa il lavoro con le sue problematiche.

Senza l’apertura di una fase di lotta generalizzata ogni avanzamento nei diritti e nei salari è impossibile. E lasciare l’iniziativa a forze che vogliono solo raccimolare voti e seppellire il conflitto in un’ “autonomia del politico” avulsa dalla situazione reale del mondo del lavoro e dal punto di vista dei lavoratori, è solo una coazione a ripetere di una debacle della lotta di classe e sindacale che dura da almeno 40 anni e passa.

Oggi, con queste premesse scarsamente conflittuali e una legge che sarà vestita sulle esigenze padronali, non si andrà tanto in là. Due esempi concreti provengono da due dichiarazioni di due esponenti di Confindustria e della Banca d’Italia.
Carlo Bonomi, presidente di Confindustria ha affermato che l’introduzione del salario minimo lascerebbe indifferenti gli imprenditori italiani, mentre Ignazio Visco, già governatore della Banca d’Italia fino all’ottobre dello scorso anno, si è dichirato favorevole all’idea, considerando quanto sia stato sempre attento al contenimento del costo del lavoro nel rapporto salari/prezzi.

La questione vera è pensare a un minimo salariale che non disturbi il manovratore, ossia restare nella gabbia di misure neoliberiste, significa mettere una pietra tombale a qualsiasi ipotesi di un cambiamento della politica economica nazionale, che invece che puntare alla macelleria sociale della redistribuzione iniqua della ricchezza sociale verso una classe sempre più ristretta di speculatori della finanza, pensi a una politica che punti alla piena occupazione e a una inversione di tendenza nella redistribuzione, verso il rilancio del welfare pubblico e a un adeguamento salariale costante e reflattivo (rapporto equilibrato e controllato tra salario nominale e salario reale).

 

Banche e Unione Europea

La questione del salario minimo suona addirittura ancora più vergognosa, se pensiamo che le banche ottengono sovraprofitti dall’innalzamento dei tassi da parte della BCE, mantenendo pressoché a zero gli interessi sui depositi. E chi ci rimette sono sempre i cittadini: nel 2023, nei primi nove mesi gli utili sono stati di 16 miliardi di euro per le prime cinque banche italiane, un aumento del 70% dei profitti rispetto al 2022; un trasferimento verso l’alto di gran parte della ricchezza sociale prodotta attraverso l’innalzamento degli interessi sui mutui. Altro che art. 41 della Costituzione “L’iniziativa economica privata è libera…”! Non c’è alcuna iniziativa economica, solo predazione pura con il sostegno incondizionato della Banca Europea a coloro che non rischiano nulla, neppure un centesimo (vedi pgg. 24 e 25). Ma per le classi dirigenti, anche solo la minima tassazione dei sovraprofitti ottenuti dalle banche viene vista come anti-costituzionale. Questo accumulo di ricchezza non può che produrre ulteriore potere nella società. Alla faccia della democrazia. E la costante e progressiva difficoltà a finanziare i servizi ci fa capire come diventi praticamente automatico il trasferimento dei medesimi verso i privati, aziende che sono per lo più controllate dalla stessa finanza che qui come all’estero, beneficia di una tale regalia da parte dell’istituzione bancaria centrale europea.

A livello europeo, il salario minimo disattende i presupposti sociali ed etici per i quali doveva nascere: garantire una soglia retributiva adeguata a un’esistenza decorosa e a un rapporto giusto tra lavoro e compenso. E lo disattende per tre ragioni: la prima è di carattere strutturale e riguarda le politiche neoliberali stesse che l’UE promuove in materia di lavoro, soprattutto il lassez faire sulla precarietà dilagante. In secondo e terzo luogo il dispositivo di Bruxelles prevede due indicazioni: le differenze salariali da categoria a categoria del lavoro e, in caso di emergenza economica, la possibilità di attingere dal salario minimo una quota salariale.
Pertanto qual è la reale ragione del salario minimo per legge, se poi si erode il salario e quindi la garanzia stessa di una soglia adeguata a una vita decorosa e fuori dalla povertà?
 Visto così, il salario minimo costituisce un’arma per contenere una crescita salariale per quelle categorie del lavoro che sono oltre la soglia minima durante le contrattazioni collettive. Ossia la maggior parte dei lavoratori europei.

È per questo che un approccio al salario che non sia legato a una politica di redistribuzione delle risorse e che si limiti a parametri salariali minimali fissati per legge non fa altro che allargare la forbice tra ricchezza per pochi, speculazione sui servizi del welfare pubblico da una parte e salario diretto, indiretto e differito della popolazione dall’altra.

Il salario minimo non può salvare, ma solo reiterare ed aumentare nel tempo e nei modi una condizione di miseria sociale, nell’era in cui ciò che guadagna chi lavora non è più sufficiente per avere una casa, una qualità della vita adeguata e dignitosa. Un ritorno al passato, dove non solo gran parte dei salariati, ma di lavoratori a vario titolo subordinati rappresentano dai ceti medi in giù un nuovo proletariato differenziato, frammentato, ma con un denominatore comune che è quello di un ascensore sociale bloccato ai piani bassi e da un immiserimento progressivo che solo la ripresa di un forte conflitto sociale può sbloccare.

In definitiva, se il salario minimo non è concepito per garantire realmente la soglia di vita dignitosa sotto la quale non è lecito andare, se altresì non incide (di conseguenza) nei rapporti vertenziali tra capitale e lavoro, anzi diviene una pietra di paragone per contrattare al ribasso, se infine non viene introdotto mentre si vanno ad attaccare le politiche neoliberiste, allora questo rappresenta un altro dispositivo normativo di quella che possiamo definire a piena ragione una lotta di classe dell’alto contro il basso.

——–

 

NOTE

1. Vedi l’intervista fattagli su Ottolina Tv

2. … e non è un caso che dalla logistica una classe operaia soggetta alla massimizzazione dei profitti nel supersfruttamento in un contesto in cui la circolazione delle merci deve essere sempre più veloce per la valorizzazione del capitale, è da anni che conduce lotte dure e duramente represse: quanto avvenuto a Piacenza, con una magistratura che ha criminalizzato SiCobas e USB per associazione a delinquere associando le lotte operaie e il compito dei sindacati a una sorta di esercizio criminoso finalizzato a un guadagno personale mediante tessere sindacali e ricatto ai datori di lavoro… a questo siamo arrivati…

 

]]>
Per un’apologia dell’irresponsabilità (salariale) https://www.carmillaonline.com/2023/07/25/per-unapologia-dellirresponsabilita-salariale/ Tue, 25 Jul 2023 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78386 di Giovanni Iozzoli

La crisi del salario, in Italia, è finalmente emersa come elemento centrale del dibattito pubblico – sia pur tra omissioni, fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Le forze e i media di “opposizione” – risvegliatisi dopo un quarto di secolo, nel duro mondo della realtà quotidiana – paiono acquisire consapevolezza del vero grande scandalo italiano: i salari reali calati nel corso dell’ultimo trentennio, unico paese nell’area Ocse.  E scoprono costernati che le retribuzioni italiane rappresentano anche il paradigma dell’economia reale di questo paese: la caduta degli investimenti privati e pubblici, il ristagno della domanda interna, la destrutturazione dei [...]]]> di Giovanni Iozzoli

La crisi del salario, in Italia, è finalmente emersa come elemento centrale del dibattito pubblico – sia pur tra omissioni, fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Le forze e i media di “opposizione” – risvegliatisi dopo un quarto di secolo, nel duro mondo della realtà quotidiana – paiono acquisire consapevolezza del vero grande scandalo italiano: i salari reali calati nel corso dell’ultimo trentennio, unico paese nell’area Ocse.  E scoprono costernati che le retribuzioni italiane rappresentano anche il paradigma dell’economia reale di questo paese: la caduta degli investimenti privati e pubblici, il ristagno della domanda interna, la destrutturazione dei grandi comparti industriali, il calo della produttività del lavoro. Dalla crisi del salario si capisce tutto: la mobilità sociale che si blocca, l’arretramento dei ceti medi e l’impoverimento di quelli operai, l’espansione incontrollata del lavoro precario per ricostruire margini di profitto fittizi. Le nostre miserabili buste paga sono una lente magica attraverso cui ricostruire la storia e la cartografia del declino italiano.

Alle volte, nella discussione collettiva a sinistra, è prevalsa una lettura “semplificata” che imputa il crollo dei salari degli ultimi tre decenni, esclusivamente alle scelte del sindacato confederale, maturate tra il ’92 e il ’93 – nel contesto dei grandi accordi sull’abolizione della scala mobile e il nuovo modello contrattuale. Quegli accordi, nella narrazione di regime, furono la risposta necessaria ed efficace, rispetto alle due priorità sbandierate all’epoca: contrastare la fragilità della lira e bloccare il nemico numero uno, l’inflazione, ricondotta sempre alla narrazione della rincorsa prezzi/salari. Mentre le suddette letture “soggettiviste”, di critica anticonfederale, raccontano quei protocolli alla stregua di patti diabolici che, da soli, avrebbero avuto il potere di ipotecare il futuro della nazione e soffocare il conflitto di classe in Italia.

Ma il vero nodo da sciogliere e interpretare, riguarda l’origine di quelle firme e di quegli accordi. Perché se si semplifica troppo lo schema, si rischia di spostare il ragionamento da una dinamica strutturale – che riguarda lo scenario macroeconomico di quel periodo, le trasformazioni dell’apparato produttivo, la divisione internazionale del lavoro, la crisi politica post-89 della Prima Repubblica -, verso un piano di lettura essenzialmente morale: il “tradimento dei chierici” che, mediante le firme malandrine, condannano i salariati italiani a subire un trentennio di deflazione retributiva.

Più interessante è l’approccio che mira a collocare quelle scelte confederali – e il lungo ciclo di politiche sindacali ad esse conseguenti -, dentro il quadro delle trasformazioni epocali dell’economia europea. All’inizio degli anni ’90 tutti gli attori dell’economia continentale stanno ridefinendo programmi e vocazioni. L’industria tedesca sta mettendo in valore i territori produttivi della ex-DDR e guarda all’est e al sud Europa come nuovo spazio di investimento ed espansione economica (con export e avanzo di bilancio come priorità strategica della politica economica nazionale).  In Italia un repentino ciclo di ristrutturazione industriale, avviato già verso la metà dei ’70, accelera il ridimensionamento delle grandi concentrazioni produttive italiane, sotto la spinta del decentramento e del primo grande impatto di tectronica e robotica applicato alle linee di produzione. Tra il 1989 e i primi anni 90, il programma economico dei diversi governi italiani, sarà sempre più orientato verso lo sforzo di privatizzazione/svendita dei poli nazionali delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, della chimica, della siderurgia e del credito – quelle che Cossiga definiva “sacche di socialismo reale”. E, dulcis in fundo, i margini di manovra sulla lira – le famose svalutazioni competitive – risultano praticamente azzerati dagli equilibri monetari rigidi che saranno la precondizione di Mastricht. Tutti questi processi rappresentano la cornice della crisi italiana e vanno inquadrati dentro il gigantesco ridislocamento delle filiere del lavoro e delle catene del valore che si realizza con la globalizzazione. La riunificazione dei mercati mondiali a egemonia unipolare, è un gioco maledettamente duro e l’Italietta in transizione gioca senza difese.

E’ in questo quadro di smottamenti e riassetti, che si deve collocare la sconfitta storica del sindacato confederale italiano e l’avvio di quella stagione definita pudicamente concertazione – in cui si è “concertato” assai poco, per amor di verità storica.  Questa fase rappresenta la presa d’atto, da parte del gruppo dirigente CGIL, che qualcosa si è rotto definitivamente nel suo rapporto con un mondo del lavoro in repentina trasformazione. A partire dalla sconfitta maturata nel corso degli anni 80, tra la marcia dei 40.000 e il referendum sulla scala mobile, la CGIL introietta (senza mai elaborarla pienamente) una paralizzante ideologia della sconfitta .  Dentro questo passaggio, la confederazione sente di aver perso il peso politico e negoziale che il radicamento e la spinta autonoma di classe del ventennio precedente, le avevano consentito. La terra manca sotto i piedi, il quadro politico conosciuto si sta sconvolgendo, la lira è sotto attacco e il divorzio andreattiano tra Tesoro e Banca d’Italia mette in mora gran parte degli strumenti di politica monetaria e di bilancio. La sensazione è quella di una navigazione a vista, su un’imbarcazione che comincia pericolosamente a fare acqua. La concertazione, a questo punto della storia, si presenta come l’approdo che “tiene in piedi” e ridefinisce – sul piano politico – il ruolo ormai traballante del sindacato confederale, ambiguamente “innalzato” a partner strategico della governance, proprio dopo aver subito le sue peggiori sconfitte. Per molti, in Corso Italia, tale soluzione rappresentò un epilogo dignitoso, in attesa di ritrovare forze e ridefinire obiettivi.

Quindi: c’è una dimensione “soggettiva” delle funeste scelte di politica sindacale dei primi anni 90, ma c’è una condizione oggettiva (come sempre) entro cui quelle scelte maturano. Se tutto il dibattito sulla concertazione si esaurisse sul terreno del “tradimento”, sarebbe piuttosto povero. Poi “ci sta”, nella polemica politica, soprattutto dal punto di vista extraconfederale, che i toni siano “eticizzati”, evocando categorie morali – tradimenti, svendite, rese, etc.. Ma non è questo il cuore del ragionamento. Altrimenti si farebbe fatica a spiegare come sia stato possibile che dirigenti di oggettivo spessore, al di là del giudizio storico che ognuno può coltivare – pensiamo a Bruno Trentin -, gente che aveva conosciuto la grande stagione “acquisitiva” e rivendicativa dei diritti, della contrattazione, del consiliarismo -, all’improvviso impazziscono e si mettono a firmare accordi che sanciscono il crollo del salario dei propri iscritti e la sacrosanta riscossione di un bel po’ di bullonate nelle piazze. Senza riflettere adeguatamente sui rapporti di forza generali nella società e sulla mutazione della composizione di classe, ogni critica al sindacato confederale risulterebbe parziale.

La concertazione è una fase di consapevole rinculo – una ritirata strategica (scusate evocazioni inopportune) – in cui un sindacato non più fiducioso della sua forza, accetta uno scambio che si rivelerà fallace e perdente. Poi arriveranno anche elementi di simonia – con le nuove figure della bilateralità, dai fondi pensione ai piani sanitari: ma quelli furono cascami e conseguenze delle scelte generali già assunte sul piano politico. Le ragioni dell’avvio di quella stagione strategicamente sbagliata, da parte della CGIL, vanno ricercate in una lettura sbagliata della transizione italiana, una specie di “pensiero debole” sindacale che mira a recuperare sul piano del ruolo politico, quello che il sindacato in quegli anni sta perdendo giorno per giorno in termini di peso e radicamento nella società italiana. E qui c’è una evocazione più della trontiana “autonomia del politico”, che della svolta dell’Eur. Ed è a cavallo dei due decenni 80/90 che la CGIL ridefinisce anche il suo modello organizzativo, provando a inseguire sui territori la frammentazione del tessuto produttivo e la “nanizzazione” del sistema di impresa – cioè fotografare la nuova composizione di classe ed inseguire (riformisticamente) sui territori le sue figure frammentate. La concertazione venne evidentemente vista – per restare alle metafore ingombranti – come “l’ombrello protettivo” che avrebbe dato tempo al sindacato di ridefinire il suo ruolo dentro la transizione italiana.

Ma quale fu l’essenza di quella stagione? Cosa concesse il sindacato confederale e in cambio di cosa? Su un piatto della bilancia viene posta la moderazione salariale – cioè, l’esaurimento di ogni margine di “indipendenza” della variabile salariale – e una postura collaborativa e di “responsabilità nazionale” nei giudizi sulle politiche economiche nazionali. Sull’altro piatto viene posta la para-istituzionalizzazione del rito laico della concertazione, da celebrare soprattutto nei tornanti difficili della vita economica, in una frequente chiamata di correità attraverso cui i governi tecnici cercano una copertura sociale alle loro scelte oggettivamente antipopolari. Qualche sciagurato, leggerà in questo passaggio anche una prima parziale realizzazione dell’art.46 della Costituzione. Chi gestisce questo scambio da parte governativa e padronale, si pone una meta in tre livelli: l’obiettivo immediato è congelare i salari, quello di medio periodo bloccare l’inflazione, quello strategico agganciare definitivamente retribuzioni e produttività, nell’ottica di una “modernizzazione” delle relazioni industriali che cancelli rigidità ormai anacronistiche.

Dentro questo grande scambio, una categoria chiave assume centralità: la “politica dei redditi” – cioè la ridefinizione in chiave concertativa delle linee pubbliche di intervento, in tema di prezzi, tariffe, investimenti, politiche di bilancio, politiche monetarie. Questa categoria dovrebbe rappresentare la giustificazione storica che consente ai dirigenti sindacali di subire l’arretramento dei salari: non possiamo più fare una contrattazione offensiva, però in cambio i tassi di interesse dei mutui restano stabili ( è in questo periodo che la maggior parte degli italiani realizza l’acquisto della prima casa) e le politiche tariffarie rimangono sotto controllo. Anche qui c’è una lettura e una presa d’atto: i padroni hanno vinto, la stabilizzazione capitalistica è irreversibile, le classi lavoratrici vogliono essenzialmente sicurezza contro le fluttuazioni e i disordini nella sfera finanziaria e monetaria.

Durante un dibattito in un talk di una decina d’anni fa, ricordo la faccia da volpe di Giuliano Ferrara, che se la rideva, davanti alle rimostranze sulle basse retribuzioni che provenivano da un interlocutore sindacale. Di che vi lamentate – diceva Ferrara -, siete voi che avete accettato lo scambio bassi salari/concertazione, con chi volete prendervela? In quella risatina beffarda c’erano due verità: la prima, è che la concertazione fu una colpa consapevolmente assunta che diede un arma formidabile ai nemici del movimento operaio; la seconda è che fu una truffa. Si, perché i governi della transizione (Amato, Ciampi, Dini), stavano garantendo ai sindacati, qualcosa – la politica dei redditi – su cui cominciavano a non avere più alcun potere di esercizio. Se non hai più la gestione autonoma delle leve delle politiche di bilancio e monetarie, se la dimensione pubblica dell’economia italiana è in via di smantellamento, se si accelera la cessione sovranazionale di sovranità economica e relative strumentazioni, che diavolo di “politica dei redditi” puoi garantire? L’unica cosa che si poteva realisticamente “garantire” era l’arresto della dinamica salariale, adottando un modello contrattuale perdente. E così finì.

La concertazione fu anche l’esito di una contesa politico-culturale – cioè di egemonia -fra due gruppi dirigenti. Quello laico-tecnocratico-riformista – che emergeva dalle macerie esauste della Prima Repubblica, e che poteva contare su un parterre internazionale e massonico di primissimo piano; e quello del sindacato confederale, ridimensionato, stordito e impaurito dagli scenari post-89 ( i post-comunisti pidiessini, dal canto loro, reduci dalla Bolognina, si buttarono tutti nella trincea delle “riforme”, fornendo truppe e genieri). Amato, Ciampi, Maccanico, Dini, Prodi, e l’anima nera Draghi, sono figure di straordinaria durezza e determinazione storica; sono i rappresentanti italiani di interessi globali all’offensiva – la finanza anglosassone, i progetti franco tedeschi di evocazione del polo politico europeo, il rilancio post-guerra fredda della Nato. Sono privatizzatori di prima classe perché conoscono l’oggetto del privatizzare, per averne diretto settori importanti. Queste figure giganteggiano, rispetto ai balbettii sindacali. Sanno esattamente dove dirigere il timone della nave. Sanno anche che possono minacciarne l’affondamento, se giù, ai remi, la ciurma rematrice si manifestasse troppo riottosa, rispetto alla rotta di “modernizzazione liberale” che viene decisa nella cabina di comando. Questo non è un ceto politico di mediatori democristiani; i tempi sono cambiati, sono tempi di guerra, tempi di fuoco: basta rileggere il discorso che il “vile affarista” Draghi, tenne ai British Invisibles – il gruppo lobbista di interessi bancari e finanziari anglosassoni, che lo accolsero sul panfilo Britannia, in quella famosa, sciagurata gita passata alla storia. Pochi giorni dopo il massacro di Capaci, tra l’altro – a proposito del fatto che in questo paese se le transizioni di regime sono sempre una cosa assai seria.

La svolta strategica del sindacato verso una ricollocazione concertativa della sua organizzazione e delle sue culture interne, aprì un varco che per anni non ha mai smesso di allargarsi e che alla lunga ha prodotto una crepa terribile, nella propria credibilità sociale. Dagli accordi del 92/93 si passò in un lampo alla legge Dini nel ’95 – più o meno dentro il medesimo schema di rapporti di forze. Il sindacato confederale, disarmato e incaprettato, sotto la cappa del ricatto governativo (il bilancio INPS scoppia e se non accettate la riforma, non saremo più in grado di pagare le pensioni), collabora attivamente per dare veste democratica all’allungamento dell’età pensionabile e al taglio delle prestazioni. L’attacco alle “costituzioni antifasciste” – caldamente auspicato dal think thank di JP Morgan – in Italia si andava realizzando sotto i governi tecnici e di centro sinistra, con un ruolo attivo da parte della CGIL. Cosa chiedere di meglio?

Saltando da un accordo interconfederale all’ altro – man mano che si approfondiva la crisi della rappresentanza e si realizzava l’alternanza “a spartito unico” degli esecutivi – si giunge con Renzi all’epilogo-nemesi della disintermediazione: nello spazio di un mattino, quello stesso ceto politico che si era coperto per anni il fianco sinistro, grazie alla “complicità” dei confederali, esaltandone l’imperituro senso di responsabilità, dichiara morta e sepolta quella stagione e azzera ruoli, prassi consolidate e aspettative. La governance della crisi non ha più bisogno di coreografie partecipative.

La concertazione, con i suoi rituali e i suoi giochi di prestigio, è morta – e questo è un bene: ma che eredità lascia al movimento operaio organizzato? Il problema principale in casa CGIL è il deposito culturale, il lascito storico concreto, prodotto da un quarto di secolo di arretramenti concordati. Tutti i membri dei gruppi dirigenti che anagraficamente ballano tra i 50 e i 60 anni, hanno conosciuto esclusivamente il sindacato concertativo, ci sono cresciuti dentro, ci hanno costruito le loro carriere e la loro formazione di quadri sindacali è completamente interna a quella stagione. Una eventuale riconversione del profilo sindacale – un cambio di linea culturale e strategico – comporterebbe una torsione drammatica delle coordinate, anche biografiche, di questo ceto dirigente. Nonché una ristrutturazione dell’apparato e di diverse fonti di finanziamento. Una “rivoluzione culturale” francamente inimmaginabile, da parte di un gruppo dirigente che continua a vincere i congressi in una modalità ridicolmente plebiscitaria (solo i movimenti straordinariamente deboli o straordinariamente forti, si stringono con simili percentuali intorno ai propri capi – e come classificare la CGIL oggi, tra le due opzioni, è abbastanza intuibile).

A conferma di ciò, il dibattito di questi giorni sul salario minimo vede il più grande sindacato italiano, stagnare nel basso profilo di chi ha la coscienza sporca. Non solo per i troppi rinnovi in cui la firma del sindacato guidato da Landini, ha autorizzato stipendi indecorosi, classificabili nel girone dannato del “lavoro povero”, nonostante la formale correttezza del contratto collettivo nazionale. Ma anche perchè la CGIL, fino a poco tempo fa, rivendicava contrarietà alla definizione di una soglia minima salariale definita per legge: tanto da condividere con i padroni, nel 2019, il “Patto della fabbrica” – altra perla interconfederale – che intorcinandosi con i livelli di T.E.C.(trattamento economico complessivo) e T.E.M. (trattamento economico minimo), doveva neutralizzare ogni discorso sul S.O.M. (salario orario minimo: scusate gli acronimi, ma la fantasia dei compilatori di questi protocolli è contagiosa). Adesso la CGIL ha cambiato impostazione, ma anche qui senza una vera rielaborazione critica del suo dibattito interno sul tema. Tutto è improvvisazione, tutto è invenzione quotidiana alla ricerca di uno spazio di visibilità dentro il dibattito pubblico. Una svolta post-concertazione sarà impossibile, finchè permane in sella quella generazione di dirigenti che – nel corso dei propri seminari di formazione – hanno studiato che la concertazione salvò l’Italia.

Naturalmente la maggior parte delle lavoratrici e lavoratori italiani sindacalizzati mantiene ancora una tessera confederale in tasca – e questo per una somma di ragioni molteplici e intricate, diverse per categorie, territori, classi anagrafiche. E anche questo è un dato politico su cui ragionare, a meno che non lo si voglia sorvolare con nonchalance, sperando nei “tempi lunghi della storia”, refugium peccatorum per tutte le sconfitte della sinistra di classe. Il “che fare” per le avanguardie di classe sui luoghi di lavoro, non è affatto scontato e bisognerebbe parlarne con franchezza, senza settarismi e con un minimo di rispettoso distacco rispetto alle tifoserie organizzate.

L’evocazione della “responsabilità nazionale” è stato per un quarto di secolo una specie di malsano richiamo della foresta a cui i segretari CGIL hanno aderito supinamente. Fin dal 1992, è sempre mancato l’alto profilo ( e la trasparente assunzione dell’interesse di classe, fosse anche solo in chiave socialdemocratica e riformista), che avrebbe consentito, mediante una elaborazione autonoma, di resistere ai ricatti, alle minacce, al terrorismo catastrofista che è sempre stato al centro del programma liberale. Il fantasma mefitico della “responsabilità nazionale”, conserva radici antiche nel DNA della sinistra italiana. Se ne trovano chiare tracce nella lettura togliattiana di Gramsci, che pone la classe operaia italiana in un ruolo insostenibilmente pesante: farsi carico della “modernizzazione” che la borghesia non è in grado di portare a compimento; perché c’è sempre un Risorgimento da rinnovare, una ricostruzione democratica da definire, una Unita’ nazionale da completare, fino alla triste apologia dalemiana – proprio negli anni 90 – del “paese normale”, cioè della normalità tardo liberale che toccherebbe alla sinistra e ai ceti che rappresenta finalmente di realizzare.

Davanti al Moloch della “responsabilità” che abbiamo portato in processione sulle nostre spalle per decenni, non resta che dichiararci coscientemente e felicemente irresponsabili; almeno nella misura in cui lo sono oggi il sindacato francese, o quello belga, o quello inglese che – pur senza alcuna velleità rivoluzionaria -, con un pedigree meno politico e prestigioso del confederalismo nostrano, provano qua e là a fare, il loro mestiere di rappresentanti della prestazione lavorativa, senza tanti fronzoli e drammi esistenziali – e senza sentirsi sempre chiamati a salvare la Nazione cedendo pezzi importanti della vita dei loro iscritti. Siamo liberi. Siamo stati disintermediati. La Patria non ha più bisogno di noi.

]]>
Lettera dalla campagna cinese alle sorelle lavoratrici domestiche https://www.carmillaonline.com/2020/04/19/lettera-da-wuhan-alle-sorelle-lavoratrici-domestiche/ Sat, 18 Apr 2020 22:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59424 di Meng Yu

[La versione originale è stata tratta dal blog Jianjiao buluo e tradotta con il permesso dell’Autrice, dal cinese, da Federico Picerni]

Sorelle che presto rivedrò,

in questo momento, qualcuna di voi sarà già al lavoro; qualcun’altra, benché già al proprio posto, sarà in isolamento temporaneo e impegnata a concordare con il datore di lavoro i tempi del rientro in servizio; e altre saranno ancora a casa a trascorrere quella “vita speciale”, tutta cibo e letto, letto e cibo, che non vi sareste mai sognate in precedenza.

Già, la Festa di [...]]]> di Meng Yu

[La versione originale è stata tratta dal blog Jianjiao buluo e tradotta con il permesso dell’Autrice, dal cinese, da Federico Picerni]

Sorelle che presto rivedrò,

in questo momento, qualcuna di voi sarà già al lavoro; qualcun’altra, benché già al proprio posto, sarà in isolamento temporaneo e impegnata a concordare con il datore di lavoro i tempi del rientro in servizio; e altre saranno ancora a casa a trascorrere quella “vita speciale”, tutta cibo e letto, letto e cibo, che non vi sareste mai sognate in precedenza.

Già, la Festa di Primavera [capodanno “cinese”, NdT] del 2020 è stata davvero senza precedenti. Dopo aver trascorso giornate lunghe quanto anni interi dentro la casa dove lavoro, finalmente sono arrivata in fondo anche a quest’anno. Con gran fatica sono riuscita anche a comprare il biglietto per tornare a casa; volevo partire un po’ prima del solito per andare in ospedale per un problema ginecologico posticipato da tempo, ma anche per sistemare il matrimonio di mia figlia e tenere un po’ di compagnia alla mia vecchia mamma. Arrivata a casa, il tutto era appena cominciato e, prima ancora che potessi rendermi conto di quanto stava succedendo, hanno chiuso le città, chiuso i distretti, chiuso i villaggi, bloccato i mezzi di trasporto… a poco a poco, ci hanno tagliato fuori dal mondo esterno. 

La prima volta che mi sono imbattuta in questo termine sconosciuto, “nuovo coronavirus”, è stato il 22 gennaio. Poco prima di andare a dormire, al termine di una lunga giornata trascorsa a sbrigare vari impegni, fra le notizie lessi di questa misteriosa malattia che a Wuhan aveva già raggiunto livelli molto preoccupanti. Dal momento che non sapevo nulla in proposito e che non avevo ben ragionato sulla situazione, pensai che, in fondo, Wuhan era così lontana, e poi comunque si stava facendo un notevole lavoro per curare i malati e contenere il virus. Non ci saranno grossi problemi, pensavo. Lasciai perdere fino alla mattina del 23 gennaio, quando accesi il cellulare e lessi che Wuhan era stata isolata. Solo a quel punto mi resi conto della gravità della situazione.

Da quel giorno, ogni mattina, appena sveglia, controllo le notizie. Il numero dei contagiati e dei morti aumentava giorno dopo giorno, e anche il mio stato d’animo, solitamente spensierato, cominciava ad appesantirsi: ansia, paura, angoscia, emozioni d’ogni genere mi si riversavano in testa.

Volevo andare a far visita a mia madre e tenerle un po’ di compagnia, ma gli accessi al villaggio erano già stati sigillati e nessuno aveva il permesso di uscire. Ormai non potevo più farci niente. Comunque le telefonai subito per dirle di chiudersi in casa.

“Ho ottantacinque anni, di che dovrei avere paura? Anzi, tanto meglio se muoio!”

“Ah, mamma, sarà anche meglio se muori, ma non siamo riuscite a rivederci, e poi guarda che se muori non possiamo venire a seppellirti!”

“Davvero? È così grave?”

“Sì, mamma, questo virus si diffonde velocissimamente e fa stare malissimo. Rimani a casa, non uscire per nessuna ragione. Ti vengo a trovare appena passa l’epidemia, d’accordo?”

Feci del mio meglio per convincerla, poi dissi a mio fratello e mia sorella di telefonarle a loro volta. Finalmente tranquillizzammo la nostra vecchia madre. Certo, capivo bene il suo stato d’animo: dopo un anno di separazione, non vedeva l’ora di rivedere sua figlia, ma ora che mi aveva a portata di mano, non potevamo stare insieme: ovvio che ne soffrisse. E figurarsi se io, in quanto figlia, non provassi lo stesso!

Sì, quest’anno avevo deciso di rientrare prima per il matrimonio di mia figlia. Eh! Io avrei voluto prima concludere il fidanzamento e rimandare le nozze alla Festa di Primavera dell’anno prossimo. In fondo, mia figlia è ancora giovane, e poi io non avevo ancora mai visto il mio futuro genero. La famiglia di lui però diceva che l’anno prossimo non si sarebbe potuto fare, in quanto l’anno del suo segno zodiacale, e poi comunque i due ragazzi stavano insieme già da più di un anno e sembravano fatti l’uno per l’altra. Anche a me in effetti il genero sembrava di buoni principi e sapevo che mia figlia fosse molto soddisfatta, quindi alla fine, non senza perplessità, ma stremata dalle continue preghiere della famiglia di lui, ho acconsentito che si sposassero il 20 gennaio. E così, in questo breve lasso di tempo, abbiamo concluso il matrimonio.

Allora non avevo ancora avuto notizia dell’epidemia, ma con il senno di poi sono felice di aver sistemato le cose in quel momento: è davvero un’ottima cosa che due giovani, innamorati da tempo, possano passare insieme questi giorni così particolari!

Chiusa la questione del matrimonio, era tempo – come, credo, anche per voi tutte – delle spese di Capodanno. La gente di campagna ha tantissimi riti prestabiliti da osservare. In famiglia abbiamo degli anziani e, naturalmente, ogni anno tantissimi parenti e amici vengono ad augurare loro buon anno, quindi dovevamo provvedere a una quantità di doni piuttosto consistente. Risolto anche questo, ci stavamo preparando per riunirci con i parenti per salutare l’anno nuovo, quando giunse la notizia che l’epidemia si era aggravata al punto che ci si poteva contagiare da persona a persona.

A questo punto, credo di dovervi fare un invito: se siete già sul posto di lavoro, state al sicuro e curate bene la salute; se uscite portate la mascherina, evitate il più possibile i luoghi affollati, se possibile indossate guanti monouso, disinfettatevi e lavatevi bene le mani, quando rientrate cambiatevi i vestiti. Le grandi città sono affollate e l’aria è cattiva; noi, domestiche senza alcuna assicurazione sanitaria, dobbiamo assolutamente prenderci cura di noi stesse! Se siete a casa in attesa di riprendere l’impiego, non abbiate fretta di tornare a lavorare, prima di partire accordatevi bene con il “padrone”, soprattutto accertatevi se avrete a disposizione un posto sicuro dove passare la quarantena, se vi saranno garantiti tre pasti al giorno e se durante il periodo di quarantena vi sarà corrisposto lo stipendio. Se è tutto a posto, potete richiedere il certificato di uscita dal luogo dove vi trovate e, prese tutte le varie misure precauzionali (mascherine protettive, disinfettante, sapone, guanti monouso, ecc.), potete tornare al luogo di lavoro.

Se invece non avete sistemato tutto questo, allora non abbiate fretta, restare a casa, rilassatevi, mangiate, bevete, ascoltate un po’ di musica, ballate, leggete qualche buon libro, imparate a scrivere ciò che vedete e sentite. Potete anche fare una maratona di serie tv con gli altri parenti. Insomma, consideratela un’occasione per rinfrancarvi.

Tutti quei medici e infermieri in prima linea, notte e giorno, a soccorrere i malati, per la maggior parte non hanno fatto nemmeno le ferie, sono stati trasferiti nei luoghi con il più alto numero di contagi e lavorano quotidianamente in ambienti ad alto rischio di trasmissione del virus. Alcuni sono stati contagiati e hanno persino perso la vita senza nemmeno rivedere i propri cari. Sono convinta che, come me, anche voi sorelle sarete estremamente addolorate da queste notizie.

A proposito della vita, a dire il vero in questo periodo ho fatto alcuni pensieri estremi. Non vi nascondo che a volte vorrei persino gridare: non mi fa paura essere contagiata, ma i maltrattamenti da parte di mio marito.

Parlo sul serio: il conservatorismo della mia famiglia mi soffoca e sono state le limitazioni arrivate con questa epidemia a farmi vedere con ancora più lucidità i traumi causati dalla mia famiglia: ne ho avuto abbastanza di questa vita!

Lui passa le giornate a far niente (e io non oso certo chiedergli di fare nulla), ogni volta che sbrigo una faccenda eccolo a fare qualche commentino, ogni cosa per lui è fatta male, e non solo non mi lascia spiegare, ma mi insulta anche in ogni modo possibile. Non gli va bene nulla, nemmeno il cibo è conforme ai suoi gusti. Io non lo considero, e lui che fa? Mi accusa di disprezzarlo, lui che è “il capo di questa famiglia”, mi dice che sono una donna che vuole ribellarsi, “rovesciare il cielo”. Se non ha scuse a cui aggrapparsi comincia a insultarmi, dice: “È da un bel po’ che sei in città, eh? Non è che hai un ‘amichetto’?” Quando litighiamo, vomita oscenità persino sulla mia famiglia. Non fa che sbraitare sul “… (questo è l’insulto più maligno, il senso è figlio illegittimo)” dei miei “clienti di città”. Ditemi, sarebbe mai possibile mantenere la calma in queste condizioni?

Ma ciò che mi ferisce di più è la mentalità dei miei cari. Ero appena tornata a casa, con la mente ancora intontita dagli scossoni del treno, il corpo non ancora svestito della spossatezza del viaggio, che mi hanno messo davanti a una pila di cose lì ad aspettarmi: “Finalmente sei tornata, presto, fa’ questo, fa’ quell’altro…”, “Questa è roba da donne…”.

E se fai fatica a riabituarti ad un ambiente che non vedi da più di un anno, eccoli a dire: “Ti sei rovinata, non riconosci più nemmeno casa tua”. Se ti senti offesa e vuoi rispondere, chi ti circonda subito ribatte: “È un anno che non rincasi, porta pazienza!”, “Sei sempre fuori, almeno quando sei qui comportati bene”, “Gli uomini si arrabbiano facilmente, le donne devono sopportare! Non è sempre stato così? Chi ti obbliga a non tornare più spesso a fargli compagnia?”.

Sentire questi discorsi mi fa male. Dirò la verità: sono un’ultracinquantenne anch’io, sento già che fisico e mente sono in fase calante, quando torno a casa vorrei tanto ricevere affetto e attenzioni, invece è sempre il contrario.

Qui al villaggio non si sentono che i suoni di Kuaishou [app di video sharing cinese, NdT] e TikTok, o di gente radunata a giocare a carte, bere e chiacchierare, e non si vede nessuno che porti la mascherina. A casa vorrei leggere e scrivere qualcosa, ma le donne che vengono a trovarmi per fare due chiacchiere dicono che sono diventata ormai una donna di città e ho la puzza sotto il naso. Mi prendono in giro dicendo che voglio fare la scrittrice. Ai loro occhi sono chiaramente una pecora nera. Mia suocera ha pure detto: “Di che dovrebbe occuparsi una donna se non del cucito? Cosa leggi a fare?”, “Alla tua età ancora a leggere e scrivere roba, ma che ci fai? Mettiti a fare qualcosa di serio!”

Sono fuori di me! Sì, è vero, sono una lavoratrice domestica, lavoro lontano, mi occupo degli altri, mi faccio comandare, talvolta mi capitano anche cose che per altri sarebbero inimmaginabili. Da mattina a sera sacrifico tutte le mie energie e tutto il mio tempo sul posto di lavoro, con attenzione e impegno, per poter dare alla mia famiglia una vita migliore. E però quando torno a casa non solo devo sopportare le illazioni dei parenti, ma anche qui devo pure occuparmi degli altri.

Ancora più importante: non si può fare altro, non si può pensare ad altro. La loro logica è che se ti occupi degli altri, è quello il compito che ti spetta. Desiderare di impegnarmi in qualcosa di diverso fa di me una che non sa stare al suo posto, non come le persone normali. Nemmeno la mia indipendenza economica è riuscita a cambiare questa situazione. Ogni anno mando puntualmente i soldi a casa, non tengo per me nemmeno un centesimo, e devo comunque sentirmi dire che non faccio “ciò che è consono”!

Tutte queste ingiurie e occhiatacce quotidiane mi fanno sentire come se dalla vita fosse scomparsa ogni gioia, come se fossi già arrivata al capolinea. La differenza è che gli anni scorsi me ne partivo prima per tornare a guadagnarmi da vivere, figurarsi se me ne stavo qui a subire tutti i giorni le cattiverie gratuite da recluso frustrato di mio marito. Non è la prima volta che faccio questo pensiero: noi, che viviamo in città, pur dovendo subire angherie e sottostare agli ordini, comunque abbiamo un guadagno! Dopo tutti questi anni, sul lavoro siamo come pesci nell’acqua, ci siamo abituate ai rapidi ritmi della vita di metropoli, ma adesso fatichiamo a reintegrarci nella vita di famiglia che ci manca così nel profondo.

Eppure al pensiero di tornare in città ho ricominciato a provare sensazioni contrastanti, a farmi prendere dall’ansia: quella vita così opprimente, fatta di giornate piene di preoccupazioni, per non parlare delle prospettive lavorative ben poco rosee dopo l’epidemia, mi hanno fatta sentire senza riparo. Chissà come faremo ad affrontare quel che ci aspetta?

Stare tappati casa, con l’epidemia in corso, manda in subbuglio l’umore. Vi ho riversato addosso così tante parole uscite direttamente dal cuore, posso solo immaginare tutti pesi di cui anche voi vorreste liberarvi. Non vi vedo da tantissimo tempo, come mi mancano le ore passate insieme a voi. Mi rendono così felice! Spero di potervi rivedere presto!

Per concludere, stare alla larga dal virus! Vi auguro buona salute e allegria, e tante belle cose.

Un abbraccio!

La vostra Meng Yu, che vi vuole tanto bene.

13 febbraio

 

]]>
Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/ Thu, 09 Apr 2020 18:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59320 di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue. In tutti i sensi. In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e [...]]]> di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.


  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020  

  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo  

  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)  

  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020  

  6. M. Franchi, cit.  

  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020  

  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020  

  9. K.Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica  

]]>
E’ successo un sessantotto! https://www.carmillaonline.com/2018/03/22/successo-un-sessantotto/ Thu, 22 Mar 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44351 di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate [...]]]> di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.

Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.

Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:

“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1

L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.

Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.

Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.

L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.

Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.

Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece

“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3

Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:

“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4

La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:

“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5

Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.

Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6

E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):

“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7

Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.

L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:

“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8

Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…


  1. Viale, il 68, pag. 7  

  2. Si veda repubblica.it del 16 marzo 2018  

  3. Viale, op.cit. pag. 8  

  4. Viale pag. 9  

  5. Viale, pag. 9  

  6. Viale, pag. 198  

  7. Viale, pp. 202 – 205  

  8. pag. 10  

]]>