saggistica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’essere umano che verrà (insieme all’intelligenza artificiale) https://www.carmillaonline.com/2023/06/12/lessere-umano-che-verra-insieme-allintelligenza-artificiale/ Mon, 12 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77094 di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dell’IA in ambiti che vanno dalla medicina all’istruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città all’aprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dall’alienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto [...]]]> di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dellIA in ambiti che vanno dalla medicina allistruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città allaprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dallalienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto essere umano-macchina comporta a partire dalla comparsa di sofisticati ed invasivi sistemi di controllo e di indirizzo comportamentale e dalla proliferazione di armamenti sempre più autonomi fino al timore per la perdita del controllo su queste tecnologie rese capaci di emanciparsi dallessere umano.

Un ricercatore e sviluppatore dellIA ed uno scrittore di fantascienza hanno deciso di affrontare gli entusiasmi e le preoccupazioni con cui si guarda allo sviluppo e alla diffusione dell’intelligenza artificiale nella realtà quotidiana attraverso una forma letteraria ibrida ricorrendo a brevi racconti di “fiction scientifica” – sviluppati su presupposti tecnologici plausibili a scadenza di qualche decennio – seguiti da considerazioni circa le implicazioni che gli sviluppi e le applicazioni prospettati in forma creativa potrebbero avere sullumanità in un futuro lontano giusto un paio di decenni da oggi. Così è nato il volume di Kai-Fu Lee, Chen Quifan, AI 2041. Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale, trad. it. di Andrea Signorelli (Luiss University Press, 2023).

Kai-Fu Lee è una figura importante nellambito della ricerca, dello sviluppo e degli investimenti sull’intelligenza artificiale sia negli Stati Uniti che in Cina, ex presidente di Google China e dirigente di Microsoft, SGI, Apple e co-presidente del Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum. Chen Qiufan è invece tra i più noti e premiati scrittori cinesi di science fiction che da qualche tempo sperimenta l’uso dellIA direttamente nella composizione delle sue opere, conosciuto in Italia per l’antologia di racconti L’eterno addio (Future Fiction, 2016) e per il romanzo Marea tossica (Mondadori, 2020).

Scrive Kai-Fu Lee nellintroduzione al volume che la maggior parte delle speculazioni sullIA derivano principalmente da tre fonti: fantascienza, informazione e personalità influenti. La prima fonte tende, da tempo, a prospettare scenari distopici in cui le macchine prendono il sopravvento sugli umani. A livello mediatico a “far notizia” sono soprattutto gli errori, i guasti e gli incidenti causati da dispositivi che fanno ricorso all’intelligenza artificiale (come nel caso di auto senza pilota che travolgono pedoni) e l’uso che ne viene fatto da corporation e politici intenzionati a influenzare i comportamenti degli esseri umani attraverso attività di disinformazione, diffusione di deepfake, ecc. Circa le personalità influenti, nota Lee, spesso le loro osservazioni mancano di rigore scientifico e difficilmente si tratta di esperti di tecnologia dellintelligenza artificiale, dunque si tratta in molti casi di pareri formulati senza unadeguata conoscenza delle questioni trattate.

Da tali fonti deriverebbe dunque una visione dellIA allinsegna della cautela quando non di aperta ostilità che andrebbe, secondo Lee, controbilanciata dalla messa in luce dei lati positivi. Visto il ruolo rivestito allinterno dei colossi che investono in IA e la carica direttiva nel Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum, non sfugge come Lee non si soffermi sulle strategie di fascinazione per l’intelligenza artificiale dispiegate dai colossi tecnologici che ben conosce. Insomma, nel ritenere necessario bilanciare le perplessità e le cautele diffuse allinterno di una generica (forse troppo) opinione pubblica nei confronti dellintelligenza artificiale, appellandosi alla necesità di prendere in considerazione «il quadro generale e tutto il potenziale di questa tecnologia di cruciale importanza», Lee non insiste sul benevolo supporto dato allIA da parte di quelle corporation tecnologiche che sono anche potenti macchine-influencer.

Kai-Fu Lee sottolinea come si debba guardare ad AI 2041 non come a unopera di fantascienza, ma piuttosto di “fiction scientifica”. Chen Qiufan spiega infatti come nei suoi racconti, nel prospettare creativamente un futuro distante soltanto un paio di decenni dallattualità, si sia strettamente attenuto a quanto logica e scienza permettono realisticamente di prevedere in termini di sviluppi dellIA.

Al fine di tratteggiare le psicologie e le emotività dei personaggi collocati in tali scenari futuri sono state prese in considerazione le reazioni umane a eventi della storia passata altrettanto capaci di cambiare il mondo. Così sono stati creati dieci racconti ambientati in un futuro distante un paio di decenni dai nostri giorni che, come si trattasse di altrettanti “portali spazio-temporali”, collocano chi legge in situazioni e ambienti caratterizzati dallo sviluppo possibile di applicazioni tecnologiche di intelligenza artificiale nei più diversi settori, o mettono di fronte a questioni sociali e politiche poste dall’IA, come la perdita di lavori tradizionali, l’incremento delle diseguaglianze, i pericoli degli armamenti autonomi, il rapporto privacy/felicità ecc.

Il primo racconto, intitolato L’elefante doro, ambientato a Mumbai, ove una famiglia ha sottoscritto un programma assicurativo basato sul deep learning, palesa i rischi derivati dallaccumulo di dati da parte di unazienda e come dal ricorso allIA insieme a specifici benefici possano derivare anche indesiderati impedimenti. Gli dèi dietro le maschere segue le vicende di un videomaker nigeriano assoldato per creare un deepfake non riconoscibile in quanto tale inducendo a riflettere sugli sviluppi della computer-vision, dunque sullaccumulo ed elaborazione dei dati biometrici. Ne I passeri gemelli viene immaginato il possibile sviluppo delleducazione dellintelligenza artificiale prospettando il rapporto tra due insegnanti IA e due gemelli orfani coreani.

Amor contactless presuppone un prolungarsi della recente pandemia immaginando la presenza pervasiva di tecnologie basate sull’IA e come queste possano incidere nel bene e nel male sulle sorti dellumanità. Allinestricabilità tra reale e virtuale indotta dalluniverso ludico rimanda L’idolo che mi perseguita, mentre Il pilota santo prospetta uno Sri Lanka alla prese col passaggio da una mobilità a conduzione umana ad una a guida autonoma. Genocidio quantistico mette in scena le gesta di un scienziato informatico europeo che, per vendetta, ricorre agli sviluppi tecnologici per fini malvagi.

Il racconto Il salvatore dei posti di lavoro prospetta l’avvento di agenzie per la riqualificazione e ricollocazione di quanti hanno perso il posto di lavoro in quanto sostituiti dallIA, mentre L’isola della felicità invita a domandarsi quale ruolo potrebbe giocare l’intelligenza artificiale nella ricerca della felicità e come questa possa essere definita e quantificata. L’ultimo racconto, Sognare l’abbondanza è ambientato in unAustralia divenuta una “terra dellabbondanza” grazie allIA in cui sono state introdotte due diverse valute: una tessera per aver accesso ai beni essenziali e una valuta virtuale in cui si accumula reputazione in base ai servigi prestati alla comunità.

Con AI 2041 Kai-Fu Lee e Chen Quifan invitano a guardare al futuro non come a qualcosa di già determinato e si dicono ragionevolmente certi che gli esseri umani, indipendentemente dalle tecnologie a venire, continueranno a preservare il controllo sul loro destino. Visto però che storicamente tale opportunità di controllo lungi dallessere la medesima per tutti gli umani, vale la pena domandarsi quanto il diffondersi dellIA in un contesto retto dalle regole del profitto e dalla sostanziale diseguaglianza come l’attuale, diminuisca o incrementi la possibilità di reale autodeterminazione di tutti e tutte auspicata dagli autori.

 

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Ideologie del corpo. Sesso, Genere e Potere (1/2) https://www.carmillaonline.com/2016/02/03/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere/ Tue, 02 Feb 2016 23:00:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28421 di Raùl Zecca Castel

1558_ 0161 – Mito

È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, [...]]]> di Raùl Zecca Castel

1558_ 0161 – Mito

È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, dove il celebre commediografo greco narra di primordiali tipi umani dotati di quattro braccia, quattro gambe, due volti, due organi sessuali, e così via lungo la descrizione di un essere morfologicamente bisessuale, successivamente diviso in due metà complementari a colpi di saetta da Zeus, preoccupato da quella che considerava una potenziale minaccia alla superiorità sua e degli dèi tutti.

Altrettanto diffusa nel mito, inoltre, sembra essere quella che Gabriella D’Agostino ha definito “una situazione di diseguaglianza a favore del femminile ribaltatasi successivamente a causa di un comportamento scorretto o incapace da parte delle donne”[1]. Si ha qui l’irrompere sulla scena mitografica del tema della colpa [2] – e del conseguente castigo – quale espediente ideologico per legittimare la Storia: allo stesso tempo giustificazione ancestrale di una gerarchia sociale fondata sulla subordinazione del femminile al maschile e sorta di esorcismo nei confronti della paura che accompagna il pensiero di un originario assetto ginecocratico della società.

Relativamente a quest’ultimo aspetto, un altro mito classico, poi declinato in diversi ambiti geografici e storici, accorre in nostro aiuto. Si tratta del mito delle Amazzoni, donne guerriere che sia Omero che Erodoto collocano ai margini delle terre civilizzate, oltre i confini del mondo greco, “figure – afferma D. Bigalli – che abitano le zone liminari, si insediano nei confini, denunciano la ambiguità della frontiera, insieme baluardo, gesto di esclusione, e il luogo dell’attraversamento, del passaggio”[3]; attraversamento e passaggio che non si realizzano esclusivamente lungo i confini di mondi territoriali diversi e contrapposti, ma che interessano soprattutto i confini rassicuranti delle identità di genere. Ecco che l’amazzone esita su questa soglia pericolosa a metà strada tra il maschile ed il femminile: priva di un seno (a-mazós), ella si dedica al virile mestiere bellico, stretta in un’armatura da guerra che ne cela, annullandola, l’identificazione sessuale. L’amazzone rappresenta il simbolo di una sfida che costantemente rievoca e rinnova “la consapevolezza della presenza di un arcaico femminile, terribile soprattutto perché si esprime nell’assunzione, da parte delle donne, di una funzione squisitamente maschile, quella guerriera; questa presenza, che muove dagli abissi del tempo, è venuta delineando il quadro dell’Ecumene classica, nella quale l’espansione ellenica assume insieme i contorni di un processo di civilizzazione e di un processo di sostituzione del regime maschile, patriarcale, a quello matriarcale, dove l’amazzonismo, giusta la interpretazione bachofeniana, si vuole la forma estrema della ginecocrazia”[4].

Allo stesso modo, la trasposizione del mito amazzonico in terra d’America associa la figura autorevole e minacciosa della donna combattente ad un luogo ostile e in-definito come quello della foresta pluviale – foresta amazzonica, per l’appunto -, densa di pericoli e misteri insondabili che assumono da un lato le sembianze orrorifiche di una fauna mostruosa dedita a pratiche antropofaghe, ma che dall’altro alimentano la leggenda di El Dorado, l’ambita città d’oro e diamanti. Ancora una volta, dunque, la figura sfuggente e ambigua della donna-uomo che sovverte le presunte identità di ruolo stimola l’immaginario umano – maschile – evocando allo stesso tempo le paure e i desideri più reconditi. Per quanto la maggior parte delle volte il femminile venga associato esclusivamente al polo negativo di ogni formulazione dicotomica, tale ambivalenza trova ad ogni modo una sua spiegazione nel fatto significativo per cui “nell’immaginario classico la figura del popolo amazzonico si venisse a inserire in una costellazione di coppie oppositive, a partire da quella fondamentale maschile/femminile, per coniugarsi ad altre, quali giorno/notte, barbarie/civiltà, stabilità dell’insediamento umano/nomadismo”[5]. A tal proposito risulterà proficuo il riferimento al saggio del 1974 di Sharry Ortner dall’eloquente titolo Is Female to Male as Nature is to Culture?[6]. In questo scritto, difatti, l’autrice osserva come sia comune a tutte le culture l’idea per cui la donna è ritenuta più vicina alla natura di quanto lo sia l’uomo. Ciò a causa delle funzioni riproduttive proprie della fisiologia femminile che avrebbero imposto alla donna ruoli sociali di ambito esclusivamente domestico, lasciando agli uomini la possibilità di occuparsi della politica, qui intesa nella sua accezione più ampia di res publica. Ecco allora che la varietà delle coppie oppositive più sopra menzionate può ricondursi alla dicotomia fondamentale tra natura e cultura. Sempre lungo tale prospettiva si colloca dunque anche il discorso di M. Rosaldo[7] che si esprime nella divisione tra privato e pubblico, dove il primo definirebbe evidentemente il raggio d’azione delle donne ed il secondo quello degli uomini. È a partire dalla constatazione di tale universale associazione della donna alla natura e dell’uomo alla cultura, infine, che secondo entrambe le autrici avrebbe origine la gerarchizzazione dei sessi.

Un altro aspetto significativo per il discorso che si viene qui delineando rispetto all’amazzone, ma più in generale rispetto all’immagine simbolica di un corpo monosessuato, androgino o sessualmente ambiguo, riguarda il tema del travestimento. Per un verso, la pratica di abbigliarsi secondo i canoni di riferimento del sesso opposto, in particolar modo per le donne, ha storicamente assunto un valore che si potrebbe definire di tipo politico in quanto costituiva ed organizzava un’occasione eversiva nei confronti del nomos. Le donne andavano così ad occupare “uno spazio altro, quello della liberazione e della fuga. La foresta, il mare, il deserto, il monastero, la città, la corte, i luoghi della separazione conclamata o del contratto, della solitudine o del consorzio civile, assecondano questo processo di metamorfosi mutando anch’essi insieme all’identità in movimento delle foemine masculiate”[8]. Si rende di nuovo evidente, così, il forte nesso che unisce l’ambiguità sessuale, ora espressa attraverso il sovvertimento delle regole d’abbigliamento relative all’identità di genere, all’immagine del transito, del passaggio, anche geografico. Introducendo una distinzione tra il fenomeno del travestitismo temporaneo e quello permanente, G. D’Agostino ha rilevato come nel primo, caratteristico di particolari situazioni rituali, si attui una “sospensione circoscritta al tempo del rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale su cui una comunità fonda il proprio equilibrio, che finisce con il ribadire l’identità tra fatto biologico e fatto sociale”[9]. Così, l’assumere provvisoriamente le sembianze del sesso opposto indossandone gli abiti ed accettandone il significato, costituirebbe in questo caso un espediente sociale teso a confermare e rafforzare la propria vera identità sessuale, oltre che a ribadire l’ordine complessivo dell’esistente.  Di contro, nel travestitismo permanente, tale dimensione sospensoria dell’ordine biologico e cosmico si traduce in una condizione definitiva che trova il suo scopo nell’affermazione di una nuova identità personale e che, parallelamente, attua una sovversione dell’ordine politico prestabilito.

Per altro verso, il travestitismo rimanda a quella concezione mitico-religiosa del corpo ermafrodito tipica delle speculazioni cosmogoniche cui si faceva più sopra riferimento e che evoca la dimensione del divino quale perfezione assoluta, intesa etimologicamente nei termini di ciò-che-è-compiuto, completato, o meglio, che ha raggiunto il suo scopo: in questo caso la presunta unione primordiale del maschile e del femminile, quell’unione così idealmente pericolosa agli occhi di Zeus. Rispetto alle diverse forme di travestimento rituale, dunque temporaneo, lo storico delle religioni Mircea Eliade ha scritto che la loro funzione consiste infatti nel “ripristinare una situazione originaria, trans-umana e trans-storica perché anteriore alla costituzione della società umana […] onde restaurare, anche per un solo istante, la totalità iniziale, la sorgente intatta della sacralità e della potenza”[10]. Non a caso, simbolo per eccellenza del travestimento, è la maschera. Questa, lungi dal ridursi semplicemente all’accezione negativa del termine quale sinonimo di nascondere ed occultare, esprime invece, come ha avuto modo di osservare Károly Kerényi, il segno arcaico della soglia tra natura e cultura: evocando il pre-umano evoca il divino[11].

All’interno del quadro concettuale del travestitismo e più in generale dell’ambiguità androgina quale indizio della perduta unità divina può essere significativo anticipare ora come nella tradizione indigena nordamericana la figura del travestito omosessuale (berdache) goda di uno status sociale particolarmente beneficiato in quanto la sua condizione ambivalente – maschile e femminile – è ritenuta espressione di un’umanità superiore, più vicina all’essenza degli dèi[12].

Ciò che preme qui mostrare, infine, è che l’idea di una sessualità umana ambigua, difficilmente riconducibile al paradigma binario del maschile e del femminile, ha attraversato i tempi e le culture, incarnandosi non solo nei più diversi miti d’origine e nelle varie leggende storiografiche, ma anche nel pensiero scientifico, specialmente in campo medico, e, ben più concretamente, in alcuni resoconti etnografici divenuti ormai celebri per aver dato luogo ad accesi dibattiti tra e biologi ed antropologi.

1.1 – Scienza

Hermaphroditos_anasyromenos_statuetteIn un noto saggio di Thomas Laqueur dato alle stampe nel 1990 e intitolato Making Sex: Body and Gender from Greeks to Freud[13], il sessuologo americano ha inteso ripercorre la storia relativa al mutamento della rappresentazione del corpo e della sessualità in Occidente a partire dalla Grecia antica sino al diciottesimo secolo, quando, a tal proposito, si sarebbe verificato un radicale cambiamento di paradigma: se fino a questo momento vigeva difatti una concezione del corpo che Laqueur ha definito come one-sex model, vale a dire come di un corpo anatomicamente monosessuato, che trovava le sue radici teoriche da un lato nella filosofia aristotelica e dall’altro nella medicina galenica, ora si imponeva invece la nuova visione di un corpo bisessuale – two-sex model -, che si appropriava della teoria dimorfistica come di un’arma ideologico-clinica contro le deviazioni della presunta natura umana. Si veda qui l’indagine circa la figura dell’ermafrodita condotta da Foucault rispetto proprio all’avvento di una scienza del corpo quale dispositivo politico-giuridico: “gli ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione”[14]. Come dimostrano le strane confessioni di Herculine Barbin, le conseguenze di tale prospettiva sono inevitabilmente traumatiche e talvolta anche drammatiche, tanto da trovare, in questo caso, i loro ultimi effetti in un tragico suicidio. Sempre Foucault ha notato come solo una lettura mitica del proprio destino abbia in qualche modo consolato la tormentata adolescenza di Herculine per oscillare continuamente “tra uno stato di immedicabile scoramento e l’orgogliosa affermazione della preminenza connessa a una duplice e perciò più ricca e privilegiata natura. […] diversità che è al tempo stesso destino e elezione […], oscura reminiscenza della sferica perfezione dell’essere primordiale che, riunendo in sé i caratteri e le facoltà dell’uomo e della donna, aveva nel cosmo una posizione di semindivina autorità e potenza”[15].

Nel merito del discorso circa il valore ideologico che sottende qualsivoglia espressione concettuale (sapere-potere), è significativo notare come già con Galeno (129 – 216), nonostante l’idea di un corpo sostanzialmente monosessuato, fosse comunque in atto una forte discriminazione gerarchica tra il maschile ed il femminile. Si fa riferimento qui alla tesi per cui la donna fosse un uomo mancato, vale a dire un corpo imperfetto. Sulla scorta della teoria tetraumorale formulata da Ippocrate, Galeno postulò che fosse una minore presenza di calore vitale la causa della non fuoriuscita del pene nelle donne. Questo perché l’anatomia umana era intesa in termini di unicità sessuale, dunque la differenza tra il corpo femminile e quello maschile consisteva unicamente nel fatto che il primo era il rovescio, l’inversione, del secondo. Di qui la logica possibilità per le donne che per via di qualche movimento eccessivamente energico o calorico si verificasse l’insorgenza dei genitali maschili. Possibilità avvalorata peraltro da due testimoni d’eccellenza come il chirurgo Ambroise Paré e il filosofo Michel de Montaigne, i quali riportano – quest’ultimo nel suo Journal de voyage – il caso di tale Marie improvvisamente divenuta Manuel. Ancora in epoca tardo-rinascimentale, dunque, vigeva una rappresentazione sessuale del corpo di tipo unitaria, ma soprattutto, come dimostra l’esempio appena accennato, si riteneva che il genere potesse agire un forte influsso sul sesso, tanto che agli uomini e alle donne era richiesto di prestare molta attenzione alle proprie attitudini e al proprio stile di vita, al fine che si conformassero il più possibile con quelli che erano ritenuti i rispettivi codici di comportamento ideale previsti dalla società del tempo. A ragione Massimo Rizzardini scrive che “di fronte al rischio di un’identità in perenne movimento, almeno fino al 1600 era fondamentale esercitare un controllo sul genere a garanzia del mantenimento di un ordine sociale prestabilito. La politica dei ruoli investiva di conseguenza la sfera della sessualità”[16].

È perciò ancora una volta evidente come non solo il mito, ma anche il pensiero filosofico-scientifico, facciano parte di un più vasto sistema ideologico funzionale alla Storia, teso a legittimarne, più o meno implicitamente, l’ordine arbitrariamente gerarchico e discriminatorio che, fino ad oggi, ne ha scandito il ritmo e il destino.

1.2 – Etnografia

Che la rappresentazione del corpo e della sessualità risulti variabile e mutevole a seconda dei diversi contesti culturali è un concetto antropologico ormai acquisito, anche se comunemente ancora troppo spesso trascurato, almeno per quanto riguarda le implicazioni filosofiche che ne procura l’emergenza e che inviterebbero a riflessioni molto più profonde e problematiche sia rispetto al tema generale dell’adeguatezza e della validità dei vari metodi relativi all’indagine gnoseologica, dunque riguardo alla questione circa la condizione di possibilità della stessa, che rispetto alla tema particolare, nonché qui di nostro interesse, dell’assenza di un universale umano, di una natura umana data. Come hanno documentato i casi etnografici che ci apprestiamo a menzionare, il significato che il corpo e la sessualità rivestono, o hanno rivestito, al di fuori della cultura occidentale sono estremamente rivelativi a proposito della riflessione qui in corso.

È così che tra gli Inuit dell’Artico vige la credenza per cui ogni nuovo nato è la reincarnazione dell’anima di un progenitore. Spetta allo sciamano il compito di annunciarne pubblicamente l’identità affinché l’individuo sia allevato in conformità a tale rivelazione. Non è cosa insolita dunque che un bambino anatomicamente maschio venga vestito con abiti femminili ed educato a comportarsi secondo i principi ed i valori che sono ritenuti propri delle donne. Viceversa per una bambina la cui anima si crede appartenga ad un antenato maschio. È dunque evidente come in tale sistema culturale non sia la biologia a determinare l’identità di genere dell’individuo quanto piuttosto una concezione della metempsicosi significativamente profonda ed incisiva. Il fatto che una volta raggiunta l’età puberale gli individui debbano provvedere ad assecondare il loro sesso biologico riadattando il proprio ruolo di genere alla ritrovata identità anatomica, non toglie che la questione del rapporto sesso-genere, così come vissuta tra gli Inuit, stimoli una più ampia riflessione sui temi della natura e della cultura. A maggior ragione se si tiene conto, come dimostrato dalle ricerche condotte da Bernard Saladin d’Anglure presso le popolazioni Inuit, che taluni individui, detti sipinik, non accetteranno di riadeguare il proprio stile di vita al sesso biologico che è loro peculiare e continueranno così la loro esistenza nei panni del progenitore reincarnato.

inuit child 1927A parte il caso dei sipinik, tuttavia, l’omosessualità non è pratica comune tra gli Inuit. Al contrario: “il sesso biologico è associato alla riproduzione e al matrimonio, e pertanto all’eterosessualità”[17]. Non è così invece per molte popolazioni indigene che abitano le diverse isole della Melanesia. Qui, infatti, è diffusa la credenza che la responsabilità del sesso, del genere e del carattere degli individui sia da ascrivere a una serie di sostanze corporee quali soprattutto il sangue e lo sperma. Così, tra i Bimin-Kuskusmin della Nuova Guinea, “lo sperma maschile, i fluidi fertili femminili e il sangue mestruale formano gli elementi basilari con cui si costruisce l’essenziale natura psicobiologica della persona. Il genere è una parte invariabile di questa costruzione. La natura dei maschi e delle femmine si differenzia non soltanto in relazione alle caratteristiche morfologiche, ma anche in relazione alle capacità di ricevere, trasformare e trasmettere le sostanze stesse che li formano, così come di raggiungere equilibri distinti tra queste sostanze”[18]. Lo sperma in particolare è ritenuto veicolo privilegiato al fine di trasmettere la virilità alle generazioni più giovani da parte di quelle più anziane. Il ricorso alla fellatio omosessuale e la successiva inseminazione orale, dunque, è una consuetudine tesa a sancire la formazione della mascolinità. Per tale motivo, l’età più propizia è considerata quella che va dalla tarda infanzia sino alla pubertà. Tra i Sambia, popolazione papuense studiata da G. Herdt, la pratica dell’inseminazione orale ha inizio intorno ai sette anni e si protrae fino ai quattordici-quindici, età che segna il passaggio alla vita adulta. Da questo momento, i maggiori di quindici anni, ormai uomini, potranno a loro volta dedicarsi ad iniziare alla mascolinità i più giovani; almeno finché non prenderanno moglie ed avranno dei figli. Dopodiché le relazioni omosessuali saranno loro interdette. Alla stregua dei sipinik inuit, tuttavia, alcuni individui continueranno a prediligere i giovani maschi alle donne[19].

Per concludere, innumerevoli comunità indigene del Nord America hanno contato – e in alcuni casi continuano a contare ancora oggi – sulla presenza di una figura dall’ambigua identità di genere che è stata sommariamente definita con il termine di berdache, dal francese bardache (omosessuale passivo). Nota anche come due-spiriti o uomini-donna, si tratta, nella maggior parte dei casi[20], di individui che dal punto di vista anatomico dovrebbero appartenere alla categoria maschile, ma che, assecondando una diversa inclinazione psicologica, indossano abiti femminili e, con sufficiente approssimazione, svolgono mansioni che ad essi si confanno. Con sufficiente approssimazione, si diceva, poiché molto spesso, in realtà, la figura del berdache è interpretata quale espressione di uno status privilegiato: se per un verso non è né uomo né donna, per un altro è qualcosa di più sia dell’uno che dell’altra. Viene a configurarsi così per il berdache la peculiarità di riunire in sé qualità e virtù che gli consentono di accedere a ruoli straordinari e di grande prestigio[21] preclusi al resto degli individui della comunità.

I tre casi qui passati in rassegna, per quanto rappresentino validi esempi etnografici circa il carattere di costruzione socio-culturale dell’identità di genere, screditando così l’assunto principe del determinismo biologico per il quale il genere non sarebbe altro che una diretta conseguenza del sesso anatomico, lasciano tuttavia integra la teoria del dimorfismo sessuale. Resiste ancora, in qualche modo, l’idea che effettivamente viga una natura binaria del sesso anatomico. Paradossalmente, le specificità culturali appena sopra menzionate, ne costituirebbero in ultima analisi un’ulteriore prova, confermandone la verità. La nozione di “terzo sesso”, utilizzata di frequente per riferirsi ai trasgressori di genere[22], ed impiegata anche in riferimento al caso degli Inuit così come a quello del berdache indigeno nordamericano, non risulta perciò del tutto corretta. Ciò proprio per il fatto che il discorso è relativo al genere e non al presunto dato biologico, il sesso anatomico, che invece non viene messo in discussione. A titolo esemplificativo valgano qui le parole con cui H. Whitehead si è espressa rispetto a tale questione in merito al berdache nordamericano: “Nella maggior parte del continente, non si riteneva che il ‘parte-uomo, parte-donna’ fosse donna nelle ‘parti’ fisiologiche né che fosse costretto a fingerlo. Era sufficiente che facesse ciò che facevano le donne riguardo a occupazione, abbigliamento e contegno. Ciò determinava la componente femminile della sua identità proprio come l’anatomia determinava quella maschile e la mescolanza delle due dimensioni dava origine al suo status speciale”[23].

CONTINUA….(sabato 6 febbraio)

Note

[1] D’AGOSTINO, G., Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, Sesso e genere. L’identità maschile e femminile, Sellerio, Palermo, 2000, p. 13.

[2] Sul tema generale dell’individuazione nei termini di colpa cfr. CARBONE, M. et al., Divenire innocente, Mimesis, Milano, 2006.

[3] BIGALLI, D. et al., Amazzoni, sante, ninfe. Variazioni di storia delle idee dall’antichità al Rinascimento, Cortina, Milano, 2006, p. 4.

[4] Ivi, p. 6

[5] Ivi, p. 7

[6] ORTNER, S., “Is female to male as nature is to culture?”, in ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972, pp. 67-87.

[7] ROSALDO, M. Z., “Woman, Culture and Society: a Theoretical Overview”. In ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972.

[8] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in BIGALLI, D. et al., op. cit., p. 121.

[9] D’AGOSTINO. G, Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 16.

[10] ELIADE, M., Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma, 1989, p. 103.

[11] Cfr. KERÉNYI, K., Miti e maschere, Einaudi, Torino, 1950.

[12] Vedi paragrafo 1.3.

[13] LAQUEUR, T., L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.

[14] FOUCAULT, M., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 38.

[15] FOUCAULT, M., Nota introduttiva, HERCULINE, B., Una strane confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault, Einaudi, Torino, 2007, pp. XI-XII.

[16] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in op. cit., p. 125.

[17] BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000, p. 23.

[18] POOLE, F. J. P., “La trasformazione della donna ‘naturale’. I capi rituali femminili e l’ideologia di genere presso i Bimin-Kuskusmin”, in  ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 251.

[19] Cfr. HERDT, G. & STOLLER. R. J., Intimate communications: erotics and the study of culture, New York, Columbia University Press, 1990.

[20] In realtà non è una questione di statistica, quanto di status: “In gran parte del Nord America, non vi era una controparte femminile riconosciuta del berdache maschio. Eppure non sembra che le donne disposte e capaci di attraversare i confini sessuali siano state di numero limitato”, WHITEHEAD, H., “L’arco e la cinghia del fardello. Uno sguardo sulla omosessualità istituzionalizzata nel Nord America indigeno”, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 187.

[21] “[…] come mediatore matrimoniale, mago in affari d’amore o guaritore di malattie veneree […] capo della sua casa natale, dal momento che la famiglia nutriva l’idea che la sua presenza garantisse loro ricchezza […] Si riferisce anche di funzioni rituali specializzate, come il taglio di un particolare palo di tenda rituale (Crow), o officiare alle danze degli scalpi (Papago e Cheyenne)”, ivi, p.185.

[22] Nell’accezione etimologica di “passare” e “attraversare” il genere cui fa riferimento H. Whitehead, dunque priva di connotazione morale. Cfr. ivi, p. 178.

[23] Ivi, p. 187.

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La vita come bagaglio. Considerazioni migranti https://www.carmillaonline.com/2015/12/09/la-vita-come-bagaglio-considerazioni-migranti/ Tue, 08 Dec 2015 23:00:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27059 di Raùl Zecca Castel**

migranti scusate1. Il migrante

Ogni migrante, in quanto tale, costituisce sempre un doppio di se stesso: egli è allo stesso tempo immigrato ed emigrato. E per quanto la nostra prospettiva etnocentrica, subordinata e funzionale al discorso politico, si impegni a focalizzare l’attenzione sulla prima delle due declinazioni – quella che fa riferimento all’immigrato -, resta il fatto che un migrante è anzitutto, cronologicamente, un emigrato. Di fatto, il migrante non esiste che nel transito del viaggio, lungo la soglia di un tempo che, per quanto labile, ha pur [...]]]> di Raùl Zecca Castel**

migranti scusate1. Il migrante

Ogni migrante, in quanto tale, costituisce sempre un doppio di se stesso: egli è allo stesso tempo immigrato ed emigrato. E per quanto la nostra prospettiva etnocentrica, subordinata e funzionale al discorso politico, si impegni a focalizzare l’attenzione sulla prima delle due declinazioni – quella che fa riferimento all’immigrato -, resta il fatto che un migrante è anzitutto, cronologicamente, un emigrato. Di fatto, il migrante non esiste che nel transito del viaggio, lungo la soglia di un tempo che, per quanto labile, ha pur sempre un inizio e una fine. Tuttavia, poiché – purtroppo – l’uso fa la lingua, si è giunti a utilizzare impropriamente il termine sommario di migrante per riferirsi a una serie di soggetti specifici e distinti quali sono i richiedenti asilo, i rifugiati politici o i profughi in generale. Ma soprattutto, nell’immaginario comune, migrante è sinonimo di clandestino, dunque di pericolo, insidia, minaccia. Perché se è pur vero che l’uso fa la lingua, è altrettanto vero che tale uso non è mai accidentale e imparziale ma, per così dire, efficace, ovvero strumentale. Il medium è il messaggio, ci ha insegnato McLuhan e dunque, a ragione, Abdelmalek Sayad, sociologo di origine algerina, poteva ritenere che il vocabolario utilizzato in riferimento ai migranti, lungi dall’essere appunto neutrale, non fa altro che denunciare in modo più o meno esplicito la nostra eredità coloniale. Integrazione, adattamento, inserimento, inclusione sono solo alcuni dei termini con cui si è soliti definire l’obiettivo che il migrante deve perseguire nella società di accoglienza, per la quale, appunto, “le condotte degli emigrati possono apparire solo come manchevolezze[1]. Ecco nuovamente tornare sulla scena il pregiudizio etnocentrico che si manifesta qui nell’assunzione implicita di un paradigma umano ideale, modello sociale perfetto ed universale – rigorosamente occidentale – cui l’Altro ha l’obbligo di adeguarsi, pena il rischio d’esclusione dalla categoria dell’umano e l’ingresso in quella delle non-persone[2] o, per dirla con il linguaggio colto della Lega Nord, dei bingo bongo[3]. Nessun razzismo, sia chiaro. Ma una vera una questione di specie: “Per me gli islamici (leggi immigrati) rimangono dei luridi maiali, senza offesa per questi ultimi…”[4]. L’invito a restare umani, d’altra parte, oltre che frainteso, è da considerarsi purtroppo un appello troppo elitario. Per buona parte di noi si tratterebbe al massimo di tornare ad esserlo, mentre per molti altri, ancora, di cominciare a diventarlo.

  1. La doppia assenza

“non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie.

Sfido il craniometro. Homo sum eccetera…”

Aime Cesaire

Più che una doppia presenza, però, quella del migrante, qui inteso dunque come emigrato e immigrato allo stesso tempo, è soprattutto una doppia assenza. Questo concetto, elaborato dallo stesso Abdelmalek Sayad, esprime alla perfezione lo scandalo esistenziale del migrante, eternamente condannato a una sorta di fragilità ontologica e apolidia identitaria, sospeso – o meglio escluso – in una dimensione culturale che è anche geograficamente evanescente, utopica, nel vero senso del termine. Egli è infatti senza luogo, fuori luogo, e qualsiasi appartenenza gli è negata. “Esiste solo per difetto nella comunità di origine e per eccesso nella società ricevente, generando periodicamente in entrambe recriminazione e risentimento”[5]. È questione di matematica, numeri, quantità. Il migrante è insieme di meno e di troppo. Ma il corpo è uno. Da un lato c’è il senso di colpa per aver lasciato casa, terra, famiglia, la colpa dell’assenza appunto, di aver portato via se stessi, e dall’altro c’è il senso di colpa per una presenza indesiderata, ingombrante, inopportuna, quasi una vergogna, per essere arrivati qui con un corpo, il proprio corpo – la vita come bagaglio -; una presenza, dunque, che se per un verso ha bisogno di essere riconosciuta, dall’altro cerca in tutti i modi e a tutti i costi di farsi assenza. Il corpo è uno, sì, ma l’anima si squarcia: scusate se non siamo affogati, hanno scritto alcuni migranti su cartelli improvvisati. No, scusateci voi se non siete affogati, dovremmo replicare noi dopo aver messo fine all’operazione Mare Nostrum.

3. Migranti irregolari e profughi

Il pericolo discriminatorio che grava sull’immigrato, sempre in bilico tra la dignità d’esser uomo e la condanna al ghetto più o meno simbolico dell’apartheid sociale, si rende ancora più evidente nel momento in cui nel discorso pubblico si produce la distinzione linguistico-normativa tra il migrante irregolare – o peggio, clandestino – e l’immigrato profugo, richiedente asilo o rifugiato che sia. Lungi dal ridursi a una semplice questione di nomenclatura migratoria, tale distinzione – spesso arbitraria – chiama nuovamente in causa la capacità e la funzione performativa della lingua sulla realtà. Il migrante definito irregolare e il migrante definito richiedente asilo proiettano le rispettive esistenze in due categorie semantiche e interpretative non solo differenti, ma a tutti gli effetti contrapposte. La prima, nell’immaginario collettivo e non solo, rimanda a tutto ciò che si muove nell’ambiguità, che è privo di confini precisi, sfugge a un’identificazione certa e non è dunque riconoscibile. Di conseguenza evoca, come già anticipato, un presunto pericolo per l’ordine socio-culturale costituito, mina la nostra già precaria presenza[6] e genera, per reazione alla paura dell’ignoto, controllo, repressione, negazione. Il migrante irregolare è clandestino, la clandestinità è reato, ergo il migrante irregolare è criminale. La logica del sillogismo non accetta riserve.

La seconda categoria – opposta – rimanda invece all’immagine stereotipata del bisognoso, colui che per definizione ha necessità di essere aiutato, vittima passiva e indifesa di eventi tanto terribili e traumatici da risultare inenarrabili. Ecco il rifugiato. Impossibile non riconoscerlo. È proprio quella cosa lì, ciò che risveglia istintivamente ogni spirito compassionevole e caritatevole. Lui sì, che ha diritto ad essere protetto, lui è vero. Gli immigrati per bene sono miei fratelli, ripete Matteo Salvini. Ma chi sono quelli per bene? Molto semplice: i veri profughi, i veri rifugiati. Molto semplice. Troppo semplice.

Per ri-conoscere occorre aver prima già conosciuto. Ma deserto e mare li si attraversa una volta sola e ogni singolo migrante è una vita carica di esistenze, un bagaglio, appunto, incorporato. Ciò che si riconosce, dunque, è solo un nome, una categoria: il richiedente asilo, prima, e il rifugiato – forse –, poi. Ma allora dove sono Samba e Amadou e Moussa? Dove sono Amina e Keita? A quale categoria appartengono? Come scoprirlo? Chi è il richiedente asilo? Cosa è? Come è fatto e che qualità deve avere?

Potrebbe essere Hassani, il vero profugo, il richiedente asilo che diventerà rifugiato, colui che otterrà l’ambito marchio della protezione internazionale, lo status di persona.

Ma perché non parli allora, Hassani? Perché non racconti l’orrore che hai vissuto? Tu l’hai vissuto, vero? Vogliamo sapere, noi. Racconta, dicci dei morti, del sangue, dei ribelli, delle armi, della violenza, delle torture, delle lacrime e delle grida e dei bambini e delle donne e del cielo in fiamme, forza, racconta. Dicci tutto. E mostraci il tuo corpo. Spogliati, facci vedere le ferite e i segni delle percosse, la tua pelle martoriata, le cicatrici, esibisci l’orrore. Dobbiamo controllare, noi, dobbiamo accertare, verificare, attestare. Noi dobbiamo decidere chi – cosa – sei.

  1. Violenza strutturale, continuum della violenza ed economia della sofferenza

Esiste, evidentemente, una dimensione della violenza nei paesi di origine dei richiedenti asilo e, in generale, dei protagonisti di migrazioni forzate – incluse quelle superficialmente definite come economiche -, che rimanda a complessi processi storici, politici, sociali e persino culturali dei paesi stessi. Ma riguarda anche – se non soprattutto – la natura e la qualità dei rapporti trasversali che questi paesi hanno intrattenuto e/o continuano ad intrattenere con governi, istituzioni e organismi di paesi altri. Si tratta, insomma, di quella particolare dimensione della violenza che il medico antropologo Paul Farmer, riprendendo un concetto coniato da Johann Galtung, ha definito come violenza strutturale, proprio al fine di sottolinearne il carattere estensivo contro una lettura ingenuamente e interessatamente particolaristica, troppo attenta a ridurre ogni sorta di male entro confini ben identificabili, così da evitare il peso di responsabilità tanto ampie quanto imbarazzanti. È da questa violenza che fuggono a migliaia da decine di paesi del mondo ed è alla luce di ciò che la distinzione tra un profugo e un migrante economico perde il suo senso.

Ma esiste inoltre, meno evidente, eppure non per questo meno efficace, un continuum della violenza, per dirla con Nancy Scheper-Hugues, che si esercita quotidianamente e incessantemente anche nei luoghi di approdo delle migrazioni e che si esprime nella forma della biopolitica, attraverso il controllo e il disciplinamento dei corpi. È il volto anonimo e sotterraneo, ma per nulla astratto, della violenza, il suo lato più nascosto eppure più mondano e diffuso, la banalità del male, come ebbe a definirla Hannah Arendt: il potere della burocrazia[7]. Come repliche infinite di K., l’inerme protagonista del Processo di Franz Kafka, i migranti, una volta messo piede nei paesi di accoglienza, vengono risucchiati dal vortice inarrestabile degli innumerevoli dispositivi di sapere che le più diverse istituzioni elaborano ed intrecciano attorno alla loro inedita – scomoda – presenza. Una moltitudine di attori, più o meno consapevole, più o meno animata da buone intenzioni, si mobilita prontamente al fine di attivare nei confronti dei nuovi arrivati – stranieri/estranei all’ordine stabilito – un processo di soggettivazione e, dunque, di assoggettamento che risponde a un utile progetto di governamentalità. Per un richiedente asilo, il percorso di riconoscimento ed inclusione transita obbligatoriamente per una serie di pratiche sociali e burocratiche che ne scandisce le diverse fasi: procedure identificative, screening sanitari, trasferimenti da un centro di accoglienza all’altro, programmi di alfabetizzazione, colloqui con i servizi sociali, orientamento legale, attività educative e così via, lungo un itinerario ben collaudato che per sua stessa natura conduce a una riduzione drastica del livello di agency individuale dei singoli migranti, resi in qualche modo dipendenti e – di nuovo – vittime passive, questa volta nei confronti di un sistema di accoglienza che, sia pure inconsapevolmente, nega, assorbe e depotenzia la capacità di agire degli individui. Di qui il tradursi di tali forme e pratiche quotidiane di violenza in vera e propria sofferenza cronica, lamento inestinguibile di dolore, più o meno somatizzato. Ma anche la sofferenza deve essere qualificata, misurata, dimostrata, verificata. Non siamo razionalmente in grado di ammettere ed accettare il dolore tout court, così come viene riferito, dolore e basta, dolore di vita e di morte, dolore di niente e di tutto. Ancora una volta abbiamo bisogno di sapere, per decidere cosa è bene farne di questa sofferenza, e dobbiamo dunque distinguere il dolore buono, il dolore reale, dal dolore che invece è meglio lasciar perdere, quello che, in fondo, magari, non è proprio così vero. Dobbiamo, insomma, fare economia della sofferenza.

Per ogni richiedente asilo, infatti, prima o poi – sicuramente poi -, arriva il momento tanto atteso dell’audizione presso la Commissione Territoriale di competenza alla quale dovrà affidare il racconto della sua nuda vita, il fatidico perché della sua fuga, la motivazione definitiva della sua assenza e della sua presenza qui. E così dovrà assistere alla vivisezione chirurgica della sua intera esistenza, analizzata e riordinata come prova di un delitto incompiuto, quasi che davvero, in fondo, la vita non si riducesse ad altro che a una sorta di bagaglio pieno di cenci sporchi e stracciati, un bagaglio perso, anonimo, dimenticato tra altre migliaia di vite smarrite, molte naufragate in fondo a un mare senza colpe. E la memoria è già dolore: brandelli di stoffa, brandelli di vita, brandelli di carne cruda gettati in pasto a uditori spesso troppo avidi e frettolosi, intenti a un gioco troppo pericoloso per essere ridotto a un noioso gioco di ruolo, un gioco da tavolo, come incastrare tessere di un puzzle impossibile. Troppi i pezzi che avanzano, troppi i tasselli che non combaciano e che non funzionano. La sofferenza, d’accordo, ma non tutta per favore: raccontaci solo ciò che serve, ciò che è utile, tutto il resto tienilo per te, perché per noi è solo materiale di scarto, grazie. Economia della sofferenza e burocratizzazione del dolore: questo sì, questo no. La schiuma della terra torna sempre.

E ora che ti è tutto chiaro Hassani, comincia a raccontare.

  1. Memoria e oblio

Quanto sangue nella mia memoria! La mia memoria è popolata di lagune. Sono cosparse di teste di morti. Non sono cosparse di ninfee. La mia memoria è popolata di lagune. Sulle rive le donne non hanno steso i panni.

La mia memoria è circondata di sangue. La mia memoria è cinta di cadaveri!

(A. Cesaire, Diario del ritorno al paese natale, Jaca Book, 1956, Milano, pp.77-79)

Dice Jackye Assayag che “il boia uccide due volte, la seconda volta con il silenzio”. E infierisce con la memoria, si potrebbe aggiungere. Perché l’oblio, per le vittime di tortura, per chi ha vissuto traumi gravi e in generale per tutti coloro che hanno un conto in sospeso con il passato, resta un traguardo ambito ma spesso irraggiungibile. I ricordi che si vorrebbe rimuovere affiorano di continuo, insistentemente, anche dopo mesi e anni, spesso nei momenti meno opportuni, quando il buio della notte, a tradimento, anziché invitare al sonno favorisce il farsi presente del passato con incubi e visioni che irrompono come zombie famelici in un silenzio quasi assordante, insopportabile. E sono di nuovo bombe assassine che squartano in brandelli decine di corpi umani innocenti, fuoco che divampa nelle case arrostendo cadaveri di donne e bambini, raffiche di mitra sparate verso ogni dove senza criterio alcuno, sequestri, botte e prigioni, cimiteri di sabbia e acqua, famiglie strappate per sempre e tanto, troppo sangue, dappertutto. E così, a testa bassa, quasi vergognandosene, molti confessano di come i loro cuori siano diventati duri come l’asfalto che calpestano lungo interminabili camminate senza meta, e di come i loro occhi non riescano più a piangere nemmeno una lacrima, mentre si tormentano pensando ad altri occhi, quelli delle madri, che hanno visto i figli partire e si consumano giorno dopo giorno con lo sguardo rivolto all’orizzonte, in attesa di poter scorgere ancora una volta la sagoma di quei bambini diventati uomini anzitempo.

Ricordare significa ripercorrere una ad una tutte le violenze subite sulla propria pelle, rivivere nuovamente le stesse sofferenze, scalfire ancora una volta le cicatrici della memoria e restare così in balia di un dolore assoluto, incomprensibile, che genera ciclicamente panico e angoscia, paura di vivere, senso di colpa per essere sopravvissuti. Non è un caso allora se i racconti di vita dei richiedenti asilo, così come emergono dai verbali rilasciati dalle Commissioni Territoriali che ne devono valutare l’attendibilità al fine di riconoscere o meno lo status di rifugiato, appaiono spesso ben poco lineari e coerenti, persino contraddittori, frammentari e lacunosi, come offuscati da una nebbia densa, talvolta impenetrabile, che confonde e amalgama luoghi, date e persone. Spesso sorge spontanea la domanda circa la veridicità di quanto testimoniato, la reale conformità delle parole ai fatti narrati, dimenticando o non riuscendo a comprendere del tutto quanto affermato da Theodor Adorno in riferimento allo scandalo dell’olocausto ed espresso magistralmente con la celebre formula per cui dopo Auschwitz non è più possibile la poesia, come a voler dire che da quel momento – dal momento di ogni vero trauma, individuale o collettivo – il linguaggio è spezzato una volta per tutte. Più recentemente, Elaine Scarry, tramite i suoi studi sulla relazione tra sofferenza e linguaggio, ha inteso mostrare come l’esperienza del dolore costituisca una sorta di messa alla prova del senso ultimo della vita e del mondo stesso e che, in ragione di ciò, non solo resiste ai più diversi tentativi di narrazione sottraendosi al dominio del linguaggio, ma che addirittura ne aggredisce il presupposto che risiede nella possibilità stessa della comunicazione. Il dolore e la sofferenza sono fatti individuali che emarginano chi li subisce isolandolo dal resto delle persone impossibilitate a condividerne il significato. Insieme al linguaggio crolla e viene distrutto il mondo, qui inteso come rifugio comune, luogo dove il senso è condiviso, uguale per tutti. Ecco perché la sofferenza non potendo esprimersi con le parole si traduce in amnesia.

  1. Memoria collettiva e verità storica

Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue.

(T. Sankara, discorso al’OUA, 1987)

Se il ricordo si configura quale presenza scomoda, tuttavia, non è solo perché trascina con sé un dolore privato, intimo, legato all’esperienza prettamente individuale di chi lo ha subito ma, al contrario, proprio perché chiama in causa responsabilità e colpe che rinviano a una dimensione collettiva della memoria; una memoria, però, molto spesso tradita da revisionismi storici, dove la verità ufficiale non sempre si accorda con la giustizia. Come sottolinea Roberto Beneduce, “oltre al segreto patogenico, esiste un segreto di stato[8]. Significa che per le vittime di passati traumatici, l’oblio rappresenta in molti casi l’ultimo rifugio e l’unica strategia possibile per difendere ciò che resta del proprio equilibrio psico-sociale dalle manipolazioni storiche che sistematicamente corredano l’agire politico e che, in ultima analisi, mettono in discussione il valore testimoniale delle memorie dei “reduci”. Il ricordo, unico strumento che resta ai migranti per non perdere del tutto il legame con il passato e conferire così un senso al presente, si rivela dunque un’arma a doppio taglio, dispositivo ricattatorio capace di trasformare le vittime in carnefici e viceversa.

Occorre allora ritrovare un approccio intellettualmente onesto alla questione migratoria, il più possibile trasparente e svincolato da ogni sorta di strumentalizzazione ideologica, al fine di ripristinare – se non di inaugurare – una reale stagione di verità e giustizia. Per far ciò, sulla scorta delle indicazioni fornite da Paul Farmer, è necessario che l’analisi sia geograficamente ampia e storicamente profonda, il che significa, inevitabilmente, riconoscere quel debito del sangue di cui già parlava Thomas Sankara nel lontano 1987, due mesi prima di essere assassinato grazie al sostegno, tra gli altri, di Francia e Stati Uniti. Riconoscere quel debito, oggi, significa prendere finalmente atto delle responsabilità che noi, in quanto Civiltà occidentale, abbiamo nei confronti delle condizioni di vita in cui versano i cosiddetti paesi del terzo mondo. Significa guardare allo specchio la nostra società capitalistica ed essere in grado di vedervi riflessa la falsa coscienza che la anima per infrangerla definitivamente; smascherarne l’ideologia del dominio e dello sfruttamento, incarnata, a seconda dei tempi, dallo schiavismo, dal colonialismo, dall’imperialismo e dal neoliberismo. Ha ragione, allora, ancora Roberto Beneduce quando si chiede ben poco retoricamente “di che cosa parlano i tanti immigrati clandestini se non di un passato coloniale recente e irrisolto […]? Di che cosa raccontano le vittime di tortura se non di oscure complicità fra le nostre ‘democrazie’ e le dittature che scambiano il silenzio su atrocità e violenze con profitti di questa o quella lobby?”[9].

franz fanonMa già oltre cinquant’anni fa, nell’introduzione all’intramontabile capolavoro di Frantz Fanon, I dannati della terra, Jean-Paul Sartre sconfessava tale falsa coscienza europea e, rivolgendosi direttamente ai buoni e civili borghesi delle metropoli, scriveva: “Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiam preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei ‘continenti nuovi’ e li abbiam riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, […] l’Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale”[10].

Ora che la crisi ha smesso di minacciare per divenire una realtà tangibile, l’Europa crede di poter ingenuamente revocare lo status di umano a tutti coloro che ritiene percorrano illegittimamente e pericolosamente le sue strade: gli immigrati. Si parla di invasione, di occupazione, addirittura di conquista straniera. E le ricette proposte si moltiplicano: blocchi navali, muri, rimpatri forzati, abbattimento di imbarcazioni, e chi più ne ha più ne metta. Allo stesso modo, quante più sono le voci che esigono sempre maggiori controlli e repressione, tante più sembrano le voci che per reazione esigono tolleranza, senza rendersi conto dello sporco gioco che riproducono adottando il lessico del potere, imperniato sul duplice stereotipo che ingabbia lo straniero; quello vittimista da un lato e quello razzista dall’altro. Il concetto di tolleranza, infatti, implica per definizione[11] un impegno, uno sforzo, quasi una fatica, per resistere alla tentazione di discriminare, denigrare, insultare. Perciò la tolleranza è già tutto questo insieme, poiché ne è la sua condizione di possibilità. Si tollera ciò che non si vorrebbe, ce ne si fa una ragione. Perciò la tolleranza è già una forma di apartheid culturale.

No, nessuna tolleranza, nessun pietismo e soprattutto nessun tipo di beneficenza. Ciò che occorre esigere è l’introduzione e l’applicazione di leggi in materia di diritto d’asilo che siano finalmente in grado di rispettare il mandato della Convenzione di Ginevra del 1951. Ma soprattutto, ancora una volta, verità e giustizia, per restituire Storia e memoria a tutti coloro cui viene negata.

**Raùl Zecca Castel è collaboratore di Carmilla e autore del libro Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana (Arcoiris Ed., 2015, pp. 272). La prima presentazione del libro, collegato anche all’omonimo documentario e una mostra fotografica, sarà il 12 dicembre a Cinisello Balsamo (Mi) presso la Sala Incontri Il Pertini di Piazza Confalonieri 3 alle ore 18. Dettagli qui link.

 


[1]     A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002, p. 44.

[2]     A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2004.

[3]    U. Bossi, intervista a Radio Padania, 2003.

[4]     G. Devescovi, candidata sindaca per la Lega Nord Toscana, dichiarazione del 7.05.2015.

[5]     P. Bourdieu, nota a A. Sayad, op. cit., p. XI.

[6]     Cfr. E. De Martino.

[7]     Cfr. D. Graeber, Oltre il potere e la burocrazia, Eleuthera, Milano, 2013.

[8]     R. Beneduce. Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Bari, 2010, p.109.

[9]     Ivi, p 110.

[10]   J-P. Sartre, introduzione a F. Fanon, I dannati della Terra, Torino, Einaudi, p.XXI-XXII.

[11]   Tolleranza, s. f. [dal lat. tolerantia, der. di tolerare «sopportare, tollerare»]. – 1. La capacità, la disposizione a tollerare, e il fatto stesso di tollerare, senza ricevere danno, qualche cosa che in sé sia o potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata, Vocabolario Treccani, Treccani.it.

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Kina, come macchine impazzite https://www.carmillaonline.com/2014/12/16/kina-come-macchine-impazzite/ Mon, 15 Dec 2014 23:00:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19416 di Simone Scaffidi Lallaro

kinaGianpiero Capra, Stephania Giacobone, Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina, Agenzia X, 2014, pp. 249, € 15.00

Quello tentato da Stephania Giacobone, Gianpiero Capra – bassista storico dei Kina – e dalla  casa editrice Agenzia X è un esperimento ambizioso: raccontare il punk come uno sparo ancora vivo e non come il simulacro nostalgico di un tempo ormai passato e sorpassato. A dare linfa a quest’idea è il racconto di una ragazza nata nel 1987, una fan postuma arrivata quando tutto quello che i Kina hanno scritto è già [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro

kinaGianpiero Capra, Stephania Giacobone, Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina, Agenzia X, 2014, pp. 249, € 15.00

Quello tentato da Stephania Giacobone, Gianpiero Capra – bassista storico dei Kina – e dalla  casa editrice Agenzia X è un esperimento ambizioso: raccontare il punk come uno sparo ancora vivo e non come il simulacro nostalgico di un tempo ormai passato e sorpassato. A dare linfa a quest’idea è il racconto di una ragazza nata nel 1987, una fan postuma arrivata quando tutto quello che i Kina hanno scritto è già stato suonato e risuonato. Appena il tempo per assistere a qualche reunion brizzolata. Stephania vive l’infanzia a Courmayeur e poi si trasferisce ad Aosta ma non si trova a suo agio né nel piccolo paese ai piedi del Monte Bianco, né in quella che si ostinano a chiamare città ma in realtà è soltanto un paese più grande degli altri. Cerca una via di fuga. Vuole scappare da una Valle che per lei altro non è che una camera anecoica, dove un loop di grida ed indifferenza esce da un amplificatore che ha le sembianze di un padre oppressivo e claustrofobico. Urlare contro le montagne non serve, contribuisce solo a confermare la condizione di spaesamento che si prova quando ci si rende conto di essere soli. L’eco ritorna indietro sempre uguale e moltiplica la rabbia del proprio disagio.

Stephania un giorno scopre un manifesto strappato, in un vicolo del centro di Aosta, attacchinato anni prima, legge le tracce di un’occupazione, quella della Torre dei Balivi, da parte del collettivo anarchico Piloto Io e quelle di uno sgombero e una repressione senza precedenti in città, che costringe al carcere tredici compagni. Inizia a documentarsi e subito le cuffie si riempiono della musica e dei testi dei Kina. Quel suono è uno sparo capace di bucare le montagne e andare oltre la camera anecoica, aprire una breccia d’utopia in una valle senza speranza.

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Gianpiero è il bassista di un gruppo punk che tra gli anni ’80 e ’90 ha fatto conoscere a tutta Europa la scena hardcore italiana, uno di quei tre montagnini – insieme a Sergio Milani alla batteria e Alberto Ventrella alla chitarra (a cui si uniranno nell’avventura anche Marco Brunet e Stefano Giaccone) – che incendieranno le polveri del punk a colpi di autoproduzione e viaggi in furgone. L’Europa è piena di frontiere e controlli doganali, anche le esportazioni dei dischi sono regolate, Berlino Ovest è un’isola in fermento, un’enclave accerchiata da un muro che la divide dalla Germania Est. Kreuzberg non è solo un nome che si fa largo per il continente, ma un quartiere brulicante di cultura alternativa e autogestione.

E i Kina – a Berlino come a Torino – sono strani, si vede che non sono punk metropolitani, un po’ provinciali e un po’ originali, con quello stile particolare nell’abbigliamento e nel portare barba e capelli. Eppure sia in Italia che all’estero riescono a farsi rispettare e apprezzare, con qualche piccolo sgarro alla “scena” s’intende: “A giugno ci esibiamo clandestinamente alla Festa dell’Unità di Aosta. Lo facciamo di nascosto perché se i punk torinesi l’avessero saputo, avremmo chiuso con tutti. A noi però quel concerto serviva, perché all’epoca era l’unico modo per suonare ad Aosta. Potranno mai i metropolitani capire le ragioni di noi provinciali?”

A fare da collante tra le due narrazioni, oltre alle canzoni dei Kina, ci sono in tempi diversi le città di Aosta, Torino e Berlino – richiamate insieme al Blu Bus nell’ottima veste grafica di copertina – e poi le occupazioni, gli sgomberi, gli scontri e gli squat. Grazie ai Kina e al punk Stephania inizia il suo percorso di liberazione e catarsi che trova espressione in questo libro. Tuttavia l’ambizioso esperimento di dare contemporaneità al punk ha successo solo in parte. Photo edited with http://www.tuxpi.comLa linfa che sgorga dal pennino di Stephania e da quello dell’ex Kina Gianpiero sfiorano a più riprese l’eccesso d’intimismo calcando troppo spesso la matita su sé stessi. A risentire dello schiacciamento di prospettiva è in parte la complessità di un periodo e forse a tratti la profondità del viaggio dei Kina.

Ma questo, lo si è capito, non è un libro sulla scena punk-hardcore degli anni ’80 e sui Kina – pur essendo la prima opera che li racconta da due angolature interessanti – ma la storia di un’evasione capace di innescare un’altra evasione e chissà quante altre detonazioni a catena. La lettura è veloce e scorrevole e l’apparato di interviste e foto che conclude il libro – grazie soprattutto alle voci di Sergio Milani, Alberto Ventrella e Stefano Giaccone – necessario all’equilibrio del testo. Tra le foto si riconosce anche un giovanissimo Dave Grohl, che nel maggio del 1990, in tour con gli Scream, condivise il palco e la notte di Francoforte con i Kina. Appena un anno dopo, Dave entrerà in studio per registrare Nevermind con i Nirvana.

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Gli Scenari Occulti del Caso Battisti (1/2) https://www.carmillaonline.com/2013/12/11/gli-scenari-occulti-del-caso-battisti-12/ Tue, 10 Dec 2013 23:01:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11298 di Carlos Alberto Lungarzo

Gli scenari occulti de caso Battisti[Pubblichiamo in due post la traduzione di Prefazione e Introduzione del libro dell’attivista e accademico argentino Carlos Lungarzo Os cenários ocultos do caso Battisti (Geração, 2013, pp. 384, 45 Rs). In Italia il libro non è stato ancora tradotto, ma esiste una versione francese – link – la cui uscita è prevista per febbraio 2014, F. L.]

Nonostante la mia esperienza delle lotte popolari nell’Europa degli anni settanta, non avevo mai sentito parlare dei Proletari Armati per il Comunismo [...]]]> di Carlos Alberto Lungarzo

Gli scenari occulti de caso Battisti[Pubblichiamo in due post la traduzione di Prefazione e Introduzione del libro dell’attivista e accademico argentino Carlos Lungarzo Os cenários ocultos do caso Battisti (Geração, 2013, pp. 384, 45 Rs). In Italia il libro non è stato ancora tradotto, ma esiste una versione francese – link – la cui uscita è prevista per febbraio 2014, F. L.]

Nonostante la mia esperienza delle lotte popolari nell’Europa degli anni settanta, non avevo mai sentito parlare dei Proletari Armati per il Comunismo e solo nel 2007 sono venuto a conoscenza dell’esistenza di Cesare Battisti. Integratomi nel 2008 ai circoli di solidarietà creati in Brasile dopo la cattura dell’italiano da parte della polizia, scrissi l’anno seguente due testi: l’articolo Una breve analisi del caso Battisti, di 52 pagine, e un libretto che aggiungeva dettagli al precedente, di 115 pagine: Gli scenari invisibili del Caso BattistiL’obiettivo di entrambi era chiarire vari aspetti ai nostri attivisti del Comitato di sostegno: la repressione italiana durante gli Anni di Piombo, le irregolarità del processo milanese, la legislazione e la giurisprudenza brasiliane che avrebbero dovuto proteggere Battisti in modo che, se tutto fosse stato realizzato nella normalità, il detenuto avrebbe dovuto essere liberato immediatamente. Suggerii anche alcune idee per l’organizzazione di una difesa attiva del diritto d’asilo dello scrittore e di una lotta pacifica contro l’estradizione. Nello stesso periodo pubblicai su internet un centinaio di articoli riguardanti diversi aspetti della persecuzione di Cesare Battisti e del relativo contesto sociale e politico. Quegli articoli, sebbene fornissero informazioni rilevanti per il caso sconosciute in Brasile, non tracciavano un panorama articolato e d’insieme sul caso Battisti. Di per sé la Breve analisi e il libretto degli Scenari invisibili toccavano solamente gli aspetti essenziali per informare i membri del Comitato di sostegno, ma non potevano raggiungere il grande pubblico. Quando mi accorsi che il caso Battisti intrigava e confondeva molte persone in buona fede, pensai che fosse necessario scrivere un’opera con uno stile letterario normale che potesse servire da antidoto razionale al coro di menzogne diffuso dai media.

L’obiettivo, adesso, non era più quello di fare un manuale d’istruzioni per i comitati di appoggio quanto un’analisi esaustiva e scientifica dei dati fattuali, relativi a due fattori occulti che sono intervenuti nella messa in scena di questo grande linciaggio giudiziario che ha avuto una ripercussione pubblica importante. Mi sono posto il problema seguente: quali sono i fattori occulti che rendono possibile una marea psicopatica di massa di queste dimensioni? Le ipotesi ideologiche, il sensazionalismo dei media, la segreta, anche se evidente, distribuzione di tangenti e altri fattori sono precondizioni necessarie, ma non sufficienti, per spiegare un processo d’odio collettivo di tali dimensioni. Capii che dovevo applicare teorie simili a quelle utilizzate dai ricercatori europei per delucidare i meccanismi di paranoia collettiva che si palesarono durante il terrore prodotto in Europa prima e durante la Seconda Guerra mondiale.

Quest’analisi della paranoia, inserita nella psicologia sociale, non mi ha fatto comunque tralasciare l’importanza dei fattori strutturali antichi, tra cui il più rilevante è stato il terrorismo di stato, incubato in Italia già dal 1947. Per plasmare quel terrorismo gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica (NATO) hanno affrancato il vecchio fascismo e l’hanno trasformato in un loro complice con l’Operazione Gladio, che contò sul sostegno dei neofascisti, del centro-destra, della Chiesa, delle forze armate, della mafia e di settori imprenditoriali.

Il caso Battisti s’è sviluppato, apparentemente, in scenari visibili. La corte brasiliana, i grandi media, le masse “indignate” e altri attori si trovavano sotto la luce dei riflettori. Però la gestazione dei fatti reali è avvenuta dentro scenari occulti in cui si sono fabbricate le armi psicologiche, mediatiche e giuridiche della guerra sporca in favore dell’estradizione.

Battisti non era così importante (e, in realtà, non era importante in assoluto) da essere perseguitato in quella maniera. Pertanto in quegli scenari occulti si stava preparando qualcosa in più di un rogo contro un nemico. Cesare Battisti è servito, tra le altre cose, da pretesto, da simbolo e da catalizzatore per dissimulare a tutti i costi le verità inconfessabili sugli Anni di Piombo, che l’Italia non ha mai rivelato perché sono pericolose per la sua immagine, per tonificare le destre e le destre estreme dei tre paesi coinvolti in questo caso e per giustificare la spinta alla vendetta dei repressori civili e dei poliziotti caduti in quegli anni, senza che nessuno lamenti mai, nemmeno per un secondo, la morte dei numerosi militanti di sinistra e antifascisti assassinati in gran quantità durante quegli anni.

Battisti fu uno di quei migliaia di giovani che affrontarono il terrorismo di stato con metodi che includevano, all’estremo, anche la lotta armata. Quella violenza fu una componente della sinistra alternativa, che accantonò l’idea di un’azione culturale e di massa quando il terrorismo di stato la mise con spalle al muro non lasciandole alternative: resistenza o annichilazione.

 La missione di annichilazione della nuova sinistra italiana compatta le forze conservatrici tradizionali, però assolda anche un agonizzante neo-stalinismo che cominciava a spostarsi in direzione della destra classica (lo stalinismo era già una destra, anche se sui generis).

Lo stalinismo rappresentato dal Partito Comunista Italiano (PCI) è una versione più moderata e meno asservita del suo equivalente argentino, il PCA, che a partire dal 1976 diventò un fedele collaboratore (nondimeno disprezzato dai suoi padroni) della più sanguinosa dittatura della storia delle Americhe.

Gli stalinisti si allearono con la democrazia cristiana per non essere incalzati dai fascisti, ma intorno al 1977/78 appresero a sentire il gusto del potere, molto caro alla mentalità poliziesca dei figli del KGB (*). Nonostante questa svolta a destra, non ebbero una partecipazione nella Operazione Gladio, anche se erano più tolleranti con il fascismo che con la nuova sinistra. Di fatto gli ex-comunisti non poterono mai familiarizzare totalmente col fascismo perché, in fin dei conti, le profonde ferite aperte da Mus­solini in Italia sanguinavano ancora.

Questa descrizione vuole mostrare quanto segue: sebbene il caso Battisti, tra quelli che sono diventati più celebri, sia stato il più bizzarro linciaggio politico e imbroglio giudiziario della storia, questo libro non esaurisce semplicemente questa tematica, né si propone di raccontare solo la storia del personaggio principale.

Il mio obiettivo è provare che in questo caso così speciale e sorprendente c’è stata la convergenza delle maggiori miserie umane del Dopoguerra. Analizzare in dettaglio quelle crudeltà sarebbe un compito da affidare a vari ricercatori che riempirebbero copiosi volumi.

Contuttociò, ora desidero mostrare solamente gli scenari in cui il linciaggio è stato creato e perché la sua fabbricazione fosse necessaria per stipulare un’alleanza tra una teocrazia sanguinaria europea e una colonia controllata da forze post-schiaviste in America del Sud.

Ci sarebbero diversi modi per classificare questi scenari occulti. Ma una suddivisione basilare indicherebbe per lo meno i seguenti:

(a) Lo scenario del terrorismo di Stato in Italia, che unì la NATO e la CIA alle frange fasciste, ai militari italiani, ai governi, ai magistrati e alle società segrete.

(b) Lo scenario equivalente in America Latina: la sopravvivenza della dittatura brasiliana, con i suoi complici a livello giudiziario, nell’esercito, nella polizia e in gran parte del sistema politico.

(c) L’ipocrisia della Francia che alimenta il fuoco del rogo per coprire le sue negoziazioni politiche con l’Italia.

(d) Lo scenario occulto dei media, ben diverso dall’equivalente scenario visibile. Giornali, canali TV e stazioni radio sono “visibili” e “ascoltabili”, ma le loro trame interne sono ben protette: acquisti giganteschi di annunci, sussidi a riviste indebitate, complicità tra agenzie, programmi ad hoc per far sfogare opinionisti rancorosi, produzione di falsa informazione, provocazioni e diffamazioni.

 (e) Meno occulto è lo scenario teologico, anche se è contraddittorio. Mentre un piccolo gruppo di cattolici sostiene la causa del perseguitato agendo in alcuni organi filantropici marginati dalla Chiesa, le gerarchie episcopali, i capi della Caritas e molti altri usano strategie del diciassettesimo secolo: uccidere il corpo per salvare l’anima.

(f) Lo scenario della destra legale. Razzisti, neoliberisti, latifondisti, faccendieri, comunicatori, imprenditori e uomini d’affari che sono motivati dalla speranza di un golpe contro il governo di Lula e da un tanto atteso e grande bagno di sangue contro la popolazione più povera, così come annunciava il famoso slogan degli anni 70: “Un’altra Indonesia”. (**)

Ho fallito totalmente nell’intento di indagare sullo scenario occulto della finanza. Nemmeno alcuni efficienti ricercatori britannici e francesi hanno potuto aiutarmi: questo scenario è risultato essere veramente segreto, con tutte le sue porte d’accesso chiuse a doppia mandata. Ciononostante, lo scenario della corruzione sembra obbedire alla seguente parodia di un principio basilare della meccanica quantica: non possiamo sapere, allo stesso tempo, la dimensione di una tangente e il nome del beneficiario, però è facile percepire che entrambe le cose esistono.

Ho cercato di rendere questo libro il più leggero possibile. Non era mia intenzione rivolgermi solo al lettore ideologizzato o interessato a questioni giuridiche. Ho per obiettivo il cittadino comune, colui che sente, a volte in modo istintivo e fugace, come la vita, la felicità e il destino della sua famiglia e dei suoi amici siano manipolati dalle élite che si muovono in questi scenari occulti e s’avvantaggiano della corruzione politica, delle nebbie giudiziarie, delle menzogne mediatiche.

D’altro canto ho tenuto da conto che non stavo scrivendo un romanzo, ma una descrizione di una sordida realtà. Era necessario che il lettore più attento potesse consultare i principali riferimenti per cui includo delle note finali, anche se nel minor numero possibile. La loro omissione non pregiudicherà la lettura. Per redigere questo libro ho usato i tipi di fonte che specifico di seguito:

(a) Documentazione ufficiale ottenuta dalla Francia.

(b) Do­cumentazione ufficiale brasiliana.

(c) Relazioni sull’Italia prodotte nel periodo 1978-2005 dalla ONG Amnesty International.

(d) Relazioni di diverse organizzazioni per i diritti umani, che abbracciano un periodo di quasi 20 anni: Human Rights Watch, Orizzonti Ristretti, Antigone, ONG fran­cesi e altre.

(e) Memorie, libri, film, giornali e altri documenti pubblici che descrivono le torture e gli abusi dello Stato italiano negli anni 70 e 80.

(f) Conversazioni personali e via e-mail con quasi 90 italiani e francesi che furono protagonisti o spettatori di quegli scenari occulti. Nei ringraziamenti sono citati solo quelli che non sono considerati come vulnerabili alla repressione.

L’unica informazione che ho ottenuto dallo stesso Battisti è quella che appare in forma di dialogo nell’Appendice di questo libro. Non gli ho rivolto nessun’altra domanda, perché ho cercato di mantenere la mia oggettività e di preservare la sua privacy. A tal proposito quel dialogo avvenne solo dopo che il resto del libro fu stato completato e nessuna sua affermazione avrebbe potuto cambiare i miei punti di vista.

Infine ci tengo a sottolineare che sono un uomo di scienza e un umanista e non un magistrato, un politico o un sacerdote. La verità per me non è una costruzione soggettiva, non è il prodotto della convinzione del giudice, né della confessione del peccatore: è un attributo oggettivo, derivato dall’esperienza, e il motivo di ricercarla non è punire, ma proteggere.

Chiudo con un’espressione celebre in Italia, introdotta da Alessandro Manzoni nel 1821 nella sua ode Il cinque Maggio e dedicata alla morte di Napoleone I:

Ai posteri l’ardua Sentenza

Oppure, ancora meglio, un’espressione coniata da un altro scrittore italiano, lo stesso Cesare Battisti:

La storia non si giudica nei tribunali, sarà sempre materia degli storiografi.

[Traduzione dal portoghese all’italiano di Fabrizio Lorusso]

(Seconda parte dell’estratto in uscita mercoledì 18 dicembre…)

(*) L’acronimo KGB indica il Комитет Государственной Безопасности, (Comitet’ Gasudarstvénnoi Bezopasnosti), ossia il Comitato per la Sicurezza dello Stato, un’agenzia sovietica dedita esclusivamente allo spionaggio e alla repressione.

(**)  Un’altra Indonesia o Un’altra Jakarta erano i gridi di guerra delle squadre fasciste formate da poliziotti, militari, impresari e giovani teppisti che esigevano una stretta in senso repressivo della dittatura in Brasile e si opponevano alla lenta operazione di apertura proposta dal dittatore Geisel nel 1974.

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