SADE – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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L’attualità del Vajont https://www.carmillaonline.com/2015/10/14/linfinito-vajont/ Wed, 14 Oct 2015 06:50:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25996 di Alexik

lapide_paiolaluiginoIl 9 ottobre è passato, e con lui il 52° anniversario della strage del Vajont, quasi assente quest’anno dai telegiornali e dai quotidiani nazionali. Come era prevedibile, una volta spenti i riflettori del cinquantennale, il silenzio ha ricoperto ciò che era già stato sepolto dal fango. Fango materiale, ma anche morale e politico.

Devo dire che a volte è meglio il silenzio piuttosto che la retorica. Se non altro quest’anno ci siamo risparmiati (ad esclusione di una rapida sortita della Serracchiani) il mantra del “Che non succeda mai più !”, [...]]]> di Alexik

lapide_paiolaluiginoIl 9 ottobre è passato, e con lui il 52° anniversario della strage del Vajont, quasi assente quest’anno dai telegiornali e dai quotidiani nazionali. Come era prevedibile, una volta spenti i riflettori del cinquantennale, il silenzio ha ricoperto ciò che era già stato sepolto dal fango. Fango materiale, ma anche morale e politico.

Devo dire che a volte è meglio il silenzio piuttosto che la retorica. Se non altro quest’anno ci siamo risparmiati (ad esclusione di una rapida sortita della Serracchiani) il mantra del “Che non succeda mai più !”, recitato dagli stessi soggetti che nemmeno un anno fa hanno deciso, col decreto ‘sblocca Italia’, un salto in avanti nella devastazione dei territori.

Ci siamo risparmiati le commemorazioni edulcorate, che rievocano ‘l’immane tragedia del Vajont’ dopo averla asetticamente ripulita da una serie di dettagli: la complicità fra potere politico e industriale, le violenze contro le popolazioni, la connivenza dei media e dei ceti accademici con i monopoli dell’energia, la corruzione degli organi di controllo, i conflitti di interesse, la privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite1. Dettagli su cui è meglio sorvolare, casomai risvegliassero analogie col presente. Con la storia, per esempio, di un’altra valle, dove la devastazione è imposta per legge e difesa manu militari.

L’attualità del Vajont

Giorgio Dal PiazOggi come allora, lo Stato fa muro attorno alla grande opera. Esimi scienziati la difendono, come è successo ad un convegno della Società Geologica Italiana, dove si è decretato che la produzione di 300.000 metri cubi di detriti contenenti amianto, prevista per la perforazione del tunnel in Val di Susa, non costituisce un problema per la salute pubblica2. Era il 2006, ma sembrava di tornare ai bei tempi di Giorgio dal Piaz, il luminare della geologia le cui perizie diedero ‘rigore scientifico’ al progetto della diga del Vajont3. Del resto al convegno di Torino relazionava anche suo nipote, Giorgio Vittorio Dal Piaz, responsabile degli studi geologici di base per il Traforo del Brennero (perché la grande opera è una passione di famiglia).

Oggi come allora, si usano i tribunali per far tacere gli oppositori alla grande opera, come successe a Tina Merlin, inquisita per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Oggi come allora, i media decantano la grande opera, con la stessa subalternità e servilismo dimostrati all’indomani della strage del Vajont, quando sfoderarono le più grandi firme del giornalismo nazionale per assolverne d’ufficio i responsabili e tacciare di sciacallaggio chi ne indicava i nomi:

Dino BuzzatiUn sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può … dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento e del coraggio umano… Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle” (Dino Buzzati, Corriere della Sera, 11 ottobre 1963).

Giorgio Bocca“… si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli” (Giorgio Bocca, Il Giorno, 11 ottobre 1963).

“… nella vita delle Nazioni ci sono anche le tragedia spaventose, le carestie, pestilenze, i cicloni, i terremoti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne … Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. MontanelliMa qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani” (Indro Montanelli, La Domenica del Corriere, novembre 1963).

Di certo gli sciacalli c’erano, ma non quelli indicati da lui. Dopo la strage strani individui cominciarono a circolare a caccia di sopravvissuti. Erano gli avvocati del ‘Consorzio dei danneggiati del Vajont’, un organismo creato dalla stessa Enel per dissuadere i superstiti dall’intento di costituirsi parte civile. Un’operazione decisa dai vertici dello Stato, che vedeva coinvolti alti esponenti della DC e del Partito Socialista4. “A voi superstiti non spetta niente” dicevano gli avvocati. Del resto a chi chiedere i danni se è colpa della natura, come dicono anche Buzzati, Bocca, e Montanelli ? “Vi conviene accettare quello che ora vi viene offerto, altrimenti non avrete niente». In cambio l’Enel offriva una transazione sulla base di un tariffario predefinito: 3 milioni per un coniuge, 2 milioni per un figlio unico, 800.000 lire per un fratello …

Al massimo 33.000,00 euro, ai valori attuali.  Più o meno quanto offerto due anni fa dalla Marzotto in cambio del ritiro dal contenzioso giudiziario delle famiglie degli operai morti alla Marlane di Praia a Mare. Un’altra analogia con il presente: i prezzi della carne umana un tanto al chilo, da allora, non sono cambiati di molto, né le pressioni sulle parti lese nei processi che coinvolgono il potere industriale, come si evince da questo servizio della RAI:

Anche l’epilogo giudiziario del Vajont ha forti affinità coi giorni nostri, con quell’impunità ribadita l’anno scorso dalla sentenza di Cassazione del processo Eternit. Lievissime furono le condanne e colpirono solo i livelli tecnici. Indenni, nemmeno inquisiti, la proprietà della Sade5 (il conte Vittorio Cini) i vertici dell’Enel, ed i padrini politici della ‘diga più alta del mondo’. Dal resto l’Enel/Sade aveva ottimi avvocati.

Qualche giorno dopo la strage, mentre i sopravvissuti scavavano nel fango, scese dall’elicottero il Presidente del Consiglio Giovanni Leone, promettendogli giustizia.

Scaduto il suo mandato di governo, l’avvocato Giovanni Leone Oliviero Zanni - Leone - Vajontandò a presiedere il collegio di difesa dell’Enel, contro quegli stessi superstiti a cui aveva promesso giustizia. Pare sia stato lui a scovare, nel codice civile, il cavillo della ‘commorienza’, cioè quel meccanismo per cui se muoiono contemporaneamente i nonni e i genitori, i nipoti perdono ogni diritto ai risarcimenti per la vita dei nonni. Grazie alla ‘commorienza’, Leone riuscì a far risparmiare all’Enel una bella fetta di risarcimenti agli orfani del Vajont. Poi lo fecero Presidente della Repubblica.

Più di recente anche i vertici di Marzotto, Solvay, Thyssenkrupp, Eternit, inquisiti per disastri ambientali e morti operaie, si sono avvalsi dei migliori legali sulla piazza. Che ora capisco, non accettavano l’incarico per soldi: puntavano al Quirinale !

Ottobre 1963: muore Longarone, nasce il Nord Est

Quello della ‘commorienza’ fu solo uno degli innumerevoli oltraggi subiti dai superstiti del Vajont. Ce ne furono altri:  il processo tenuto a l’Aquila per ostacolarne la partecipazione. Il trasferimento forzato dei sopravvissuti di Erto e Casso a Vajont – un paese anonimo creato per l’occasione – che ha determinato la perdita, per questa gente, dei propri luoghi e punti di riferimento, in aggiunta a quella dei propri cari6. La sparizione dei fondi delle donazioni private. I sussidi da fame, insufficienti per gente che ha perso ogni cosa, e tali da indurla ad accettare l’offerta di transazione dell’Enel. L’assenza di qualsiasi supporto psicologico dopo un trauma così profondo. L’adozione degli orfani da parte di famiglie che avevano il solo scopo di incassarne i sussidi, senza nessun controllo da parte di un giudice tutelare. L’interruzione delle ricerche dei corpi (centinaia mancano all’appello). La costruzione (con i contributi della Legge Vajont) di un salumificio in un’area del comune di Erto sotto la quale, probabilmente, giacciono ancora delle vittime.

Renzi a Longarone2Fino all’ultimo insulto del 2004: la ‘ristrutturazione’ (costata 4 milioni di euro) ad opera dell’ex sindaco De Cesero, del cimitero di Fortogna, che raccoglieva i resti ritrovati di quei poveri corpi. La rimozione delle croci, delle foto, delle lapidi con le iscrizioni poste dai parenti, distrutte in parte dalle ruspe e sostituite da cippi di Stato, tutti uguali, ai quali non si può aggiungere una foto o porre un fiore, e che non coincidono più con la posizione dei corpi 7. La creazione di una sorta di sacrario istituzionale, che cancella la memoria viva dei sopravvissuti per sostituirla con una memoria fittizia, come la commozione dei politici che l’usano, di tanto in tanto, come passerella. Nuovo dolore per gente che non ha più nemmeno una tomba su cui piangere (nella foto in alto una lapide del cimitero originario).

Ma uno degli oltraggi più abnormi fu certamente la gestione del fiume di denaro della cd ‘Legge Vajont’. Un massiccio trasferimento di ricchezza sottratta all’assistenza ai sopravvissuti a favore del capitale privato.

Col pretesto della strage, la Democrazia Cristiana ha provveduto a nutrire la propria rete clientelare del Triveneto, finanziando con una massiccia iniezione di denaro pubblico quell’imprenditoria nordestina che stentava ad agganciarsi al ‘miracolo economico’. Alla faccia del mito del Nord Est e del suo sviluppo nato dall’operosità ! Di quelli che ‘si son fatti da soli’, senza l’aiuto dello Stato, che esecrano l’assistenzialismo meridionale ! Qui se non interveniva Roma ladrona con gli schei se lo scordavano il mito! E a proposito di ladroni: bella figura fottere i propri vicini vittime di una strage ! Perché andò esattamente così la nascita di un modello fondato sul cinismo.

L'onda lungaLa ‘Legge Vajont’ (n. 357/1964) – emanata dal governo di centrosinistra presieduto da Aldo Moro – prevedeva per la ricostruzione o l’ampliamento delle attività distrutte dalla catastrofe, finanziamenti pubblici a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato praticamente illimitati, oltre a forti agevolazioni fiscali. La legge non obbligava, per ottenere i benefici, a ricostruire lo stesso tipo di attività, né a farlo a Longarone e dintorni. L’azienda poteva essere ricollocata in qualsiasi parte delle provincie di Belluno, Udine e limitrofe … vale a dire Trento Bolzano, Gorizia, Vicenza, Treviso e Trieste … praticamente mezzo Triveneto. Dulcis in fundo, i diritti acquisiti con la legge Vajont erano cedibili, assieme alle licenze,  a terzi, sia che fossero persone fisiche o giuridiche.

Così recita un’informativa della Polizia tributaria: “Di queste disposizione approfittarono diverse persone le quali providero a rintracciare e avvicinare i sopravvissuti già titolari di licenze per l’esercizio di qualsiasi impresa o eredi di questi, facendosi nominare ‘procuratori speciali’ per la cessione dei diritti dietro compenso di somme esigue… Una volta in possesso della procura, tali persone, per la maggior parte liberi professionisti, proponevano a grossi complessi industriali, a commercianti che volevano ampliare le proprie aziende o a persone facoltose che avessero intenzione di far sorgere una qualsiasi attività, l’acquisto dei diritti dei quali erano venuti in possesso”.8

Poteva quindi accadere che il sig. Giuseppe Corona, artigiano e ambulante, cedesse i suoi diritti per meno di trecentomila lire alla Arredamenti Morena Spa. di Gemona, che ne avrebbe ricavato quasi 503 milioni (dell’epoca) fra finanziamenti a fondo perduto e mutuo agevolato. Al lordo, si intende, della parcella di 21 milioni al mediatore, tal rag. Aldo Romanet (Romanet diventerà famoso, per aver – in concorso con altri – sottratto e convogliato in conti svizzeri, un miliardo e duecento milioni dai fondi destinati alla ricostruzione). La Zanussi Mel, fabbrica di compressori del gruppo Zanussi, ricevette più di sei miliardi di finanziamenti e prestiti agevolati grazie all’acquisto delle licenze dagli eredi di un commerciante di calzature di Longarone, di un rivenditore di elettrodomestici e di un oste. La Indel Spa di Ospitale di Cadore ottenne tre miliardi e 222 milioni comprando le licenze di un geometra e di un fotografo. La Filatura del Vajont, comprando la licenza di una segheria, ricavò tre miliardi e 190 milioni. La Confezioni SanRemo Spa, una delle aziende italiane del tessile più grandi dell’epoca, beccò 2 miliardi e 300 milioni, comprando la licenza di un falegname. Ottenne anche forti agevolazioni IGE (poi IVA), e grazie alla Legge Vajont costruì uno stabilimento e un magazzino centrale a Belluno. Stesso discorso per le Industrie meccaniche di Alano di Piave (un miliardo e 125 milioni grazie alla licenza di un commerciante di legname), per le Ceramiche Dolomite (un miliardo e 200 milioni per le licenze di una sarta e di una carpenteria), per le Industrie San Marco Spa (4 miliardi con la licenza di un albergo e di un impiantista idraulico). Per capire pienamente il valore di tali cifre, relative a stanziamenti degli anni ’60-’70, bisogna riparametrarle ai valori attuali, moltiplicandole anche fino a venti volte, a seconda dell’anno di erogazione.

Centinaia di aziende ottennero contributi (circa trecento solo nel bellunese), in zone che non c’entravano nulla con i luoghi della strage, e quelle dei sopravvissuti erano un’esigua minoranza9. Che fine han fatto queste attività?

Alcune chiusero subito. “Nel 1968 ero una sindacalista, capo della Commissione interna di una fabbrica di manifattura nata con i soldi dei morti e finita male, come molte altre aziende che hanno chiuso non appena sono cessate le sponsorizzazioni per il Vajont10.

Italian Wanbao - ACCLa Filatura del Vajont ha chiuso dopo aver campato per anni solo grazie ai finanziamenti pubblici. Nel ’75 veniva segnalata da un’interrogazione parlamentare perché non pagava gli stipendi11. La San Remo ha chiuso definitivamente nel 2004. La Ceramica Dolomite è stata acquisita dal fondo americano Bain Capital, che le ha riversato addosso i suoi debiti, e l’anno scorso lo stabilimento di Trichiana ha rischiato la chiusura. La Zanussi Mel è stata da poco acquistata dal colosso cinese dei compressori «Wanbao», acquisizione che ha evitato la chiusura dello stabilimento ma con 142 dipendenti in meno. A Ospitale di Cadore, nello spazio della vecchia Indel, la Società Italiana Centrali Elettrotermiche (SICET), pensa di costruire un nuovo inceneritore.

C’è caso che della Legge Vajont ci rimanga soltanto il fango.


  1. Per i dettagli: Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Milano, La Pietra, 1983. Marco Paolini, Vajont, 1993, visibile qui. Renzo Martinelli, Vajont – La diga del disonore, 2001. 

  2. Due convegni su «Amianto e Uranio in Val di Susa». Il contributo della Società Geologica Italiana ad un tema di grande rilevanza sociale, Rend. Soc. Geol. It., 3 (2006), Nuova Serie, 5-8. 

  3. A Giorgio dal Piaz sono tuttora dedicati istituti scolastici e un premio della Società Geologica Italiana. 

  4. Camera dei Deputati, Seduta del 19 gennaio 1968, Interrogazione parlamentare dell’On Busetto

  5. Società Adriatica di Elettricità, fondata dall’industriale Giuseppe Volpi. Fu la Sade a costruire la diga, prima di venire acquisita dall’Enel nell’ambito delle nazionalizzazioni del ’62. 

  6. Officine Tolau, #Ondalunga12 – “Deportati” a Vajont (video). 

  7. Officine Tolau, #Ondalunga17 – Il cimitero di Fortogna è un falso storico (video). 

  8. Lucia Vastano, L’onda lunga, Sinbad Press, 2013, p. 81/82 

  9. Ibidem, pp. 85/93 

  10. Ibidem, p. 179. Testimonianza di Nives Fontanella. 

  11. Camera dei Deputati, VI Legislatura, seduta del 15 gennaio 1975, Interrogazione dell’Onorevole Moro Dino.  

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