Ryan Murphy – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 American Horror Story 6 e i Fantasmi della TV americana. Un viaggio nel tunnel dell’orrore dei media – seconda parte https://www.carmillaonline.com/2022/06/22/american-horror-story-6-e-i-fantasmi-della-tv-americana-un-viaggio-nel-tunnel-dellorrore-dei-media-seconda-parte/ Wed, 22 Jun 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72327 di Fosca Gallesio

[Avvertenza: il testo contiene spoiler della stagione 6 di American Horror Story]

Dopo il mid-point Roanoke fa un salto dimensionale: non siamo più nel reale, siamo dentro la tv, siamo sul piano del linguaggio. Lo schermo tv non è più il velo che protegge dalla finzione, ma uno specchio che riflette, una soglia fluida come quella di Matrix in cui Neo affonda la mano. Teniamo presente che i reality come format non si mettono sul piano del reale, dei fatti. Tendenzialmente le telecamere arrivano sempre dopo o quantomeno non riescono [...]]]> di Fosca Gallesio

[Avvertenza: il testo contiene spoiler della stagione 6 di American Horror Story]

Dopo il mid-point Roanoke fa un salto dimensionale: non siamo più nel reale, siamo dentro la tv, siamo sul piano del linguaggio. Lo schermo tv non è più il velo che protegge dalla finzione, ma uno specchio che riflette, una soglia fluida come quella di Matrix in cui Neo affonda la mano.
Teniamo presente che i reality come format non si mettono sul piano del reale, dei fatti.
Tendenzialmente le telecamere arrivano sempre dopo o quantomeno non riescono mai a inquadrare tutto, soprattutto quando si parla di fenomeni paranormali. I format della Paranormal TV (“Ghost Hunters” o “Haunted Encounters”), spesso mettono in scena tecniche pseudo-scientifiche per verificare la presenza di fantasmi. Secondo alcuni critici sono programmi ridicoli e assolutamente trash, simili al softcore pornografico; ma secondo altri hanno un’importante funzione epistemologica, affrontando il tema della paura della morte. Come ha affermato Diane Dorby: “Questi reality sul paranormale forniscono agli spettatori delle strutture di plausibilità che aiutano a interpretare il significato e l’esperienza della morte e del lutto.”

Questo salto dimensionale offre tutta una serie di occasioni di satira del mondo dei media e di gustosissimi episodi autoironici. Ad esempio più avanti nell’episodio si vede la casa che viene scenografata, ma uno dei macchinisti muore per un misterioso incidente sul set – presagio di sventura – Sidney però rifiuta di interrompere la lavorazione, mostrando tutta la sua noncuranza e miscredenza nel paranormale, il cinismo dei media.
Il linguaggio del reality acquisisce una forza di plausibilità, poiché le cose sembrano accadere in diretta, il tempo reale è la presunta garanzia di oggettività che dà la ripresa. Ovviamente nella tv è tutto molto spesso preparato e guidato (ormai anche il reality è scripted, rigorosamente sceneggiato), ma nel caso dell’horror di American Horror Story la realtà crudele emerge proprio dagli elementi più immaginari: i fantasmi qui uccidono davvero. E la telecamera, pur rimanendo un occhio senza operatore, continua a riprendere tutto l’orrore.

Parlando di televisione Murphy non poteva esimersi dal mettere in scena la parodia di uno dei generi più diffusi: il giudiziario. In una società come quella americana dove i casi giudiziari vengono riaperti dopo i documentari di Netlfix. Il tema del giudizio, sia in senso criminale, come responsabilità penale, che in senso morale e sociale, come pregiudizio, opinione diffusa tra la maggioranza che finisce per marginalizzare le minoranze, è messo al centro di AHS-6. Murphy riflette anche sulle conseguenze che il sistema mediatico ha sulle istituzioni (giudiziarie e di polizia) mostrando con efficacia la fragilità dell’America contemporanea.

Perno centrale della tematica diventa il personaggio di Lee, donna, ex-alcoolista e afroamericana, il terzo personaggio testimone della casa dei fantasmi. Dalla visione della prima parte del docu-drama My Roanoke Nightmare infatti il pubblico ha desunto che Lee abbia ucciso il marito – che è stato ritrovato nei boschi massacrato, ma non è ben chiaro se sia stata lei (con il movente di ottenere la custodia della figlia) o gli spiriti (ma fin ora nessuno crede realmente al paranormale). Ora la troviamo sotto processo (in TV), ma il desiderio di giustizia del pubblico è un desiderio di punizione, quasi sadico. Non è un caso che si accanisca contro il personaggio che in maniera quasi stereotipica riassume tutte le minoranze americane.

Qui si situa la critica di Murphy ai fan, accusati di un sadismo insaziabile. Alcuni critici hanno rilevato come il successo dei reality-show dipenda dalla nozione di schadenfreude, termine tedesco che indica l’esperienza di godimento e gioia nel vedere le sofferenze altrui. Una sorta di godimento sadico, che la televisione sfrutta senza pietà specialmente nei reality. Ci sono 3 tipologie di questo particolare godimento: basato sull’aggressività – legato all’identità di gruppo, in cui si gode nel vedere le sventure di un altro gruppo rivale. Basato sulla competizione individuale – la classica gioia del vincitore, che si sente rafforzato nella sconfitta del rivale, qui siamo nell’ambito dell’autostima e del valore personale. Infine c’è la schadenfreude basata sulla giustizia, che riguarda i valori morali in cui si crede, è il desiderio di vedere giustamente puniti i responsabili di atti immorali e criminali. Una cosa che in America sanno fare molto bene, si pensi a tutte le pluralità di significato storico e politico dell’espressione caccia alle streghe. Murphy inserisce sottili critiche e riflessioni su tutti i 3 tipi di godimento sadico, sarebbe troppo lungo riassumere, ma la sua visione della depravazione moralistica a cui è giunta la società americana è sorprendente.

La seconda parte della stagione mostra molto bene le pratiche manipolatorie degli autori del reality show, in questo caso ancora più sadiche perché finalizzate a generare uno spettacolo orrorifico. Un’altra serie che mostra il crudele backstage dei reality (nello specifico di genere dating in stile The Bachelor) è la brillante Unreal, che svela come il gioco al massacro tra realtà e finzione può finire per distruggere anche le vite degli autori di tali programmi.
Ricordiamo che il punto dello show in questo caso sta nel riunire gli attori della prima parte insieme ai personaggi reali che hanno vissuto nella casa infestata. Nell’indagare il limite tra storia, vita reale e finzione, è interessante il personaggio di Kathy Bates, che nel docu-drama interpretava Thomasin, la macellaia, la capogruppo dei fantasmi di Roanoke.

La leggenda di Roanoke è una storia reale di una colonia inglese stabilitasi in North Carolina alla fine del ‘500, nel territorio dei nativi Croatan e misteriosamente scomparsa. Secondo la leggenda, poiché la colonia pativa la fame, gli uomini maturi partirono per una spedizione in cerca di cibo, ma non tornarono più. Dopo una lunga attesa, Thomasin, moglie del capo della colonia e reggente temporanea, si addentrò in un percorso demoniaco che la portò a trasformarsi nel fantasma della crudele macellaia. Thomasin incontrò nel bosco la strega Scáthach (Lady Gaga) e fece un patto con lei per scampare dalla fame. Il patto però esigeva che Thomasin e i coloni offrissero alla strega sacrifici umani, così la colonia si trasformò in un’orda di cannibali e rimasero sui luoghi come spiriti infestanti pronti a uccidere una volta l’anno durante i tre giorni della luna di sangue.

Katy Bates in questa seconda parte ha il ruolo di Agnes, l’attrice che interpretava la macellaia nel docu-drama. Il problema è che Agnes è rimasta intrappolata nel ruolo. Identificata totalmente con la macellaia, ha avuto una attacco di delirio andando in giro per Los Angeles armata di mannaia. Quando lo show-runner Sidney la va a trovare e la intervista, lei sembra ristabilita, racconta che è seguita dai medici e non vede l’ora di iniziare le riprese del nuovo show. Ma Sidney con un sorriso costernato le dice che lei non parteciperà, perché sono preoccupati del suo stato di salute mentale. Sidney smonta le telecamere e va via, mentre Agnes ha una nuova crisi isterica e urla: Non potete farmi questo. Sono io la macellaia! L’assistente di Sidney fa notare che siccome Agnes si è trasferita a pochi chilometri dalla casa dove girano, sarà difficile che resti lontana dal set; «è proprio quel che mi auguro» è la cinica replica di Sidney, che spera vivamente in un nuovo colpo di testa di Agnes per animare il conflitto dello show.

La confusione dei piani è totale e innesca una spirale diabolica, in cui però si muore davvero. Entriamo nella dimensione iperreale della tv, più vera del vero, più horror dell’orrore. La tecnica actor’s studio dell’immedesimazione, porta al delirio paranoico e violento: sarà proprio Agnes a macellare Sidney e i suoi assistenti nel camper di produzione – portando ai massimi livelli la schadenfreude degli spettatori reali di AHS. Il punto è che nessuno sa più cosa è vero e cosa no, cosa è un trucco per le telecamere, un’allucinazione o un fatto reale, e questo porta alla follia di gruppo.

Torna l’elemento della colpa e della responsabilità: non si capisce più chi ha ucciso, né perché; se lo ha fatto in pieno possesso delle proprie capacità o perché sotto influsso altro. Si capisce bene che è stata proprio la presenza degli estranei della tv, la causa scatenante della violenza e dei crimini raccontati. Aver turbato l’equilibrio di forze naturali e soprannaturali del territorio di Roanoke, non ha fatto altro che inasprire la rabbia e acuire la violenza, con il risultato di moltiplicare il numero di cadaveri. La televisione crea da sola il reale sadico di cui ha bisogno come nutrimento. Reality it’s what we make of it. La storia ormai è una storia mediata, non vi è più scampo dall’American horror TV History.

L’esplosione incontrollata delle pulsioni violente poggia sullo stesso meccanismo emotivo che ha portato alla proliferazione delle fake-news. Giacomo Costa spiega la logica della Post-Verità: «che pare rovesciare il rapporto tra il valore dei fatti, che parla alla ragione, e quello di emozioni e sentimenti […] stiamo uscendo dalla modernità razionalista per addentrarci in una postmodernità della sensazione. Ma anche le emozioni hanno un ruolo nella ricerca della verità: sono segnali da leggere, mettendo a fuoco che cosa indicano»1.

Three days in Hell è una macchina che porta alla follia i suoi stessi protagonisti. Mettere sullo stesso piano realtà e finzione, provoca un’epidemia paranoica che disintegra i corpi/mente. Il tema profondo di American Horror Story 6 è proprio l’exploitation, lo sfruttamento cinico e assetato di sangue degli spettatori cannibali, pompato a violenza come una droga dai produttori e dagli sponsor.
In questa seconda parte della serie, la tematizzazione del vero e del falso e le motivazioni che portano a mentire, diventano sempre più importanti. Ma rispetto all’argomento di moda delle fake-news, Murphy fa un’inversione: invece che un’informazione fake, crea una fake-reality, dando vita a una dimensione parallela, oltre i confini dello schermo, che è un’iperbole doppia: più vera del vero, più fake del fake. La leggenda sanguinosa della colonia di Roanoke si incarna grazie al medium televisivo, nutrita dalle energie pulsionali della violenza e del sadismo che permettono ai fantasmi di oltrepassare il velo tra vita e morte come nel mitico Poltergeist.

Il format reality-show genera uno stupro del reale e sedimenta una nuova storia riscritta. La percezione del reale è ormai transitata definitivamente attraverso gli schermi, in una spirale dove non conta più il realismo e l’attendibilità del fatto in sé, ma dove il vero è sempre una questione suggestionata e influenzata dalla comunicaziona mediatica. Il dominio della tv non è reale, ma iperreale.

Nelle ultime due puntate della stagione Ryan Murphy volge direttamente lo sguardo sull’elemento cruciale della storia: il pubblico che ama divorare certi programmi spazzatura. Il suo atto di accusa è anche una velata critica ai suoi stessi fan. La stagione 6 è un’astuta riflessione sul consumo attuale di contenuti audiovisivi. Roanoke ruota interamente intorno al suo dissacrante meta-cinismo e finisce come la lezione di un esperto su come trollare i propri fan.

Le ultime puntate sono tutte narrate da punti di vista interni, Murphy usa il genere del found-footage alla Blair Witch Project per mettere in scena un gruppo di fanatici dell’horror, armati di caschi con telecamere, che vanno sul terreno di Roanoke. Saranno proprio questi teen-ager affamati di sensazionalismo e protagonismo videoamatoriale a trovare la roulotte di produzione coi cadaveri sventrati di Sidney e del suo staff. Questi fan sfegatati sono allo stesso tempo occhio-POV (soggetto della ripresa), ma anche oggetto (testimoni dell’orrore e poco dopo vittime). Inoltre si inizia ad avere un effetto di identificazione: i fan del fake-reality My Roanoke Nightmare sono identici ai fan di American Horror Story. Questo rispecchiamento mette lo spettatore che guarda da casa in una posizione scomoda, di disagio, proprio perché questiona il suo godimento sadico.

Il capitolo 10, l’ultima puntata di AHS-Roanoke, è spiazzante e geniale. Si tratta di una sorta di blob, che monta contenuti audiovisivi di ogni tipo (fanvideo da you-tube, justice-show, talk-show, news), mettendo in evidenza come la nostra esperienza della realtà sia ormai interamente mediatica. L’ultima puntata è costruita montando in maniera frenetica tutto il found-footage a disposizione, cioè tutto il contenuto che abbiamo visto nelle prime 9 puntate, declinandolo in versioni parodiche di famosi format della tv americana.

Da un punto di vista narrativo, il problema è ricostruire la verità dei fatti. Cosa è successo davvero nella casa di Roanoke? L’unico testimone oculare dei fatti è Lee, unica sopravvissuta. Ma un solo punto di vista, non basta per capire la verità. In più la posizione di Lee è complessa: è sia l’unica testimone degli accadimenti, sia vittima delle torture, ma anche presunta colpevole di omicidio.

Il primo format parodiato è Cracked – uno show che racconta le vite distrutte di persone vere che hanno avuto un esaurimento nervoso e commesso azioni dubbie o criminali – riassume la storyline di Lee mostrata con un montaggio indiscriminato di footage presi sia dalle parti fake che dalle parti docu (spezzoni che lo spettatore esterno di AHS riconosce e può quindi distinguere cosa sia reale e cosa no, cosa impossibile per il pubblico interno all’universo narrativo, che finisce per credere che la versione dello show dica la verità). Lee è raccontata con un retorico voice-over di ipocrita compassione, che la umilia, reputandola una poveretta insana di mente. L’effetto è veramente nauseante.

Si passa poi al processo, anche questo totalmente spettacolarizzato (Murphy è anche autore della serie America vs. OJ Simpson e conosce le dinamiche della tv-justice). Il dibattimento raggiunge il culmine con la visione di un frammento in cui Lee fa una video-confessione, mentre però è tenuta sotto tortura da una famiglia di cannibali personaggi secondari di Roanoke, il che rende la confessione non attendibile. In un’escalation di spettacolarizzazione viene poi fatta testimoniare Flora, la figlia di Lee, che dice di aver visto la madre che uccideva suo padre. Una minorenne testimone in un processo contro la sua stessa madre non è esattamente attendibile, infatti l’avvocatessa di Lee nel controinterrogatorio fa emergere la storia del fantasma di Priscilla, di cui la bambina racconta con entusiasmo come di un’amica immaginaria. Se Flora ha immaginato il fantasma, avrà immaginato anche la madre che uccideva il padre: per la difesa è stata solo una visione, un effetto di reazione alla separazione tra i genitori. Alla fine Lee è riconosciuta “Non Colpevole”. Ma si mostra l’intervista a uno dei giurati, che rivela che la giuria era molto divisa. Il dubbio rimane.

Con il finale si torna al linguaggio finzionale in oggettiva. Siamo nella classica situazione di assedio della polizia, la presunta assassina pazza, Lee, è da sola all’interno della casa con Flora, ma fuori la polizia non ha idea di cosa sia successo, hanno solo trovato i cadaveri dei ghost-hunters e credono che sia stata Lee a uccidere tutti e barricarsi dentro con la figlia. Il dramma è che Flora ha perso ogni fiducia nella madre perché l’ha vista ammazzare suo padre. A questo punto Lee le spiega cosa significa essere genitori. Quando si diventa genitori si vuole essere perfetti in tutto (flawless), per provvedere al meglio al bene di proprio figlio, ma nella realtà è impossibile essere flawless (letteralmente senza ferite), solo che quest’immagine ideale e aspirazionale (immaginaria) che ci si è costruiti nella testa è così forte che nel tentativo di concretizzarla, ci si ostina e si continua a sbagliare e fare errori, anche se in buona fede.

Lo speech si applica alla genitorialità ma è anche una riflessione sulla creatività. Spesso Ryan Murphy è stato descritto dai suoi collaboratori come un padre, che ci mette di tutto per far si che i suoi show siano perfetti, abbiano successo e raccontino efficacemente la storia. Non sempre ci si può riuscire. Nessuno è perfetto. Ed è perfettamente inutile arrabbiarsi (come i fan) dando la colpa agli autori.

I personaggi della stagione finale di AHS sono caratterizzati da un sapore agrodolce, malinconico, in cui la linea di demarcazione tra bene e male è sempre incerta. Alcuni muoiono, altri sopravvivono, quello che conta alla fine è il senso di chiusura, la pace dell’anima. Perché sono proprio le anime con conti in sospeso che tornano sulla terra a ossessionare i vivi. C’è una grande portata etica nella serie, che va oltre le dicotomie semplicistiche e le polarizzazioni facili. L’universo di American Horror Story si situa sulla linea di confine tra mondi, tra valori, tra identità diverse e fluttuanti, senza pretendere di avere risposte univoche e convincenti per tutti.

Murphy ci dice che per poter sostenere la visione dell’orrore, è fondamentale avere sempre un certo distacco, ironico e soprattutto autoironico. Perché, si perdoni la tautologia, la paura fa paura davvero. Il bombardamento di notizie e l’allarmismo gratuito delle fake-news fa leva sulla paura, giocando sul fattore di convincimento: più dici che una cosa succederà, più la gente si convincerà che sia vero. Poi magari dici anche che è già successo e che la storia si ripete. Insomma più si crede in una cosa e più ci si convince che sia vero. È questa la logica del martellamento delle fake-news, far leva sulla credenza emozionale, di pancia, più che sull’analisi razionale di una realtà complessa.
È come se Murphy dicesse: Volete l’orrore vero? Volete vedere chi è assetato di sangue, violenza e morbosità, senza alcun senso di responsabilità o empatia per le vittime, senza curarsi delle conseguenze future? Guardatevi allo specchio (schermo): l’orrore siete voi. Lo psicopatico sei tu, spettatore gaudente di American Horror Story.

Per concludere mi piace definire American Horror Story – Roanoke un UNO (Unidentified Narrative Object – secondo la definizione di Wu Ming) perché è davvero un oggetto narrativo peculiare, multistrato e multidimensionale. Proprio nel rapporto dialettico con il pubblico e nelle sue ramificazioni transmediali, nei commenti e nelle speculazione della fandom, genera un meccanismo creativo di dibattito su questioni cardine della contemporaneità.

La portata sovversiva delle creazioni di Murphy e Falchuck sta anche nel ribaltare le posizioni dei discorsi mainstream, invertendo la polarità tra oggetto e soggetto, tendendo sempre presente l’elemento individuale del punto di vista. Le teorie femministe sul cinema hanno sempre criticato il fatto che la donna fosse vista solo come oggetto del desiderio di uno sguardo vojeuristico maschile; Roanoke con il suo mix linguistico replica una molteplicità di sguardi, maschili e femminili, umani e artificiali (gli occhi delle telecamere di sorveglianza, le camere che cascano a terra e riprendono anche dopo che i loro operatori sono morti), e facendo recitare molti ruoli diversi ai suoi attori, li sposta continuamente da un lato all’altro della “quarta parete.”

Parafrasando Wu-Ming direi allora che Roanoke è un UNS (Unidentified Narrative Subject), la serie è un soggetto narrante non identificato. La visione oggettiva e fredda dei fatti, razionale e logica, tradizionalmente associata al maschile, è mixata con la visione soggettiva della storia, più sensibile ed emotiva, tradizionalmente associata al femminile.

Sicuramente la serie non sarà perfetta, ci sono molti salti logici e buchi di trama che la rendono complicata da seguire. Ma è assolutamente centrata nel tema, nei linguaggi che adopera e nella profondità dei personaggi. La dichiarazione di intenti della serie era già presente nel testo della canzone di Lady Gaga (considerata una delle muse di Murphy) Perfect Illusion, che è stata usata per lanciare la serie. Con una precisazione: anche l’illusione migliore, non potrà mai essere perfetta, il bello è proprio questo, perché se fosse perfetta vorrebbe dire che siamo morti e stiamo forse contemplando Dio, nella pace dei sensi. Siete sicuri di volerlo davvero?


  1. Giacomo Costa, Orientarsi nell’era della post-verità

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American Horror Story 6 e i Fantasmi della TV americana. Un viaggio nel tunnel dell’orrore dei media – prima parte https://www.carmillaonline.com/2022/06/12/american-horror-story-6-e-i-fantasmi-della-tv-americana-un-viaggio-nel-tunnel-dellorrore-dei-media-prima-parte/ Sun, 12 Jun 2022 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72325 di Fosca Gallesio

Ryan Murphy è uno dei più importanti showrunner americani, è stato sempre capace di raccontare come pochi la società americana e le sue contraddizioni. Prima con Nip/Tuck (2003-2016), insieme al socio Brad Falchuck, una delle serie più innovative e provocatorie della new-wave seriale sulla vita di due chirurghi plastici di L.A., ha raccontato in modo disturbante e feticista le complesse implicazioni fisiche, psicologiche ed etiche della manipolazione artificiale del corpo. In American Crime Story, esplorazione di eclatanti casi di cronaca (OJ Simpson, Versace, Lewinsky) mostrava nell’interconnessione tra i media e la realtà lo scenario della tv-justice. [...]]]> di Fosca Gallesio

Ryan Murphy è uno dei più importanti showrunner americani, è stato sempre capace di raccontare come pochi la società americana e le sue contraddizioni. Prima con Nip/Tuck (2003-2016), insieme al socio Brad Falchuck, una delle serie più innovative e provocatorie della new-wave seriale sulla vita di due chirurghi plastici di L.A., ha raccontato in modo disturbante e feticista le complesse implicazioni fisiche, psicologiche ed etiche della manipolazione artificiale del corpo. In American Crime Story, esplorazione di eclatanti casi di cronaca (OJ Simpson, Versace, Lewinsky) mostrava nell’interconnessione tra i media e la realtà lo scenario della tv-justice. Ma anche nella più leggera commedia musicale «Glee», che illumina in modo brillante il tema dell’ambizione e della scalata al successo nello showbusiness.

Le produzioni di Murphy si caratterizzano per la forza con cui definiscono la propria identità tematica, nell’estetica visiva e nelle scelte produttive del cast di attori e nelle campagne di marketing. Il suo stile sofisticato è sempre coerente con il tema, i personaggi e il genere della narrazione.
Murphy, paladino della comunità LGBTQ+, esibisce la sua identità queer, provocando, ma anche evocando, senza mai essere banale. Il suo intuito per i temi caldi al centro dell’attualità (il desiderio di realizzare i propri sogni di gloria degli adolescenti del musical Glee, i problemi etici della spettacolarizzazione della giustizia in American Crime Story: OJ Simpson, la questione dell’identità sessuale e il ruolo delle donne nella società) ha fatto si che le sue serie siano diventate fenomeni di massa di successo internazionale. Con una fan-base molto attiva sui social, un cast ricorrente di star, scoperti o riscoperti da lui (Sarah Paulson, Evan Peters, Cuba Gooding Jr)), Murphy è uno dei più abili narratori della contemporaneità.

Nel 2011 Murphy e Falchuck lanciano American Horror Story – una serie horror inizialmente in formato antologico (ma che poi collega le stagioni in un unico universo narrativo distopico). Il concept è chiaro fin dal titolo: storie dell’orrore americano. L’America è l’arena, come dimensione spaziale e temporale: ogni stagione ha una localizzazione, che funziona anche come reference tematica (per esempio le streghe della 3 sono a New Orleans, mentre Hotel, la stagione 5, è ambientata a Los Angeles). Dal punto di vista temporale, il piano narrativo principale è contemporaneo, ma ci sono continue incursioni nel passato (e qualche precognizione del futuro), che hanno dato vita a una cronologia parallela e alternativa alla storia reale americana1. Gli autori intrecciano leggende e fatti storici, cronaca e fiction, attingendo dal patrimonio culturale in senso ampio.

Le storie dell’orrore esplorano da sempre il tema della morte e della violenza, il male in quanto tale, in quanto possibilità filosofica. Perché esiste il male? È una questione su cui ci si interroga fin dalla notte dei tempi, infatti il racconto horror affonda le sue radici nelle religioni e nelle credenze, nel folklore, nei miti e nelle leggende. È anche questo il suo fascino. Quella linea sottile che separa il vero dal falso, la realtà dalla leggenda. Quella nebbia che avvolge i miti e che ci fa chiedere: sarà successo davvero?

È così che le paure si agganciano a elementi inconsci, sia a livello individuale che collettivo, ma l’inconscio produce anche dei sintomi, emersioni di una profonda verità. Nelle sue nove stagioni American Horror Story indaga dei trend fobici, dei momenti in cui la società è spaventata da un particolare tipo di fenomeno – che di solito parte dal reale, dalla cronaca, per poi essere raccontato dai media con tutti i suoi molteplici linguaggi e forme, fino a sedimentarsi come fatto storico intrecciato a echi leggendari (il fenomeno di creazione delle leggende urbane contemporanee).

Questo processo nella società multimediale è diventato veloce, complesso e caotico; si intrecciano questioni fondamentali a livello di rapporto tra evento reale – il fatto; racconto giornalistico veritiero (con le problematiche di fact-checking e manipolazione dell’informazione – pensiamo al problema delle fake news e alla cosiddetta Post-Verità); e lo storytelling finzionale, che è naturalmente portato – per creare effetti drammatici più efficaci – a confondere lo spettatore, alternando i diversi piani di realtà.

Con la stagione 6 della serie intitolata American Horror Story: Roanoke, Murphy compie un esperimento metalinguistico e satirico sul mondo dei media del tutto originale e sovversivo.
La serie 6, per ovvi motivi di simbolismo legato al numero nell’horror, era molto attesa dai fan e l’aspettativa viene sollecitata dallo stesso autore che promette: «Un’esperienza del tutto nuova e diversa per il pubblico». Sfruttando la simbologia si è creato un logo multiforme, che combina il numero 6 con il punto di domanda. Un chiasmo grafico, declinato in ogni teaser secondo lo stile di un modello del genere horror2 ci sono molteplici riferimenti sia alle stagioni precedenti (Murder House, Alieni, Asylum) che ai topoi del genere: Rosemary’s Baby, Body Horror, Torture Porn alla Hostel, Nosferatu di Murnau, il cinema anni ’50 dei Mostri della laguna fino al mockumentary alla Blair Witch Project. La sesta stagione è presentata come un mistero che promette di essere il culmine del lavoro antologico che Murphy sta facendo sul genere. La direttrice marketing della rete FX parla del pubblico dei fan definendolo: ”Una massa psicografica, più che demografica” a dimostrazione della volontà della serie di indagare fobie e paranoie dell’inconscio collettivo contemporaneo.

Parte 1: My Roanoke Nightmare

La serie inizia come un mockumentary, più esattamente riproduce il formato del docu-drama, inscenando un programma di intrattenimento tv factual dal titolo «My Roanoke Nightmare».
Il format alterna interviste (confessione) ai protagonisti di una presunta ghost-story, con ricostruzioni drammatizzate con attori e tecnica cinematografica. Naturalmente il pubblico vero di AHS sa di trovarsi di fronte a un’opera di fiction, ritrova il cast abituale sia nella parte documentaria che nella parte drammatizzata. Si tratta di uno pseudo-documentario, perché il travestimento della serie è esplicito e per lo spettatore sono chiari i diversi piani della narrazione.

La storia è semplice: gli sposini Shelby e Matt Miller si trasferiscono in una magione coloniale in North Carolina, dove iniziano a succedere fatti strani e misteriosi. Un classico del genere, che fa riferimento a Amityville (1979) basato sull’omonimo bestsellers di Jay Anson, che pretendeva proprio di essere il resoconto di un vero caso di casa infestata. Il pubblico smaliziato già prevede l’escalation degli eventi paranormali, mentre il pubblico più naif è incuriosito dall’inedita tecnica di narrazione. Ma l’alternanza tra docu e fiction genera anche un ulteriore effetto di parodia. Mentre le interviste ai veri protagonisti veicolano gli elementi più emotivi e personali, caldi, che generano una forte empatia; le ricostruzioni assumono un registro leggermente parodico, di realtà aumentata, con un tono più enfatico e drammatico e, allo stesso tempo, sarcastico, esagerato sul piano sensazionalistico della fiction.

La vicenda si complica quando viene introdotto un terzo protagonista: il marito Matt nella prima puntata parte per un viaggio di lavoro e chiama la sorella Lee (Adina Porter) per non lasciare la moglie da sola. Lee è un terzo punto di vista fondamentale da un punto di vista drammaturgico e strutturale. La sua storyline serve ad enfatizzare il conflitto e alzare la posta in gioco; inoltre aggiunge un terzo polo, che permette di triangolare i fatti paranormali, per indagarne la natura e la veridicità.

Infatti opponendo i racconti di solo due personaggi, per di più moglie marito, sarebbe facile giustificare i fatti paranormali come alibi o copertura per non ammettere una violenza reale. Quindi cosa si aspetta il pubblico? In partenza abbiamo solo una certezza: tutti gli intervistati sono rimasti vivi. Fatto incontrovertibile, perché le interviste sono cronologicamente posteriori agli eventi narrati.
Ma intanto nella tessitura delle interviste e delle ricostruzioni vengono fuori le omissioni che rendono evidenti le discrepanze tra i diversi racconti dei personaggi, creando degli (apparenti) buchi di trama. Si crea un clima di tensione in cui non si capisce più cosa sia reale e cosa sia una fantasia o una menzogna. Lo sguardo parziale di ogni personaggio racconta nelle interviste la propria versione dei fatti, mentre la ricostruzione drammatizzata si fa sempre più agghiacciante nella moltiplicazione dei fenomeni e dei misteri.

Questa prima parte di pseudo-documentario, My Roanoke Nightmare, dura 5 episodi e si presenta come un mélange di riferimenti interni sia al genere horror cinematografico che alla paranormal television. Ci troviamo in una realtà splittata: da un lato il documentario soggettivo fatto dalle interviste su fatti incredibili, dall’altro lo scripted-reality che presenta il racconto dei testimoni sul piano immaginario come se fosse realmente accaduto.

Così si crea una spirale confusionaria tra piano della realtà dei fatti, piano personale dei punti di vista emotivi dei protagonisti e piano della narrazione televisiva. Ma nell’alternanza continua tra la parte docu e quella drama, emerge la consapevolezza che stiamo sempre guardando una serie, quindi lo spettatore a casa è consapevole di trovarsi davanti a un fake. Potremmo definire My Roanoke Nightmare un fake docu-drama horror.

In questo senso la serie contenitore, American Horror Story 6, si presenta come uno pseudo-documentario. Un sottogenere della Fake-fiction, che usa la tecnica documentaria per raccontare fatti inventati3. Questo pseudo-documentario si conclude come arco narrativo con l’episodio 5 della serie. Murphy aveva annunciato un grande turning-point a metà stagione. Cosa racconterà la seconda parte di Roanoke? E soprattutto con che linguaggio? Si tornerà alla narrazione finzionale tradizionale?

Per un’analisi corretta di AHS-Roanoke è importante considerare il contesto americano del periodo della messa in onda. Siamo nel 2016 – la serie va in onda a settembre – in piena campagna presidenziale Hilary Vs. Trump, quando esplode il fenomeno delle fake-news in una guerra di tweet che poi sappiamo come è andata a finire.
Quindi fare delle riflessioni sul concetto vero/falso (real/fake), sullo statuto della narrazione mediatica e la capacità di mistificazione riguardo temi forti come la morte e la violenza, è un coraggioso atto politico. È affrontare la disgregazione della realtà nell’ality, la dimensione parallela del Grande Fratello dove gli agenti nello schermo non sono più visti come persone reali, ma come personaggi, da odiare o deridere.

Il fenomeno reality coinvolge naturalmente anche il pubblico, che diventa un divoratore sadico voyeuristico di personaggi, che poi vengono attaccati e presi in giro nell’esplosioni di shit-storm dei social media. Il pubblico tifoso o fanatico è in definitiva il vero obbiettivo dell’operazione di Ryan Murphy. La serie 6 infatti è anche un coraggioso atto di accusa verso gli stessi fan di American Horror Story (che avevano criticato aspramente la stagione precedente), che spesso sembrano badare più agli effetti splatter e orrorifici della serie che ai temi etici di fondo.

Parte 2: Return to Roanoke – Three Days in Hell 

A metà serie c’è una svolta che mostra il backstage dello pseudocumentario: con un effetto di specchio riflettente più che di soglia, la quarta parete dello schermo porta all’iperrealtà del fake, mostrando attraverso il making-of le logiche che lo strutturano (che sono le reali logiche della tv contemporanea). La seconda parte di Roanoke è la storia della realizzazione del sequel del docudrama.

Nell’universo finzionale di AHS, My Roanoke Nightmare è andata in onda con enorme successo. L’episodio 6 si apre così con lo show-runner Sidney (interpretato da un cinico Cheyenne Jackson, che imita caricaturalmente lo stesso Murphy) che vuole proporre subito una seconda stagione al network. La riunione con gli executive della rete è una scena surreale: si chiedono come possa essere fatto un seguito, visto che la storia arrivava a un finale ben definito. Il problema è che nessuno crede davvero alla storia raccontata dai Miller. “Siamo gente razionale, non crediamo ai fantasmi…” Allora cosa si può raccontare nel seguito, cos’altro può succedere di drammaturgicamente interessante? Sidney dà una risposta significativa:

Sidney: The drama is reality!
Executive: So it’s… fake?
Sidney: Reality is what we make of it

Sidney propone di prendere gli attori della serie e gli stessi Miller più la cognata Lee e metterli tutti insieme nella casa infestata, proprio nel periodo maledetto della Luna di Sangue, quando, secondo la leggenda, i fantasmi si materializzano e possono uccidere davvero. Ma cosa ci possiamo aspettare che succeda davanti alle telecamere se la storia di fantasmi è considerata falsa (immaginaria)?

Drama in inglese significa in senso lato un contenuto audiovisivo di finzione, una fiction.
La battuta di Sidney, La fiction è realtà, si gioca sul doppiosenso del termine in inglese ed è da leggere come un ossimoro. Siamo in una dimensione docu-reality o fiction? Gli executive della rete sono molto confusi: temono che il pubblico capisca di trovarsi di fronte a una finzione e rimanga deluso, perché il fake è chiaramente una menzogna. Per spaventare davvero i protagonisti si dovrà ricorrere a trucchetti ed effetti speciali, mentre il bello della prima parte è che sembrava reale (grazie all’emotività delle interviste) e appariva come vero (nella ricostruzione drammatica), anche se non si crede ai fantasmi. Quello che il pubblico dell’horror cerca è proprio questa linea di confine tra credere e non credere, che permette di godere la paura, protetti dal velo della finzione, della messa in scena.

Il bello era proprio la possibilità di credere che quella storia fosse vera, ma nel confort della propria casa, protetti dallo schermo tv. Purtroppo dal punto di vista del pubblico (e dei committenti del Network) per una seconda stagione la stessa storia perde in verosimiglianza e credibilità, ha bisogno di essere caricata di forza drammaturgica proveniente dal reale o meglio dal format reality.

Mai come in altre stagioni di AHS si mette al centro l’immagine televisiva: è come dire che ormai la Storia è scritta dalla televisione, e la realtà non è più tale, ma è sempre una realtà percepita, nel senso di condizionata e orientata secondo un preciso interesse. La produttrice chiede perplessa: ma allora è tutto finto, fake? Il problema è che si rischia di deludere il pubblico. La risposta di Sidney è scioccante: la realtà la facciamo noi, il reality, il format è il reale. Il punto è proprio che diventa reale quello che noi vogliamo che sia reale, quello che il pubblico crede essere vero, non il fatto in sé. Mai sottovalutare il potere della suggestione, soprattutto quando si parla di fenomeni di massa. Ma Murphy effettua un ulteriore twist, squisitamente di genere: AHS è una reale serie dell’orrore e la storia la fanno i Fantasmi, che uccidono realmente.

All’interno del contenitore generale, AHS, Murphy sfrutta l’aspettativa del pubblico per un turning point che è letteralmente un capovolgimento della prospettiva, un controcampo che svela il volto del fake-showrunner, e porta a un cambiamento del format parodiato.
Dal docu-drama allo scripted-reality. È un gioco di scatole cinesi: la serie fiction AHS 6 contiene 2 stagioni di un tv-show, di cui la prima è una docu-drama e la seconda un reality-show che include elementi di backstage, che rimandano ironicamente alla serie contenitore. È molto complicato, ma questo avvitamento è proprio ciò che ne rende appassionante la visione. In questo modo Return to Roanoke assume un elemento di rispecchiamento metalinguistico, che lo rende una pungente satira della tv contemporanea oltre che un atto di accusa verso il voyeurismo compulsivo del suo stesso pubblico.

(continua)


  1. Il timeline completa delle prime 8 stagioni qui  

  2. qui  

  3. Pioniere del genere, che puntava a satirizzare il potere dei media nella costruzione dell’immaginario, fu Orson Welles, sia con la trasmissione radio dell’Invasione dei Marziani che con Citizen Kane  

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