Romanzi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Solo danni colletarali https://www.carmillaonline.com/2020/06/28/solo-danni-colletarali-di-pier-bruno-cosso/ Sat, 27 Jun 2020 22:10:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60588 di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare [...]]]> di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare il lavoro che hai sempre voluto, di avere una moglie che ami e che ti ama, una figlia adolescente che cresce bene, di ricevere stima per quel che sei e per quel che fai, di possedere una bella casa, di aver raggiunto un benessere che sai meritato. Immagina di avere una vita.

Immagina di essere il dottor Enrico Campanedda, di Sassari.

È la sua vita ad essere sconvolta quel sabato mattina da un’irruzione dei carabinieri con un’accusa assurda.

È Enrico Campanedda la voce narrante del romanzo Solo danni collaterali, di Pier Bruno Cosso, recentemente pubblicato da Marlin editore. È lui che ci tira dentro la sua storia facendocene condividere l’angoscia, la frustrazione, il senso di impotenza di fronte a un’accusa da cui sembra impossibile difendersi, al punto di chiedersi dove ha sbagliato, se è davvero colpevole, e di che cosa. Tante domande alle quali è difficile trovare una risposta.

È lui, siamo noi, che crolliamo, che entriamo in depressione, che guardiamo sfumare tutte le nostre certezze, che ci troviamo da un giorno all’altro senza lavoro, che dobbiamo rinunciare alla nostra sicurezza economica, che rischiamo -forse- di perdere gli affetti, di dubitare di tutti, di lasciarci andare.

La colpa è delle ali della farfalla o forse, sì, la colpa è dell’Autore. Che con capitoli serrati, una scrittura pulita e affilata come lama di coltello, con un ritmo che toglie il respiro… ci chiama in causa, accusati/accusatori, a volte troppo sicuri, dimentichi di essere fragili, sospesi sulla corda sottile dell’esistenza, incapaci di dare ascolto alle nostre inquietudini. E quel che resta dietro sono solo “danni collaterali”. O vite spezzate.

E allora tocca farsi coraggio, ritrovare fiducia, iniziare a lottare. Forse andrà bene, forse no. Sarà tutto come prima? O potrebbe essere meglio? Dipenderà da quanto avremo imparato.

Il romanzo si ispira a una storia vera, quella di un medico – come il protagonista del libro – che ha vissuto gli stessi eventi traumatici, in un luogo imprecisato della Sardegna. I personaggi, le vicende narrate, le ambientazioni sono però frutto della fantasia dell’autore che ci tiene a precisare:

“In ‘Solo danni collaterali’ tutto quello che sembra assurdo, che ti pare impossibile, è vero! L’intreccio con amori, passioni e tradimenti, invece è più attinente al mondo della fantasia. Anche per proteggere la vera identità del protagonista reale che ne ha passate abbastanza…” (intervista rilasciata a Massimiliano Perlato, per “Tottus In Pari”.

C’è uno sguardo rivolto anche alle vicende giudiziarie di cui fu vittima Enzo Tortora. Come nella realtà, anche nel libro si parla di un giudice che monta un caso clamoroso per far carriera, con la complicità di altre figure che perseguono i loro interessi personali. Il romanzo non vuole essere un atto d’accusa contro la magistratura, bensì una riflessione sul ruolo che ambizione e invidia possono giocare nella vita di un cittadino comune.

 

*Pier Bruno Cosso è nato nel 1956 a Sassari, dove vive tuttora e che è la sola città in cui vorrebbe vivere. Ha pubblicato i romanzi Il giorno della tartaruga (2013) e Dannato Cuore (2015), entrambi Parallelo45; la raccolta di racconti Fotogrammi slegati (2018), Il Seme Bianco (Gruppo Elliot–Castelvecchi). Solo danni collaterali (Marlin Editore 2020) è il suo ultimo romanzo.

 

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Due anni senza Philip Roth https://www.carmillaonline.com/2020/05/11/due-anni-senza-philip-roth/ Mon, 11 May 2020 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59910 di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di quel materiale, prevalentemente saggistico, è stato raccolto e pubblicato un anno prima che morisse. Ma quello che Roth aveva davvero da dire lo aveva già scritto nei suoi romanzi: l’ultimo suo lavoro, Nemesi, è del 2010 . L’anno dopo dichiarò che si sarebbe ritirato perché continuando “avrebbe potuto fare solo disastri”: momento topico, il raggiungimento del punto di saturazione, dopo una vita interamente spesa “a rigirare parole”. E anche quello che c’era da scrivere, su di lui – presenza mondana ingombrante, spesso al centro di polemiche feroci e autentici atti di culto – è già stato scritto, tra biografie autorizzate e non – ottima quella di Claudia Pierpont Roth, a cui l’autore collaborò volentieri, nonostante il tono franco e non elegiaco dell’opera.

Ma qual è il lascito vero, ultimo, di questo gigante della letteratura americana contemporanea? Forse la sensazione che ha lasciato, nei suoi lettori più attenti, di non riuscire mai ad afferrare il segreto lontano di quella scrittura, qualcosa di nascosto, indefinito, pur nella estrema evidenza della pagina scritta, qualcosa di non catalogabile nei canoni tradizionali della critica. Philip Roth lascia sempre una domanda sospesa nell’aria: perché i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi, sono quasi tutti segnati da una cifra memorabile, imperitura, perché esercitano una fascinazione che solo i grandi classici riescono a impiantare nell’anima dei lettori?

In fondo Roth non era “il più bravo” della sua generazione. Riconosceva l’inarrivabile primazia di Saul Bellow; ammetteva pubblicamente che Updike – amico, poi nemico, sempre competitor –, con la sua saga del Coniglio, si era dimostrato tecnicamente superiore per la profondità descrittiva dell’America wasp sconvolta dal boom e dalla rivoluzione sessuale; sapeva di doversi misurare con un gigante come Don De Lillo – che pubblica Underworld lo stesso anno di Pastorale Americana. Lui stesso era consapevole di non essere il migliore, e lo ammetteva. Eppure: perché i suoi libri, almeno alcuni, danno l’idea di essere il lascito “del migliore”? Qual è l’ingrediente segreto di una scrittura potente, ironica, ma anche contorta, personalissima, colloquiale fino allo stremo, allergica alle esigenze di sobrietà che da sempre gli editor vanno predicando, senza mai sfociare nello sperimentalismo bislacco oggi di moda? Non era il “number one” ma dalle sue pagine si sprigiona una misteriosa scintillanza che tutti gli altri non possono non avergli invidiato. E questo a dispetto delle malriuscite trasposizioni cinematografiche (Dio ci preservi dall’ultima, la serie HBO ispirata alla geniale ucronia di Complotto contro l’America).

Fu un personaggio famoso, decisamente non schivo, anche se mai in cerca di pubblicità o visibilità gratuita. Rilasciava interviste, ebbe amicizie prestigiose con il gotha della cultura americana e si concesse più di uno sprazzo mondano – compreso un breve flirt con Jaquie Kennedy. Più di De Lillo, riusciva a unire pubblico e critica, ma la sua carriera letteraria non fu sempre rose e fiori.

Dopo l’esordio pruriginoso del Lamento di Portnoy, che tanta popolarità gli aveva dato consacrandolo come il più interessante dei giovani della sua generazione, affrontò una ventina d’anni di scrittura dalle alterne fortune. In questa fase si annoverano gioielli come Lo scrittore fantasma (in cui osa resuscitare l’icona santificata – e mummificata – di Anna Frank, immaginando di incontrarla negli anni ’60, confusa e attraente giovane donna di cui invaghirsi, in mezzo alle memorie ancora fumanti dell’Olocausto e l’ebbrezza di quel decennio pirotecnico, facendo incontrare nella finzione narrativa due universi lontanissimi). Ma anche anni di solenni stroncature, in cui le grandi aspettative sollevate agli esordi parevano non concretizzarsi mai pienamente, lasciandolo nel limbo degli “ex giovani” di talento tristemente inespressi.

Fu al giro di boa dei sessant’anni che Roth infilò la sfilza dei suoi capolavori, talmente letti e famosi – come La macchia umana – da suscitare lo snobismo di quei critici che lo avevano atteso al varco per anni, e adesso guardavano diffidenti agli enormi successi di pubblico.

Cosa era scattato, in quegli anni, per dargli la spinta decisiva? La vecchiaia incipiente – che con pudore chiamiamo maturità? Lo sblocco emotivo di alcuni nodi esistenziali, la sua uscita, come ha scritto qualche critico, dalla fase di “eterno figlio”, dal ribellismo emotivo e identitario, per entrare dentro – lui e il suo alter ego Nathan Zuckerman – la fase malinconica dei capelli bianchi, degli acciacchi, delle disillusioni? Probabilmente è questa condizione che lo porta a usare al massimo la sua forza, la chiave di lettura di ogni storia e ogni suo personaggio: il paradosso – l’incongruente, l’inatteso, lo sconcertante – portato allo stremo, con coraggio, risolutezza, senza le speranze giovanili a mitigarlo, con la spietatezza di chi non perde più tempo a dare un senso alla vita.

E proprio la sua identità ebraica, è il terreno di fondo del suo spirito di paradosso: mai uno scrittore ebreo, ufficialmente ateo e allergico alle rivendicazioni identitarie di molti suoi correligionari, aveva passato tanto tempo a parlare e fare i conti con la “sua” ebraicità. E questo con una ossessione, un puntiglio, uno scrupolo psicologico, da far invidia a un rabbino. La sua pretesa di essere considerato “un ebreo” senza tanti altri aggettivi, “come essere qualsiasi altra cosa, come essere una mela”, si scontrava con il suo continuo battere e ribattere su quel medesimo tasto irrisolto. Come il prurito della pelle segnata dalle ortiche: anche se sai che non fa bene, continui a grattare fino al sangue, se necessario – questo significava ebraicità per il laicissimo e peccaminoso Roth.

Lo stesso esordio di Portnoy fu traumatico, con le accuse pubbliche rivoltegli da ambienti religiosi, circa il presunto “odio di sé”, tipico delle minoranze vogliose di assimilazione, che la scrittura del giovane Roth, dietro spregiudicatezze e oscenità, in realtà pareva rivelare agli occhi dei suoi detrattori. Forse fu proprio quello shock a chiarirgli le idee: non doveva ritrarsi dalle polemiche, doveva scavare e scavare e ancora scavare dentro il filone aurifero della suo ebraismo, perché lì dentro c’era l’arte, lì c’era la vita, lì c’era il fuoco, e le ferite aperte che germinano letteratura.

E negli anni sfornerà una galleria di “moderni tipi ebraici” assolutamente non stereotipati, problematici, contemporanei, eppure segnati da un qualche arcaico rimando tradizionale: i vecchi padri ebrei, laboriosi indomiti e premurosamente oppressivi verso il destino dei figli; e figli come Seymour Levov, l’eroe di Pastorale Americana, che ha realizzato il sogno dell’integrazione americana persino nella eccellenza genetica, meritandosi l’appellativo di “svedese”, genitore e imprenditore modello a cui toccherà la più feroce delle nemesi paterne; e Sabbah l’ebreo gaudente, ripugnante e pure a suo modo romantico, che incarna il “perturbante”; e Rita Cohen, l’enigmatico spiritello ebraico che disorienta i lettori di Pastorale, con le sue maligne apparizioni agli snodi cruciali della storia, simbolo dell’insopprimibile pulsione critica, feroce, erotica, oppositiva, che pure é stata una componente dell’anima della diaspora. Il filo conduttore dell’ebraismo afferra Roth e lo conduce nei labirinti oscuri della vita e del romanzo.

“Nella mia vita mi sono occupato sempre delle stesse cose ebrei, ebrei, ebrei, Newark, Newark, Newark”. Ed effettivamente i nodi identitari e quella “periferia” newyorkese che è considerato il Jersey, sono gli ingredienti immancabili, lo sfondo di ogni sua narrazione: e si sposano meravigliosamente bene. Qual è il luogo d’America dove un ragazzino ebreo piccolo borghese può meglio affrontare gli anni più turbolenti ed eccitanti della storia americana – dalla vittoria della guerra alla crisi del Vietnam? Il Jersey, naturalmente. A un passo dalla grande metropoli ma ancora in una dimensione umana, periferica, in cui quel ragazzino può ben dire di conoscere e identificarsi con ogni marciapiede e ogni vicolo del suo (ebraicissimo) quartiere. L’identità ebraica di prudente ponderatezza, che si dilata e si stiracchia verso la tensione sessuo-politica degli anni ’60, tendendosi senza mai spezzarsi: quanta ricchezza di temi, storie, volti, parabole possono sorgere da un simile calderone?

E poi a venticinque anni il matrimonio con una shiksa conosciuta in un bar dove la ragazza lavora – una bionda non ebrea che gli da l’illusione di avere finalmente conquistato la vera America, l’America profonda del biondismo; ma proprio come l’America, dietro la patina di brillantezza wasp, si nasconde un portato di sofferenza irredimibile e violenta, una sorta di miniera radioattiva. Il matrimonio è un disastro follemente distruttivo, che demolisce la vita di Roth e la condiziona (anche economicamente ) per molti anni, spedendolo in analisi per “recuperare la sua esausta virilità”. La bionda ha un passato terribile, viene da una scassata famiglia di alcolisti, le sono stati sottratti da un giudice due figli ed emana una tale carica di aggressività possessiva, che il giovanotto brillante della Bucknell University ne viene travolto.

Ma che fa uno scrittore – oltre ad andare in analisi, assumere psicofarmaci e lamentarsi del destino? Prende tutto questo veleno, lo mette a macerare nel suo laboratorio segreto e lo trasforma in una saga narrativa potente. Attraverso trasposizioni e finzioni letterarie, continua per anni a raccontare del suo maledetto matrimonio. Dal romanzesco avvio, con la futura moglie che per costringerlo al matrimonio si finge in dolce attesa, dopo aver acquistato in un androne del Bronx le urine di una barbona nera incinta; fino all’inaspettato epilogo: la morte in un banale incidente stradale della donna, che lo libera dalle vessanti condizioni imposte dal divorzio, che avevano ridotto Roth sul lastrico.

Un matrimonio sbagliato, diventa uno scrigno inesauribile di vite e controvite – una devastazione mentale al limite del patologico, si trasforma in una potente macchina narrativa. Anche Roth, alla fine, dovrà riconoscerlo: chi, se non la moglie distruttiva e squilibrata, è stata la vera editor e la vera musa della sua esistenza? Chi ha preso lo studentello presuntuoso innamorato di sé e dei libri e lo ha sbattuto faccia a faccia con la vita vera, fatta di stupri, alcolismo, sofferenze inenarrabili e famiglie devastate? Dopo gli anni passati a lottare con la bionda shiksa, Philip, non può che ringraziare e renderle pubblico riconoscimento (pur specificando che se fosse Dante, saprebbe bene dove collocarne il destino post-mortem).

Negli anni buoni della sua scrittura, questa “domesticità” di ambienti, temi e personaggi, si è fatta più ardita, è andata a porsi in contesti diversi, lontani dalle strade di New York. È il caso di Operazione Shylok, dove i temi classici di Roth vengono calati nel calderone furioso della storia: Gerusalemme diventa il teatro in cui l’autore, passata la mezz’età, si confronta con i suoi nodi irrisolti di uomo, di ebreo, di scrittore progressista. È la Gerusalemme di fine anni ’80, in cui una Corte israeliana processa John Demjanjuk, operaio di Cleveland riconosciuto come il boia di Treblinka. Ma sono anche gli anni in cui l’Intifada palestinese mette Israele sul banco degli accusati della storia, in un rovesciamento schizofrenico e drammatico in cui Roth irrompe portandosi dietro le sue paranoie, le sue domande irrisolte, saltabeccando tra le aule del processo Demjanjuk che lo ipnotizza, l’amico professore palestinese che cerca di tirarlo dalla sua parte, il Mossad che prova ad arruolarlo come doppiogiochista, in un gioco tra finzione e verità storica, prolisso, verboso, ridondante di temi e di parole, ma straordinariamente avvincente.

Ha sempre saputo, giocarci, con la storia, Roth. Come quando racconta, in Complotto contro l’America l’avanzata del fascismo in America. Cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se, alle elezioni presidenziali del 1940, Charles Lindebergh, eroe nazionale germanofilo, avesse battuto Franklin Delano Rooosvelt e si fosse piazzato alla Casa Bianca? Lo sguardo ignaro di un ragazzino di un quartiere ebraico, registra lo smottamento progressivo, la deriva lenta ma inesorabile verso gli scenari peggiori: l’incubo degli ebrei americani che rischiano di ritrovarsi – davvero e in via definitiva – soli dentro il montare della marea antisemita. Ma anche senza complesse evocazioni geopolitiche, a Roth basta raccontare una banale cena di classe tra ex studenti ultra sessantenni, per far fremere le pagine di ironia ed epicità: nel salone del ristorante aleggia l’Angelo della Storia, mentre dentisti, commercianti, carpentieri e casalinghe raccontano la loro normalità, la poderosa ascesa sociale che, grazie al boom del dopoguerra, ha consentito loro di abbandonare i vecchi quartieri ebraici e incarnare il sogno americano della piena assimilazione – salvo accorgersi che alla fine del sogno, ci sono sempre dentiere, prostate infiammate e capelli candidi. È su quelli, che sta svolazzando “l’Angelo della storia”.

Nel 2017, un anno prima che morisse, È uscita in America una ponderosa raccolta di saggi, articoli, recensioni, scritte da Roth. Una specie di suggello “post-romanzo” della sua storia letteraria. Why write? – perchè scrivere – è intitolata. Se ne dovrebbe ricavare una summa delle complesse motivazioni dello scrittore, denudato dai suoi filtri romanzeschi, dai suoi alter ego, dai suoi personaggi. Ma siamo sicuri di volerlo vedere nudo, lo scrittore? E se il misterioso segreto della sua scrittura si rivelasse per quello che è stato – puro talento – non rimarremmo forse delusi, come quando si svela il trucco di un numero di alta prestidigitazione? Perché scrivere? Bella domanda. Se la pongono ogni giorno milioni di scrittori e scribacchini, tutti mossi dalla medesima ansia. Al termine della sua carriera se la pose anche Philip Roth. Ma per lui, ormai acquietato, si trattava della contemplazione postuma di una grande eredità.

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La stelle cadranno tutte insieme di Iacopo Barison https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/la-stelle-cadranno-tutte-insieme-iacopo-barison/ Sat, 14 Apr 2018 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45051 di Iacopo Barison

[Questo è un estratto di Le stelle cadranno tutte insieme, secondo romanzo di Iacopo Barison, (già autore di Stalin+Bianca con la casa editrice Tunué), pubblicato da Fandango Libri (2018). Tre giovani protagonisti immersi e vaganti in una città scintillante e frenetica inseguono la chimera del successo e l’idea della felicità tra ombre e fantasmi, sparizioni e avvistamenti UFO. “Ne emerge il primo ritratto veramente lucido della generazione millennial, schiava di una libertà emotiva, sessuale ed economica che non ha dovuto conquistare e dà quindi per scontata”.]

Fuori, il taxi mi aspetta col motore acceso. La città [...]]]> di Iacopo Barison

[Questo è un estratto di Le stelle cadranno tutte insieme, secondo romanzo di Iacopo Barison, (già autore di Stalin+Bianca con la casa editrice Tunué), pubblicato da Fandango Libri (2018). Tre giovani protagonisti immersi e vaganti in una città scintillante e frenetica inseguono la chimera del successo e l’idea della felicità tra ombre e fantasmi, sparizioni e avvistamenti UFO. “Ne emerge il primo ritratto veramente lucido della generazione millennial, schiava di una libertà emotiva, sessuale ed economica che non ha dovuto conquistare e dà quindi per scontata”.]

Fuori, il taxi mi aspetta col motore acceso. La città è immersa nella penombra. Quando salgo a bordo, sono ancora stordito dall’erba e dall’emorragia di mio padre. L’autista fischietta per tenersi sveglio – dev’essere quasi alla fine del turno. La radio trasmette Forever Young degli Alphaville e io mi accarezzo le tempie e sbuffo e gli chiedo se può andare più in fretta. Lui non mi sente, oppure preferisce ignorarmi.
Arriviamo a un semaforo. Un lavavetri di origine indiana si avvicina al taxi, spruzza qualcosa sul parabrezza.  

L’autista lo guarda e abbassa il finestrino e gli dice: “Non vedi che sta per piovere?”. Quando il semaforo diventa verde, l’autista suona il clacson due volte e l’indiano si sposta e bussa sui finestrini. Dal cielo, nel frattempo, inizia a scendere qualche goccia. Proseguiamo verso l’aeroporto, percorriamo arterie e raccordi caotici e la pioggia si fa insistente.

In radio, intanto, stanno parlando del possibile avvistamento di un UFO. Un adolescente di Copenaghen sostiene di averlo visto: volava a un centinaio di metri di altezza, sui palazzi di un quartiere popolare. Il ragazzino è riuscito a filmarlo e ha caricato il video su YouTube. Secondo gli esperti, però, si tratta di un falso al 99%. Lo speaker si interroga sul restante 1% e il tassista si lamenta del traffico, continuando a suonare il clacson.
Rallentiamo e superiamo il luogo di un incidente. Il carro attrezzi sta agganciando un’utilitaria ammaccata, col parabrezza sfondato e i vetri sparsi sulla corsia d’emergenza. L’airbag riempie parte dell’abitacolo, sembra le nuvole dei cartoni animati. Lì vicino, seduta sul marciapiede, c’è una giovane coppia in evidente stato di shock. Superiamo anche loro, e l’autista si volta e mi dice: “Bisogna fare attenzione, altrimenti finisce male”.

Guardo le luci dell’aeroporto, ancora accese per via dell’ora. Ogni cosa sembra al suo posto, gli aerei prendono quota e scompaiono nella coltre grigia. In radio, parlano ancora del possibile avvistamento. “Se ci fossero gli UFO”, dice un’ascoltatrice, “potrebbero aiutarmi a guarire dal cancro. Non mi resta granché da vivere, spero davvero che gli UFO esistano.”
Più tardi, nel duty free, mi siedo e ordino una spremuta e un sandwich col tonno. L’imbarco inizierà fra poco. Il bar ha un’aria tetra e inospitale e la TV è sintonizzata su una vecchia replica del Benny Hill Show. Due anni fa, mi pare, ero alla festa di compleanno di un produttore e il locale era pieno di gente e io ero seduto in un angolo, su un divanetto a forma di cuore. Mi guardavo in giro, il divanetto era piuttosto kitsch e gli invitati erano ancora peggio. Per tutta la durata della festa (dieci ore, forse di più) il DJ aveva suonato il tema musicale di Benny Hill. Era una specie di provocazione, ma qualcuno la trovava divertente e riusciva a ballare. Avevo rimorchiato una ragazza sbronza, non ricordo il nome, e dopo circa un’ora eravamo usciti. A casa, avevamo bevuto ancora e lei mi guardava e diceva che somigliavo a suo padre. Poi, quand’eravamo a letto, si era addormentata e io non me n’ero accorto e avevo continuato fino alla fine.
Mi concentro sulla forma del bicchiere, e l’arancione della spremuta mi rende triste. È troppo acceso, troppo vivo. Vorrei dirlo alla cameriera che mi ha servito, per vedere la sua espressione. Mi scusi, può portarmi un’altra spremuta? Questa non va bene, è troppo viva.

Sull’aereo, quando stiamo per decollare, ripenso all’estate che ha cambiato le nostre vite. C’è sempre il sole, e io e Aria camminiamo per le vie deserte e ci divertiamo a immaginare il futuro, le prometto che rimarremo insieme per sempre e lei mi guarda come si guardano i pazzi ma poi dice: “Sì, forse hai ragione”, e dopo ci baciamo e parliamo di tutte le cose che faremo in città, comprese quelle che farà Danny. Fantastichiamo sui poster che avremo in casa (la locandina di Citizen Kane, una scena di Ghost con Patrick Swayze, eccetera) e sulla conformazione della città stessa, che conosciamo solo per sentito dire, o dai panorami statici di Google Street View. Un giorno, Danny scompare e poi torna con un vecchio Super8 in buone condizioni, l’ha trovato in un negozio di antiquariato. Le riprese durano circa una settimana e la luce è quella giusta e le nostre motivazioni anche. Resta solo l’ultima scena, quella in cui lui improvvisa e stringe Aria più forte e la bacia. Quando gli getto il copione addosso, Danny si avvicina e bacia anche me, per dimostrare che la finzione è una scatola vuota. 

Lo perdono, e lui mi perdona per averlo aggredito, quindi decidiamo di mantenere la scena e in effetti è meglio così. Inviamo il cortometraggio e le lettere di presentazione, d’accordo sul fatto che se uno di noi non verrà ammesso, allora anche gli altri rinunceranno. Aria, nella sua lettera, scrive che il cinema è il contrario della morte. Danny, invece, scrive che Humphrey Bogart è ancora vivo, basta guardare uno dei suoi film, e io scrivo un discorso in cui la parola “finzione” viene ripetuta per nove volte. Passiamo il resto dell’estate ad attendere, andiamo alle feste e i OneRepublic sono la band più ascoltata dai nostri coetanei. A una di queste feste, quando Aria si allontana per andare in bagno, una ragazza la indica e mi chiede se è vero che parla coi morti e io le rispondo di no. C’è sempre il sole e le temperature non scendono mai, nemmeno il giorno in cui la scuola pubblica i risultati e scopriamo che tutti e tre siamo stati ammessi. Esultiamo, sapendo che l’ammissione è soltanto l’inizio, poi guardiamo i prezzi delle case in città e facciamo telefonate e Danny si finge un diplomatico del Qatar. Aria, subito dopo, finge di essere l’agente di Mark Ruffalo e fa domande specifiche su un attico soppalcato. Io, mentre loro si divertono, cerco dei trilocali che rientrino nel nostro budget. Ne trovo un paio, mi accordo coi proprietari e prenoto i biglietti aerei. Il giorno della partenza, sul vialetto di casa, Aria mi guarda negli occhi e per la prima volta mi dice: “Ti amo”.

 

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Una cosa divertente che spero di fare ancora: “La stanza profonda” di Vanni Santoni https://www.carmillaonline.com/2017/04/14/una-cosa-divertente-che-spero-di-fare-ancora-la-stanza-profonda-di-vanni-santoni/ Thu, 13 Apr 2017 22:10:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37663 di Cassandra Velicogna

giochi di ruolo la stanza profonda carmilla Vanni Santoni Laterza cassandra velicognaVanni Santoni La stanza profonda, Laterza, Roma-Bari, 2017, 151 pp, 14 € collana “Solaris”

Parola chiave per entrare nell’atmosfera del nuovo libro di Vanni Santoni è immergersi. Immergersi nel gioco, nell’immaginazione, nei ricordi, nel Dungeon (parola “intraducibile”), nella stanza profonda. Ma da lì poi risalire e riportare tanto con sé. Ecco uno dei vettori della lettura e forse anche della stesura di quello che avrebbe dovuto essere a buon diritto (vedi la collana, vedi l’editore) un oggetto ibrido tra saggio e romanzo incentrato sui giochi di ruolo. [...]]]> di Cassandra Velicogna

giochi di ruolo la stanza profonda carmilla Vanni Santoni Laterza cassandra velicognaVanni Santoni La stanza profonda, Laterza, Roma-Bari, 2017, 151 pp, 14 € collana “Solaris”

Parola chiave per entrare nell’atmosfera del nuovo libro di Vanni Santoni è immergersi. Immergersi nel gioco, nell’immaginazione, nei ricordi, nel Dungeon (parola “intraducibile”), nella stanza profonda. Ma da lì poi risalire e riportare tanto con sé. Ecco uno dei vettori della lettura e forse anche della stesura di quello che avrebbe dovuto essere a buon diritto (vedi la collana, vedi l’editore) un oggetto ibrido tra saggio e romanzo incentrato sui giochi di ruolo. In realtà non lo è, come il precedente Muro di casse (sui free party) : sono entrambi romanzi. Bei romanzi, libri dai quali si emerge con altro oltre al puro divertimento proprio della narrativa: con informazioni, nozioni, riflessioni. Ma non sono forse questo, i buoni romanzi?
Se ne sono accorti anche alla Fondazione Bellonci, e ora staremo a vedere se La stanza profonda, con la sua bella copertina firmata dal guru Riccardo Falcinelli, finirà in cinquina. Sarebbe un ulteriore passo per svecchiare il premio del liquore giallastro. Passata la sbornia della non-fiction narrativa, dunque, possiamo complimentarci per un escamotage che proprio da romanzo non è, ovvero l’utilizzo delle note all’interno del testo: grazie a queste si scopre (sembra di guardare un documentario) la storia dei giochi di ruolo, veri protagonisti del libro.
Dalle note scopriamo per esempio i nomi dei maggiori giochi di ruolo — “abbiamo allora Dungeons & Dragons (1974); poi Empire of the Petal Throne (1975), prima ambientazione originale lontana dai cliché; Tunnels & Trolls (1975), primo clone di D&D e primo gioco a introdurre elementi umoristici; Traveller (1977), primo GdR di fantascienza; RuneQuest (1978), primo a introdurre le abilità; Rolemaster (1980), primo a introdurre i critici e primo tentativo di “summa”; Il richiamo di Cthulhu (1981), primo horror e archetipo delle forme di gioco moderne; Champions (1981), primo GdR di supereroi e primo dotato di un unico sistema a punti che regola ogni aspetto dei personaggi; Toon e Paranoia (1984), primi GdR umoristici e che superano il concetto di morte del personaggio; Kata Kumbas (1984), primo italiano, e al pari coi precedenti nell’aver portato lo humour nei GdR. GURPS (1986), primo regolamento universale; Wahammer Fantasy Roleplay (1986), via inglese al GdR che anticipa quel genere “grimdark” che avrebbe spopolato trent’anni dopo nella fiction; Ars Magica (1987), primo GdR a favorire lo storytelling; Cyberpunk 2013 (poi 2020, 1988), primo a introdurre il background del personaggio; Amber (1991), primo senza dadi; Vampire: The Masquerade (1991), l’arrivo dello storytelling maturo; Savage Worlds (2003), che segna il rifiuto della complessità a vantaggio della possibilità di giocare subito; Dogs in the Vineyard (2004)”— il loro rapporto con i wargame e la parentela con i librigame (EL editore, lo stesso del primo manuale Advanced D&D).
Individuato l’oggetto, ecco un abbozzo della trama: un dungeon master torna dopo qualche anno alla casa dei genitori nella quale ritrova la “stanza  profonda”, teatro delle mille campagne con un nucleo di giocatori fisso e qualche giocatore “fluttuante”. Ripercorre la sua storia con i giochi di ruolo e con il gruppo dei giocatori, dalla frustrazione infantile di non avere compagni, fino allo sfilacciarsi del gruppo e alla fine delle sessioni fisse del martedì sera. Elemento fondamentale della vicenda è l’ambientazione:  il piccolo paese in Valdarno dove si svolge la vicenda. Il protagonista ora vive a Firenze, il distacco temporale e spaziale, seppur breve, servono per meglio processare non solo il rapporto con quei “nerd” che fingevano di essere maghi, mezzi uomini, guerrieri o vampiri, ma anche il cambiamento demografico, la conta dei negozi che aprirono negli anni Ottanta ed oggi non ci sono più, i giochi dei ragazzini migranti che ora affollano la piazza del paese e la penna del vigile che li multa…
Non solo questo aggiunge parecchio alla trama, ma fa del libro un lavoro completo, prezioso anche per chi non ha mai tirato un d20. Il cuore della vicenda riguarda però gli appuntamenti nella stanza profonda dove il master organizza campagne sempre diverse alle quali si intrecciano le vite dei ragazzi del gruppo. Ci sono anche dei colpi di scena, davvero originali, ma quelli non li sveliamo.
Invece bisogna indagare sul perché l’utilizzo dei GdR renda questo libro esaltante, nuovo e al contempo parte di qualcosa. Santoni, che ho seguito in un paio di presentazioni (a Book Pride con Luigi Serafini!), ma che ben lo spiega anche nel libro, parte dal presupposto che il GdR crei “community” di giocatori basate sull’orizzontalità. Un gioco in cui non esiste un vero vincitore, che non prevede una grossa spesa e non ha potenzialmente una fine è una rarità nella storia dell’intrattenimento ludico. In effetti la nostra società incentiva passatempi (o sport) basati sul prevalere di uno su tutti i giocatori, che si tratti di atletica o di poker, ma anche del Monopoli o degli altri giochi da tavolo. Il più bravo vince, il più ricco si porta via tutto… Nei GdR questo non succede.
Effetto parallelo, ma forse anche parte della catena causale, il fatto che i giocatori (mezzo milione nel momento di massima popolarità, ovvero gli anni Ottanta) fossero considerati disadattati, nerd, una “nicchia” che immaginiamo popolata da esseri al limite del grottesco. Insomma gente che forse sarebbe stata utile con dei calcoli ingegneristici, ma di sicuro non avrebbe guidato grandi aziende e soprattutto non ti avrebbe soffiato la donna (o l’uomo) della tua vita…
Ok, ci sta: i nerd giocano a Dungeons & Dragons e sono emarginati. Fino a che un giorno — quando è iniziato tutto questo, con i film di Peter Jasckson? — la gente si sveglia e inizia a leggere J.R.R. Tolkien, vedere Games of Thrones, esaltarsi quando i robottoni di Pacific Rim sconfiggono i Kaiju e qualcosa cambia. La (sotto)cultura nerd ha vinto, o almeno è diventata di massa.
In ben due serie di culto si gioca a D&D: la prima è IT Crowd, (ve la consiglio, altro che Big Bang Theory). La serie britannica che narra di due nerd confinati nel reparto information technology di una grandissima azienda, che putacaso sta nello scantinato dell’azienda. Quando, per uno scherzo della sorte, si trovano a dover intrattenere i delegati delle aziende partner in giacca e cravatta, non li portano al night club come da prassi. Gli allestiscono nella propria stanza profonda (il reparto IT) una campagna di D&D, con tanto di effetti sonori. Inutile dire che l’esito è che gli ignari uomini d’affari si divertono tantissimo e ne vogliono ancora… Altra serie: più conosciuta, recente e ancor più cult è Stranger Thigs, che dell’estetica anni Ottanta ha fatto una vera e propria poetica. Come passano le loro giornate i quattro impavidi ragazzini che salveranno la città da un mostro terribile? Ma è ovvio, giocando a D&D nel “tinello” della casa dei genitori. Un posto talmente pieno di cose che servirà anche come rifugio per la strana ragazzina dal nome numerico, proprio come lo scantinato del nostro romanzo…
Situazioni simili, tematiche affini, ragazzi che con atteggiamento carbonaro si incontrano per inscenare duelli immaginari e lanciare incantesimi: Santoni sta descrivendo una scena che merita la sua ribalta e lo fa con maestria, senza la spocchia di dire “ve l’avevo detto”, piuttosto con un “che vi siete persi” complice nei confronti di tutti quelli che, almeno una volta, hanno compilato una scheda personaggio.
Personalmente non avevo capito proprio niente. Nerd? A me sembrava una cosa da veri fichi inventare mondi, personaggi e andarsene a zonzo per tunnel sotterranei a caccia di mostri, tesori e significati… Sarà perché i ragazzi con cui giocavo erano “più grandi”, ma trovavo la cosa davvero affascinante. Dopo un paio di campagne tra D&D e Il Richiamo di Cthulhu cambiai città e con mia somma soddisfazione trovai giocatori e un ottimo master proprio nel mio collettivo! Non mi sembrò strano, anzi. Giocammo qualche volta a Vampire: The Masquerade, non a caso il gioco più “politico” tra quelli di ruolo, complesso e affascinante con le sue famiglie immortali che studiano strategie per portare dalla loro i rapporti di forza di una società parallela e segreta. Poi l’attività politica diciamo “su strada” ebbe la meglio e addio Vampire… Arriviamo fino ai giorni nostri o quasi. Ormai sono davvero “grande”. Nel 2014 il mio partner viene spedito negli States per lavoro, ce ne avrà quasi per un anno. Benché putativamente il nerd sia lui, una delle prime cose che faccio è cercare tramite Facebook e fumetterie un gruppo che giochi a Vampire: the Masquerade, ma senza successo.
Quindi mi sono rispecchiata nel ragazzino che cerca un gruppo per giocare all’inizio del romanzo: i giochi di ruolo sono una cosa geniale, esaltante e tra le più divertenti che abbia mai fatto, il problema è “la realtà” e tutto quello che contiene, non quel mondo.
La stanza profonda e Muro di casse sono libri in un certo qual modo necessari: Santoni ha il coraggio della letteratura che non si crogioli nella pesantezza dell’essere. Per fortuna la vita è composta anche da cose esaltanti, come i free party o i GdR e questi romanzi — che d’altro canto non sono piatti, ma profondi e tematizzano anche le parole “emarginazione” e “repressione”— aiutano a ricordare per cosa stiamo lottando quotidianamente: un mondo in cui, senza stigmi e senza limiti di alcun genere, sia possibile fare le cose che amiamo, come andare a ballare o allestire campagne in un mondo di fantasia. Penso che la mia “letizia” per dirla con Spinoza (la passione per cagion della quale la Mente passa ad una perfezione maggiore) e quella dell’autore non siano che parte di una “letizia collettiva”, che abbiamo esperito e possiamo ancora esperire. In definitiva questo libro può servire a ricordarci di salvare le cose belle della nostra esistenza.

P.S se qualcuno in quel di Bologna sta giocando a Vampire: The Masquerade “alla vecchia maniera” può contattarmi su twitter: @MarteVenere

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L’Arca della Fattanza (Epilogo) https://www.carmillaonline.com/2016/01/17/larca-della-fattanza-epilogo/ Sat, 16 Jan 2016 23:00:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27839 di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste [...]]]> di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste alla curiosità e ne piglia una copia. La prima pagina non parla d’altro. L’occhiello recita: Colti in flagrante mentre spacciavano droga nei sotterranei della città.

L’articolo di fondo non è da meno…

Tempestiva ed efficace l’azione della polizia, che durante la mattinata di ieri ha snidato e tratto in arresto quattro componenti di una pericolosa banda criminale (oltre che un loro assiduo cliente), da tempo dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti. I banditi conducevano il traffico illecito nei canali sotterranei della città di Bologna, dove avvenivano gran parte dei rifornimenti e degli scambi di droga. Proprio nei sotterranei ha preso avvio l’inseguimento, che si è poi concluso sui tetti del quartiere ebraico, dove, in un appartamento in via dell’Inferno, è stato stanato il quartier generale della cosca. «Abbiamo colto i malviventi in flagranza di reato, – ha dichiarato il Commissario, – mentre il traffico di stupefacenti era giustappunto in corso. Il tallonamento è stato a dir poco spettacolare, degno di un action-movie hollywoodiano, ed ha avuto buon esito solo grazie alla tenacia e alla prontezza dei nostri ragazzi». (segue a p. 2)

Ma tu senti di che va cianciando quell’esaltato di un commissario! “Flagranza di reato, traffico di stupefacenti in corso… Tallonamento spettacolare, degno di un action-movie…” Che megalomane! E poi chi sarebbe ‘sto “assiduo cliente”? Stupidaggini, frottole inventate per incastrare i presunti colpevoli, cazzate bell’e buone, e tanto strepitose da risultare persino credibili!

Già se lo vede il caposbirro, tutto impettito, con l’aria tronfia del salvatore della patria, che strizza l’occhietto al cronista di turno e gli fa così col gomito, mentre gli dice: “questa scrivila, eh, mi raccomando”. Roba da Bollywood, altro che Hollywood! Roba che al massimo potrebbe finire in un “b-moovie da spazzatura”, per citare, con tanto di refuso, una scritta che gli è cara.

Lesto, Giobi apre il giornale a pagina due. È in leggero ritardo, ma Luca può aspettare. Intanto, per non perdere tempo, riprende a passeggiare, la visuale coperta dall’inchiostro ancora fresco della carta stampata…

L’azione è partita grazie alla segnalazione di un anziano signore che alle prime luci dell’alba, dalla sua finestra in via de’ Musei, ha scorto tre persone in strada nell’atto di forzare un accesso ai seminterrati del Museo del Risorgimento. L’uomo, però, ben lucido nonostante la veneranda età di 84 anni, non ha potuto fornire alla polizia l’identikit dei delinquenti, poiché, come egli stesso ha tenuto a precisare, «i tre avevano il viso coperto da maschere, di quelle che indossano i sovversivi durante le manifestazioni». Alcune di queste maschere, in effetti, sono state ritrovate sul luogo della retata: due erano nel covo dei malviventi, un’altra galleggiava sulle acque del fiume sotterraneo e una quarta stava a terra, a pochi passi dal portone d’entrata del palazzo. C’è dunque ragione di pensare che costoro, oltre che spacciatori senza scrupoli, fossero altresì dei pericolosi antagonisti. È assai probabile, in tal caso, che essi abbiano partecipato ai recenti scontri tra studenti e forze dell’ordine in Piazza Verdi, dove gli agenti sono stati vittime del lancio prolungato di oggetti contundenti. Questo, però, potrà essere acclarato solamente nel prosieguo delle indagini.

– Ehi tu, imbecille, sta’ attento a dove metti i piedi!

Giobi inciampa su un rialzo del lastrico e quasi va a finire addosso a uno. Ma l’attimo dopo è di nuovo con gli occhi incollati all’articolo.

Che storia è mai questa? Certo che in questa città ogni occasione è buona per gettare fango sui movimenti studenteschi e sui centri sociali. Ai giornalisti dovrebbero metterli a scrivere sceneggiature, non resoconti di cronaca. Nelle redazioni sono sprecati, braccia rubate alla MinCulPop-Fiction!

Confermata è invece l’identità dei fuorilegge: Z. W. B., 31 anni, di nazionalità camerunense, percussionista di una ben nota band di strada, immigrato da qualche mese e in possesso di regolare permesso di soggiorno; U. Y. G., moldavo 37enne, l’unico ad avere già precedenti penali nel suo paese d’origine; L. X., 27 anni, cinese, laureata  presso la sede bolognese della Johns Hopkins e banconista in un famoso locale del centro; e infine V. E., di anni 52, al momento ricoverato al Sant’Orsola perché colto da un malore mentre cercava di scappare a nuoto attraverso le acque del canale sotterraneo.

L’unico di cui non si dice la provenienza è lui, il capoccia, che guarda caso è un bolognese purosangue. Stampa locale di merda! Ben gli sta, comunque, se l’hanno pescato moribondo dal fiume!

Di tutti gli altri, invece, vita morte e miracoli: del bestione esteuropeo che ha la fedina penale sporca; del tizio centrafricano che fa il bonghettaro a piazza Verdi (e dove sennò?); della cinesina (dev’essere lei la tipa che gli ha fregato l’accendino…) che fa la barista interinale con in tasca una laurea alla Johns Hopkins (di nuovo ‘st’università americana di mezzo: ennesima e mai ultima coincidenza?)…

Curioso, poi, che i tirapiedi fossero tutti di nazionalità diversa. Gli tornano alla mente le parole del prof. a lezione, tra le poche che s’era segnate sul quaderno: La creazione di divisioni su base nazionale tra i lavoratori sembra costituire una necessità strutturale per la classe imprenditrice… (Non che sia la stessa cosa, però ci può stare…)

È momentaneamente in stato di fermo anche un cliente della banda, D. T., studente universitario pugliese, anch’egli recuperato dalle acque del fiume in stato confusionale. Malgrado costui si ostini nel dichiarare la propria estraneità ai fatti, non è ancora stato in grado di fornire agli inquirenti un alibi che giustificasse altrimenti la sua presenza nei sotterranei al momento della retata.

Cazzo, alla fine pure Mimmo è stato accalappiato! Rachid no, quelli della redazione lo avrebbero sottolineato a dovere, e pure con dovizia di particolari: un palestinese immigrato e senza fissa dimora che si trova coinvolto in una storia simile sarebbe pane per i loro denti marci!

Non resta che incrociare le dita e sperare che Mimmo venga rilasciato al più presto, prima almeno che faccia nomi. Ma quello squinternato di un pugliese non è un infame, sa il fatto suo e saprà tenere la bocca chiusa. Giobi è disposto a scommetterci.

Nessun grosso quantitativo di droga è stato ancora rinvenuto nell’appartamento, tuttora sotto sequestro, in cui i malviventi coordinavano le attività illegali. Gli agenti però assicurano che stanno facendo il possibile per scovarne il deposito.

Dunque la cassaforte è ancora lì, intonsa e stracolma di roba. È probabile a ‘sto punto che gli sbirri, presi dalla foga del tallonaggio, ci siano passati davanti senza manco rendersene conto. Sai altrimenti quanto avrebbe goduto il caporedattore nel rivelare in esclusiva quanti quintali di droga fossero andati in sequestro?

L’abitazione al centro delle indagini è di proprietà di una facoltosa signora bolognese, la quale ha espressamente manifestato la propria volontà di rimanere nell’anonimato. Costei ha ammesso di aver affittato l’immobile con regolare contratto al più anziano dei componenti della banda, ma ha altresì affermato di non essere minimamente al corrente di quanto avveniva tra quelle mura. La signora si è dichiarata, anzi, parte lesa, e per il tramite del suo avvocato sta facendo pressioni affinché l’appartamento venga sollecitamente dissequestrato. «L’istanza – fa sapere il Questore – verrà certamente accolta e l’appartamento tornerà presto a disposizione della legittima proprietaria, la cui innocenza è stata appurata al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Ma il dissequestro dell’immobile avverrà solo dopo che la polizia vi avrà effettuato, come da regolare procedura, i dovuti controlli».

Interessante: un appartamento che presto resterà sfitto e una cassaforte piena di roba negli scantinati dello stesso palazzo…

Thom Yorke ha ragione, cazzo: due più due fa sempre cinque!

Il signor questore ha concluso il suo intervento congratulandosi con gli agenti che hanno condotto l’arresto ed encomiando le forze dell’ordine per l’indispensabile servizio che svolgono quotidianamente per contrastare l’increscioso, e negli ultimi tempi purtroppo crescente, degrado cittadino.

Giobi ripiega il giornale e si sfrega le mani imbrattate d’inchiostro, mentre sale le scalette del giardino del Guasto dove Luca, seduto su una panca, lo sta aspettando da un pezzo.

Gli racconterà delle pieghe inattese che hanno preso gli eventi, gli farà leggere l’articolo e poi gli dirà come stanno veramente le cose. E alla fine pondererà di certo quello che sta ponderando lui. Anche gli altri saranno d’accordo. Rachid compreso, naturalmente.

Un sorriso gli spunta a fil di labbra.

Non può sapere, né saprà mai, che dietro alcune frasche, a margine del murale battezzato qualche notte addietro come arca della fattanza, una scintilla balugina al suo passaggio, fugace e impercettibile, nelle pupille di un coniglio nero.

 

Titoli di coda.

Di tutti i graffiti che compaiono nella storia sono frutto di fantasia solo la citazione “dantesca” nei sotterranei, quella “tibetana” nei bagni del 36, il coniglio al 10 di via dell’Inferno e quello a cui si fa cenno in chiusura. Gli altri roditori, invece, non soltanto sono reali, ma pare che stiano persino sopravvivendo al repulisti generale. La speranza è che nessuno si accorga mai di loro.

Reale è anche la scritta “io ti vede”, di cui il protagonista ha ricordo approssimativo alla fine dell’ottava puntata: è al 32 di via Zamboni, nel bagno dei maschietti al pianterreno.

Le descrizioni degli ambienti sotterranei e dei passaggi per accedervi sono liberamente ispirate al romanzo I sotterranei di Bologna di Loriano Macchiavelli. Nel testo, poi, sono disseminate diverse citazioni, a volte nascoste altre volte meno, tratte da opere di Andrea Pazienza.

Il film a cui si accenna nella quarta puntata, in riferimento alla tentata rapina alla Cassa di Risparmio nel ‘77, è Lavorare con lentezza, film del 2004 con regia di Guido Chiesa e sceneggiatura di Wu Ming.

Il protagonista e gli amici del suo giro sono personaggi di finzione, costruiti però enfatizzando i caratteri di persone in carne e ossa, di cui, si può dire, essi sono caricature.

Per il resto, eventuali riferimenti a persone o fatti reali sono da considerarsi casuali.

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Germania, Germania! https://www.carmillaonline.com/2016/01/09/germania/ Fri, 08 Jan 2016 23:00:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27812 di Raul Schenardi

Germania alemania alemaniaUn titolo del genere, soprattutto di questi tempi, ricorda il sinistro Deutschland über alles, fa pensare a un saggio di economia o di storia (magari all’ottimo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, di Vladimiro Giacché) ed evoca il cupo scenario di un IV Reich che sorge sulle macerie del «sogno europeo». Ma non si tratta di questo, se non in modo tangenziale (fin dalle prime pagine si evocano infatti le ceneri del ghetto di Varsavia, e la Seconda Guerra Mondiale, con al [...]]]> di Raul Schenardi

Germania alemania alemaniaUn titolo del genere, soprattutto di questi tempi, ricorda il sinistro Deutschland über alles, fa pensare a un saggio di economia o di storia (magari all’ottimo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, di Vladimiro Giacché) ed evoca il cupo scenario di un IV Reich che sorge sulle macerie del «sogno europeo». Ma non si tratta di questo, se non in modo tangenziale (fin dalle prime pagine si evocano infatti le ceneri del ghetto di Varsavia, e la Seconda Guerra Mondiale, con al centro la Germania hitleriana, è uno degli assi tematici del libro). ¡Alemania, Alemania! in realtà è il titolo del più recente romanzo di uno scrittore uruguayano ancora sconosciuto da noi: Felipe Polleri.

Lautréamont, Horacio Quiroga, Felisberto Hernández, Juan Carlos Onetti, Armonía Somers, Mario Levrero: l’Uruguay è una fucina di scrittori “raros”: rari, o strani, secondo una definizione ormai classica e un po’ abusata. L’ultimo, in ordine di tempo, di questa stirpe è Felipe Polleri, classe 1953, che a proposito di questa classificazione ha le idee molto chiare: «È un’etichetta che nasconde un retropensiero: “invece di leggerlo, diciamo che è un altro scrittore raro”. Essere scrittori in Uruguay è una cosa rara perché, diciamo, poco vantaggiosa. Dev’essere una vocazione molto forte, e quelli che hanno una vocazione molto forte è perché in genere hanno qualcosa da dire, dunque sono rari». Una vocazione molto forte, tradotto in soldoni, può significare anche dover abbandonare un lavoro fisso e sicuro per sacrificarsi al demone della scrittura, rassegnandosi a vivere in povertà. Ne sa qualcosa Polleri, che con una moglie e un figlio lasciò l’incarico di bibliotecario che occupava da quindici anni: «A Mario [Levrero] e a me il lavoro, la semplice parola lavoro (pochi soldi in cambio di molto tempo), faceva orrore». D’altra parte, non è facile ricavarsi un posticino nel cosiddetto «mondo del lavoro» quando non si vorrebbe «né comandare né essere comandati da nessuno». Infatti molti dei personaggi-narratori dei romanzi di Polleri sono artisti incompresi sull’orlo della follia (o decisamente deliranti), e non a caso tra i suoi referenti figurano, fra gli altri, scrittori francesi come Villon, Genet, Rimbaud e Artaud, oltre a Baudelaire, a cui ha dedicato uno dei suoi romanzi dal titolo fuorviante: Gran ensayo sobre Baudelaire.

Del resto, «Io è un altro», la rivelazione di Rimbaud, potrebbe figurare in exergo all’intera opera di Polleri, che comprende, oltre a quelle già citate, nove nouvelles, o romanzi brevi, perché le identità multiple delle sue voci narranti, che fondamentalmente fanno pensare a una sola, sono identità mobili, sempre sul punto di andare in mille pezzi o di imboccare una linea di fuga: «Presto, ci sono altre vite?» (di nuovo Rimbaud). ¡ Alemania, Alemania!, per esempio, è formata da tre racconti relativamente autonomi i cui protagonisti – Christopher, Parsifal e Antoine: un inglese, un tedesco e un francese – sciorinano le loro paranoie e le loro invettive in prima persona, mettendo in scena un gioco di maschere dietro le quali, come in un vero teatro della crudeltà di artaudiana memoria, traspaiono pulsioni e idiosincrasie dell’autore: «Il mondo, come lo racconto nei miei libri, pur con tutte le esagerazioni che volete, è realmente come credo che sia, come lo vedo».

E come ha dichiarato nella stessa intervista, sollecitato da una domanda a proposito dello humor nero, dell’ironia e della violenza sempre più presente nei suoi romanzi: «Quando scrivo, a volte rido, e spero che succeda anche al lettore. I miei personaggi sono degli illusi, utopisti che speravano in un mondo migliore e non l’hanno trovato. Di lì nasce il risentimento verso il mondo reale che non ha corrisposto alle loro aspettative. Di solito, quasi sempre, si tratta di artisti in conflitto con la società. Quello che succede in Uruguay, no? Se vuoi dedicarti realmente a un’arte, la società ti emargina. Nel capitalismo, se non guadagni quattrini non vali niente. Il mondo reale è un mondo molto crudele».

In ¡ Alemania, Alemania incontriamo un personaggio che dice di chiamarsi Christopher Marlowe e sostiene di essere morto e poi rinato come William Shakespeare – mentre Parsifal dichiara di essere figlio di Mengele –, ma anche una figura assolutamente reale come il dottor Hans Prinzhorn, lo psicoanalista che per primo studiò e collezionò dipinti e disegni dei malati mentali, alcuni dei quali sono riprodotti nel volume, insieme a foto e disegni dell’autore. E anche questa commistione di realtà e immaginazione sfrenata (qualcuno ha parlato di «neoespressionismo») contribuisce a rendere affascinante la lettura di quest’opera visionaria e vertiginosa.

Uno dei tratti comuni a molti “raros” uruguayani, forse con l’eccezione di Onetti, consiste nel circolare in modo sotterraneo e quasi segreto e di essere scoperti solo post mortem. È successo di recente a Mario Levrero – amico e «maestro magico» di Polleri –, che dopo aver pubblicato in vita con piccoli e piccolissimi editori viene ripreso oggi da grandi gruppi editoriali. In Italia è stato pubblicato finora solo Il romanzo luminoso (Calabuig, tr. di Maria Nicola), un’opera postuma in forma diaristica – una delle modalità di scrittura di Levrero –, ma bisogna leggere i suoi splendidi romanzi brevi e le raccolte di racconti per valutare la portata e l’originalità della sua sperimentazione letteraria.

Polleri, però, qualche speranza di sfuggire alla maledizione del «tu vivrai in miseria, ma il tuo cadavere sarà incensato» ce l’ha: hanno cominciato a tradurlo in Francia e in Portogallo, un editore di peso come Tusquet ha ripubblicato in un unico volume due suoi romanzi brevi, e può vantare giudizi lusinghieri di scrittori come Mario Bellatín («Tutti dovrebbero leggere Felipe Polleri, geniale scrittore uruguayano») e Fogwill.

Da noi la casa editrice Arcoiris di Salerno ha deciso di pubblicare Germania, Germania! nella collana Gli Eccentrici con un’iniziativa di crowdfunding. Perciò avete la possibilità di prenotare la vostra copia qui con varie modalità: www.produzionidalbasso.com/project/alemania-alemania/

dove trovate anche una sinossi del romanzo, giudizi della critica e notizie sull’autore.

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 4b) https://www.carmillaonline.com/2015/12/27/larca-della-fattanza-capitolo-4b/ Sat, 26 Dec 2015 23:00:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27470 di Jago Malteni

Arca fattanza 4b (1)Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, [...]]]> di Jago Malteni

Arca fattanza 4b (1)Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, secondo i suoi calcoli strampalati, starebbero lì a tracciare percorsi segreti. La mattina dopo si rende conto che era solo un’allucinazione, ma trova uno strano biglietto in tasca, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno, 10. Ci va e, con sua grande sorpresa, scopre un altro nero-coniglio, stavolta reale, all’interno del palazzo. Nota anche, prima di allontanarsene in punta di piedi, degli strani movimenti attorno a una porta blindata nel dismesso cortile interno. Incontra poi Luca, un amico che gli viene in aiuto mostrandogli una porta USB incastonata in un muro, dove Giobi rintraccia dei file che parlano di droghe “enteogene” e di una misteriosa Bologna sotterranea. Il giorno dopo, sfuggito a una carica degli sbirri durante un corteo per il diritto alla casa, incappa per caso in un suo vecchio amico, Mimmo, e con lui ripara in uno studentato occupato. Qui, al termine di una concitata assemblea, riesce a convincere Rachid, ragazzo palestinese, a scendere con lui nei sotterranei della città. Anche Mimmo è dei loro, e il mattino seguente, scesi di soppiatto nei bassifondi, i tre si trovano a spiare dei loschi armeggi con pacchetti di roba pescati dall’acqua e riposti in una cassaforte, all’altezza di quello che a Giobi pare proprio il palazzo al 10 di Via dell’Inferno. I tre, allibiti, proseguono al buio lungo il canale, fino a uscire, dopo un po’, di nuovo all’aperto…

Capitolo 4b

– Cioè, Gio’, fammi capire: tu domani vorresti tornare là sotto, scassinare la cassaforte sotto il naso di quelli là e filare via col malloppo senza che nessuno si faccia male?

– Esattamente!

– E lo dici così, come se niente fosse?

– Sì, figlioli, e vi dico pure che sarà più facile di quello che pensate. Fate conto: con tutto il casino che abbiamo combinato poco fa, quelli non si sono neppure accorti di noi… Figuratevi se ci andiamo tanticchia più organizzati… facciamo il colpaccio, figlioli!

– Però se ci chiappano quelli ci strappano scroto con un morso!

– È vero, Rachid, quelli fanno paura per quanto so’ grossi, ma io dico che di cervello ne hanno poco e che li possiamo fregare. Già prima, impanicati e tutto, siamo arrivati a un passo dal mettere le mani su quella robba…

– A proposito, Gio’, sai per caso di che si tratta?

– No, di preciso no… Però qualcosa mi dice che è robba buona. Sostanze enteogene

Enteoché?

– Niente, Mi’, lascia perdere…

– Mh… A me invece qualcosa mi dice che tu non ce la conti giusta! E poi, scusa, laggiù non c’eravamo scesi per un altro motivo?

– Vero questo, noi abbiamo andato giù per cercare un maniera di occupare casa. Ora cosa è questo di nuovo? Mimmo ragione, Jo’, tu non ci conti giusto…

– Ma se non vi conto giusto come facevo a sapere le cose che v’ho appena detto? E poi, in capo a voi, se veramente era così pericoloso, io Giovanni Biglia mi andavo a infognare con voi dentro ‘sta storia?

– Va buo’, d’accordo. Ma una volta là, mi spieghi come facciamo a forzare la cassaforte senza farci sgamare?

– Il piano è semplice, figlioli, sentite: al primo cambio di guardia ci avviciniamo, attendiamo il loro segnale e

– Il loro? Come il loro? Vuoi dire il nostro

– No no, hai capito bene: il loro segnale. Fidatevi: se restiamo in silenzio e facciamo attenzione, i loro uno-due-tre arriveranno chiari e forti. Fate conto che la porta che devono aprire di sopra non si smuove manco a spintonarla con un carrarmato: per forza che devono spingere sincronizzati. Al che noi non dobbiamo fare altro che concentrare le forze e, ai loro tre, fare leva tutti assieme sopra al piede di porco, in maniera che il fracasso nostro sarà coperto da quello che nel frattempo preciso faranno loro di sopra. Funzionerà, sentite a me. Avremo in tutto almeno quattro o cinque minuti di tempo: apriamo il forziere, arraffiamo il possibile e ce la svigniamo!

– E se una cosa va di storto?

– Se una cosa va di storto vuol dire che la svigniamo a mani vuote, come abbiamo fatto poco fa. L’abbiamo scampata una volta, perché non dovremmo farcela di nuovo? Poi, al limite, si può temporeggiare e riprovare al cambio di guardia successivo…

– Sì, Jo’, io ci sta.

– Io invece no, ragà, non me la sento.

– Come vuoi, Mi’, qua nessuno ti costringe. Rachid, allora intesi io e te? Ci vediamo domani mattina, stesso posto e stessa ora.

– Capito, come di oggi, alla sette tra vita e morte?

– Esattamente, alle sette tra la Vita e la Morte. Mi raccomando, eh…

– Tu raccomando, non ritarda altra volta!

– Sì, sì, tranquillo. A domani.

– Oh, ma mo ve n’andate tutt’e due? E a me mi lasciate qua da solo? Aspettate un momento, oh… Ma tu ‘uarda ‘sti due chini de merda!

È sera fatta.

Giobi se ne torna a casa, dopo un giorno all’inferno. Pesano i passi e rimbombano sotto la volta dei portici, stranamente deserti, di via Zamboni. Un campo di battaglia evacuato, derelitto, ancora in macerie dopo gli scontri di ieri.

Ma, oltre al ciarpame e ai cocci sparsi, c’è qualcos’altro che stona nel quadro d’insieme. Qualcosa che Giobi non tarda a notare: una scritta nuova, mai vista prima, una domanda posta a ripetizione lungo i colonnati, in caratteri piccoli e ricavati da una stessa matrice, a ridosso dei due conigli neri e per l’intero tratto che li separa: Giochi o non giochi?

Un invito, un’esortazione. Come a dire: allora, che fai? Cosa aspetti? Accetti la sfida o te la stai facendo sotto?

Ciò che più lo colpisce, però, è quello che scorge qualche passo più avanti, appena dietro l’angolo, su uno dei battenti del portone d’ingresso del Museo di Mineralogia (di fianco al dipartimento di Geologia, all’incrocio con via Irnerio), dove Giobi non può non notare uno scoiattolo fresco di stampa, appena una spanna più in alto degli scalini d’ingresso.

Trasale, s’incuriosisce, s’avvicina.

La colla è recente, non asciugata del tutto, e lo scoiattolo ha una somiglianza spiccatissima con quell’altro. Peccato solo che si trovi giusto a metà tra i due conigli, per cui la scoperta non dice nulla più di quanto già sapesse. C’è un roditore in più, certo, ma il tragitto rimane lo stesso. Eppure quella domanda, giochi o non giochi?, continua a echeggiargli per la testa. Che qualcuno gli stia giocando un brutto scherzo?

Arca fattanza 4b (2)Assorto in ‘sti pensieri, Giobi non s’è accorto che c’è un uomo appostato all’ombra di un pilastro che lo sta osservando e che, per via del suo palese interessamento al graffito, ha appena capito essere lui, lui e nessun altro, la persona che sta cercando. E nemmeno s’accorge, dopo aver ripreso a camminare, che l’uomo lo sta tallonando da vicino, da molto vicino, da sempre più vicino, finché, nel tratto più buio del portico, non lo agguanta da dietro afferrandolo per la collottola.

Giobi non ha il tempo di urlare fuori lo spavento che si ritrova una manaccia a tappargli il muso. Tenta di divincolarsi ma è come paralizzato, la gola stretta tra le borchie puntute di un lungo bracciale di pelle…

Cazzo, è lui! – pondera con occhi sbarrati di terrore. – Non può essere che lui! L’energumeno di via dell’Inferno, il bestio palestrato dell’Esteuropa, l’Incredibile Hulk dei Balcani! Ma come ha fatto a beccarmi? Che cazzo vuole da me? Oddio no, non voglio morire giovane!

– Tu ascolta me bene, piccolo squizzo di merda: tu stare lontano, tu non mischiare più dentro questa storia. Capito? Tu no fare furbo con me. Io guarda te altra sera quando tu scrivere indirizzo; io guarda te altro giorno quando bussare in partamento; io guarda te scappare in locale di Kazzìm, qua vicino, e anche prima con amichi di tuo in sotterraneo. Io sa tutto, capito? Io guarda tutto, io capisce tutto…

Ha un alito pestifero, il colosso di Madre Russia.

“Cos’è, il capoccia ti tiene a digiuno e tu rimedi con una dieta a base di scarafaggi e carogne di pantegane infoiate? Almeno tappami pure il naso, bastardo di un cinghiale mutante, così mi risparmi i miasmi di quella chiavica che ti ritrovi al posto della bocca!”

È quello che Giobi vorrebbe gridare, ma con la bocca sigillata non riesce ad emettere più d’un mugolio indistinto.

La morsa si stringe. Le borchie del bracciale sono acuminate e pungono forte sul gozzo.

E tuttavia, all’apice dello scoramento, il gigante molla la presa e spinge Giobi in avanti con impeto tale da scaraventarlo a terra. Poi fa dietrofront e, inaspettatamente, s’allontana.

Giobi, ancora scosso, si ricompone come può. Raccoglie il fiato e, quando Hulk è ormai a distanza di sicurezza, gli spolmona contro furibondo, accecato dalla rabbia:

– Cos’è, te ne vai mo? Mi sei venuto alle spalle e non hai avuto neppure il coraggio di guardarmi negli occhi. Vigliacco! Grande e grosso come sei, non capisco perché ti fai comandare a bacchetta da quel nanerottolo! Perché tu e i tuoi pari non lo buttate una buona volta nel fiume, a quello? Perché non ti ribelli, eh? Te lo dico io: perché sei solo un cacasotto, ecco perché! Un fascistoide del cazzo, ecco che cose sei!

Alle urla azzardate di Giobi, il bestione sembra avere un sussulto. Sta lì lì per voltarsi, e a Giobi pare di leggere un briciolo di debolezza nel modo in cui reclina il capo. Ma poi riaccelera il passo e in un niente sparisce dietro l’angolo.

Un avvertimento, un’intimazione. Non doveva fargli male, solo intimorirlo. Ha eseguito degli ordini. E forse la provocazione finale ha veramente colpito nel segno, andando dritta a toccare un nervo scoperto.

Giobi si passa una mano sul collo: ancora gli brucia, per via degli aculei che per poco non glielo riducevano a scolapasta. Al ritrarla, si scopre il palmo imbrattato d’un filo di sangue. Scosso e indolenzito, piglia a calci una lattina, come a scacciare fuori i rimasugli d’incazzatura che dopo la sfuriata gli sono rimasti in corpo. Poi, a capo chino e spalle incassate, si rimette sulla via di casa.

“Cos’è che diceva quel porco? Io ti guarda, io ti guarda… Ma non era Dio, quello? Io ti guarda scrivere indirizzo… Ma di che va blaterando, se l’indirizzo me lo sono ritrovato in tasca? …E se invece avesse ragione lui? Mah… Cos’altro ha detto più? Io ti guarda bussare in partamento… Era lui allora dietro lo spioncino… Però c’è qualcosa che non mi torna, qualcosa che sfugge… ‘rcoggiuda, che confusione!… e poi, cos’ha detto più quel trippone? Ah, sì: Io ti guarda con tui amichi in sotterraneo… Ecco, questo mi suona piuttosto strano. Se veramente ci ha visti, prima là sotto, allora perché non ha cercato di fermarci? Mh… non può essere… avrà al massimo sentito dei rumori e, insospettito, ha pensato bene di bleffare. Ma come ha fatto a risalire fino a me e a essere così sicuro di aver acciuffato la persona giusta?

Lo scoiattolo! È vero, cazzo, lo scoiattolo! Gli è servito da esca! Come pure quella domanda, posta lì a più riprese: Giochi o non giochi? È andato prima di stencil e di colla, il bestione, e poi si è messo nascosto, in attesa, finché io interessandomene non sono cascato come un fesso nella sua trappola. Questo però vuol dire che Hulk e la sua gang sanno dei graffiti. E magari credono pure che io sia giunto a loro seguendone le tracce. Il che, in parte, sarebbe anche vero…

Comunque sia, ‘sta storia puzza più dell’alito di quel cinghiale bastardo! Ma se pensa d’avermi impaurito si sbaglia di grosso: l’appuntamento per domattina è preso e dietrofront io non faccio. Rachid sarà certamente là, puntualissimo. Non è uno che si fa attendere e pregare, lui…

Io ti guarda, io ti guarda… A ripetermele, queste parole, non mi suonano poi tante nuove… Dov’è che l’ho già incontrate, sentite, lette? Forse in un cesso dell’università, al trenta-e-qualcosa di via Zamboni? Sì, può essere… Ma anche no!

Io sa tutto, io capisce tutto… diceva poi il gorilla.

Beato lui! – pensa Giobi mentre pesca le chiavi di casa dalla tasca del giubbotto. – Io non sa e non capisce proprio un cazzo di niente!

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 1b) https://www.carmillaonline.com/2015/11/15/larca-della-fattanza-capitolo-1b/ Sat, 14 Nov 2015 23:34:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26611 di Jago Malteni

coperta2Ecco, per chi se l’è persa, il riassunto della prima puntataGiovanni Biglia – Giobi per gli amici – è uno studente di Scienze politiche, appassionato di street art e spesso dedito al vagabondaggio per le vie di Bologna, alla ricerca significati che mettano in connessione i tanti e tanti graffiti che tappezzano i muri del centro. Da un po’ di tempo Giobi è sulle tracce di fantomatici conigli neri dipinti a pochi centimetri da terra, dopo che ne ha visti due [...]]]> di Jago Malteni

coperta2Ecco, per chi se l’è persa, il riassunto della prima puntataGiovanni Biglia – Giobi per gli amici – è uno studente di Scienze politiche, appassionato di street art e spesso dedito al vagabondaggio per le vie di Bologna, alla ricerca significati che mettano in connessione i tanti e tanti graffiti che tappezzano i muri del centro. Da un po’ di tempo Giobi è sulle tracce di fantomatici conigli neri dipinti a pochi centimetri da terra, dopo che ne ha visti due identici a poca distanza l’uno dall’altro (e ipotizzando da ciò che debba essercene qualcun altro a segnalare un percorso più lungo). In una nebbiosa e fredda notte d’ottobre, Giobi si risveglia su una panca ai giardini di San Leo, in via Belmeloro, costretto alla fuga dalla vecchia e mefistofelica guardiana del parco. Ed è mentre s’incammina verso casa che, strafatto e allucinato, gli occhi gli cadono proprio su ciò che da tempo è l’oggetto, ritenuto ormai introvabile, delle sue perlustrazioni: un coniglio nero, dipinto alla base di una parete e uguale agli altri due. Giobi s’avvicina, ma quando è sul punto di toccarlo il nero-coniglio scompare, per ricomparire lesto e zampettante poco più avanti. Non c’è altro da fare, a questo punto, che seguirlo… [Link ai vari capitoli de L’Arca della Fattanza] + [Disegno di copertina di l’éparvier] + (L’arca della fattanza, intanto, è sbarcata anche su Pinterest!)


Capitolo 1b

In bilico tra il kolossal e il b-movie da spazzatura.

Così recita una scritta sul muro, in via Belmeloro, a caratteri maiuscoli e tanto serpeggianti da parere mobili.

Il nero-coniglio ci passa sotto con un guizzo e raggiunge più avanti la muratura esterna di un palazzo color salmone, l’intonaco stinto, sbiadito… Effetto della nebbia? Non il tempo di chiederselo che, da uno spicchio di muro più scolorato degli altri, Giobi scorge una sottospecie di ameba bianca che prende a fluttuare lungo la parete, passandogli proprio davanti agli occhi. Altro effetto della nebbia? O di quella che gli appanna le cervella?

Troppe domande. Tanto vale mettere tutto tra parentesi, come diceva quel filosofo austriaco, sospendere ogni distinzione tra realtà e surrealtà e proseguire il viaggio senza stare a chiedersene il motivo.

Tanto più che, nel mentre, il coniglio ha già svoltato l’angolo e pare dirigersi al cospetto di un enorme graffito che campeggia sul muro in fondo allo spiazzo, all’incrocio con Sant’Apollonia. Da lontano Giobi ne distingue a malapena i contorni, ma fattosi dappresso capisce trattarsi di un ratto gigante, mezzo spelacchiato e proteso verso una dimora olimpica che si leva in alto alla sua sinistra, con sotto la scritta: Compro casa a dio. La rilegge. Gli suona ermetica, sibillina.

Un ratto, sì, un sorcio abnorme, con un ghigno torvo e reso più forastico dalla prominenza degli incisivi. Un falso ericailcane, si direbbe a squadrarlo meglio. Un roditore, comunque, come lo è lo scoiattolo e come lo è il coniglio… È vero, cazzo, il coniglio! Che fine ha fatto? Giobi si volta di scatto e fa appena in tempo a scorgerlo mentre s’infrocchia di nuovo tra i portici di Belmeloro, girando un gomito di muro senza scollarsi dalla base scalcinata della parete. Non può lasciarselo sfuggire, prosegue il tallonamento.

Altri esseri, frattanto, amorfi e inclassificabili, cominciano a muoversi tutt’attorno in un fitto ordito di psichedelia murale: trampolieri che s’alzano in volo, lucertole con gli occhi a spirale che s’inerpicano su per le grate delle finestre, giraffe dal collo retrattile, cilindri che si comprimono e rimbalzano, virgulti che germogliano, folletti che caracollano, rampicanti che s’arrampicano. Anche il coniglio seguita a conigliare, mentre un cane cieco e nerofumo piscia contro una colonna sotto il portico di via Acri.

È una scritta, poco più avanti, che pare suggerire l’esatta e unica definizione possibile di tutto ciò: Arca della Fattanza.

Il carosello s’interrompe lungo le pareti esterne di una chiesa (e ti pareva! Poi dice che uno bestemmia…), salvo poi riprendere all’incrocio con via Zamboni, nel tratto che precede piazza Verdi. Per quel che può Giobi ci butta un occhio: la piazza è un tappeto di bottiglie vacanti, una landa deserta, livida, appiccicaticcia. Due punkabbestia dormono nel lerciume sotto il portico del teatro. Alle sue spalle, in penombra, appena si distingue una scritta che non vede: Siamo tutti fuoriluogo.

20151110_143621Il coniglio fila dritto e scompare nel breve quarto di strada che porta all’imbocco di via del Guasto. Ed è lì che ricompare l’istante successivo, sotto lo sfarfallio di una lunga bacheca tappezzata di annunci. Giobi l’avvista e brancola nello sforzo di mantenere la rotta, costretto passo dopo passo a spiccicare le suole dal lastrico adesivo. Calcia un vetro senza volerlo e quello rotola producendo un fracasso industriale, che rintrona sordo sotto la cappa di silenzio ovattato. Un puzzo di vomito e piscio stagno, poco più avanti, gli si ficca aggressivo nelle narici, miasma putrido che esala dalle giunture dei basoli e gli arriva come una sferzata in pieno volto.

Il coniglio continua a trotterellare; l’ombra di Giobi, con fatica, riesce a stargli appresso.

Al bivio, addossate l’una sull’altra, flessuose e con le pupille fluorescenti, compaiono altre due amebe che gli fanno strada verso il cancello d’ingresso, stranamente aperto, del giardino del Guasto – dov’è che il coniglio s’è giust’appena infilato.

Senza ormai più esitazioni, Giobi inforca la salita che conduce all’interno del parchetto. I rami e le frasche sono come tentacoli, ai lati del cemento, e quasi gli pare che arrivino a ghermirlo, a imbozzolarlo nel viscidume e inghiottirselo come farebbe una pianta carnivora. Ma riesce a svincolarsi dall’assalto immaginario e, arrancando per un’altra decina di metri, a raggiungere il punto più alto del giardino.

La scena, in cima, è di quelle che mozzano il fiato, se mai ce ne fosse ancora bisogno: una pletora sterminata di animali dipinti si leva e prende vita sulle due dimensioni di una parete ondivaga, fluttuante. Dai pesci agli uccelli, passando per rettili, anfibi e anche dinosauri, tutti i graffiti prendono a brulicare in ogni direzione. È un circo impazzito, un’orgia senza freni, uno zoo a gabbie spalancate. Le bestie più feroci mostrano artigli e digrignano denti, spalancano fauci, emettono versi terrificanti. I più deboli si agitano, dimenano zampe e ali e code, tentano di scappare ma restano imprigionati nel perimetro del murale.

Eccola, l’Arca della Fattanza! Il delirio! Onirico, lisergico delirio…

Giobi non lo regge e s’accascia, svenuto, al suolo.

Lo ridestano l’indomattina i rumori della città che si sveglia.

Si stropiccia gli occhi e contrae per quanto può i muscoli delle palpebre, più pesanti di saracinesche ammaccate. Vede i mostri. Ha il viso pallido e le orbite verdi, né più né meno la faccia che può avere uno dopo aver dormito ore su un materasso di calcestruzzo e sotto una coltre di nebbia autunnale. Minchia, che levataccia! Ma do’ cazzo si trova? Si guarda intorno ciecato di sonno, stonato come una scimmia del Borneo.

Un minuto e più per ricalibrare la vista e mettere a fuoco: niente, i graffiti sono lì, ognuno al suo posto, immobili tatuaggi sulla pelle della città. Svanito è il delirio della notte: era solo nella sua capoccia. Ma… che ne è di tutto il resto? Le amebe, le scritte semoventi, il coniglio… Il coniglio! Do’ cazzo è il coniglio?

Lo cerca nei dintorni, non lo trova.

È talmente assurdo quello che ha visto ieri notte che si ribella all’idea di ripensarci, di costruirci sopra un qualunque tipo di ragionamento. E poi neppure ci riuscirebbe, tanto è rintronato… Ma che ora è? Le nove passate, ‘orcoggiuda! Ci sarebbe lezione, e farebbe pure in tempo ad andarci, ma con la faccia da zombi che si ritrova forse è il caso di rintanarsi in casa e restarci fino a svernare.

C’ha voglia di fumare ma non ha sigarette. Può comprarle al primo distributore, la tessera sanitaria dovrebbe averl… No, cazzo! Se l’è scordata in camera, sulla scrivania. E manco c’ha l’accendino, il suo fedele, inarraffabile accendino, con sopra la scritta Fight for your lighter.

Sfiga! No, perso no… deve avere scordato pure quello a casa. Come la cazzo di tessera sanitaria, il cervello, l’iPod e tutto il resto… Anzi no, aspe’… l’iPod, per intercessione della mano di chissà quale santo, ce l’ha in tasca. Fruga e lo tira fuori, assieme a uno strano biglietto che dice: Via dell’Inferno 10, ultimo piano.

Ma che robba è? La calligrafia pare quella di uno sballato. Curioso, comunque: deve averglielo rifilato qualcuno durante uno dei buchi della notte passata…

Sono ancora troppe le cose che Giobi non riesce a ricordare. Avrà il tempo di pensarci, di ricostruire, magari di andarci pure, all’inferno, dopo aver capito dov’è. Ma per ora vuole solo tornarsene a casa, a fare un cazzo di niente fino a dopodomani. Impugna l’iPod, infila le cuffie e lascia partire un album a caso dalla playlist dei preferiti…

Are you such a dreamer | To put the world to rights?… | I’ll lay down the tracks | Sandbag and hide… | And two and two always makes a five | It’s the devil’s way now | There is no way out | You can scream and you can shout | It is too late now | Because you have not been paying attention, paying attention, paying attention, paying attention…

iPod

Clicca Pure sull’I-Pod

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Quelli del San Patricio https://www.carmillaonline.com/2015/07/29/quelli-del-san-patricio/ Tue, 28 Jul 2015 22:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24094 di Fabrizio Lorusso

Quelli del san patricioPino Cacucci, Quelli del San Patricio, Feltrinelli, 2015, pp. 216, € 15.

Sicuramente ci sono voluti anni di pellegrinaggi in terra azteca e ricerche in archivi infestati di polvere (da sparo) e fantasmi armati (di colt e machete) per ricostruire e plasmare in un romanzo le vicende del battaglione San Patricio, manipolo di disertori e diseredati irlandesi, ma anche italiani, polacchi e tedeschi, che durante la guerra tra Stati Uniti e Messico del 1846-48 decisero di abbandonare le file yankee e combattere affianco ai messicani. Fu, il [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Quelli del san patricioPino Cacucci, Quelli del San Patricio, Feltrinelli, 2015, pp. 216, € 15.

Sicuramente ci sono voluti anni di pellegrinaggi in terra azteca e ricerche in archivi infestati di polvere (da sparo) e fantasmi armati (di colt e machete) per ricostruire e plasmare in un romanzo le vicende del battaglione San Patricio, manipolo di disertori e diseredati irlandesi, ma anche italiani, polacchi e tedeschi, che durante la guerra tra Stati Uniti e Messico del 1846-48 decisero di abbandonare le file yankee e combattere affianco ai messicani. Fu, il loro, il lato sbagliato della storia? C’è chi direbbe di sì, dato che la storia la scrivono i vincitori. Personalmente direi di no, soprattutto se la storia si riesce a raccontare per mostrare e capire la lucha degli sconfitti di sempre come fa lo scrittore Pino Cacucci, già autore di tante opere sul Messico come La polvere del Messico, Tina, Nahui, San Isidro futbol, Mahahual o Puerto Escondido e curatore di Pan del Alma (insieme a Gloria Corica e Simonetta Scala). Stanchi del razzismo e delle angherie all’interno dell’esercito e del paese che, volente o nolente, li aveva dovuti accogliere, alcuni gruppi di militari irlandesi scelgono di passare col nemico. Erin Go Bragh, gridano. E’ il loro motto in gaelico: Irlanda per sempre, anche in Messico. Da Veracruz l’ex combattente del San Patricio, John Riley, e la sua compagna, la messicana Consuelo, fanno memoria e ritornano agli anni di quella guerra impari contro l’armata americana regolare e gli spietati ranger del Texas.

Il tenente di artiglieria Riley e numerosi suoi compagni disertano e si trasformano nel peggiore degli incubi degli invasori, vista la loro eccezionale disciplina, il loro coraggio e la loro perizia tecnica. Anche per questo i vincitori si accaniranno sui superstiti del Batallón San Patricio una volta che saranno entrati a Città del Messico per “negoziare” col già mezzo venduto e fallito dittatore López de Santa Anna le condizioni della “pace”, vale a dire la cessione o compravendita forzata di mezzo Messico a vantaggio degli USA. Tra i pochi volti umani dell’armata yankee in terra azteca c’è l’ufficiale di West Point d’origini ebraiche Aaron Cohen, un combattente che, malgrado l’ingiustizia e le discriminazioni colpiscano anche lui, sceglie di non disertare, fiducioso che un giorno esisterà un melting pot, parte di un gran paese democratico per cui sarà valsa la pena lottare. Scelte.

quelli del san patricio paloaltoIl Messico, che pareva lontano anni luce dall’Irlanda, mostra a quei soldati, reietti ma valorosi, il suo lato più accogliente, la sua cultura di lotta e l’attaccamento alla terra, la dignità quotidiana della povertà e una religiosità, sincretica e creativamente cattolica, più simile a quella irlandese, che viene invece denigrata e disprezzata dai militari e dai mercenari nordamericani, provocando non pochi dissidi. Agli irlandesi è anche interdetto l’uso del gaelico.

“John Riley salì sul muro più alto del convento di Churubusco. Levò il viso al cielo e rimase lì ad assaporare l’aria tersa dell’altopiano: nubi candide correvano negli squarci di azzurro dopo i temporali della notte e lui sentì una fitta di nostalgia al petto per qualcosa che non aveva mai avuto. Come si può provare nostalgia per una vita che non si è vissuta? Qui avrei potuto viverla, pensò John Riley. E subito dopo scacciò quella sensazione di struggimento imponendosi di osservare attentamente le linee di difesa.”, comincia così il racconto di Cacucci: dall’ombelico d’America, Città del Messico, e da un convento-fortino che oggi ospita un parco e un museo, oasi di silenzio ritagliate da due enormi Avenidas a cinque corsie per senso di marcia. Si tratta della calzada de Tlalpan e, appunto, di Rio Churubusco, antico fiume di Mexico-Tenochtitlan.

Irlandesi. I loro genitori avevano sperimentato le ingiustizie di un potente sistema d’oppressione, quello della dominazione inglese sulla loro isola, ed essi, in prima persona, l’avevano vissuto pure negli Stati Uniti, con l’esclusione e le prevaricazioni patite dai loro connazionali, dagli schiavi, dagli altri immigrati e dai loro figli. Anche per questo decidono di schierarsi coi più deboli, che sono però i più dignitosi, nonostante l’incompetenza o la mala fede dei loro jefes, spesso non all’altezza delle truppe e della popolazione civile in resistenza contro il nemico invasore.

1839 map showing US-Mexican boundary before the Mexican War and US annexation of land that is now US states of California, Arizona, New Mexico, Nevada, Colorado, Utah and Texas.

1839 map showing US-Mexican boundary before the Mexican War and US annexation of land that is now US states of California, Arizona, New Mexico, Nevada, Colorado, Utah and Texas.

Evadere dalla prigione di una guerra percepita come profondamente ingiusta e inutile (ma quale guerra non lo è?) si presenta come l’opzione migliore, la possibilità che il Messico offre, per molti stranieri arruolati nell’esercito americano. Spietati, spocchiosi e insulsi, tanto i regolari come i mercenari e i ranger gringos, legittimati da una stampa tendenziosa e bellicista in patria e infervoriti da avidità smisurate al fronte, si lanciano nell’invasione del paese vicino del Sur. Non sono tutti così, esistono dibattitti e sfumature, codici e onori, ma sovente finiscono per prevalere il disordine violento e le brame mercenarie.

D’altro canto tra i generali messicani imperano le dispute, le divisioni, il personalismo e l’attaccamento al potere, non di certo il “bene comune”. E quelli del battaglione San Patricio si mostrano da subito solidali coi compagni sul fronte di battaglia, coi commilitoni che hanno disertato come loro per cambiare bando e vita, e molto meno con un branco di comandanti che mandano al macello truppe affamate, male armate e spinte ai limiti della resistenza umana.

Anche Cacucci, si diceva, ha giustamente disertato e ha deciso di narrare un pezzo di storia posizionandosi dalla parte dei vinti. Infatti, se il Messico almeno un po’ ha reso onore e memoria a quelli del San Patricio e ai famosi Niños Héroes, cioè i sei giovanissimi cadetti del Colegio Militar che il 13 settembre 1847  difesero fino all’ultimo il Castello di Chapultepec a Città del Messico dall’assalto degli americani e, piuttosto che arrendersi, si suicidarono gettandosi dalle sue mura, dall’altra è anche vero che pochissimi conoscono a fondo le gesta di questi miliziani stranieri, il contesto storico messicano e statunitense dell’epoca, a pochi anni dalla ben più nota guerra civile americana, e i retroscena di un conflitto che fu tra i più mortiferi e crudeli del secolo XIX. Oggi quelli del San Patricio sono ricordati come eroi in Messico e come traditori negli USA. Visioni del mondo.

Già pochi anni dopo l’indipendenza, negli States le dottrine Monroe e del Destino Manifesto, condensate nella presunzione dell’eccezionalità americana, hanno giustificato e spinto l’espansionismo gringo prima verso ovest, dove nacque il mito del “selvaggio west” e furono sottratti i territori alle popolazioni autoctone che finirono sterminate o nelle riserve, e poi verso sud, ove ai messicani fu tolta la metà del loro territorio a nord del Rio Bravo in seguito a una guerra scellerata, assecondata in parte dai governanti messicani ma provocata dagli americani per fagocitarsi gli stati dal Texas alla California. Tra fine Ottocento e inizio Novecento l’espansione continuò nei Caraibi, in mezza America Latina, anzi, in mezzo mondo. Complessi di superiorità, l’ideologia della missione civilizzatrice e forti interessi economici e politici ancora oggi imbevono i discorsi pubblici e le azioni belliche degli Stati Uniti, il gran vecino del Norte.

quelli del san patricio irlandaIl “gran vicino” statunitense, a volte nemico ingrato, altre alleato, spesso scomodo ma pur sempre legato indissolubilmente al Messico e al suo destino, spartisce oltre 3000 km di frontiera con l’estremo Nord dell’America Latina. All’epoca in cui si svolgono i fatti del romanzo, il Messico era in mano a beceri caciques e instabili presidenti, come il General Antonio López de Santa Anna, pronti a svendere il paese e la pelle dei suoi abitanti al miglior (e unico) offerente. Ad ogni modo non ci sono semplicemente i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, in questa vicenda, e il quadro che emerge è complesso, variegato, immerso nella realtà storica e dialettica di due paesi che al loro interno si nutrono di mille culture e identità. Quelli del San Patricio è anche un gran romanzo epico, foriero di spunti e riflessioni sulla relazione d’amore e odio del Messico e dei messicani con gli Stati Uniti, sui valori e le dignità non negoziabili, ed anche sull’interculturalità e la xenofobia, sulla politica e sulla guerra, anzi le guerre: quella vista e vissuta da los de abajo, i rinnegati e i marginali, e l’altra, quella dei “piani alti” e degli interessi de los de arriba.

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Quando parlavamo con i morti https://www.carmillaonline.com/2014/12/21/quando-parlavamo-i-morti/ Sat, 20 Dec 2014 23:00:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19412 di Mariana Enríquez

caravan_enriquez_cover_31mar14-mini1[Un estratto da Quando parlavamo con i morti, di Mariana Henríquez, traduzione di Simona Cossentino e Serena Magi, Caravan Edizioni, 2014, pp. 112, € 9,50]

Ma ci volle il caso di Lucila, e l’epidemia che scatenò, per dare il via alla vicenda dei roghi. Lucila era una modella bellissima, ma soprattutto incredibilmente affascinante. Quando la intervistavano in televisione, sembrava svampita e ingenua, ma dava risposte intelligenti e scaltre, e anche questo l’aveva resa abbastanza famosa. Famosa del tutto lo divenne quando annunciò il suo fidanzamento con Mario [...]]]> di Mariana Enríquez

caravan_enriquez_cover_31mar14-mini1[Un estratto da Quando parlavamo con i morti, di Mariana Henríquez, traduzione di Simona Cossentino e Serena Magi, Caravan Edizioni, 2014, pp. 112, € 9,50]

Ma ci volle il caso di Lucila, e l’epidemia che scatenò, per dare il via alla vicenda dei roghi. Lucila era una modella bellissima, ma soprattutto incredibilmente affascinante. Quando la intervistavano in televisione, sembrava svampita e ingenua, ma dava risposte intelligenti e scaltre, e anche questo l’aveva resa abbastanza famosa. Famosa del tutto lo divenne quando annunciò il suo fidanzamento con Mario Ponte, il numero 7 degli Unidos di Córdoba, una squadra di seconda divisione che era stata eroicamente promossa in prima ed era rimasta tra le migliori squadre per due campionati, grazie a una grande formazione, ma soprattutto grazie a Mario, che era un giocatore eccellente e che per pura lealtà aveva rifiutato le offerte di diversi club europei, sebbene alcuni esperti dicessero che, a trentadue anni e considerato l’altissimo livello richiesto dai campionati europei, per Mario sarebbe stato meglio trasformarsi in una leggenda locale piuttosto che in un fallimento transoceanico.

Lucila sembrava innamorata e, anche se la coppia godeva di una certa fama sui media, non le si prestava eccessiva attenzione; erano perfetti e sembravano felici, semplicemente mancava il dramma.

Lucila riuscì a ottenere contratti migliori per la pubblicità ed era lei a chiudere tutte le sfilate; lui si comprò un’auto molto costosa. Il dramma sopraggiunse una notte, quando Lucila venne portata via in barella dall’appartamento che divideva con Ponte: aveva il settanta per cento del corpo ustionato e dissero che non sarebbe sopravvissuta. Sopravvisse una settimana.

Silvina ricordava vagamente le notizie al telegiornale, le chiacchiere in ufficio; lui le aveva dato fuoco durante una lite. Come nel caso della ragazza della metro, le aveva versato una bottiglia di alcol addosso – lei era a letto – e aveva gettato un fiammifero acceso sul suo corpo nudo. L’aveva lasciata bruciare alcuni minuti e poi l’aveva coperta con le lenzuola.

Quindi aveva chiamato l’ambulanza e, proprio come il marito della ragazza della metro, aveva detto che era stata lei. Per questo, quando le donne cominciarono davvero a darsi fuoco da sole, nessuno ci credeva, pensava Silvina aspettando l’autobus – non poteva usare la sua macchina quando andava a trovare la madre: avrebbero potuta seguirla. La gente pensava che le donne stessero proteggendo i mariti, che ne avessero ancora paura, che fossero sotto shock e non potessero dire la verità; non fu facile accettare l’idea dei roghi.

Anche ora che c’era un rogo a settimana nessuno sapeva cosa dire, né come farle smettere, a parte le solite cose: controlli, polizia, sorveglianza. Ma non bastava. Una volta, un’amica anoressica aveva detto a Silvina: non possono obbligarti a mangiare. Sì che possono, le aveva risposto Silvina: ti possono mettere le flebo, un sondino. Sì, ma non possono controllarti tutto il tempo.

Il sondino, lo tagli. E pure le flebo. Nessuno ti può controllare ventiquattr’ore su ventiquattro, le persone dormono. Era vero. Alla fine la sua compagna di scuola era morta. Silvina si sedette con lo zaino sulle gambe. Era contenta di non dover viaggiare in piedi. Temeva sempre che qualcuno potesse aprirle lo zaino e scoprire cosa conteneva.

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