Romano Alquati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Macchinette per pensare l’oltre https://www.carmillaonline.com/2020/07/07/macchinette-per-pensare-loltre/ Tue, 07 Jul 2020 21:55:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61150 di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore [...]]]> di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore Cominu, Anna Curcio, Guido Borio e Raffaele Sciortino.

L’obiettivo del lavoro, che si mostra immediatamente come un elaborato collettivo, uno strumento parziale, volutamente incompleto, è quello di fare emergere la ricchezza della produzione teorica di un militante politico, Romano Alquati, sconosciuto ai più oggi e sminuito da tanti ieri, nonostante la sua capacità teorica e politica di aggredire l’ignoto a partire dalla realtà contingente, verso un possibile tutto da costruire. Se nel già noto infatti c’è la tranquillità della riproduzione, nell’ignoto c’è il rischio della rottura. E il rischio non tutti decidono di correrlo.

Il testo si concentra sulla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti, provando a identificare quei nodi teorici e politicamente rilevanti che segnavano l’inizio di alcune tendenze della ristrutturazione capitalistica, oggi in potente dispiegamento, e al contempo costringevano a immaginare e tracciare le possibili linee della tendenza contro soggettiva antagonista. Tornerò più avanti su questi punti.

In tutti gli interventi che compongono il testo emerge un tratto fondamentale, un’esigenza particolare che si pone come necessità rispetto alla studio dei testi alquatiani – molti dei quali inediti. Cosa significa infatti, concretamente, non fare del suo pensiero un feticcio? Mi pare che l’elemento peculiare di un simile atteggiamento sarebbe quello, tipicamente intellettuale, di settorializzazione di un campo teorico. Lo specialismo, la specializzazione, è un mezzo tipicamente capitalistico di neutralizzazione – nel senso che produce neutralità – della conoscenza e della formazione; una pratica che incatena il pensiero per renderlo innocuo. Di Romano Alquati allora, sottolineano i curatori, bisogna provare a utilizzare il metodo dello sguardo complesso sulla realtà: per cogliere il senso della realtà che osserviamo e vogliamo capire e trasformarlo in senso della possibilità – come sottolinea Borio. Una lettura della complessità a partire dal punto di vista della parzialità.

Insomma, rifiuto dello specialismo dovrebbe significare saper utilizzare ciò che può essere utile per la costruzione di ipotesi di rottura rivoluzionaria nel presente, avendo però la capacità di mettere in discussione e buttare via ciò che non serve più.
Ciò sopratutto perché, come emerge in vario modo e con diverse sfumature dagli interventi, Alquati non era meramente uno studioso, né un pensatore, né un intellettuale o solamente un sociologo critico: era un militante politico, la cui soggettività si forma per rotture e salti e la cui produzione teorico-politica è attraversata da un senso politico intrinseco, che si concretizza nella pervicace ricerca di una possibile tendenza di uscita dalla civiltà capitalistica, rappresentata dal fatto che la «capacità umana vivente» – concetto complesso e articolato approfondito da tutti gli autori – è irriducibile alla logica del capitale.

Prima di venire agli argomenti sostanziali e pregnanti per l’attualità che maggiormente emergono dal libro, vorrei tracciare alcune linee conduttrici che attraversano i contributi e che, a mio avviso, sono esemplificative del pensiero e stile militante di Alquati, elementi che potrebbero servirci a pensare e ad agire l’oggi dove la teoria politica rivoluzionaria non è al passo con la realtà – avendone perso il senso –, e non è quindi in grado di collocarsi, brancolando nel deserto del già noto.

La prima linea è quella che fa emergere il modo di stare dentro e contro la composizione politica del suo tempo, cosa che Alquati ha messo in pratica per tutto il suo percorso militante. Dal volume questo aspetto emerge in modo straordinario e variegato. Quell’essere «cane in chiesa» assume una connotazione tutt’altro che negativa. Il pensiero di Alquati dava fastidio perché non compiaceva gli amici con atteggiamenti trionfalistici o celebrativi, il suo essere «spavaldo» indicava la capacità di relazionarsi e comparare, ma anche di criticare in modo serrato gli altri, ricercando limiti e insufficienze, non la mera esaltazione delle esperienze specifiche. Un militante che rifiutava le semplificazioni e le scorciatoie strumentali, ma osava scommettere con occhi fini e pervicace sapienza. Mi ha colpito particolarmente la definizione che viene data del suo carattere da Borio, quello di «intransigenza sostanziale rispetto a un individualismo finalizzato al compromesso e allo scambio vantaggioso per il posizionamento personale».

Una seconda linea, anch’essa presente in tutti i contributi, consiste nella decisiva dinamicità e circolarità del modo di ragionamento complesso di Alquati. La sua capacità di modellizzare la realtà che aveva di fronte, senza costruire una gabbia chiusa – quella sì reclusione nel già noto e non bisognosa di essere modificata. È l’intelligenza politica di distruggere ogni staticità deterministica, portando il pensiero sempre al limite della sua processualità e trasformatività. Come scrive Ioannilli, un atteggiamento capace di «afferrare quello che c’è, per costruire quello che manca». Il suo «Modellone» della civiltà capitalistica allora non rappresenta una chiusura teorica, ma l’indicazione di linee di fuga, la sistematizzazione della realtà per immaginare un contro-percorso, una necessità imposta dall’accentuata complessità, ma anche il punto medio di una costruzione attenta e permeabile alle insorgenze.

La terza linea, forse la più importante, è quella di rintracciare in Alquati la continua propensione alla ricerca di forze soggettive – o meglio contro-soggettive – che potessero mettere in discussione il livello alto del dominio capitalistico, come sottolinea Pentenero. La ricerca di un’intenzionalità autonoma e contro, che non ha nulla di oggettivo né lineare, ma è calata dentro l’ambivalenza dell’articolazione stessa dell’agente umano, capitalisticamente formato come attore, dotato di risorse calde proprie in quanto persona, e sempre potenzialmente orientato a dei fini contro quelli ufficiali. Detta con Cominu, la ricerca quindi di forze soggettive che ampliano le condizioni dell’ambivalenza per trasformarla in possibilità.

L’ultima linea trasversale agli interventi ed esplicativa del senso politico forte che sta dietro il pensiero di Alquati, è la sua attenzione al nodo della formazione militante. Come ribadiscono sia Borio che Bedani, il suo obiettivo era quello di costruire delle macchine teoriche aperte e ipotetiche. Delle macchinette utili a costruire delle capacità collettive di ragionamento per pensare oltre; la formazione infatti deve «cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente, oltre che nella sua competenza e cultura».

Passando agli elementi sostanziali tuttora rimasti irrisolti, rispetto ai quali Alquati ha avuto il merito di operare dei salti teorici, come sottolinea Sciortino, mi pare che essi siano almeno tre, e non sono mai da considerarsi come aspetti o del capitale o del «contro-percorso». Si tratta di ragionamenti che sono ben collocati dentro il presupposto che, come scrive Curcio, il grado di intensità e presenza di politicità intrinseca e ambivalenza – quindi di possibilità antagonista –, dipende da rapporti di forza storicamente determinati. Questi tre aspetti sono a mio avviso i seguenti: la crisi della salarietà nei suoi aspetti tradizionali, accompagnata dal processo di iperindustrializzazione dell’ambito della riproduzione; la centralità del concetto di soggettività; la questione di cosa possa essere un militante politico oggi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono soprattutto Chicchi e Curcio a concentrarsi sul processo di radicalizzazione dell’estrazione capitalistica di valore che Alquati descrive a partire dagli anni Ottanta. A ciò segue la domanda che Chicchi si pone in merito a quali potrebbero essere oggi le nuove forme di salarietà e operaietà, laddove il processo di estrazione e valorizzazione investe la vita, e la «capacità umana vivente attiva» in generale. Un’impresizzazione del mondo della riproduzione sociale, per riprendere Curcio, dove però esso non assume solo un carattere produttivo, ma diventa riproduzione di capacità umana, mezzo di accumulazione e valorizzazione diretto, senza mediazioni.
Nell’ambito dei processi di ristrutturazione, avverte Alquati, le trasformazioni sistemiche non sono neutre, perché non indicano né liberazione già avvenuta, né cattura inesorabile da parte del capitale.

Il dibattito allora si concentra sulla necessità di riqualificare, se non mettere in discussione, i concetti marxiani di forza lavoro e sussunzione reale. Scrive Curcio che si passa dal fuori della forza lavoro al dentro della capacità lavorativa, che Alquati definisce come «forze attive», intese in quanto combinazione tra le capacità attive umane calde e le capacità fredde macchiniche. Il processo di sussunzione reale si estende si enormemente, ma emerge una incompletezza della sussunzione effettiva (data l’incapacità per il capitale di sussumere fino in fondo quelle risorse calde, che gli residueranno sempre).

Il secondo nodo è quello della soggettività. Come già accennavo in precedenza, Alquati si pone il problema delle forze contro-soggettive possibili per la fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Nel libro questo aspetto viene bene messo in evidenza; ritengo a maggior ragione che questo concetto, quello di soggettività, in quanto baricentrale all’interno del pensiero alquatiano, necessiti di essere trattato sempre meno come un concetto e sempre più come un punto di vista. Borio lo descrive bene nel suo contributo, quella della soggettività è una questione sostanziale, un «cruccio» che Alquati non smetterà mai di portarsi dietro; essa non è un modo di essere generico o oggettivamente dato, ma intenzionale. La soggettività è diversa dal soggetto, la prima è propria di tutti gli agenti umani viventi, mentre il soggetto, con propri fini, è potenziale. Entrambi sono campi di battaglia tanto per il capitale tanto per «noi». La soggettività va riferita non al soggetto – che per Alquati è già contro se c’è – ma alla persona, in quanto soggetto intermedio e portatore di ambivalenza. È la contro-soggettività che va ricondotta al soggetto, strappando al capitale l’iniziativa dei percorsi di risoggettivazione individuale e collettiva.

Concludo con l’ultimo nodo, forse per noi il più importante – noi che da Alquati vorremmo imparare un modo di stare al mondo che non si stanchi mai di dare fastidio a chi pensa di avere tante certezze – su cosa significa essere un militante politico. Come scrive Bedani, ispirando il titolo di questa recensione, il militante è colui che pensa per pensare oltre. Alquati considerava la militanza come posizionamento, radicamento, internità, conricerca, studio, atteggiamento.
Il militante è colui che riesce a collocarsi e muoversi su più piani utilizzando saperi, scienze, conoscenze ecc. La conricerca è esattamente la capacità di fare interagire forze soggettive con soggettività differenti. È la messa in discussione, scrive Chicchi, di un rapporto neutro del sapere con le lotte, per produrre autonomia che sta nell’imprevisto.

Per chiudere, credo che questo piccolo libro possa essere pensato come una macchinetta per pensare l’oltre, una macchinetta incompleta, tutta da mettere a verifica nella realtà, perché il senso della possibilità bisogna averlo prima di tutto nella testa.

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Macchine collettive contro l’innovazione capitalistica https://www.carmillaonline.com/2020/02/17/macchine-collettive-contro-linnovazione-capitalistica/ Mon, 17 Feb 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58106 di Veronica Marchio

Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro

Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica. Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di [...]]]> di Veronica Marchio

Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro

Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica. Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di ampia diffusione, al contempo introduttivi del tema e con rigorosi livelli di approfondimento. I contributi sono quelli di Salvatore Cominu, Andrea Fumagalli, Franco Berardi Bifo; il libro è arricchito dalle interviste a Federico Chicchi, Christian Marazzi, Maurizio Lazzarato.roprio per il carattere fortemente articolato del testo, ricco di sfumature differenti e interrogativi aperti tutti da approfondire, sarebbe impossibile, se non addirittura inutile, pretendere di poter scrivere una recensione che tenga dentro tutto. Ecco perché, cogliendo lo stimolo al ragionamento teorico e politico che un tipo di scritto come questo si propone di offrire, proverò ad interagire con i contenuti del libro, individuando soprattutto gli elementi comuni dei vari interventi e problematizzando ulteriormente i nodi irrisolti che emergono con grande urgenza. 

Innanzitutto ciò che di fondamentale viene fuori dal libro, è che non può esistere una critica dell’innovazione capitalistica, tesa a costruire una progettualità politica antagonista, che non tenga insieme una serie di livelli di ragionamento e di realtà quando ci si interroga sul rapporto tra macchine, tecnologia, soggettività capitalistiche e potenziali soggettività-contro. 

C’è infatti un livello di dominio alto, in cui la dimensione del capitalismo finanziario – come spiega Fumagalli – si coniuga con lo sviluppo tecnologico e macchinico, producendo accumulazione di dominio e potenziamento capitalistico sempre più esteso. Questo livello alto di ragionamento permette di caratterizzare la critica con un punto di vista di parte: la macchina e l’innovazione non sono elementi neutrali, ma strumenti attualmente in mano alla civiltà capitalistica.

Questo elemento, per quanto apparentemente scontato, è in realtà fondamentale, poiché permette di affermare che le macchine, in quanto strumento di moltiplicazione delle forze, di potenziamento dell’attività dell’uomo, sono sempre esistite. L’uomo si è sempre dotato di esse. L’utilizzo capitalistico delle macchine non è naturale, ma storicamente determinato. Ciò di cui il libro si occupa quindi, sono le macchine capitalistiche, un sistema articolato che è costituito come macchina sociale complessiva. 

Prima di entrare nel merito di alcune questioni a mio avviso centrali, vorrei individuare due elementi ricorrenti nel testo, che possono fungere da premessa di questa recensione. In primo luogo emerge chiaramente il tentativo di mettere a verifica e a critica alcune concezioni e categorie del pensiero politico operaista italiano, in particolare attraverso gli studi e le ricerche che Romano Alquati e Raniero Panzieri – con differenze e anche contrasti tra di loro, giustamente evidenziati nel contributo dei curatori – hanno portato avanti sul tema. Secondariamente i vari autori provano in qualche modo a distanziarsi tanto da posizioni tecnofile, quanto da posizioni tecnofobe. Nelle prime l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle macchine, ad esempio quelle biologiche come spiega Chicchi, sono viste come una grande risorsa per l’interazione della specie e per inventare nuove soggettività; oppure sono maggiormente legate al mondo della pratica politica, dove spesso l’apparato tecnologico appiattisce completamente la dimensione di realtà, rischiando di disincarnare le lotte e le soggettività. Le seconde prevedono che la tecnologia dominerà in modo totalitario e senza residui la vita dell’uomo, e perciò la soluzione che si prospetta è una rinuncia ad essa.

Nello stesso tempo, e in ciò sta l’elemento di grande stimolo del libro, la semplice terza strada del controuso della tecnologia e delle macchine – contro uso contro l’utilizzo capitalisticamente direzionato –, è posta certamente come punto dirimente, ma viene continuamente problematizzata. In questo senso il ragionamento che viene portato avanti è correttamente ambizioso: apre una sfida tutt’altro che semplice da affrontare. Tutto sommato ciò che alla fine si può affermare è che il contrario di innovazione capitalistica è rivoluzione. Ma ci arriveremo. 

Nel loro saggio introduttivo, che delinea il quadro teorico di riferimento e pone degli interrogativi, Molinari e Narda ci introducono alla definizione che Borio dà di macchina riprendendo Alquati: essa è un sistema complesso, articolato, espropriativo di capacità umane e finalizzato. Questo tipo di modo di considerare la macchina come un sistema e non come mero macchinario, viene in qualche modo riempito nel corso della trattazione. È un sistema articolato, nella misura in cui si caratterizza come sistema di macchine che sono tese alla produzione, all’organizzazione, alla gestione burocratica, macchine biologiche, sociali, che dispiegano un modo di funzionamento. Questo sistema articolato costituisce una macchina sociale complessiva – che Lazzarato definisce anche come macchina di guerra globale. È un sistema espropriativo di capacità umane. Ritengo che questo secondo elemento sia decisamente uno dei punti del libro che più necessitano di essere presi in considerazione, e difatti è anche un nodo su cui i vari interventi ritornano continuamente. 

Affermare ciò significa prima di tutto due cose: la questione dello sviluppo tecnologico delle macchine – la digitalizzazione, i big data, il mutamento delle forme del lavoro, come frontiera dell’innovazione capitalistica – non può essere assunta, come specifica Chicchi, al di fuori dei rapporti sociali di produzione, “della tensione di soggettività, estrazione del valore e sua accumulazione” (pag. 80). Cominu aggiunge che qualunque visione si abbia del rapporto tra innovazione, sapere sociale e natura del nuovo capitalismo, è difficile negare “che lo sviluppo del macchinario digitale sia stato decisivo, negli ultimi decenni, non solo per creare nuove merci ma anche per riformulare le modalità di comando sulla società” (pag. 30). Nonostante le nuove tecnologie siano specialistiche e automatiche, sono anche macchine relazionali e quindi sociali, che hanno assorbito capacità di dialogo, di regolazione ecc. Questo discorso non è in fondo contrastante con ciò che dice Lazzarato in chiusura del libro, e cioè che è la macchina sociale che crea le macchine tecniche. 

In secondo luogo, ricorrente è la critica alle teorie del cosiddetto capitalismo cognitivo secondo cui nel “postfordismo”, il lavoratore – a differenza del passato – sarebbe lasciato autonomo di cooperare per poi essere successivamente espropriato dal capitale, che succhierebbe in modo parassitario la ricchezza della cooperazione sociale. Potremmo quasi affermare che questa posizione – duramente criticata, soprattutto perché poi la presunta autonomia non ha portato a nessun sovvertimento della civiltà capitalistica –, ricade in una posizione tecnofila, affidando la progettualità politica totalmente in mano all’innovazione capitalistica. Mentre, come dice Bifo, è una temporalità autonoma che andrebbe contrapposta a quella accelerata del capitale.

Nel saggio introduttivo – e ciò in linea con lo stesso titolo del libro – i due curatori vanno invece direttamente al cuore del problema, ripartendo dal Frammento sulle macchine di Marx e dai concetti di capacità e attività umana di Alquati. Il capitale ha sempre avuto l’esigenza di liberarsi (ovvero sussumere la forza) del sapere e delle abilità operaie (viste come arma di ricatto), di impoverire la capacità umana nel senso di incorporarla dentro la macchina in funzione anti-operaia – si parla di macchinizzazione delle capacità umane – , di separarla, in quanto risorsa calda, dal corpo di chi la possiede, per inglobarla nella risorsa fredda macchinica. In altre parole, la costituzione di una contrapposizione tra la macchina e la capacità umana, che ha come effetto un potenziamento di essa per il capitale, e un impoverimento della sua potenziale linea di arricchimento contro il capitale. Come direbbe Alquati, la risorsa calda entra essa stessa in un processo di mercificazione. Pensiamo, come suggerisce Marazzi, al rapporto tra capacità umane e digitale: il lavoro vivo, che ha incorporato una serie di funzioni del capitale fisso, genera informazione e dati a partire dalle forme di vita, non solo quindi nel mondo del lavoro classicamente inteso, ma anche nel vasto mondo della riproduzione sociale. 

Il sistema macchina è infine, e di conseguenza, finalizzato. L’ovvio rischio a cui tutte le posizioni tecnofile si espongono è quello di considerare l’innovazione – e quindi le macchine – come dispositivi neutri e neutrali. Come spiega in modo eccellente Cominu, le macchine costituiscono una potenza ostile per l’agente umano, sono l’esito di un rapporto di forza, sono intrinsecamente una parzialità – direbbe Panzieri – e portano perciò ad una situazione di ambivalenza. Quest’ultimo concetto viene ripreso da Alquati, il quale ipotizzava, in modo esplorativo, un’ambivalenza irriducibile, per cui la capacità umana è solo tendenzialmente capitale e può rifiutarsi di funzionare come tale. In altre parole, se il capitale ha sempre bisogno della capacità umana per compiere il processo di innovazione – chiudendo o lasciando aperta l’ambivalenza –, la risorsa calda – per quanto impoverita – rimane comunque dentro al corpo caldo come potenzialità che può rompere i processi di lavorizzazione e mercificazione. L’ambivalenza allora, come suggerisce Cominu, va coltivata, come campo di battaglia. 

Prima di arrivare a conclusioni e interrogativi, vorrei toccare un’ultima questione importante che nel libro viene affrontata: il rapporto tra macchine e lavoro. In particolare mi sembra molto utile ciò che dice Cominu, quando afferma – riprendendo tutto un dibattito che non posso qui sintetizzare per motivi di spazio – che gli scenari sull’impatto della trasformazione digitale, anche in termini quantitativi di numero di lavori in diminuzione, sono irrealistici; più che parlare della fine del lavoro dovremmo parlare di lavoro senza fine, “laddove lavoro è meno distinguibile dall’insieme delle attività co-implicate nella produzione di valore” (pag. 37). Chicchi specifica ancora meglio questo rapporto, dicendo che in questo modello di relazione della tecnologia con il mondo del lavoro, la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata, e riguarda tanto il tempo produttivo, quanto quello riproduttivo. La gamma di capacità umane impoverite è dunque molto estesa. 

Per concludere, riprendo una domanda che Cominu, a conclusione del suo intervento, rivolge a mo di apertura di un dibattito in merito: “cosa significa contro-usare l’organizzazione infrastrutturata delle macchine digitali?” e “fino a che punto la persona umana è mezzificabile?” (pag. 40). Aggiungerei io: come immaginare un contro alla macchina sociale capitalistica complessiva, per riprendere il ragionamento sviluppato da Lazzarato? Penso che siano questi degli interrogativi cruciali, soprattutto per il fatto che la riduzione della capacità umana a mezzo è un processo, ed è un processo non risolto una volta per tutte: la risorsa umana è pur sempre calda – ritorna qui il concetto alquatiano di residuo irrisolto.

Alla luce della sfida che questo libro propone, mi sembra del tutto urgente ragionare sul fatto che, se l’innovazione capitalistica decantata come progresso dell’umano, in realtà impoverisce l’umano, potenziandolo ma privandolo della sua possibile ricchezza, costituendosi come forza ostile ad esso, è plausibile pensare a come rovesciare questa ostilità? Se l’innovazione e il progresso non sono, di conseguenza, figli della necessità di uno sviluppo che tende verso il bene, se essi sono sinonimo di sussunzione delle lotte e dei comportamenti dotati di politicità intrinseca – e quindi il contrario di rivoluzione –, come ripensare l’ipotesi del contro-uso delle macchine, in una direzione che immagini la costituzione di macchinette collettive, che producano ricchezza di capacità, organizzazione, contro-formazione e contro-soggettività?

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L’autonomia di classe…innanzitutto! https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/ Mon, 16 May 2016 20:24:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30537 di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il [...]]]> di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il lettore non si troverà davanti ad un testo di “Storia” del Partito Comunista Italiano, ma piuttosto ad un’opera militante tesa ad aiutare l’opposizione di classe ad uscire, soprattutto all’epoca della sua redazione, dall’impasse troppo spesso rappresentata dalla separazione tra una sinistra istituzionale, ormai interamente rivolta ad un’attività di tipo parlamentare ed amministrativo, e una sinistra extra-parlamentare, presunta rivoluzionaria, che della prima non faceva altro che ricalcare i passi.

Il testo di Montaldi quindi si distanziava per impostazione sia dalla monumentale e canonica Storia dello stesso partito che a partire dal 1967 e fino al 1975 la casa editrice Einaudi era andata pubblicando per opera di Paolo Spriano, sia dalla più “eretica”, ma pur sempre tradizionale per impianto, storia pubblicata in un primo tempo, subito dopo la crisi ungherese e l’avvio del processo di “destalinizzazione”, nel 1957 da Giorgio Galli (poi rivista e ampliata nel 19762 ).

Purtroppo l’opera di Montaldi, che aveva avuto una lunghissima e tormentata gestazione, veniva già all’epoca pubblicata postuma, poiché l’autore, nato nel 1929 a Cremona, era drammaticamente scomparso un anno prima nelle acque del fiume Roia, presso il confine italo-francese. Da questo fatto derivava, forse, una struttura del testo divisa in 82 capitoli privi di titoli che aiutassero il lettore ad individuare velocemente gli argomenti e gli eventi trattati nelle sua pagine. L’edizione attuale, però, ha supplito a questa “carenza” con un ricchissimo indice analitico. Cui, sempre nella stessa vanno aggiunti un importante carteggio tra l’autore e vari corrispondenti proprio sul lavoro fatto in preparazione del testo ed una più che ampia ed esaustiva bibliografia oltre che un sostanziale ampliamento dell’apparato di note già presente nella prima edizione.

L’opera veniva così a chiudere, forzatamente, il percorso di un intellettuale militante che dopo essere entrato nel PCI nel 1944 lo aveva abbandonato appena due anni dopo, sull’onda dell’espulsione dalla sezione cremonese del partito di quella componente internazionalista, legata ancora a Amadeo Bordiga, che avrebbe voluto spronare il proletariato a portare a compimento, armi alla mano, il processo “rivoluzionario” iniziatosi con la Resistenza.

Questa esperienza in giovane età aveva contribuito a spingere l’autore verso una ricerca militante e politica che nel volgere di pochi anni lo avrebbero portato a produrre una discreta mole di articoli e saggi destinati a segnare in maniera esemplare il rinnovamento del discorso sull’interpretazione da dare dei comportamenti e dell’azione politica e sindacale determinata dall’autonomia di classe e sull’inchiesta operaia (che egli contribuì a rinnovare sensibilmente dal punto di vista metodologico).3

Una metodologia che da un lato lo avrebbe avvicinato a Gianni Bosio nel campo della storia orale, mentre dall’altro lo avrebbe portato a dare vita a quella che sarebbe poi stata successivamente meglio definita da Romano Alquati come “conricerca”. Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette»”.

Montaldi non voleva essere inquadrato in una parrocchia politica. Forse non voleva nemmeno essere considerato un intellettuale. Usava gli spazi disponibili (libri, giornali, riviste, dibattiti) per portare avanti e affinare la sua ricerca e la sua visione dell’azione di classe, proprio come pensava che il proletariato avrebbe saputo fare, in piena autonomia, senza il bisogno di qualcuno che lo guidasse o che ne raccontasse la storia dall’esterno. L’autonoma azione politica doveva infatti preludere anche ad una autonoma ricostruzione della propria storia, non mediata da altri interessi che non fossero quelli della liberazione dalla servitù salariale e capitalistica.

Tali presupposti e tale metodo sono presenti, per forza di cose, anche nel “Saggio”, dove nelle parti più indirizzate alla critica ideologica delle posizioni assunte dal Partito attraverso lo stalinismo e il togliattismo l’autore si basa principalmente su documenti e testi della tradizione e della storiografia comunista “di vertice”, mentre in quelle destinate all’esplorazione delle possibilità insite nell’utilizzo, o nel ribaltamento, proletario dello strumento “partito” utilizza principalmente testimonianze dirette o materiali prodotti dalla “base” e dai suoi movimenti spontanei.

L’obiettivo del saggio di Montaldi sembra dovere e volere coincidere con quello della ripresa delle lotte che dal 1968 in avanti avevano rivitalizzato la classe operaia e il proletariato nel suo insieme. E l’autore lo sintetizza proprio nelle pagine finali del testo: “Una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi dalla sua ipoteca fallimentare. La profonda secessione che si è verificata dal ’68 in avanti racchiude entro di sé il rifiuto di un passato che è stato anche di alienazione […] Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo. Nella fabbrica e nella società certe premesse sono già state poste […] Il lungo lavoro della Direzione del PCI non è mai riuscito a stringere in uno schema di comodo la lotta di classe. Non si è tratto unicamente, come nel vecchio PSI, di una crescente influenza del sistema sul partito; con il PCI si è trattato, dal 1944, di un patto nazionale in rapporto con gli altri patti, tra gli Stati maggiori e i blocchi mondiali, a togliere indipendenza e autonomi a al proletariato” (pag. 346)

Nella interpretazione dell’autore in quella funzione contro-rivoluzionario Togliattismo e stalinismo avevano cercato di stringere, non sempre riuscendoci, in un abbraccio mortale la classe, cercando di impedirle qualsiasi autonomia di azione, tanto da far dire a Nicola Gallerano, nella nota introduttiva alla prima edizione, riportata anche nell’attuale, che il memoriale di Yalta, autentico testamento politico di Togliatti, “appare a Montaldi come il punto di arrivo e il suggello di tutta la storia politica del dirigente italiano, esempio di coerenza stalinista «strategica» proprio nel momento in cui è costretto a negarne più decisamente il corollario «tattico» (la dipendenza dall’URSS). Si comprende allora il senso del lavoro sul PC italiano e sulla figura di Togliatti, il dirigente che ne ha segnato di più profondamente il ruolo politico. «Stalinismo cosciente», «nazionale e statale» è quello di Togliatti; e la «continuità», la «staticità», anche, di Togliatti […] consiste nel suo discorrere da «statista», di «Paesi e nazioni, non di classi»” (pag.405)

Ecco allora rivelarsi tutta l’importanza della ricostruzione militante della politica comunista in Italia dal 1919 al 1970, validissima ancora oggi per comprendere come l’attuale Partito della Nazione finisca col coronare, e non tradire, lo spirito di un partito che dalla “svolta di Salerno” in poi non ha perseguito altro che il disarmo dell’autonomia di classe e la difesa degli interessi del capitale nazionale e sovranazionale. La cui la traiettoria, che avrebbe poi portato fino a Renzi e al suo PD, era già tutta compresa in quel giudizio e in quella prospettiva.

Un testo che se rivelava agli occhi dei lettori dell’epoca della sua prima uscita, tra cui mi annovero volentieri, la lotta all’ultimo sangue che si era svolta tra classe e stalinismo nell’URSS, anche con episodi di durissima resistenza operaia allo stakanovismo, e fuori dai suoi confini (dalla Spagna del ’36 all’Ungheria del ’56 e oltre), oggi si rivela ancora enormemente utile per una riflessione non solo sul divenire del rapporto tra classe e partito, ma anche sull’inutilità e la pericolosità di strutture politico-organizzative che tendano a rinchiudere le contraddizioni di classe in un ambito puramente parlamentare ed amministrativo.

Riflessione che accompagnò e costituì, quasi sempre, la base dell’irrequietezza politica e di tutto il lavoro di ricerca di Danilo Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e da Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia. Uno studioso militante tutto da riscoprire a partire, magari, proprio da questo fondamentale testo.

montaldi-feltrinelli N.B.
Per approfondire ulteriormente il discorso sulla figura di Montaldi (ritratto nella fotografia pubblicata qui a lato, è il primo da sinistra, con Giangiacomo Feltrinelli durante un dibattito a Cremona) si consigliano ancora i seguenti testi:

Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, a cura di Luigi Parente, La Città del Sole, 1988, Napoli

Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi. Alle origini di una proposta metodologica (in La Critica Sociologica n. 49, 1979)

Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli (1977)


  1. Edizioni Quaderni Piacentini, Piacenza 1976 (allora stampata in circa quattrocento copie)  

  2. Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani 1976  

  3. Si vedano: Franco Alasia-Danilo Montaldi ( a cura di), Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli prima edizione 1960, seconda accresciuta 1975; D.Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 1961; D.Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971; D.Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli1975; D.Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, in Ombre Rosse n° 13, Savelli 1976; D.Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952 – 1975, Edito per conto dell’Associazione culturale Centro d’iniziativa Luca Rossi – Milano – dalla Cooperativa Colibrì, 1994  

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