Roma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cent’anni di lotte. Una mostra per restituire alla città tutta la Ex Snia https://www.carmillaonline.com/2025/05/30/centanni-di-lotte-una-mostra-per-restituire-alla-citta-tutta-la-ex-snia/ Thu, 29 May 2025 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88724 di Luca Cangianti

Un gruppo di pischelli scavalca un muro e si fa strada tra la vegetazione selvaggia. Ridono e scherzano, ma hanno anche un po’ paura: sono entrati in una proprietà privata. Alla fine si bloccano e rimangono a bocca aperta: gli uccelli gridano dall’alto e la luce del sole si riflette su grande specchio d’acqua purissima. Hanno scoperto un lago, proprio vicino a casa loro, nella periferia romana.

Adesso un “pischello” di quel gruppo ce l’ho di fronte a me, anche se sono passati più di trent’anni: «Le panche di legno per noi erano vascelli pirata», racconta. «Con gli amici [...]]]> di Luca Cangianti

Un gruppo di pischelli scavalca un muro e si fa strada tra la vegetazione selvaggia. Ridono e scherzano, ma hanno anche un po’ paura: sono entrati in una proprietà privata. Alla fine si bloccano e rimangono a bocca aperta: gli uccelli gridano dall’alto e la luce del sole si riflette su grande specchio d’acqua purissima. Hanno scoperto un lago, proprio vicino a casa loro, nella periferia romana.

Adesso un “pischello” di quel gruppo ce l’ho di fronte a me, anche se sono passati più di trent’anni: «Le panche di legno per noi erano vascelli pirata», racconta. «Con gli amici ci divertivamo a giocare a battaglia navale sul lago. Poi un giorno in un edificio diroccato ho trovato delle schede di cartoncino: c’erano le foto di chi lavorava qui, le loro mansioni e persino le punizioni che subivano. E così mentre gli altri facevano i graffiti, io me ne rimanevo imbambolato per ore a sfogliare l’archivio abbandonato della Snia Viscosa». Marco si riferisce alla fabbrica di fibre tessili artificiali fondata nel 1923. Dopo trent’anni di attività e quaranta di abbandono, l’area è acquistata nei primi anni novanta da una società che inizia i lavori per costruire un centro commerciale, intercettando però una falda idrica. Questa è l’origine del lago metropolitano di diecimila metri quadrati di superficie. Dopo molti esposti presentati dai residenti riguardo alla correttezza delle concessioni edilizie e la richiesta di destinare gli spazi al verde pubblico, inizia una lunga vicenda giudiziaria. Su parte del terreno espropriato nel 1997 viene aperto al pubblico il Parco delle energie, grazie a una battaglia del Centro sociale Ex Snia sorto dall’occupazione di alcuni capannoni del complesso industriale. Nel 2015, infine, il lago è finalmente aperto alla cittadinanza. «Adesso dobbiamo completare il lavoro: è giunta l’ora di far arrivare al sindaco la voce dei residenti: bisogna espropriare gli ultimi quattro ettari e mezzo di terreno in mano ai privati per impedire l’edificazione di un polo logistico e di uno studentato per ricchi di cui non c’è alcun bisogno, mentre invece è vitale tutelare gli spazi verdi in una zona di Roma interamente edificata.»

Questa storia centenaria è raccontata nella mostra “Viscosa di Roma. 100 anni di Storie, Lotte e Natura all’ex Snia”, la cui apertura gratuita dal venerdì alla domenica (ore 16.00-20.00) è stata prolungata fino al 6 di giugno. A promuovere l’iniziativa sono il Centro di Documentazione Maria Baccante e il Forum Parco delle Energie.
Guardo le foto e vedo le immagini sbiadite di alcuni alberelli; adesso sono enormi pini centenari. Vedo i volti delle donne e degli uomini che migrarono dalla provincia per affollare borghetti e baraccopoli; che fecero la Resistenza, che condussero scioperi lunghi e coraggiosi, che erano multati dalla dirigenza per tremore delle mani e lavorazione incompleta. Anni dopo si sarebbe scoperto che si trattava di solfocarbonismo, una malattia professionale che provocava disturbi al sistema neurologico, allucinazioni, vertigini e, per l’appunto, tremori. Molti operai finirono i loro giorni all’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà.
«Il quartiere ci riconosce ormai come depositari delle loro memorie» afferma Maria. «Se qualcuno trova un documento della Viscosa viene a donarcelo.» E poi passa a elencare le attività di public history e di mobilitazione sociale che rendono così originale questa esperienza di attivismo: percorsi di storia industriale e del quartiere, studio dell’immigrazione italiana e straniera, analisi della fauna e della vegetazione locale, coinvolgimento delle scuole, ragazzi che raccolgono le memorie degli abitanti del quartiere e persino una piccola Colonna di Traiano a manovella realizzata dai bambini per raccontare la storia del territorio.

È il 25 aprile, finisce la visita guidata della mostra e inizia un percorso che si ferma davanti alle case dei partigiani e delle partigiane. A ogni tappa prende la parola un residente e ne racconta la storia. In mezzo alla piccola folla di partecipanti rimugino su quel che vedo e sento: dalla fine del ciclo di lotte degli anni settanta a oggi tanti si sono affannati a costruire gruppi e partiti residuali di sinistra più o meno radicale; tanti hanno corso appresso a una rappresentanza elettorale ormai deprivata di qualsiasi potere dal reset postfordista. Il risultato? Nuove sconfitte, depressione e masochistica coazione a ripetere. E invece questi attivisti qui combattono il processo di individualizzazione e atomizzazione capitalistica creando una nuova mitologia territoriale. Fanno parlare le vie, i palazzi e le vecchie fabbriche dismesse; risignificano lo spazio urbano, creano identità condivise, comunità. Lontano dai centri commerciali, lontano dal loro immaginario seducente e traditore. Senza questo lavoro umile e grandioso, mi dico, come possiamo pretendere di suscitare una nuova coscienza rivoluzionaria? Un nuovo e prorompente desiderio di veder realizzato un mondo migliore?
Ma forse sono solo mie elucubrazioni e quindi chiedo a Marco se tutte queste attività facciano parte di un progetto politico più ampio: «E certo!», mi risponde di getto, come se la mia domanda fosse scontata. In quel momento il suo sorriso malizioso mi ricorda un pischello che trent’anni fa scavalcava i muri delle proprietà private.

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Distruggi il male https://www.carmillaonline.com/2025/04/22/distruggi-il-male/ Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87658 di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico. La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata [...]]]> di Luca Cangianti

[In Val di Susa, tra notav, militari impazziti, elicotteri da guerra e fumi di lacrimogeni, qualcosa di mostruoso sta strisciando fuori dal tunnel geognostico.
La catena degli eventi, però, è iniziata molto prima, nel 1982, in pieno riflusso politico, tra il dilagare dell’eroina, la repressione, i robot giapponesi e gli ultimi spari della lotta armata. Enrico – un sedicenne innamorato del Signore degli anelli – e i suoi giovani alleati – una militante dell’autonomia operaia, uno scanzonato tifoso di calcio e uno studente di filosofia – accedono a un’inquietante dimensione parallela che riproduce le sembianze di una Roma cristallizzata ai tempi dell’occupazione nazista e della Resistenza. Ne nasce un’avventura fantastica in cui sono in gioco la vita, la morte, la salvezza della Terra e il desiderio di una società libera dallo sfruttamento e dalla tristezza.
Per gentile concessione dell’editore si riporta di seguito il primo capitolo di Distruggi il male, il nuovo romanzo di Luca Cangianti (DeriveApprodi, 2025, pp. 128, € 15,00).]

Oggi. Val di Susa

«Fanno troppo schifo! Niente primi piani, altrimenti la gente vomita e cambia canale». La giornalista si rivolgeva alla regia, ma aveva urlato nel microfono ed era andata in onda.
L’uomo si avvicinò allo schermo per distinguere meglio le immagini. Le creature uscivano dal tunnel e dilagavano nella valle tra i piloni dell’autostrada. Emettevano suoni gravi che increspavano l’acqua nelle vasche di raffreddamento. I bacini servivano a contenere le temperature prodotte dallo scavo.
Scosse la testa e rimase interdetto. Il pulviscolo scorreva nel raggio di sole che attraversava il salotto fino agli scaffali carichi di libri. Erano disposti senza cura. Sul divano dell’Ikea era appoggiato un portacenere, nell’angolo cottura le stoviglie sporche battevano sulle pareti del lavello. Il lampadario dondolava.
Il rombo degli elicotteri da combattimento attirò la sua attenzione. Guardò fuori dalla finestra e scorse l’ultimo velivolo della formazione. La regia trasmise le riprese dall’alto: le maestranze del cantiere uscivano dalle cabine degli escavatori lasciando le portiere aperte. Alcuni si mettevano alla guida di pulmini che risalivano la strada, altri si rifugiavano in un edificio dal tetto verde.
L’uomo uscì di casa, percorse una via lastricata di sampietrini, passò di fronte a una fontanella e raggiunse il centro del paese: alcune case avevano i tetti d’ardesia, altre balconi di legno. Svoltò per una via che scendeva a zig zag verso la Dora. Gruppi di giovani correvano nella stessa direzione. Sul muro del terrapieno qualcuno aveva scritto a caratteri cubitali: «LA VALLE NON VI VUOLE».
Attraversò il ponte e vide il vecchio murale sbiadito: figure umane a carponi si cibavano del denaro defecato da chi le precedeva. Il checkpoint della centrale idroelettrica era deserto. Al bivio prese la strada che saliva costeggiando le vigne. Le vibrazioni assordanti adesso si mescolavano al rumore metallico della battitura. Si coprì le orecchie con le mani. Al museo archeologico di Chiomonte centinaia di dimostranti percuotevano le recinzioni del cantiere. Una donna sventolava una bandiera bianca con un treno sbarrato da una croce rossa. Alcuni giovani indossavano il casco: agganciarono le grate con uncini fissati a corde robuste e iniziarono a tirare. Il camion idrante della polizia bersagliò i ragazzi. Quattro attivisti portarono una lastra di plexiglas per usarla come protezione. Le corde furono afferrate da altre decine di persone. Le recinzioni caddero al suolo accompagnate da un boato di urla. I militari spararono i candelotti, i dimostranti lanciarono pietre e bottiglie. Partì una carica, gli attivisti indietreggiarono. Alcuni rimasero al suolo.
L’uomo fuggì lungo un sentiero in salita. Si sostenne a un arbusto per riprendere fiato. Chiuse gli occhi per qualche secondo, poi guardò in basso oltre il terrapieno realizzato con i detriti dello scavo.
La vallata era colma di filamenti arancioni che galleggiavano a mezz’aria tra i fumi dei gas lacrimogeni.

[Luca Cangianti e Giovanni Acquarulo (giornalista Rai) dialogheranno su Distruggi il male il 23 aprile 2025 alle 19.00 presso la Libreria Caffé Giufà, via degli Aurunci 38, Roma]

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Avanti barbari! https://www.carmillaonline.com/2024/08/07/avanti-barbari/ Wed, 07 Aug 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83798 di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte [...]]]> di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte del carcere. (Notte tra i 1° e il 2 agosto 2024, da un articolo di Federico Femia e Caterina Stamin su “La Stampa”)

Come sempre, ad essere sinceri, le recensioni di libri altrui non possono che costituire dei pretesti per parlare di argomenti che premono ai recensori. Tale osservazione vale anche in questa occasione, in cui il bel saggio di Louisa Yusufi, pubblicato lo scorso anno da DeriveApprodi in Italia, ma uscito originariamente in Francia nel 2022, permette a chi scrive di trattare un problema che travalica la “linea del colore” e della “barbarie” inclusa nei confini delle banlieue francesi per mettere in discussione il concetto di civiltà tout-court, all’interno di tutto il modo di produzione e riproduzione basato sui principi del capitale e dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.

Il titolo del testo della Yousfi rinvia, inevitabilmente, al motto “rimanere umani” che da anni accompagna manifestazioni e proposizioni ricollegabili alla rivendicazione in difesa dei diritti delle fasce più deboli e povere della popolazione e, in particolare, delle condizioni di vita dei migranti e degli immigrati, accompagnandosi spesso anche ai discorsi sulla guerra e le sue cruente e spietate logiche di violenza e sterminio. Non a caso il suo presunto ideatore, Vittorio Arrigoni noto come Vik, proprio a Gaza era stato ucciso nell’aprile del 2011 da una cellula jihadista salafita che si opponeva a qualsiasi tipo di intervento umanitario occidentale nell’enclave palestinese.

Quell’atto, per molta parte della sinistra, aveva finito col confondersi con una sorta di frattura tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è dell’azione dei popoli in rivolta e delle loro, spesso squinternate e ambigue, milizie. Un episodio drammatico che, certamente, ha contribuito ad approfondire il solco tra coloro che contestano l’attuale modo di produzione senza peraltro uscirne dai limiti delle leggi e dei “diritti” e coloro che che in quei limiti non sono compresi in quanto esclusi per ragioni di classe mascherate da colore della pelle, etnia, religione e quant’altro finisce col contribuire a definire una condizione di “barbarie”, sia nell’agire politico e quotidiano che nella formulazione delle idee che l’accompagnano.

Una separazione che ha finito col rafforzare l’idea che soltanto l’accettazione di certe regole e una certa visione del mondo di stampo liberale e occidentale possa far sì che l’altro sia accettato sul piano della comunicazione e dell’inserimento nella comunità degli “individui aventi diritto”. Una superficiale e opportunistica valutazione in cui può essere considerato umano soltanto chi accetta le regole dettate dal migliore dei mondi possibili, quello bianco, occidentale e liberale, e dalle sue leggi “universali”. Obiettivo per cui, come afferma l’autrice, “i civilizzati” si sforzano di creare dei ponti.

Ah, i ponti… […] vediamo un’intera cricca di sociologi che annuisce con aria di intesa. Sono coloro che lavorano sulla questione […] Il nostro sudiciume, le nostre depravazioni, la nostra presunta predisposizione ad accumulare tutti i vizi dell’umanità, a cedere i nostri atavismi bellicosi, a picchiare coloro che amiamo, donne e bambini, ad andare in cerca di crimini, a sparare in mezzo alla folla, a linciare gli omosessuali e sputare sugli ebrei, non sarebbe altro che la storia di una mancanza. Tutte le cose che abbiamo perso, tutte le opportunità che non ci si sono presentate, tutti i riconoscimenti di cui siamo stati privati, tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Sgocciolano compassione quando credono di restituirci la nostra dignità, quando tremano di commozione nel recitare la triste storia che raccontano di noi: come se non fossimo mai stati abbastanza amati […] Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione […] Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione1.

Ma Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, dopo aver ironizzato sulle condizioni dell’oppressione che contribuiscono a definire la barbarie, come ha già avuto modo di sottolineare su Carmilla Jack Orlando, coglie ancora nel segno:

seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari. Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana2.

Restare barbari, sola e unica condizione per rimanere umani. Questa la sfida lanciata dalla riflessione della giovane autrice che, nelle settimane scorse, ha avuto modo di partecipare al dibattito promosso dall’Intifada studentesca di Torino al Festival Alta Felicità svoltosi a Venaus dal 26 al 28 luglio e che ha dedicato il suo libro: «ai barbari contemporanei la cui vita e opere ci spiegano, più di qualsiasi altro resoconto, ciò che l’Impero chiama “imbarbarimento”. Si comincia dalla strada e dai suoi profeti. Perché tutti i racconti sul presente […] ci arrivano dai margini dell’impero e dai suoi recalcitranti abitanti»3.

Rovesciare, dunque, l’umanitarismo occidentale dell’integrazione e dell’accettazione delle sue regole del buon viver civile nel suo contrario, dimostrandone l’implicita disumanità e, allo stesso tempo, rovesciando lo stereotipo del barbaro in quello dell’unica forma residua di umanità possibile. «Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, inventato Walt Disney»4.

Stiamo però ben attenti; non si tratta di una battaglia di civiltà, come la peggiore saggistica filo-occidentale vorrebbe; qui si tratta proprio di stabilire ciò che permetterà alla specie di mantenere la sua umanità. Indipendentemente dal colore della pelle o delle tradizioni passate e delle aree di provenienza geografica e sociale. Come sostiene ancora l’autrice:

L’imbarbarimento è un processo di integrazione […] i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi, ma da un eccesso di voi […] Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura, ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati […] Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia5.

Soprattutto in un’epoca in cui un ciclo, quello del dominio occidentale sul resto del mondo, ha iniziato a venir meno e a veder disgregarsi le sue forme politiche e militari. Spingendo spesso gli osservatori a tracciare paragoni con la fine dell’Impero Romano.
Impero che, come ebbe modo di osservare lo stesso Marx, finì «con la comune rovina delle classi in lotta», incapaci entrambe sia di mantenere che di rovesciare le strutture economiche e sociali su cui lo stesso si fondava. Entrambe travolte dall’arrivo dei “barbari”, destinati a destrutturare definitivamente e a rifondare quelle stesse basi sociali e legislative su cui si erano retti i rapporti di forza fino ad allora.

Ecco allora che come unica soluzione possibile, anche, per il proletariato bianco ci sarebbe quella di farsi, più che rimanere, barbaro. Criticando e contribuendo a distruggere quella presunta civiltà di cui troppo spesso la Sinistra, anche radicale, ha sposato le intrinseche ragioni. Ancora una volta è Amadeo Bordiga, con un articolo del 1951, a permetterci di riallacciare il filo di un ragionamento non estraneo ma soltanto interrotto all’interno del movimento antagonista di classe, affermando, con Friedrich Engels, che la civiltà, in fin dei conti, non si riassume in altro che:

“nello Stato che, in tutti i periodi tipici, è, senza eccezione, lo Stato della classe dominante ed in ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa la classe oppressa e sfruttata”. Questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà. “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente”. [Così] con Marx Engels e Lenin noi ultimi ne stiamo fuori.
Può essere conturbante che dalla caduta della civiltà non sia ancora sgorgato il comunismo, ma è ridicolo voler conturbare la soddisfazione capitalistica con la minaccia di alternative barbare6.

Ritornando, poco dopo, a fare la seguente affermazione a proposito della fine dell’ordine imperiale romano:

Furono le giovani forze barbare ad uccidere una marcia burocrazia. “Lo Stato romano era diventato una macchina gigantesca e complicata, esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Al di là dei limiti della sopportazione fu spinta l’oppressione con le estorsioni di governatori, di esattori di imposte, di soldati. Lo Stato romano fondava il suo diritto ad esistere sulla difesa dell’ordine all’interno, sulla difesa contro i barbari dall’esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine, e i barbari, da cui pretendeva difendere i cittadini, erano da questi considerati come salvatori!”. Sembrò con le vittoriose invasioni, che per quattro secoli, ordinandosi l’Europa strappata a Roma nelle forme della teutonica costituzione di gentes, la storia si fosse fermata, e con essa la civiltà e la cultura. Ma così non fu. […] “Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella putrefazione di una società in decadenza, ma nelle doglie del parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che servi, era una generazione di uomini, paragonata a quella dei suoi predecessori romani”.
“Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i barbari infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. Non furono le specifiche qualità nazionali dei popoli germanici a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro costituzione delle gentes, la loro barbarie”.
“Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo, che soffre di civiltà morente”7.

Resta evidente che il pericolo del ritorno alla barbarie insito in tante minacce contenute nei discorsi in difesa della civiltà e del liberalismo, non è costituito da altro che dal ritorno ad una lotta di classe in grado di porre fine al più spietato modo di produzione e appropriazione mai comparso sulla faccia della terra. L’unico ad avere domato prima i propri barbari interni per poi trasformarli in carnefici di quelli esterni con l’avventura colonialista, la promessa del benessere egualitario per i bianchi e l’illusione del mantenimento di un unico impero permanentemente al comando degli affari del mondo.

Nessuna società decade per le sue leggi interne, per le sue interne necessità, se queste leggi e queste necessità non conducono – e noi lo sappiamo e attendiamo – a far levare una moltitudine di uomini, organizzata con armi in pugno. Non vi è per nessuna “civiltà di classe”, per corrotta e schifosa che essa sia, morte senza traumi.
Quanto alla barbarie, che a tale morte del capitalismo per dissoluzione spontanea andrebbe a succedere, se la sua scomparsa fu da noi considerata una necessaria premessa dell’ulteriore sviluppo, che inevitabilmente doveva passare per gli errori delle successive civiltà, i suoi caratteri come forma umana di convivenza non hanno nulla di orribile, che ne faccia temere un impensabile ritorno.
Come occorrevano a Roma, perché non si disperdesse il contributo di tanti e tanto grandi apporti alla organizzazione degli uomini e delle cose, le orde selvagge che calassero apportatrici inconsce di una lontana e più grande rivoluzione, così vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori urgesse poderosa un’onda barbarica capace di travolgerla.
[…] Ben venga dunque, per il socialismo, una nuova e feconda barbarie, come quella che calò per le Alpi e rinnovò l’Europa8.

Un passo lungo e audace, ancora ben distante dall’essere accettato e fatto proprio sia dagli oppressi delle periferie razzializzate che da quelli che si illudevano di aver toccato con mano il sogno capitalista del benessere “per tutti”, senza dover abolire proprietà privata e interesse individuale, ma che può costituire un valido strumento per la rimozione delle barriere del perbenismo e del tradizionalismo e della sfiducia, quest’ultima più che motivata, che ancora separano in parti diverse, e spesso nemiche, il corpo unico e pericoloso della moderna creatura proletaria e prometeica creata dal Frankenstein imperialista.

Proprio per questo motivo opere come quella di Louisa Yousfi e Houria Bouteldja9, che l’ha direttamente ispirata, dovrebbero trovare spazio nella biblioteca di chiunque voglia davvero contribuire al superamento di questo mondo orrendo anche se travestito di democrazia elettoralistica e umanitarismo.


  1. L. Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 24-25.  

  2. J. Orlando, Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1, «Carmillaonline», 10 maggio 2023.  

  3. L. Yousfi, op. cit., pp.19-20.  

  4. Ibidem, p.27.  

  5. Ivi, pp. 29-31.  

  6. A. Bordiga, Avanti Barbari!, «Battaglia Comunista», n. 22 del 1951.  

  7. Ibidem, le citazioni tra virgolette sono da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884.  

  8. Ivi. 

  9. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017.  

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L’orco e le ossa, ovvero ricordare il futuro https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/80076/ Sun, 26 Nov 2023 23:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80076 di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non [...]]]> di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non possa essere anche questo libro dalla copertina coi colori pastello e con la grafica di certe vecchie scatole di biscotti o di sapone in polvere.

La freccia del tempo suggerita dal titolo sembra scontata, pare muoversi dal passato verso il futuro, ma l’arguzia dell’autore prende la questione per la coda e immagina in questo cammino un viaggiatore imprevedibile, citando Le ricordanze: «L’esperienza ci dice che è il futuro quello che si fa incontro a noi di continuo, fin dall’ingresso nella vita e poi sempre più: fino all’uscita. Solo allora – ha scritto Giacomo Leopardi – “dal mio sguardo fuggirà l’avvenire”».

La figura del gigante di Recanati è ben presente, a Prosperi. Chi lo conosce può vederlo seminare passi pensosi, nella Pisa del Palazzo della carovana e del primo orto botanico del mondo, magari mentre percorre quella viuzza che adesso porta il nome del poeta. Potrebbe essere proprio lei, la via descritta in una famosa lettera del 1828 alla sorella Paolina: «Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti».

Basta calcare col piede quelle pietre, respirare le muffe decrepite di quei muri, per fare un poeta o uno storico? Lasciamolo credere a chi cerca scorciatoie. L’autore non le ha cercate; la strada che l’ha portato sino alla Scuola Normale di Pisa e all’Accademia dei Lincei l’ha segnata con studi e ricerche e riflessioni. Ora che distilla in una chicca pensata per i ragazzi un sunto delle sue fatiche, sembra quasi che si volga indietro, e forse per questo il rapporto fra i tempi si sbarazza dell’ordine consueto. Fa pensare alle osservazioni di Edward Carr sul rapporto degli storici e dei filosofi col domani, quando ricorda il paradosso di Lewis Namier secondo cui gli storici immaginano il passato e ricordano il futuro[1].

Leopardi, ma non solo lui. La letteratura è una chiave indispensabile perché schiude sensibilità altrimenti inaccessibili, scarta e vola sull’ostacolo come la mossa del cavallo: «La letteratura ha molto da dire a chi, attraverso lo studio della storia, cerca di conoscere la società umana. Quella vivente umanità raccontata nelle creazioni letterarie è la carne che copre le ossa accumulate nei depositi dei manuali di storia».

Naturalmente la letteratura, quella tramandata dai libri, risente di un’egemonia sociale, dei rapporti di forza; Prosperi lo sa, è l’autore di Un volgo disperso: contadini d’Italia nell’Ottocento. Anche di Un tempo senza storia: la distruzione del passato, dove non fa complimenti con un atto del Parlamento europeo, la grottesca risoluzione del 19 settembre 2019, Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, chiamandola «disegno sommario dei regimi, delle ideologie e dell’immane tragedia europea del secolo scorso che non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media»[2]; non solo: Prosperi svela le assonanze fra quella risoluzione e il documento Agenda per il futuro di Ursula von der Leyen, all’epoca della sua candidatura alla presidenza della Commissione. Nello stesso libro è chiaro:

L’esperienza del recente passato ha fatto emergere la consapevolezza che la ricerca della verità ha come verifica la capacità del ricercatore di smascherare inganni e falsità del potere, fino al punto che la missione dello storico è stata definita come l’opposto della legittimazione dello Stato e di qualunque altro potere[3].

Perciò. Quando si parla di storia, chi parla di letteratura non è uno che cambia discorso. Semmai, il problema è che se scarseggia la buona letteratura anche la storia ne risente, e ciò costringe un buon orco, insomma uno storico, a cercare la carne fra ossa con poca polpa. Ma la questione delle fonti ha risvolti complessi, e questo libro lo segnala quando ricorda le osservazioni, ancora di Bloch, sulla leggibilità dell’appoderamento, del tessuto campestre e del paesaggio agrario. Non è vero che le classi subalterne, prima dell’alfabetizzazione, siano senza scrittura: i gesti, i modi e i perimetri della produzione, le loro fasi nel susseguirsi delle stagioni e generazioni, le forme che incidono nel mondo sono un modo di scrivere. La manomissione di quel patrimonio è l’incendio di una biblioteca, è un genocidio culturale. Viene in mente Pasolini: «C’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese…»; in quei versi i colpevoli e le vittime del genocidio siamo noi.

Col suo timbro mite Ieri, oggi e domani procede inesorabile, senza sconti:

La caduta del Muro di Berlino convinse l’opinione pubblica che fosse cominciata un’era nuova, quella della libertà. Anzi, ci fu persino un intellettuale americano, Francis Fukuyama, che sostenne una tesi molto audace. Secondo lui quell’eliminazione di un confine, simbolo di un conflitto tra due grandi sistemi sociali, aveva inaugurato nientemeno che la fine della storia umana – non più conflitti né divisioni ideologiche come quella fra comunismo e capitalismo. […] Tesi subito smentita: da allora il mondo intero ha visto sorgere moltissimi conflitti, tra nuovi stati e nazioni, ma soprattutto tra paesi ricchi e paesi poveri. Ci sono confini invisibili in natura, tracciati con segni di penna sulle carte geopolitiche, e ci sono confini sbarrati da costruzioni ostili di ogni genere – reticolati, muraglie, posti di blocco – sorvegliati da corpi militari.

Parole scritte in tempi non sospetti, prima che, il 7 ottobre di quest’anno, un muro costruito da una potenza nucleare venisse bucato da persone tecnologicamente più arretrate, accompagnate da radicalismi che fanno a gara con quelli dei loro carcerieri. Il tutto, con molte conseguenze. Effetti del buco o colpa del muro?

Chi vagheggia la fine della storia accettando che sopravvivano disuguaglianze e che non si facciano i conti con l’ingiustizia, non fa altro che tracciare nuovi confini invisibili, ostacoli complici delle costruzioni ostili; cioè premesse di duri regolamenti di conti, quando emerge brutale la realtà. Per questo lo storico non è, non può essere neutrale. Quando va bene è compagno d’armi dalla parte della giustizia, altrimenti è il contabile dei carnefici, il magazziniere di una macelleria. Ma l’autore non rivendica una fragile innocenza. Come dice Albert Camus, nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. E Camus – guarda un po’ le coincidenze – nel 1937 consegna al suo taccuino le passeggiate notturne pisane, sciogliendo una prosa in cui ci si può illudere di sentir l’eco di Dino Campana: «La mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. […] Non esiste vita che non sia quella di cui lungo l’Arno i miei passi ritmavano la solitudine». Ci sono luoghi che raggiano incantesimi, e l’antica città morta, il porto sepolto che riposa su un limo di secoli, forse diffonde aure speciali, con cui la letteratura «ha molto da dire» a chi studia la storia. Magari, aure che tornano nel racconto perduto, velate in chiaroscuro da Antonio Tabucchi in Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa.

A chi legge il capitolo Periodizzare: che significa? Medioevo, Umanesimo, Rinascimento tocca la scoperta di un continente impalpabile, intrecciato alla questione della scansione del tempo, rivisitata attraverso la storia dei nomi attribuiti per convenzione alle epoche. Quei nomi d’uso sono pietre miliari che di solito si imparano a memoria, senza tener conto di chi le ha poste. E si nota qualcosa. Dal gomitolo della modernità sporge un filo:

Toccò a uno dei ricercatori, Poggio Bracciolini, scoprire nel 1417 mentre si trovava a Costanza, l’unica copia sopravvissuta del grande poema di Lucrezio, il De rerum natura. Fu un libro di cui si è detto (Stephen Greenblatt) che ha causato la svolta epocale (“the Swerve”) dell’apertura del mondo moderno. Dobbiamo riconoscere che quella scoperta non rivelò solo un capolavoro assoluto ma portò nella tradizione cristiana europea l’immissione di un diverso orizzonte mentale, quello del materialismo antico e dell’etica epicurea.

Si può aggiungere che, senza la riscoperta di Epicuro, quattro secoli dopo l’Umanesimo un giovane tedesco non avrebbe potuto scrivere la sua dissertazione sulla filosofia naturale in Democrito e in Epicuro. Senza quegli studi e quell’orizzonte, uniti al messianismo proprio della sua molteplice formazione religiosa e familiare, quell’intellettuale non avrebbe messo mano a studi storici ed economici diretti a cambiarlo, il mondo: si trattava di rivoluzionarlo, non solo di capirlo. Chissà se lui, il tedesco, Carlo Marx, quando si appartava nella biblioteca del British Museum meditando i fondamenti della sua opera, rivolse un piccolo grazie a Poggio Bracciolini. La storia è avara, di ringraziamenti sinceri, e forse è meglio così. Certi debiti non si possono mai pagare, restano come un angolo opaco, una periferia della vita che ci portiamo dietro come l’ombra.

Anche Ieri, oggi e domani, come Un tempo senza storia, sa vedere dritto nei rapporti di forza:

La svolta segnata dal crollo del sistema sovietico prese forma col crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. E da allora la crescita economica della Germania ha di nuovo modificato l’assetto internazionale. È nata una unione europea che lega con vincoli economici e politici un assemblaggio di stati e staterelli dominati dalla Germania e, per il possesso dell’arma nucleare, dalla Francia.

Un «assemblaggio». Attraente, però; in buona parte perché si regge ancora su sistemi che fanno inospitali i luoghi e i contesti in cui è più duro lo sfruttamento della natura e delle braccia:

Resta il fatto che l’Europa esercita un’attrazione che porta a movimenti migratori di altri popoli. Ma intanto si è perduta la capacità politica di governare l’economia, ormai nelle mani di un’élite di ricchissimi imprenditori e speculatori finanziari. E l’idea di libertà della sua tradizione storica si è trasformata in senso individualistico, come privilegio personale.

Ieri, oggi e domani raccomanda attenzione per le storie sotto la storia. Già, perché gli storici, quando lavorano per il potere, non sono solo scopritori; spesso sono nasconditori. Civiltà complesse sono celate sotto la prepotenza di vincitori che si fingono eterni e che magari sono impegnati a far credere, anche tramite gli intellettuali, che le loro vittime fossero rozze e più crudeli di loro. Quegli storici seppellitori preparano il terreno al lavoro di altri che verranno a svelare, a decifrare, a ricostruire da dettagli, su dati apparentemente illeggibili o insignificanti, la presenza di mondi sommersi, sopraffatti, dimenticati. Altra carne intorno a ossa confuse. Questo non ci riguarda, s’intende. Si sta parlando di lontani paesi in condizione coloniale.

E invece no. L’intreccio fra dominatori e schiavizzati è sottile, il sangue sepolto è alla porta di casa: l’etrusca Veio, al pari della lontana Cartagine, è fra le vittime di Roma. Noi calpestiamo la nostra polvere. Ma se dovessimo districare il tessuto delle colpe e dei conti sospesi, troppe sorprese ci sconcerterebbero. Raab che favorì la conquista di Gerico da parte degli ebrei, e che Dante pone per prima, «raggio di sole in acqua mera», fra coloro che entrarono in paradiso riscattati dal Cristo, se sapesse cosa accade ora fra il Giordano, il Sinai e il mare, e poi si guardasse le mani, vedrebbe quelle di una santa, di una giusta fra i gentili, oppure quelle di una traditrice della sua città, di una locandiera malcontenta, di una prostituta? Gli storici di Canaan tacciono, e anzi Canaan stessa è diventata sinonimo di perversione, come Babilonia di peccato.

Ci stiamo abituando alle «guerre al male», alle rese dei conti. Le storie sotto la storia impongono di riflettere, di ascoltare inquietanti implicazioni e assonanze, anche quelle che nessun libro di storia o sulla storia può esprimere – neppure questo – perché l’oggetto sfugge sempre più in là, e chi studia la freccia del tempo non ha mai abbastanza tempo. Bella proposta, allora, suggerire di scavare il passato, anche quello immediato, quello sotto i nostri occhi tutti i giorni, che spesso contraddice le retoriche ufficiali: «Ma è possibile questo – si chiede Prosperi – nella scuola “del merito”? Chissà. Un fatto è certo. È tempo che si ridia valore al potenziale della conoscenza storica nella formazione dei giovani che debbono orientarsi nel mondo globale in cui si muovono».

Questo libro in formato quasi da tasca, anzi da zainetto, si congeda lasciando una consegna:

Questa testimonianza di un molto anziano studioso di storia si deve chiudere qui. Gli si impone di riconoscere che è tempo di lasciare ad altri la riflessione sul nodo ieri-oggi-domani. Chi riceve oggi dal futuro che gli viene incontro il dono del tempo presente potrà – dovrà – usarlo per creare un futuro vivibile, un mondo umano migliore di quello che gli lasciamo.

Neanche la storia è più quella di una volta. Lo sa chi, oggi, sta ricevendo il presente e prova a trarne le conseguenze: se si fanno chiamare Ultima generazione, è perché sentono che negli scricchiolii dell’Antropocene c’è un ultimatum. La garanzia di un domani, quella che permette al protagonista dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, guardando la cifra 1491 incisa su una trave, di invertire mentalmente le cifre leggendo 1941 con la certezza che quell’anno verrà, ecco, quella garanzia non è più salda. Quindi muta anche il ruolo dello storico. A lui, di solito, si chiede di spiegare il passato, di mettere ordine in un sapere, senza intromettersi nel futuro. Gli si chiede, cioè, di non provare a fare. Adesso bisogna chiedergli una mano per potercelo permettere, un futuro.

Cos’altro chiedere, allo storico? Un’altra cosa ci sarebbe, e affiora tenendo presente di nuovo Carr: «Quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame»[4]. Anni dopo, Claudio Pavone approva e chiosa: «Ovviamente, la prima cosa da contestualizzare è lo storico stesso»[5]. Del resto «la storia è il “conosci te stesso” dell’umanità, la sua coscienza», scrive Johann Droysen, che ha chiara la sostanza: «Il miglior vanto dello storico non è l’“oggettività”. La sua giustizia sta nel cercare di intendere»[6]. Si potrebbe dire, dunque, conosci lo storico. E soprattutto conoscilo se lo dice Droysen, che è stato studiato e tradotto da Delio Cantimori, maestro di Prosperi. Sto facendo citazioni, come quelli che si schiariscono la voce prima di dire qualcosa di imbarazzante. Allora.

All’inizio del cammino dell’autore, cosa c’è? Quale scintilla, quale miccia? Un sottile odore di carne umana, un ritrovamento fortuito che altri avrebbero trascurato, frainteso, deriso? Qualcosa – ancora Le ricordanze – nel «caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor»? Ahimé, gli storici non sempre ce la raccontano tutta. Per me, ricordo un pomeriggio pisano, in un luogo di tracce culturali e risorgimentali, il Caffè dell’Ussero. L’ora la rischiarava un sole dal riflesso marino. Prosperi, per un caso favorevole, quasi un «farsi storico di quello che non ha storia» cui l’ombra di Camus sui lungarni avrebbe dato corpo, sciolse intensi ricordi personali. Lo sfondo potrebbe essere quello nei versi di Mario Luzi, Dal fondo delle campagne; il tempo, certi anni del Novecento; nel basso Valdarno, in un paese all’acquerello, un ragazzo coglie al volo la sua curiosità e il suo destino. Forse un giorno vorrà scriverne.

 

 

[1] Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1976, p. 131.

[2] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, pp. 46-47.

[3] Prosperi, Un tempo senza storia, cit., p. 114.

[4] Carr, Sei lezioni sulla storia, cit., p. 27.

[5] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 117.

[6] Johann Gustav Droysen, Sommario di istorica, Sansoni, Firenze 1967, tit. orig. Grundriss der Historik, trad. di Delio Cantimori, capitoli Sistematica, p. 66, e Topica, p. 76.

 

 

 

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San Lorenzo e il laboratorio della gentrificazione https://www.carmillaonline.com/2023/10/01/san-lorenzo-e-il-laboratorio-della-gentrificazione/ Sat, 30 Sep 2023 22:30:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79273 di Nazareno Galiè

A. Barile, B. Brollo, S. Gainsforth, R. Marchini, Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo, Derive Approdi 2023, 205 pp., 18€

Ci sono temi di cui molti parlano per sentito dire, ma che paradossalmente vengono raramente tematizzati e analizzati. Non è raro che chi abbia frequentato il quartiere di San Lorenzo, non un’evenienza inconsueta per chi vive a Roma, abbia costatato negli anni dei profondi cambiamenti. Non è difficile rendersi conto del degrado e del senso di incompiutezza che lascia attualmente percepire questo quartiere, che fino [...]]]> di Nazareno Galiè

A. Barile, B. Brollo, S. Gainsforth, R. Marchini, Dopo la gentrificazione. Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare temporaneo, Derive Approdi 2023, 205 pp., 18€

Ci sono temi di cui molti parlano per sentito dire, ma che paradossalmente vengono raramente tematizzati e analizzati. Non è raro che chi abbia frequentato il quartiere di San Lorenzo, non un’evenienza inconsueta per chi vive a Roma, abbia costatato negli anni dei profondi cambiamenti. Non è difficile rendersi conto del degrado e del senso di incompiutezza che lascia attualmente percepire questo quartiere, che fino a non troppo tempo fa era caratterizzato da un’identità legata a particolari esperienze sociali, culturali (e) di militanza.

Adesso, queste caratteristiche sembrano essersi esaurite. San Lorenzo è sempre più disgregato, cioè non in grado di restituire un’immagine coesa di sé, e chi lo abita difficilmente lo fa con un progetto di lunga durata. Ciò che questo quartiere sta vivendo è una perdita di senso, di cui è arduo comprendere sia le cause che gli effetti. Per di più, nonostante il fatto che insista su un’area piuttosto ristretta, San Lorenzo non è un quartiere qualsiasi: è uno dei luoghi su cui si sono addensati movimenti e relazioni sociali, il cui sfumarsi segna una traiettoria, per certi aspetti inedita, della sua configurazione urbana.

Il merito di Dopo la gentrificazione: Un quartiere laboratorio dalla crisi economica all’abitare contemporanea, volume scritto da Alessandro Barile, Barbara Brollo, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini, è proprio questo: aver dato un’interpretazione densa e coerente di questi cambiamenti. Si tratta di uno studio che, ovviamente, può essere ampliato ed esteso ad altre zone di Roma. Senonché si tratta di un primo tassello di quello che potrebbe diventare un ricco mosaico. Gli autori dei saggi presenti nel volume lavorano su categorie interpretative che rimandano a una vasta tradizione di studi critici dell’urbano, che hanno avuto per oggetto anche la città di Roma. Una di quelle è sicuramente il concetto di rendita come elemento trasformativo, nonché motore, sia delle dinamiche che del paesaggio urbano.

Esempio di gentrificazione incompiuta, ovvero fallita, come notano gli autori nell’Introduzione, «San Lorenzo sta diventando un quartiere per abitanti temporanei, che portano allo stravolgimento del tessuto residenziale ed economico» (p. 8). Su questo punto, cioè la temporaneità dell’abitare esacerbata dal fenomeno degli affitti a breve e brevissimo termine, insiste l’intero volume. Nondimeno, è Sarah Gainsforth, già autrice di un importante studio sulle trasformazioni generate dal capitalismo delle piattaforme digitali (Airbnb, città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Derive Approdi 2019), ad illustrare il tema dell’offerta di case a San Lorenzo. L’analisi del mercato immobiliare è stata da sempre un elemento importante degli studi urbani, senonché l’autrice rileva nell’«avvento di piattaforme digitali che intermediano domanda e offerta di case vacanze, nello specifico di Airbnb, e il conseguente profilare di affitti brevi turistici» (p. 105) il fenomeno più importante nella trasformazione socio-spaziale di San Lorenzo. Uno scarto qualitativo nei meccanismi di estrazione della rendita che spiega la polarizzazione e le accresciute diseguaglianze presenti nel quartiere.

Questa trasformazione si riflette nel tessuto produttivo di San Lorenzo che è cambiato nella misura in cui si è accresciuta la quota di residenti temporanei. Non si tratta, come si è accennato, degli studenti, che anche prima di questa nuova fase trasformativa avevano risieduto a San Lorenzo, ma di una nuova utenza che ha accentuato i caratteri di turistificazione di questa area. Come spiega Barile le attività lavorative restituiscono «un’immagine di un quartiere letteralmente invaso dall’offerta alimentare di molteplice livello. Si tratta di una vera e propria monocultura economica, che si appropria di ogni spazio lasciato libero dal resto dell’offerta commerciale incapace di resistere a una domanda monofunzionale e monodirezionale» (p. 71). San Lorenzo è quindi invaso da localini e pub notturni e l’offerta si riduce «sulla richiesta di pochi e selezionati bisogni, per di più connessi alle esigenze di una popolazione esogena, transitante non-residente» (Ibid.). Inoltre, l’autore spiega come San Lorenzo sia un caso studio importante dei processi di post-gentrificazione: una volta che questo processo ha termine, le relazioni sociali e economiche preesistenti non vengono affatto ristabilite. A rimanere, in effetti, sono perlopiù le esternalità negative.

In precedenza, come ricostruisce il primo saggio presente nel volume scritto da Rossella Marchini, l’insediamento abitativo di San Lorenzo presentava tutt’altre caratteristiche, così come le attività produttive insediate nel quartiere. Sorto alla fine del XIX secolo nello spazio tra le Mura Aureliane e il cimitero del Verano, quest’area era ricca di attività artigianali e industriali, collegate anche al vicino scalo ferroviario. In questo saggio posto in apertura del volume viene ricostruita la storia di San Lorenzo, evidenziando la lunga durata alla base delle più recenti trasformazioni. Infatti, l’autrice coglie alcuni snodi che hanno profondamente agito sulla composizione socio-economica del quartiere: non si tratta infatti di una vicenda statica giacché l’abitare ha qui subito importanti trasformazioni «sotto la spinta della presenza dell’università». Infatti, «già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e fino agli anni Novanta, il terziario diviene il settore fondamentale nell’economia del quartiere e sempre più consistente il numero dei lavoratori impiegati nei servizi, rappresentati a San Lorenzo non solo dai trasporti pubblici o dal vicino Policlinico Umberto I, ma anche e soprattutto dalla Sapienza» (p. 73). Ad ogni modo, l’autrice ricollega la vicenda di San Lorenzo all’attualità, segnata a fondo dall’ultimo piano regolatore regionale che ha ridato ampio margine ai privati per costruire sfruttando i rinnovati processi di valorizzazione legati ai flussi di capitale globali, di cui anche Roma, benché in misura minore rispetto ad altre città propriamente “globali”, è partecipe.
Nei saggi non mancano i casi concreti, come quello paradigmatico dell’ex Dogana, laddove un pregiato complesso di archeologia industriale risalente al XIX secolo, considerato di valore storico-culturale, è stato dapprima trasformato in un luogo di movida selezionata a pagamento e poi, dopo alcuni passaggi che ne hanno valorizzato il capitale simbolico, è stato completamente privatizzato e trasformato in una gated community per clienti facoltosi.

Infine, l’ultimo saggio scritto da Barbara Brollo ritorna sul tema dell’abitare temporaneo favorito, come si è detto, dalle piattaforme digitali e da forme inedite di mobilità. Come spiega l’autrice «Airbnb diventa uno strumento per promuovere a livello internazionale stanze e appartamenti in quartieri residenziali, finora estranei alle dinamiche turistiche. Se per i proprietari di casa può essere un’opportunità di guadagno, il rischio è che queste zone si svuotino di residenti a più lungo termine e subiscano i rischi e le trasformazioni che sono associate alla turistificazione» (p. 176).
Si tratta di un esito non scontato e di un processo che, a differenza di quello che afferma la vulgata corrente, non è stato affatto alimentato dalle scelte consapevoli degli abitanti dei quartieri e delle periferie storiche, come San Lorenzo. Uno dei pregi più grandi di Dopo la gentrificazione è infatti proprio quello di far luce sui quei meccanismi, a tratti impersonali, che modificano radicalmente gli spazi urbani, senza che la politica, ovvero quella che viene chiamata nel paradigma neoliberista la governance, si ponga il problema del senso dell’abitare.

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ESCLUSIVO La musa Clio in incognito a Roma. Una crisi esistenziale fra le carte bollate https://www.carmillaonline.com/2023/09/08/esclusivo/ Thu, 07 Sep 2023 22:05:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78794 Intervista di Luca Baiada

 

Ssshh! La prego, non faccia il mio nome a voce alta. Non voglio farmi riconoscere, per questo ho il foulard e gli occhialoni neri.

Musa della storia, certo, a scuola non l’ha imparato? Gli studi classici si fanno ancora, in questo secolo barbaro. Ma parliamo piano. Se ho accettato questa intervista, è per le Sue insistenze, mi creda. Sì, un po’ anche per l’anniversario italiano: 8 settembre 1943, giorno delle scelte, dure e senza sconti. Sbrighiamoci e non faccia fotografie. Prendo solo un bicchierino di ouzo. Ah, con [...]]]> Intervista di Luca Baiada

 

Ssshh! La prego, non faccia il mio nome a voce alta. Non voglio farmi riconoscere, per questo ho il foulard e gli occhialoni neri.

Musa della storia, certo, a scuola non l’ha imparato? Gli studi classici si fanno ancora, in questo secolo barbaro. Ma parliamo piano. Se ho accettato questa intervista, è per le Sue insistenze, mi creda. Sì, un po’ anche per l’anniversario italiano: 8 settembre 1943, giorno delle scelte, dure e senza sconti. Sbrighiamoci e non faccia fotografie. Prendo solo un bicchierino di ouzo. Ah, con un chicco di caffè da sgranocchiare. Che vuole, a un certo punto ci si consola con le caramelle.

L’occasione per la mia presenza qui va cercata nella causa alla vostra Corte costituzionale. Ma sì, lo so benissimo che di processi per crimini da tragedia ce ne sono tanti. Come li chiamate, adesso? Crimini di guerra e contro l’umanità. Beh, l’importante è intendersi. Il fatto è che questa estate, alla Corte costituzionale, si è parlato anche della strage di Distomo, dove i tedeschi nel 1944 massacrarono più di duecento persone. Capisce perché mi sento coinvolta? Ma come, no?! Distomo è in Grecia, vicino al Monte Parnaso. Andiamo, non le dice niente? Il Parnaso, le Muse! Una strage sotto casa nostra, sotto casa mia.

Che i mortali si massacrino con gusto, con zelo, usando ogni mezzo, non è una novità, e la musa della storia è abituata a questi orrori. E ora, con le bombe a grappolo, coi droni e coi caccia ad alta tecnologia, c’è da stupirsi? Ma che lo facciano ripetendo buoni propositi, si vede da poco tempo. Diciamo dal Diciannovesimo secolo, che per me è come dire un anno fa. Le pare che abbia un senso, tutto questo? E mentre si versa sangue, chi chiede giustizia se la vede brutta: o lo rinchiudono da qualche parte o fanno finta di non sentirlo. Intanto, nelle giornate della memoria dedicate a questo e a quello, tutti ripetono mai più, mai più, mai più, come pappagalli.

Da anni, in Italia, c’è una vertenza interessante, che il mio amico Sofocle potrebbe tener di conto per una versione aggiornata dell’Antigone. Riguarda i risarcimenti per stragi e deportazioni nazifasciste. Che fare? Da un lato si invoca la ragion di Stato, cioè si chiede ubbidienza come la chiedeva Creonte: lasciare una salma insepolta, accettare il male, chiudersi nella falsa coscienza e nel conformismo. Dall’altra si invoca la tutela delle persone, quindi urgono doveri alti e ineludibili: così Antigone disubbidisce e la paga cara. Ma stavolta, invece di cosa fare di un cadavere, uno solo, la questione è cosa fare per i vivi, e tanti. Visto l’effetto esemplare, direi: cosa fare per l’umanità.

Insomma, sono venuta a Roma per capire meglio me stessa. Capire se la storia ha ancora un senso, perché senza giustizia la storia è in pericolo; anzi, non è niente. Mi guardi. Per non farmi riconoscere devo conciarmi come un’attrice chiacchierata, come una drogata di lusso che prova a disintossicarsi, o una diva del cinema muto dopo che è arrivato il sonoro. E se vuoto il sacco mi fanno fare la fine di Julian Assange.

Adesso, poi, è tutto più chiaro, più evidente. Ma lo sa che alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia, sono state proposte due cause inconciliabili? La Germania ha fatto causa all’Italia perché non vuole giustizia sui crimini di guerra tedeschi, l’Ucraina ha fatto causa alla Russia per avere giustizia sui crimini russi. Da una parte c’è il sangue rappreso, e vogliono lavarlo, cancellarlo, o magari metterlo sotto una teca per fare spettacolo; da un’altra se ne versa ancora, fresco, caldo, da carne viva. Un vero enigma, non crede? E i giudici non hanno neanche Atena per risolverlo.

I giuristi, mi chiede? Bella domanda, proprio Lei che è del mestiere. Guardi, i giuristi senza le Eumenidi fanno finta di essere saggi, ma nascondono Erinni pericolose. Tenga conto di cosa succede in quell’altra corte, sempre all’Aia. Voglio dire, nella Corte penale internazionale: interviene con provvedimenti dentro un conflitto in corso, proprio quello in Ucraina. Crimini veri, certo. Però si invoca il processo di Norimberga, che invece si celebrò a guerra finita. Non mi segue? Ma apra gli occhi! Se un processo si sovrappone ai fatti mentre accadono, cosa resta? Un giudice del futuro, simile a uno storico del presente. Il presentismo è un male grave, per me, e l’ingiustizia sistematizzata è il suo sintomo più vistoso. Facciamo presto, qui c’è gente e non mi sento sicura.

A proposito di giuristi, una domanda gliela faccio io. Per i giudici della Corte costituzionale c’è il segreto sui processi, o no? Non capisco le loro regole, del resto non è il mio ramo. Per esempio, nella stessa vertenza sui risarcimenti c’è stata una decisione epocale, nel 2014, e la sentenza è stata un monumento alla giustizia. Il presidente di allora, Giuseppe Tesauro, ha parlato a testa alta della decisione; ma c’era poca sorpresa: la motivazione l’aveva scritta lui. Invece un giudice, Sabino Cassese, ha scritto di essere stato contrario a quel provvedimento, insieme a una larga minoranza, e di essere stato addirittura lì lì per dimettersi; l’ha scritto in un libro a cura del Max-Planck-Institut. Perché? Ma no, guardi, lasciamo perdere. Tesauro è morto, la giustizia ha perso un amico. Cassese è un uomo potente. Non vorrei farLe avere delle noie.

Se vuole cercare angoli inesplorati, però, approfondisca cosa è successo alla Corte internazionale di giustizia nel primo processo su questa vertenza, quello iniziato nel 2008. Un giudice della Corte, Thomas Bürgenthal, nel 2008 era in servizio, ma prima della decisione cessò di svolgere le funzioni. Bürgenthal era un sopravvissuto ad Auschwitz, e sembra che proprio lui abbia avuto per le mani il fascicolo del processo, almeno in un primo momento. La sua uscita di scena potrebbe essere interessante. E c’è anche una recente entrata in scena, sa? Adesso fa parte della Corte Georg Nolte. Già: il figlio di Ernst Nolte, quello dell’Historikerstreit, l’operazione storica cominciata negli anni Ottanta su «Frankfurter Allgemeine». Non c’è coerenza, in questo? La giustizia che mette in ombra Auschwitz s’illumina di revisionismo. Scusi, mi sento gli occhi addosso. Prima me ne vado e meglio è.

Un’ultima cosa. Un mio allievo, Eric Hobsbawm, ha scritto che il secolo che inizia a Sarajevo finisce a Sarajevo; non è un bel sunto? L’eco dei colpi sparati da Gavrilo Princip nel 1914 si sente nella dissoluzione della Jugoslavia, dopo due guerre mondiali. E non è una questione di «secolo breve», che poi non è un’espressione di Hobsbawm, l’ha ispirata un altro mio discepolo, Iván Berend. Invece, Le faccio notare una cosa. Nel 1994, in Italia, un’operazione ambigua cominciò con il convegno internazionale In Memory: per una memoria europea dei crimini nazisti, finanziato dalla Fondazione Volkswagen; il convegno prese spunto dalla strage di Civitella e si svolse nello stesso periodo della rifrequentazione dell’archivio sulle stragi, il controverso archivio negli uffici centrali della giustizia militare. Un processo su Civitella ha stabilito principi importanti, ma adesso la sentenza della Corte costituzionale li mette fra parentesi. E ricordi che la vertenza italiana sui risarcimenti, nel bene e nel male, è sotto gli occhi del mondo. Insomma, un breve secolo inizia e finisce a Sarajevo, un lungo trentennio di strapazzo della giustizia inizia e finisce su Civitella. Viene da chiedersi se nella storia esistano periferie. E anche se davvero, come dice qualcuno, nella storia le coincidenze non abbiano importanza.

Ma lo sa che sono passata dalla vostra Corte costituzionale? Che bel palazzo! Scaloni, finestre alte, sale lussuose, panorama. Pensi che dentro, una volta, c’erano uffici dell’amministrazione papalina. Poi, con la Repubblica romana, Pio IX scappò su una carrozza tedesca – anche un altro italiano, nel 1945, a Dongo, provò a scappare coi tedeschi – e nel palazzo alloggiò Giuseppe Mazzini, che suonava la chitarra alla luna, ebbro d’amore; e non era solo amore per l’Italia, birichino. Non sa fare scherzi arguti, la storia?

Deve anche sapere che dopo, nell’Italia unita monarchica, al Palazzo della Consulta ebbe sede il Ministero degli esteri, che adesso sta in quell’edificio enorme, quello scatolone spaventoso vicino allo stadio di calcio, pensato come sede del Partito nazionale fascista. Arriva la Repubblica, e nel palazzo sul Quirinale ci mettono una corte che giudica le leggi. Papato e rivoluzione, privilegio e uguaglianza, tirannide e libertà, fatti e contese. Deve ammettere che la storia sa mischiare le carte.

Anche i quadri, al Palazzo della Consulta, sono un piacere. Solo non ho capito, proprio in aula d’udienza, quella tela con una donna che regge in mano una testa mozza. Per essere Salomè con la testa di Giovanni il Battista, manca il vassoio, e per essere Giuditta con la testa di Oloferne, sembra una sciampista presuntuosa che ha litigato con un cliente per un’acconciatura venuta male. Scusi, eh, ma con tutto il rispetto, io ho visto Zeusi e Policleto.

Ho un’idea. Vogliamo dire che in quel quadro c’è la giustizia che taglia la testa al tempo? Mi spiego. Le due cause epocali: Germania contro Italia, Ucraina contro Russia. Alla Corte dell’Aia è stato chiesto di impedire la giustizia su ieri e di fare giustizia su oggi. Si rende conto delle conseguenze? Non vede, che pericolo tremendo? Ogni ieri fu oggi, ogni oggi diventa ieri. Basta far passare del tempo, tanto tempo, e anche dopo crimini spaventosi, oplà: l’ingiusto diventa giusto. Così si fa un invito al differimento, ai distinguo, alla moratoria, ai cavilli. Allora decapitiamolo, questo tempo, quel tempo, ogni tempo, spezziamolo, mettiamogli a nudo le vene, mostriamo la sua maschera esangue. Come si fa? Andiamo, devo pensare a tutto io?

Adesso devo proprio andare. Magari ci rivedremo, chissà. L’ouzo? Non posso trattenermi, lo finisca Lei.

Ah, si ricordi che in Grecia le stragi le hanno fatte anche gli italiani, non solo i tedeschi. Ma non si fidi di chi insinua che questo sarebbe un buon motivo per non fare giustizia su nulla e per nessuno. In fatto di storia, chi pretende i conti esatti non ha cervello, ma chi non fa i conti per niente non ha coscienza.

Aspetti, il chicco di caffè lo prendo io, me lo voglio sgranocchiare.

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Pischelli dell’Ottavo Colle https://www.carmillaonline.com/2023/03/25/pischelli-dellottavo-colle/ Fri, 24 Mar 2023 23:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76599 di Jack Orlando Fabio Piccolino, Simone “Danno” Eleuteri, Massimiliano “Masito” Piluzzi; Colle der Fomento. Solo amore; Minimum Fax; Roma 2022; pp. 476 20€

Quasi sei mesi. Tempo interminabile per una recensione. Rimandi, incombenze, agitato procrastinare di vita metropolitana. Nelle paranoie serali immagino l’espressione contrariata dell’ufficio stampa a cui ho chiesto il volume. Ogni tanto sorge il dubbio “ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”, ok, è vero che nelle mie stanze lo stereo suona per metà della giornata e che, spesso e volentieri, è l’hip hop nostrano la colonna sonora. Ma io [...]]]> di Jack Orlando

Fabio Piccolino, Simone “Danno” Eleuteri, Massimiliano “Masito” Piluzzi; Colle der Fomento. Solo amore; Minimum Fax; Roma 2022; pp. 476 20€

Quasi sei mesi. Tempo interminabile per una recensione.
Rimandi, incombenze, agitato procrastinare di vita metropolitana.
Nelle paranoie serali immagino l’espressione contrariata dell’ufficio stampa a cui ho chiesto il volume.
Ogni tanto sorge il dubbio “ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”, ok, è vero che nelle mie stanze lo stereo suona per metà della giornata e che, spesso e volentieri, è l’hip hop nostrano la colonna sonora.
Ma io non scrivo mai di musica, mica sono un critico musicale… non ho idea di dove mettere le mani. Sono un militante che scrive di politica e tra l’altro, fedele alla mia di old school, rifuggo regolarmente lo scrivere in prima persona, imperdonabile peccato di individualismo alla luce di un’etica incardinata sulla dimensione collettiva.
Ci sono grosse deviazioni dalla disciplina qui. Si cammina su sentieri incerti.

Ma se non ho mai recensito un disco, né un libro sulla musica, la domanda a cui rispondere è: perché quest’impulso? Per quale motivo dovevo leggere e, soprattutto, scrivere di un libro su un gruppo hip hop romano?
Perché c’è qualcosa che è rimasto in sospeso, e che cerco di recuperare.
C’è una presenza assenza che si muove sempre dietro i miei fogli e a cui non riesco a dare voce.
Che cosa hai fatto per tutto questo tempo?

Ricordo il mio primo concerto punk in una scuola occupata, la prima serata tekno in un centro sociale, il primo del Truceklan al Verano (almeno credo fosse lì); tendenzialmente le prime volte si ricordano sempre, o quasi.
Perché il mio primo concerto del Colle Der Fomento non me lo ricordo.
Eppure, o forse proprio per questo, negli ultimi sedici anni avrò assistito almeno ad una dozzina dei loro show. Ma quella prima volta resta in una nebbia vaga, accatastata in un magazzino del cervello, sfocata, insieme ad un esercito di episodi archiviati frettolosamente.
Quello che posso dire sicuramente è che, come il 90% degli adolescenti del primo decennio Duemila, i primi pezzi del Colle l’ho scoperti in cameretta, col passaparola, mentre si scaricavano tonnellate di musica da Emule e Limewire e qualcuno, dopo l’ennesima canna, rimaneva impallato a guardare fisso quell’orrendo salvaschermo psichedelico di Windows Media Player.
No, niente vinili e nessun mc nella banda dove crescevamo, al massimo qualcuno che sapeva usare la bomboletta su un muro, di sicuro non io che ho sempre creato degli abomini malfermi, tanto con lo spray che con la matita; una giovinezza canonicamente molto poco hip hop.

Eppure il CDF, tra le diverse influenze, è stato una presenza costante, per noi come per tante altre bande di ragazzini; in qualche modo ci siamo cresciuti, è il suono originale che ci piace. E nel tempo ce lo siamo tenuto stretto.
Dai banchi di scuola alle prime comitive, dall’università a quella merda di mondo del lavoro. Ospite fisso di ogni playlist personale.
Alla fine, la musica del Colle è diventata un pezzo di identità collettiva, non poteva essere altrimenti: perché ci sono dall’inizio, dalla Roma delle Posse nei ‘90, perché ci hanno parlato di noi che giravamo col cinquantino sotto il cielo della nostra città o di quando ci pioveva in testa e non sembrava smettere, di quando ci siamo persi e a guardare indietro tutto era magia.

Ancora di più: perché è uno di quei pochi esempi rimasti di musica autentica, fatta perché se ne ha bisogno e non per i soldi, perché segue la sua ricerca e la sua evoluzione, nessuna moda e zero parruccate; che se ne frega delle major, dei contratti e delle passerelle, eppure sfonda e rimane al centro della scena, contando solo sui propri mezzi.
Underground e indipendenti ma assolutamente mai marginali né scrausi.

Tre decenni, praticamente una vita, e il Colle resta in piedi e non regala niente.
In quattrocento e passa pagine di libro sulla loro esperienza, non si legge solo della carriera artistica di un gruppo, si legge una storia di Roma; la sua controcultura, la socialità degli spazi alternativi, le comitive dei muretti, una storia che ci appartiene, ma anche qualcosa in più.

Citare dalla coda, dribblare lo spoiler:

Non soltanto un’avventura musicale ma il racconto di come si possa tentare una strada diversa, di quanto possa essere faticoso percorrerla pur conoscendo la rotta, per accorgersi infine che ne è valsa la pena. È la storia di persone che hanno attraversato questi anni insieme e di tante altre che pur non conoscendosi sono unite da un sentire comune, dalla consapevolezza di essere parte di un qualcosa in cui identificarsi. Un rapporto speciale che ha a che fare con i sentimenti, le percezioni, l’empatia […] è “fam, not fan”: è famiglia, ed è qualcosa di cui facciamo parte.1

Eccolo il succo: il punto non è l’essere hip hop, e non è nemmeno (soltanto) la musica, il punto è che si tratta di una questione d’attitudine; è ricerca continua, è il cammino da cani sciolti che sanno unirsi in branchi, è essere famiglia per salvarsi da una vita che stritola, è restare fedeli a sé stessi mentre intorno cambia tutto e cambiamo anche noi.
Quel magliettone col fiammifero non lo abbiamo più nell’armadio ma, come il Colle, siamo ancora ghetto chic, finché cerchiamo di tirare fuori qualcosa di bello dalla merda che viviamo, perché ci si rigira lo stomaco se non trasformiamo i nostri giorni e pure se oggi abbiamo sulle spalle trenta o quarant’anni e di cazzate ne facciamo molte meno, abbiamo ancora la visiera del cappello calata bassa sopra gli occhi.
Né per l’oro né per loro, solamente perché…

Se lo abbiamo imparato, se quest’attitudine ce la siamo coltivata dentro, molto è stato anche grazie a queste rime, che ce le siamo portate appresso.
Qualcuno se l’è messa nella bic e nelle pagine sporche d’inchiostro, qualcuno dentro i guantoni su di un ring, c’è chi l’aveva nelle cuffiette mentre si staccava da terra l’aereo a Fiumicino e si cercava un futuro altrove, chi l’ha usata come stampella quando usciva dal reparto psichiatrico e chi come scudo mentre era ostaggio dello Stato.
Questa roba ci ha accompagnato e ci ha cresciuto, mentre piangevamo e ci mettevamo il ghiaccio sui bozzi e mentre ridevamo e ci regalavamo abbracci.

E allora davvero, per questa storia, non ci poteva stare titolo migliore che Solo amore.
Quasi sei mesi ci ho messo, e solo un paio di paginette, dovevo scrivere una recensione e ho fatto tutt’altro.
L’espressione contrariata dell’ufficio stampa, le mie paranoie serali.
Però, ecco che cosa avevo lasciato in sospeso.
In fondo cercavo l’occasione.
Serviva un cenno che fosse scritto, pure se rapido e leggero, ma che non restasse sempre sottinteso, per quei pischelli sui muretti sempre in bilico; per quel senso d’appartenenza che conserviamo in un angolo del petto insieme a nomi, volti e sensazioni; per quell’identità che in fondo ti fa amare questa città pure quando ti scortica e non ti rende indietro un cazzo; per quegli attimi e quei battiti che ti costruiscono.
Che puoi non ascoltare, ma non puoi cancellare.


  1. Op. cit.; pp 399-400 

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Sei microstorie di Resistenza https://www.carmillaonline.com/2023/02/13/sei-microstorie-di-resistenza/ Sun, 12 Feb 2023 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76089 di Luca Cangianti

Carlo Picozza, Gianni Rivolta, La Resistenza dimenticata, Media&Books, 2022, € 18,00, pp. 168.

I centri storici sono ridotti a parchi tematici nei quali scintillano gli store delle grandi marche di abbigliamento, elettronica e ristorazione. Le vecchie periferie si gentrificano: le osterie scompaiono, i negozi storici chiudono, nei bar non ci sono più anziani che tramandino le leggende di quartiere. Gli abitanti – se ancora ve se sono – hanno smesso di esser cittadini di quei territori; ormai sono atomi che faticano a tessere reti sociali stabili, progetti di vita, opposizione [...]]]> di Luca Cangianti

Carlo Picozza, Gianni Rivolta, La Resistenza dimenticata, Media&Books, 2022, € 18,00, pp. 168.

I centri storici sono ridotti a parchi tematici nei quali scintillano gli store delle grandi marche di abbigliamento, elettronica e ristorazione. Le vecchie periferie si gentrificano: le osterie scompaiono, i negozi storici chiudono, nei bar non ci sono più anziani che tramandino le leggende di quartiere. Gli abitanti – se ancora ve se sono – hanno smesso di esser cittadini di quei territori; ormai sono atomi che faticano a tessere reti sociali stabili, progetti di vita, opposizione reale.
Non è quindi un caso se qualsiasi gruppo locale d’intervento si proponga di contrastare questa deriva, inserisca tra le proprie attività la riscoperta della microstoria del luogo e dei suoi protagonisti dimenticati. Nel fare questo gli attivisti vanno in cerca dei propri padri e delle proprie madri, si riappropriano di immaginari remoti e li trasformano in nuovi strumenti di lotta.
La Resistenza dimenticata di Carlo Picozza e Gianni Rivolta offre un potente armamentario di questo tipo. Si tratta di un libro partigiano che parla di partigiani: è scritto come una cronaca, fluida, ricca di dettagli ricavati da interviste inedite che fanno emergere nuovi scenari interpretativi.

I quartieri romani di riferimento sono principalmente Montesacro, Ostiense, Pigneto, La Garbatella e Trastevere. Le storie sono sei: tre uomini e tre donne. Luciano Lusana era il capo del servizio informazioni del Pci: ex ufficiale del genio militare in Cirenaica, insegna ai gappisti l’uso delle armi e muore nel carcere di via Tasso. Un profilo molto diverso è quello di Riziero Fantini: inizialmente anarchico, lettore di Jack London, frequentatore di comuni negli Usa insieme a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, è amico di Errico Malatesta. Tornato in Italia diventa leader comunista durante l’occupazione nazifascista, viene torturato davanti alla moglie e ai figli, e assassinato a Forte Bravetta. Salvatore Petronari è un facchino dei Mercati generali sulla via Ostiense. Nel 1922 insieme agli Arditi del popolo alla Batteria nomentana aveva preso a fucilate i fascisti. Era soprannominato l’Avvocatino per le sue capacità oratorie. Tradito da una spia viene portato a via Tasso e fucilato anch’esso a Forte Bravetta.
Tra le donne spicca la figura di Maria Baccante, dirigente della formazione comunista dissidente Bandiera rossa. I nazifascisti le diedero la caccia arrivando a fermare e a schedare tutte le donne di nome Maria. Nel dopoguerra anima lo sciopero e l’occupazione della fabbrica Cisa Viscosa vicino largo Preneste. Oggi il Parco delle energie che sorge su quei terreni ospita un archivio storico che porta il nome della partigiana. Picozza e Rivolta raccontano poi le storie dell’infermiera Raffaella Chiatti, protagonista di un coraggioso salvataggio di molti partigiani che rischiavano l’arresto, e di Anna Cerrani, giovane operaia trasteverina, animatrice degli scioperi alla Manifattura Tabacchi in piena occupazione.

Il “passato ha la forza sufficiente per raccontare se stesso anche attraverso i luoghi, belli o brutti che siano” affermano gli autori. “Ha il vigore per rievocare i perché delle opere, del ruolo o del carattere dei personaggi che non ci sono più, ma che in quei posti sono vissuti.” In effetti, dopo la lettura della Resistenza dimenticata, se al tramonto andiamo a fare una passeggiata per le vie della Garbatella, di Trastevere o di Montesacro, gli orrori dell’apericena svaniscono, mentre, come in uno scenario di realtà aumentata, compaiono i volti meravigliosi di chi non esitò a rischiare o donare la vita per un mondo migliore.

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I comunisti della capitale… (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/09/i-comunisti-della-capitale-seconda-parte/ Wed, 09 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74526 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che fossero mature le condizioni per un nuovo assalto al cielo era infondata per il loro errato giudizio sullo stalinismo e sull’Urss. E lo era anche, a un livello ancora più profondo, per ciò che riguarda i rapporti di forza su scala internazionale tra classe capitalistica e movimento proletario. Vediamo il primo aspetto, torneremo in seguito sul secondo.

Il 26 novembre 1943, nel suo discorso da Mosca “L’Italia in guerra contro la Germania hitleriana”, Togliatti afferma in modo inequivocabile sull’Italia post-fascista quanto segue:

Sarebbe assurdo pensare al governo di un solo partito o al dominio di una sola classe. L’unità e la collaborazione di tutte le forze democratiche e popolari dovranno essere l’asse della politica italiana, la base su cui verrà costruito un vero regime democratico, che distrugga le radici del fascismo e dia alla nazione delle garanzie serie contro ogni possibile ripetizione della tragica avventura ch’è costata all’Italia il suo benessere, la sua libertà, la sua indipendenza, il suo onore. Ma questo non vuol dire che nella vita del paese non debbano essere operate profonde riforme… la nuova democrazia italiana… con un ragionevole intervento dello stato dovrà impedire che dei gruppi di plutocrati avidi ed egoisti [gli Agnelli ad esempio? – n.] sfruttino il monopolio delle risorse del paese per asservire il popolo intero e gettare il paese nell’abisso di criminali avventure di guerra.

Questa linea di condotta era perfettamente coerente con l’obiettivo strategico perseguito da Stalin, che non era più la rivoluzione proletaria internazionale, cui lo stalinismo aveva rinunciato da tempo, bensì la costruzione in Russia di un industrialismo di stato capace di ridurre il gap economico-tecnologico rispetto alle grandi potenze occidentali. In tale prospettiva strategica di coesistenza e di concorrenza pacifica tra il campo occidentale e quello del “socialismo reale”, rientrava la pace con gli imperialisti d’Occidente, la divisione del mondo in sfere di influenza, nonché la spartizione dell’Europa che prevedeva l’assegnazione dell’Italia al dominio delle democrazie anglo-sassoni. Contro questo muro si infranse l’attività politica del Mcd’I che pagò dazio alla fine della guerra con la sua rapida disgregazione e scomparsa. Una fine amara perché la battaglia politica del Mcd’I per la rinascita di un movimento comunista rivoluzionario in Italia non si era certo limitata ai giornali e alla propaganda delle proprie idee, ma aveva visto la sua partecipazione alla resistenza armata anti-nazista e anti-fascista, svolta da posizioni autonome. Broder ricostruisce con estrema puntualità il peculiare modo di partecipare alla resistenza di questo insieme di militanti. Parlo di insieme perché il Mcd’I non fu mai un organismo centralizzato, a differenza del PCI-partito nuovo, restando piuttosto, dall’inizio alla fine, una federazione di vari gruppi di comunisti attraversati da influenze ideologiche molteplici (incluso l’anarchismo). Nella biblioteca di sezione del Mcd’I la “Storia della rivoluzione russa” di Trotsky, e scritti di Bordiga, Bucharin o Malatesta potevano stare accanto alle opere di Marx Engels e Lenin senza provocare guerre di religione. L’aspirazione di questi compagni ad essere dei militanti ben attrezzati si materializza nella scuola di formazione di Grotta Rossa. Già negli “anni della cospirazione” la loro priorità non era l’azione militare, bensì la ricostituzione dell’organizzazione comunista. Questa impostazione consentirà a Bandiera rossa di essere uno dei pochissimi esempi di “leadership politica comunista” nell’azione militare nel corso di tutta la resistenza italiana. Quando su Roma, dal settembre 1943, si stringe la morsa sanguinaria delle truppe naziste ed inizia l’attività militare dell’Armata rossa (così il Mcd’I denominò i suoi nuclei d’azione armata), la priorità di questa area di compagni rimane non lo scontro frontale con i nazisti, ma la preparazione delle forze e delle strutture per quando le truppe naziste avrebbero lasciato la città. Il loro sforzo principale – riuscito solo in piccola parte – resta il radicamento sociale negli strati proletari e popolari più schiacciati, ridotti alla fame nera. Tuttavia la Wehrmacht e la polizia fascista, mettendo in atto la coscrizione obbligatoria e la deportazione, obbligano chi intenda resistere a questa duplice violenza ad organizzarsi in gruppi armati. Il Mcd’I non si tira indietro. La consistenza delle sue milizie sarà sempre piuttosto limitata, ma il movimento arriva ad avere 27 unità locali, 8 gruppi speciali, e collegamenti con 39 bande “esterne”, alcune delle quali estranee ai suoi orientamenti politici. Pagherà un pesante tributo di sangue nei 9 mesi di occupazione nazista della città, designata capitale della Repubblica sociale italiana.

Seguendo un tracciato del tutto differente, i Gap del PCI operanti per lo più nel centro di Roma, furono dediti esclusivamente ad un’attività militare finalizzata a provocare rappresaglie naziste come strumento per stimolare la popolazione a sollevarsi contro lo straniero nell’ottica di un “nuovo risorgimento” dell’Italia – nelle parole di Rosario Bentivegna, uno dei gappisti più noti, a “scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi”, una tattica fallimentare perché a Roma non ci fu alcuna insurrezione. Ci fu, invece, una catena di sanguinose repressioni nazi-fasciste: tra le più brutali quelle compiute al Trionfale, al Quadraro e l’eccidio delle Fosse ardeatine dopo l’attentato di via Rasella, organizzato dai GAP il 23 marzo 1944 contro una compagnia di riservisti alto-atesini senza ruoli di combattimento. In tutti e tre i casi gli appartenenti al Mcd’I e all’Armata rossa pagarono il prezzo più alto tra le diverse componenti della resistenza romana: 68 dei 335 prigionieri (e passanti) fucilati alle Fosse ardeatine erano militanti del Mcd’I che – con ottime ragioni, a mio avviso – criticò i metodi terroristici dei Gap e si espresse a favore di un approccio “difensivo” alla lotta contro le forze nazifasciste in ritirata.

Nonostante queste difficilissime prove, il prestigio e il seguito del Mcd’I continuano a crescere fino alla fine del 1944, quando i membri del movimento oltrepassano le 13.000 unità (ma il PCI, con una progressione fulminea, aveva già oltrepassato i 50.000). Il momento di massima euforia è nei giorni successivi all’entrata delle truppe alleate in Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Scrive Corvisieri:

I nove terribili mesi dell’occupazione e del terrore nazifascista erano finiti. Per i militanti più vecchi come De Luca (uscito da Regina Coeli alla testa di un corteo di detenuti politici), Poce, Volpini e tanti altri l’attesa era stata molto più lunga: da venti anni aspettavano quelle radiose giornate. La fame e la miseria generale, che tuttavia restavano, non frenarono le manifestazioni popolari di entusiasmo per la ritrovata libertà. La fine di un incubo. I militanti più attivi del Mcd’I si erano impossessati delle sedi necessarie alla loro attività e s’impegnarono a fondo nel reclutare giovani per l’Armata Rossa. Poce, a conferma dell’autorità di cui godeva, fu affiancato al vice-questore.
Furono giorni di vertigine per chi aveva tanto sofferto e anelato alla sconfitta del fascismo come nella necessaria premessa per la rivoluzione socialista. Il sogno di allestire un esercito popolare di liberazione, una Armata Rossa, apparve per qualche tempo di possibile realizzazione. Durante la occupazione di Roma, Armata Rossa era stata una piccola ma agguerrita formazione che raggruppava alcune centinaia di combattenti del Mcd’I e del PCI (sbandati o dissidenti dal partito); ora si trattava di sviluppare questo nucleo fino ad avere una forza armata popolare che conducesse autonomamente la guerra contro i tedeschi e i fascisti, affiancandosi agli Alleati e stabilendo un contatto non solo ideale con i partigiani del nord.

In pochi giorni la campagna di reclutamento dei volontari vede l’adesione di 40-50 mila giovani. E immediatamente scatta l’altolà degli Alleati “liberatori”, che “preoccupati dal movimento dei volontari che sarebbe stato difficile da controllare, emisero un decreto che ordinava la sospensione degli arruolamenti e ogni altra iniziativa non autorizzata. Poce, avendo insistito il Mcd’I nella sua azione, passò da vice-questore al carcere. Tornò in quella Regina Coeli che aveva conosciuto a più riprese durante il fascismo e ci restò per un paio di mesi.”

Fatto altamente simbolico dell’avvio della democrazia post-fascista (non però anti-fascista, come usa dire). L’esperienza romana è uno dei pochi casi in cui, pur essendoci rapporti con i comandi anglo-americani, viene mantenuta sia l’autonomia dell’organizzazione comunista che quella dei gruppi armati, perché “i proletari combattono per sé stessi”, e non per la borghesia. Poce si scontra con questi comandi quando pretendono di imporre al Mcd’I che a Roma non ci debba essere una insurrezione, e rinuncia al suo proposito solo quando sa che PCI, Psi e azionisti hanno accettato il diktat. Alla vigilia dell’occupazione di Roma da parte delle truppe alleate si rifiuta di mettere le proprie milizie sotto il controllo dei commissariati romani di pubblica sicurezza. Sennonché è proprio questa autonomia che i nuovi padroni, alleati e protettori dei vecchi padroni, non intendono in alcun modo accettare, tant’è che oltre Poce, anche altri militanti del Mcd’I vengono arrestati dalle forze della repressione democratica. Del resto, il 19 luglio 1943 i bombardamenti alleati su Roma erano cominciati, guarda caso, dal quartiere rosso di San Lorenzo con una strage di 1.600 persone. Nello scontro inter-imperialistico tra truppe nazifasciste e truppe a guida anglo-americana appariva sempre più chiaro, ormai, che la Resistenza avrebbe dovuto avere più un ruolo subalterno. Come ebbe poi a riconoscere senza mezzi termini Ferruccio Parri: Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice.

Un giudizio storico-politico che, contro ogni bolsa retorica resistenziale di “estrema sinistra”, oggi appare indiscutibile. Per dirla con Paul Ginsborg: “la Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi alcun dubbio sulla sua essenziale subordinazione” ai comandi Alleati. I “comunisti dissidenti” di Roma cercarono invano di sottrarsi a questo amaro destino di donatori di sangue per la vittoria degli Alleati (imperialisti). Decimati dai nazi-fascisti; controllati, intimiditi e colpiti dalle autorità alleate; calunniati, minacciati, attaccati politicamente dal PCI; grazie alla loro speciale dedizione alla causa, erano riusciti a crescere fino alla fine del 1944, ma non ebbero la forza di tenere il campo dopo il crollo del nazifascismo e la fine della guerra. Si divisero prima tra favorevoli e contrari all’ingresso nel PCI; si dispersero poi in più direzioni, per dissolversi completamente nell’estate del 1947. Il PCI accettò nelle sue fila la gran parte dei militanti di base, respingendo invece i capi.

La vittoria del PCI sul Mcd’I è, in realtà, parte di un processo assai più ampio e profondo di nuova stabilizzazione del capitalismo globale dopo il trentennio di devastanti sconvolgimenti che va dal 1914 al 1945 passando per due guerre mondiali e la Grande Depressione. L’impressionante salasso di capitale fisso e di esseri umani avvenuto in questo frangente; il totale tracollo delle tre potenze dell’Asse; l’emergere sulle loro rovine e sul disfacimento dell’impero coloniale britannico di un nuovo, potentissimo guardiano dell’ordine capitalistico mondiale dotato di armi di sterminio di massa e in possesso di ingenti quantità di capitali da anticipare ai paesi europei vinti, gli Stati Uniti d’America; aprono una fase di forte ripresa dell’economia. E per i paesi europei, un periodo di pace nel quale i proletari in massa vengono risucchiati in una macchina produttiva democratica (fuori dai luoghi di lavoro) che pare promettergli un futuro differente dall’incubo vissuto da due generazioni di lavoratori. Non erano stati solo i dissidenti romani, erano stati in centinaia di migliaia, se non milioni di proletari italiani, jugoslavi, greci, albanesi e così via a sognare la ripresa e la conclusione vittoriosa del ciclo rivoluzionario degli anni 1917-1927. Che non si trattasse di sparuti gruppi settari e infantili, lo hanno riconosciuto in seguito gli stessi massimi pedagoghi della “via italiana al socialismo”. Ha scritto ad esempio Giorgio Amendola: “Vi era nel partito un profondo contrasto tra una grande parte degli aderenti che vedeva l’insurrezione [del 25 aprile ‘45] in maniera ingenua come già l’inizio del socialismo, e il gruppo dirigente che aveva coscienza dei limiti di classe della situazione italiana e cercava di correggere questo orientamento massimalista”. E lo stesso Togliatti, ha confessato ripetutamente che fu dura far comprendere alla massa dei militanti che la scelta di Salerno e dell’unità nazionale con la borghesia italiana in quanto tale non era una furba tattica doppiogiochista per fregare gli avversari borghesi, bensì la definitiva rinuncia alla prospettiva della rivoluzione sociale.

Con la mano ferma dello studioso che sa bene quello che dice, con ammirevole sobrietà nello stile, David Broder ci conduce a vedere e a vivere il progressivo impatto devastante che questo nuovo corso del capitalismo mondiale e del “movimento comunista internazionale” ebbe sui “dissidenti comunisti” di Roma. Davvero un libro da leggere. Che si chiude con queste parole:

i militanti del Mcd’I erano guidati più dalla fede in ciò per cui stavano combattendo che da una chiara idea su come raggiungere il proprio scopo. Questi proletari romani sognavano il sol dell’avvenire e una vittoria che non era soltanto degna della lotta per conseguirla, ma anche inevitabile, assicurata dal movimento della storia. Questa fede permise una coesione che altrimenti sarebbe mancata alla loro organizzazione piuttosto traballante, una teleologia capace di dare senso ai loro terribili sacrifici. Ma quando l’obiettivo finale scomparve dal loro orizzonte, non gli rimase alcuna tradizione da difendere. Alcuni di loro modificarono il proprio modo di vedere per abbracciare lo spirito dei tempi; i più rivolsero semplicemente le loro speranze al di fuori della politica. Non ci fu alcun lieto fine, né alcuna redenzione, e neppure un articolo di giornale che spiegasse perché gli ultimi seguaci avevano staccato la spina. Non potettero avanzare alcuna giustificazione, né indicare una svolta sbagliata. La loro storia non è stata altro che una storia di fede nel futuro, e della sua sconfitta.

Eppure: se un domani ci sarà una Roma senza Quirinale, senza Vaticano, senza i pescecani e senza la sterminata burocrazia che oggi l’appestano. Se sui sette colli nuove generazioni di proletari dovessero fondare la Comune romana sognata nel 1943-’45 da questi sconfitti esploratori del futuro. Allora la loro vicenda, i loro nomi sconosciuti grandeggeranno sulle forze nazionali e internazionali e sui “celebri personaggi” che li dispersero.

Fine

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I comunisti della capitale… (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/08/i-comunisti-della-capitale-prima-parte/ Tue, 08 Nov 2022 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74522 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”. In due anni e mezzo si avvicendano ben sei governi. Le diverse componenti politiche del movimento proletario, che erano state decimate e disorganizzate dagli apparati repressivi del regime, riavviano la loro attività nel quadro di una intensificazione degli scontri bellici tra i fronti contrapposti, che getta le premesse di una (limitata) guerra civile. Il tutto mentre a livello internazionale si infittiscono a ritmo incalzante le trame e le conferenze tra le potenze che stanno per uscire vincitrici dalla guerra, volte a disegnare il nuovo ordine mondiale, con effetti a cascata sui singoli paesi, Italia inclusa.

La vicenda “locale” che Broder ci presenta è stata dominata in lungo e in largo da questi processi. A chi la guardasse oggi con un arrogante senno di poi, potrebbe apparire semplicemente come il vano annaspare di un pugno di militanti comunisti vittime delle proprie ingenue illusioni rivoluzionarie. Vissuta in presa diretta, invece, è la storia appassionante e drammatica, non limitata ai suoi fisici protagonisti, del tentativo di piccoli settori del movimento proletario italiano e internazionale di fare i conti oltre che con il fascismo, anche con il capitalismo. E di farli sfidando la repressione e il piombo dei nazisti, prima, soffrendo il controllo occhiuto delle polizie democratiche e gli attacchi politici senza tregua del PCI di Togliatti, poi. Il luogo in cui la vicenda si svolge è Roma, l’unica grande città italiana in cui le forze comuniste “dissidenti” hanno avuto una consistenza fino ad un certo momento paragonabile a quelle del PCI in via di rapida ricostituzione su basi completamente diverse dalle originarie del 1921. Forze comuniste “dissidenti” che, con la loro piccola Armata rossa, hanno dato un contributo perfino superiore a quello del PCI nella cacciata dalla capitale delle truppe nazifasciste nel periodo settembre 1943-giugno 1944.

Si deve a Silverio Corvisieri il lavoro più noto, in lingua italiana, sul ruolo svolto dal Movimento comunista d’Italia, o movimento di Bandiera rossa, nella resistenza romana – a cui contribuì con 2.548 militanti (il PCI con 2.336). Si tratta di un testo del 1968 che però, come osserva Broder, è più interessato all’attività militare di questi compagni che alla loro battaglia politica, alla loro resistenza alla politica di unità nazionale e alla loro critica della “degenerazione riformista” del PCI. Il tempo – sul metro del lungo periodo – consente oggi, anzi obbliga, a riconoscere loro di avere se non altro intuito il corso degli avvenimenti susseguenti alla fine della guerra in maniera incomparabilmente più corretta di coloro che li sconfissero e li denigrarono come affetti da infantilismo – questo, almeno per ciò che concerne il ruolo non proprio liberatorio degli Alleati anglo-americani, e gli effetti deleteri che la politica di unità nazionale con la borghesia avrebbe avuto sul proletariato.

Procediamo con ordine. Con una ben congegnata azione repressiva attuata in due momenti (gennaio 1923, autunno 1926), Mussolini e il suo partito-stato riuscirono a smantellare la direzione e i gangli fondamentali della macchina organizzativa del Pcd’I. E costrinsero all’espatrio centinaia di migliaia di proletari simpatizzanti per esso, o sua potenziale area di influenza. Alla messa fuori uso di questa macchina ancora in formazione, concorse pure la scatenata caccia ai trotskisti che si abbatté su Amadeo Bordiga e i suoi più stretti compagni di partito. Sicché al 1943, quando il fascismo inizia a vacillare sotto il peso delle sconfitte militari dell’Asse e degli scioperi operai nelle fabbriche del nord, ciò che rimane in piedi di realmente organizzato del movimento comunista degli anni ‘20 è poco, molto poco. Non esiste alcuna rete di collegamento interna alla penisola. Il centro direttivo del partito legato a Mosca è all’estero (a Parigi). La diaspora è ancor più slabbrata nel campo, assai ristretto, di quanti sono rimasti fedeli alla linea di Bordiga, anche per la sua categorica decisione di sospendere ogni forma di attività politica. Restano in piedi solo esili reti locali. La maledizione del localismo che per secoli ha afflitto e indebolito la borghesia italiana, pesa in questo frangente anche contro la riorganizzazione della classe operaia. Pur avendo alcuni tratti in comune, le dissidenze comuniste di Roma, Napoli, Torino e dell’alto milanese non riescono a coordinarsi tra loro. Anzi, a stento sono consapevoli delle rispettive esistenze e posizioni. Sicché la vicenda del Mcd’I – un nome che, al pari di Pcd’I (Partito comunista d’Italia, non Partito comunista italiano), rimanda a una concezione dell’internazionalismo proletario differente dall’inter-nazionalismo di matrice stalinista e togliattiana – resta una storia peculiare, separata, a sé stante. E questo faciliterà l’azione di quanti hanno operato per distruggerla fisicamente e politicamente, e cancellarne perfino il ricordo.

Con un’attenzione rigorosa e al tempo stesso empatica, David Broder ne ricostruisce la nascita negli “anni della cospirazione” (1939-1942), e ne descrive le radici sociali in un milieu che, data la struttura sociale della Roma fascista e imperiale, è più proletario e popolare che in senso stretto operaio. Gli insediamenti più significativi di Bandiera rossa sono nei quartieri popolari dell’Urbe e nelle borgate: San Lorenzo, Trionfale, Certosa, via Appia, via Tuscolana, via Casilina, Quadraro, Quarticciolo, Certosa. L’attività di questi compagni decisi a restare fedeli all’“autentica tradizione comunista” mette capo nel giugno del 1942 alla pubblicazione del giornale clandestino Scintilla. Tanto nei suoi pregi quanto nei suoi limiti, siamo dentro quel sottosuolo proletario comunista, quella “subcultura antagonistica” rimasta viva in militanti operai e proletari di lungo corso, messi in evidenza da Luigi Cortesi. Si tratta di marxisti autodidatti, carpentieri, elettricisti, ciabattini, grafici, espulsi dalle storie ufficiali del movimento comunista italiano del tempo insieme con i penetranti spunti politici contenuti nei loro abbozzi di analisi della guerra e del dopoguerra. Piccoli cammei disseminati qua e là nei testi a stampa che ci sono arrivati (meno sappiamo delle loro discussioni), che provo qui a mettere in sequenza.

Notevoli sono anzitutto il loro richiamo alla storia internazionale del proletariato rivoluzionario di cui si sentono parte, che fanno cominciare a Lione nel1831. Rivendicano in modo talvolta implicito, talaltra esplicito, mai esauriente, di essere in continuità con la prima fase della vita del Pcd’I, con le battaglie del biennio rosso, e con l’esperienza degli Arditi del popolo. Sorvolando sulle controversie interne al Pcd’I dei primordi, tale rivendicazione esprime l’aspettativa di poter portare a termine il lavoro lasciato incompiuto in quegli anni, arrivando a “fondare una repubblica sovietica sul suolo italiano”. Il più rilevante tratto distintivo di quest’area di compagni è il rifiuto della politica di unità nazionale prima e dopo la svolta di Salerno dell’aprile 1944. Anzi: il rifiuto di ogni forma di collaborazione con la borghesia italiana, di ogni confusione tra antifascismo e anticapitalismo, e tanto più della loro identificazione. Nessuna riabilitazione della classe dominante che ha portato l’Italia al fascismo, alla guerra, alla rovina! Bisogna stare fuori dal CLN, gli operai e i contadini non possono, non debbono gettare il loro sangue per le classi privilegiate. All’unità con la classe dei borghesi i “dissidenti” contrappongono la prospettiva politica dell’unità del fronte di classe. Al diavolo la bandiera tricolore, bandiera rossa! Colpisce anche l’inquadramento della seconda guerra mondiale come “scontro tra poteri imperialisti”, nazifascismo contro blocco a guida statunitense, espressa nel n. 2 di Scintilla. In tale scontro l’Urss è stata trascinata solo dall’aggressione esterna – e la forte diffidenza nei confronti dei “liberatori” anglo-americani, di cui non si dimentica la funzione di primo piano avuta nei tentativi di soffocare la rivoluzione russa nella culla. Questi militanti si rifiutano di vedere nei tedeschi in quanto tali il nemico, e valorizzano il sentimento anti-fascista e anti-nazista espresso dai migliori elementi dell’esercito tedesco, indirizzando ai soldati tedeschi dal retroterra operaio l’invito a rivoltarsi contro i propri generali. Se poniamo questa attitudine e questo invito di impronta internazionalista a confronto con la direttiva nazionalista del PCI di colpire i tedeschi quali che fossero, in quanto tedeschi occupanti; se li mettiamo a confronto con la logica altrettanto nazionalista che ispirò l’attentato di via Rasella; ci troviamo di fronte a due differenti modi di intendere la lotta al nazi-fascismo tra loro alternativi, corrispondenti, ove si vada ad indagare fino in fondo, a due differenti classi, perfino a due differenti prospettive storiche. Quella dei militanti del Mcd’I appare, quanto meno nei testi più maturi, rivolta alla “seconda guerra” da combattere una volta vinta quella al nazifascismo: la guerra contro il mondo capitalistico. Si tratta, affermano, di “trasformare la guerra contro il nazismo nella guerra contro tutto il capitalismo”. Rivendicano con orgoglio: “noi non siamo anti-fascisti, siamo comunisti”. Spriano nota che il loro simpatizzante Riccardo Tenerini, un giovane perugino, arriva a preconizzare per il dopo-guerra lo scontro tra il capitalismo anglo-sassone (i “poteri imperialisti”) e il proletariato mondiale nei seguenti termini:

Viene ora la seconda guerra: quella rivoluzionaria, quella che il proletariato deve combattere e vincere contro il mondo capitalista… La rivoluzione anticapitalista è in marcia, non si arresterà che ad eliminazione totale di ogni residuo del mondo attuale… L’ora della rivoluzione liberatrice è vicina… W Stalin, W l’Unione sovietica, patria di tutti i lavoratori. Evviva il Partito comunista d’Italia, evviva l’Internazionale comunista.

In maniera più sfumata e confusa la tematica della “doppia rivoluzione” è presente anche nei testi dei dissidenti romani. Ad esempio nel documento di fine 1944 intitolato “La via maestra”, il Mcd’I espone questa prospettiva, sebbene in una forma decisamente volontaristica:

[il nostro] movimento si distingue per la sua netta intransigenza, che non ammette ritardi né compromessi perché sostiene che l’ora della abolizione del capitalismo è suonata, e che il proletariato, per impedire la minaccia di nuove oppressioni e di nuove barbarie, deve conquistare il potere proprio in questo momento, in nome dei principi universali del comunismo.

Questi spunti eterodossi di matrice classista rivoluzionaria cozzano e si infrangono contro quella che David Broder chiama “idolatria” di Stalin e dell’Urss staliniana. Per i militanti di Bandiera rossa, infatti, la continuità tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è un dogma. Anche se il loro stalinismo ha certi tratti sui generis (“an idiosyncratic Stalinism of their own”). Rifiutano di norma l’atteggiamento passivo insito nell’attesa “addavenì Baffone”, considerando la liberazione dal giogo capitalistico un compito del proletariato italiano. Reinterpretano a modo loro una serie di atti dell’Urss di Stalin, a cominciare dal patto Molotov-von Ribbentrop, giustificato dalla “ragion di stato”, e lo considerano non vincolante per l’Internazionale. I comunisti italiani, si sostiene, non sono “agenti di Mosca”. Collaborano con Mosca come con tutti i movimenti proletari del mondo, e perciò non sono affatto obbligati a “rivalutare” nazismo e fascismo, come invece per un tratto avvenne. Lo stesso scioglimento dell’Internazionale è presentato come il riconoscimento da parte di Stalin del grado di maturità raggiunto dai singoli partiti comunisti – un’interpretazione del tutto infondata, essendo chiarissimo, invece, che lo scioglimento dell’Internazionale è stato un passaggio ineludibile nel processo di appeasement tra l’Urss e gli Stati Uniti. Qui le spire dell’idolatria di Stalin e dell’Urss si mostrano in tutto il loro potere soffocante.

Per quanto incompleti e contraddittori siano, e lo sono, il valore degli spunti, delle intuizioni, delle anticipazioni del corso futuro degli avvenimenti, risalta meglio oggi a ottant’anni di distanza se li si pone a confronto con la funzione anti-proletaria e contro-rivoluzionaria svolta dagli imperialisti anglo-americani sia in Italia che ai quattro angoli del globo terrestre; con il carattere sempre meno “progressivo” acquisito dalla “repubblica nata dalla Resistenza” non appena si è ridotto il grado di attività e combattività della classe lavoratrice; con la decomposizione e la totale scomparsa del PCI togliattiano avvenute lungo la linea continua di deriva socialdemocratica temuta e denunciata in tempo reale da militanti del Mcd’I come Mucci, Poce, Cretara, Sabatini, De Luca (in questi giorni alcuni degli ultimi epigoni del PCI sono addirittura dediti all’abbraccio con forze di orientamento razzista e semi-fascista…). Riletti oggi, gli anatemi scagliati dagli Amendola, dai Secchia e dai loro accoliti contro questi “estremisti infantili”, “settari”, esponenti di una “vecchia opposizione pro-trotskista e bordighista”, agenti provocatori, e perfino “maschera della Gestapo” (!!!!), appaiono in tutta la loro miseria politica e morale. Anatemi da guardiani non tanto né solo dell’ortodossia stalinista, quanto della stabilizzazione borghese dell’Italia post-fascista sulla pelle del proletariato – la sola classe sociale che si batté contro il fascismo ascendente nei primi anni ‘20 e fu, con i suoi scioperi, il principale fattore interno della caduta del fascismo. La loro violenza verbale nei confronti di questi compagni, e di tutto ciò che in loro poteva suonare proveniente dalla tradizione della Sinistra comunista e dal leninismo di Lenin, si disvela nel suo carattere di disciplinamento forzato al nuovo ordine democratico nel quale al posto di comando c’è la stessa vecchia, impunita borghesia che aveva portato al potere il partito fascista.

Fine prima partecontinua

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