Roberto Leydi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Oct 2025 06:43:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un prontuario per musiche (quasi) dimenticate. Ricordo di Franco Ghigini (1957-2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/07/un-prontuario-per-musiche-dimenticate-in-ricordo-di-franco-ghigini-musicista-e-ricercatore-indimenticabile/ Wed, 07 Feb 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80993 di Sandro Moiso

Il 28 gennaio, a causa di una malattia con cui combatteva da tempo, si è spento Franco Ghigini. Musicista e intellettuale colto e raffinato; etnomusicologo e compositore; storico e ricercatore delle tradizioni culturali e musicali non soltanto della valle tanto amata da cui proveniva, la Val Trompia; scrittore e giornalista; organizzatore di festival musicali e promotore di iniziative culturali; docente al Conservatorio di Brescia e insegnante di organetto diatonico presso la Scuola di Musica Popolare ACP della Valle Verzasca in Svizzera; compositore e divulgatore, Franco poteva e può ancora tutt’ora essere considerato non soltanto uno degli intellettuali [...]]]> di Sandro Moiso

Il 28 gennaio, a causa di una malattia con cui combatteva da tempo, si è spento Franco Ghigini.
Musicista e intellettuale colto e raffinato; etnomusicologo e compositore; storico e ricercatore delle tradizioni culturali e musicali non soltanto della valle tanto amata da cui proveniva, la Val Trompia; scrittore e giornalista; organizzatore di festival musicali e promotore di iniziative culturali; docente al Conservatorio di Brescia e insegnante di organetto diatonico presso la Scuola di Musica Popolare ACP della Valle Verzasca in Svizzera; compositore e divulgatore, Franco poteva e può ancora tutt’ora essere considerato non soltanto uno degli intellettuali più significativi prodotti dalle valli lombarde, ma dall’Italia contemporanea tout cour.

Moderno eppure appassionato dal passato e dalle vite più umili, che in quello era possibile ritrovare anche se, spesso, avevano dovuto celarsi allo sguardo delle istituzioni, del potere e della Chiesa, ha saputo ricollegare, nel corso di tutto il suo lavoro, condotto fino agli ultimi mesi di vita, le culture e le tradizioni musicali espresse decenni o secoli or sono con il tempo presente e anche a un possibile futuro, sempre alla luce di un impegno e di una serietà che ben pochi altri potrebbero vantare. Il tutto accompagnato da una rara sensibilità artistica e umana, difficilmente riscontrabile in tanti altri studiosi ed esperti (veri o anche soltanto presunti tali).

Formatosi alla scuola di Roberto Leydi, dopo aver abbandonato gli iniziali studi in Medicina, ha sempre inseguito le tracce dei suoni della musica celtica e i suoi infiniti percorsi tra le valli alpine, la Scozia, l’Irlanda, la Bretagna e gli Stati Uniti. Ma facendo questo Franco ha sempre spinto lo sguardo oltre i confini sia della musica europea e statunitense che della musica tradizionale. Mai rinnegando l’infinito amore per ogni ambito della popular music: dal rock, nelle sue varie manifestazioni, al country e al blues, ma anche senza mai tralasciare il jazz, la musica classica e anche quella più sperimentale.

Ispirato ad un ideale di bellezza e perfezione, senza per questo scadere nell’estetismo e anzi dimostrandosi capace in ogni occasione di riunire e spiegare insieme le ragioni sociali e culturali e le motivazioni più profonde delle esperienze e delle scelte estetiche dei musicisti e dei loro prodotti sonori, Franco Ghigini è sempre stato molto severo. Soprattutto con se stesso e il proprio operato. Sia che si trattasse di un libro, di un breve saggio, dell’esecuzione di un brano o della preparazione di una conferenza, tutto doveva essere curato nei minimi dettagli affinché si avvicinasse il più possibile all’essere perfetto.

Da questo, però, non bisogna far discendere l’immagine di un intellettuale pedante o pignolo, tutt’altro. Sempre disponibile alla battuta, alla frase scherzosa, al sorriso e alla risata sincera, ha regalato agli amici, ai conoscenti o anche a chi lo ha conosciuto per una sola serata, magnifici e indimenticabili momenti di umanità e di pacata riflessione sulla vita, l’arte e un mondo spietato contro cui egli si è battuto con i suoi modi sempre garbati, ma altrettanto decisi.

Per questo chi scrive pensa che sia utile e necessario portare a conoscenza del pubblico dei lettori anche l’ultimo progetto editoriale che ha avuto appena il tempo di abbozzare, ma che già nella sua formulazione ne rivela il carattere, allo stesso tempo, schivo, sincero e mai, proprio mai, superficiale.
Insieme alla proposta viene qui allegata la lista dei dischi che egli avrebbe voluto presentare nella ricerca e la prima (e unica) scheda compilata in vista di tale lavoro.

Grazie Franco: è stato un onore conoscerti e aver potuto collaborare con te, ma soprattutto per il fatto che il tuo percorso di vita, passione e studi ha reso questo mondo migliore, anche se per una stagione davvero troppo breve.

Prontuario intimo di musiche (quasi) dimenticate

Sono cento e ancora cento i dischi imprescindibili per un appassionato di musica.
Quelli che egli sente parte di sé, che ne hanno accompagnato vicende, esperienze, incontri, attimi feriali resi memorabili proprio da tale privato legamento. Quelli che lo hanno cambiato poiché, è bene ricordarlo, ogni scoperta musicale induce una nuova attitudine all’ascolto, un nuovo ascoltatore; di più, incoraggia a un nuovo modo di guardare il mondo.
E sono musiche che, per una sorta di rimando speculare, vengono condizionate da questa sintonia, rimodellate dalla personale simbiosi d’uso, mondate da categorie di genere per essere consegnate a una tassonomia del cuore.
Applicarsi a un compendio che trattenga tale molteplicità è operazione ardua. Difficile altresì disporre in una selezione critica ciò che, sedimentato nelle successive stagioni musicali e della vita, si offre a un presente costantemente mutevole.

Mi sono perciò dedicato imponendomi criteri che delimitassero l’ambito d’indagine e si risolvessero, se possibile, nella scelta la più sincera e magari la meno risaputa. Ho così evitato ciò che molti appassionati hanno avuto modo di conoscere e apprezzare negli anni grazie ad ampi riscontri di critica o di pubblico. La bibliografia che affronta fenomeni, scuole, idiomi e protagonisti della popular music è infatti ormai sterminata e ribadirla avrebbe reso il mio impegno ridondante e retorico.
Ho eluso quindi i grandi nomi e dischi che hanno decretato la storia, meglio le storie della musica – anzitutto rock e jazz – nel secondo Novecento e nell’inizio di millennio che stiamo vivendo. Non si troveranno descritte le opere più rappresentative, in differente contesto irrinunciabili, del progressive, della scena di Canterbury, della psichedelia, della West Coast, delle jam bands, di Frank Zappa l’alieno, del blues, del southern rock, della new wave, del folk revival e del psych folk, del bluegrass e del country rock, della new acoustic music, della minimal music, dell’ambient music, delle innumerevoli correnti del jazz e via dicendo.
Non mi sono soffermato su quelli che, per me e presumo per altri, potrebbero essere i dischi perfetti: a titolo di esempio e in ordine sparso mi piace però menzionare, giusto per chiarire i miei gusti musicali, i Beatles indistintamente da Rubber Soul ad Abbey Road, Pet Sounds dei Beach Boys, Astral Weeks e Moondance di Van Morrison, Blonde On Blonde di Bob Dylan, Forever Changes dei Love, If I Could Only Remember My Name di David Crosby, At Fillmore East della Allman Brothers Band, In Search Of The Lost Chord dei Moody Blues, In The Court Of The Crimson King dei King Crimson, Bryter Layter e Pink Moon di Nick Drake, Rock Bottom di Robert Wyatt, Hosianna Mantra dei Popol Vuh, After The Break dei Planxty, The Köln Concert di Keith Jarrett, Kind Of Blue di Miles Davis, Impressions e A Love Supreme di John Coltrane, In C e A Rainbow In Curved Air di Terry Riley, Music For 18 Musicians e Tehillim di Steve Reich.
Ho pure tralasciato dischi a me cari di protagonisti minori e, come si usa dire, di beautiful losers, perle che la più attenta e meritoria critica musicale ha già svelato e diffusamente valorizzato in benedette riviste specializzate.
Inoltre, non avendo l’indole del collezionista, non ho prestato attenzione al disco valevole in quanto raro, meglio se introvabile.

Alla luce di questi vincoli e forse grazie a essi, ecco affiorare, limpido, ciò che ho invece sentito appartenermi profondamente. Musiche che sono entrate nella mia vita e per ragioni misteriose sono rimaste, musiche davvero indispensabili solo per me poiché a legarmi è un’affezione particolare, una risonanza intima prima che estetica.
Nella più assoluta libertà, senza badare a coerenze di periodo, di linguaggio o di stile, ho pertanto individuato alcune decine di dischi, da cui a fatica i trenta qui condivisi: taluni passati inosservati e dimenticati, altri ascrivibili a scenari più o meno minoritari, altri non eminenti nella produzione di musicisti titolati, qualcuno ben conosciuto, ma impossibile da escludere. Una selezione che tuttavia rivela, e non potrebbe essere viceversa, la mia predilezione per le varie espressioni del folk revival anglo-celtico e francese, la minimal music, le atmosfere rarefatte coltivate da etichette come la tedesca ECM, la musica acustica.
Non v’è da parte mia, tengo infine a sottolinearlo, alcuna precisa vocazione istruttiva, piuttosto il riannodare un affatto soggettivo itinerario di bellezza, sperando si configuri per il lettore e ascoltatore in un viaggio musicale chissà egualmente avvincente, foriero di inaspettate conferme ed emozionanti sorprese.
Ciascun disco, dettagliato in una scheda nella quale mi concedo anche digressioni personali, sarà corredato, in calce al volume, da links per l’ascolto in rete e da un’attinente discografia minima. A conclusione, sarà anche proposta una selezione bibliografica orientativa.
Confido che questa prima tappa, riservata alla musica internazionale, venga seguita da una seconda, dedicata esclusivamente alla musica italiana.
Intanto, buona lettura e buon ascolto!

Franco Ghigini

I prescelti

• Eberhard Weber Fluid Rustle
• Oregon Winter Light
• John Surman Road To St. Ives
• Steve Lacy / Gil Evans Live In Paris
• Roger Eno Between Tides
• Brian Eno Discreet Music
• David Behrman On The Other Ocean
• Alvin Curran Canti e vedute del giardino magnetico
• Virginia Astley From Garden Where We Feel Secure
• Kent Carter Solo
• Popol Vuh Seligpreisung
• Daniel Hecht Willow
• Darol Anger / Mike Marshall Chiaroscuro
• Ira Stein / Russel Walder Elements
• Last Dance Orchestra Lost For Words
• Makam & Kolinda
• Danish String Quartet Last Leaf

Murray Head Between Us
• Nigel Mazlyn-Jones Sentinel & The Fools Of The Finest Degree
• Heidi Berry Love
• The Pearlfishers Across The Milky Way
• Michael Head & The Strands The Magical World Of The Strands
• Allan Taylor Sometimes
• Blowzabella Wall Of Sound / A Richer Dust / Vanilla
• Lo Jai Acrobates et Musiciens
• Marc Perrone Cinema Memoire
• Den Den
• Gabriel Yacoub Babel
• Alan Roberts & Dougie MacLean Caledonia
• Moving Hearts Moving Hearts

Altri…
• Bert Jansch
• Eric Andersen
• Michael Franks
• Julverne
• Sundays
• Dan Ar Braz
• Luis Di Matteo

MURRAY HEAD

Between Us
Philips, 1979

Cantautore e attore londinese, Murray Head non è mai figurato nella più nota scena musicale britannica: un riscontro discontinuo il suo, tuttavia agli inizi di carriera premiato dalla partecipazione al musical Jesus Christ Superstar (1970) e dal successo del brano Say It Ain’t So Joe (1975). Between Us, album bissato con grazia affine da Voices (1980), è un florilegio di delicate canzoni. Una voce che spesso tende al timbro del falsetto si dispone su un sobrio tappeto elettroacustico, efficace nel permeare la suadente proposta musicale. Vi suonano in punta di dita, per la produzione di Rupert Hine, Bob Weston alla chitarra solista, Trevor Morais alla batteria e i musicisti del giro canterburiano John G. Perry al basso e Geoffrey Richardson a basso e chitarra. Simon Jeffes, indimenticato inventore della Penguin Café Orchestra – ora guidata dal figlio Arthur come Penguin Café –, è responsabile degli arrangiamenti di archi.
Ancora una volta la copertina dice assai: una fotografia lo ritrae, in uno scenario al limine fra terra, mare e cielo, guardare la figlioletta. L’invito è a soffermarsi appunto su ciò che sta nel loro – e nel nostro – «between us», su amore e affetti anzitutto, interpretati con un approccio che oggi si direbbe minimale. Scegliendo un dialogo riservato e un’ombreggiatura malinconica Murray Head racconta piccole vicende della vita, dolori, crucci, speranze. Per tutta un’estate di molti anni fa non riuscii a staccarmi da questo disco, emozionato dalla fragrante scoperta musicale; e lo alternavo all’ascolto del capolavoro di Nick Drake Pink Moon (1972), tanto diverso eppure simile nell’evocare un medesimo stato d’animo, ovvero che per una sorta d’incantamento venissi privilegiato fra mille da una così intima confessione.
La peculiare atmosfera è presto chiarita in Los Angeles, How Many Ways, nel lieve reggae di Rubbernecker. E quando il canto diviene perentorio, come nella dichiarazione dal programmatico titolo Sorry, I Love You, e l’umore di Countryman assume toni rock si tratta in fondo di dialettica con la gentilezza, assai evidente in It’s So Hard, Singing The Blues, Good Old Days e Lady I Could Serve You Well.
Nella bella Mademoiselle – unica traccia prodotta da Paul Samwell-Smith – il titolo e l’allure parigina non sono casuali poiché Murray Head troverà grande credito proprio in Francia, sua adottiva patria artistica. A questa predilezione infatti dedicherà brani in lingua francese: in una cospicua discografia approdata a un elegante pop, l’album Rien N’Est Écrit (2008) si distingue indubbiamente fra i migliori. È vivo ancora in me il ricordo di quando, nel 1984 in un viaggio in Bretagna alla ricerca del sacro graal del folk, m’imbattei a Brest in cartelloni che annunciavano proprio un suo concerto: la sorpresa fu vederlo su un palco da rock star e un migliaio di giovani cantare le sue canzoni.
La conclusione è affidata, con ribadito garbo, da Bye, Bye, Bye: «Io me ne devo proprio andare / Tutto non ha più interesse / Porta a pensare troppo / E a sentirsi sempre peggio».

Qui un’intervista rilasciata da Franco Ghigini all’autore, pubblicata su Carmillaonline il 25 ottobre 2017, con la quale veniva ricostruito il suo percorso e le sue esperienze di formazione e di indagine etno-musicologica.

]]>
Una storia orale del folk revival italiano degli ultimi decenni (e un cd tutto da ascoltare) https://www.carmillaonline.com/2021/01/03/una-storia-orale-del-folk-revival-italiano-degli-ultimi-decenni-e-un-disco-tutto-da-sentire/ Sun, 03 Jan 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64153 di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari [...]]]> di Sandro Moiso

Maurizio Berselli, Storie folk. Il folk revival nell’Italia settentrionale e centrale raccontato dai protagonisti. Testimonianze e documenti, Edizioni Artestampa, 2020, pp. 392 + USB card, 25,00 euro

Se si va alla ricerca di un vocabolo dalla valenza fortemente, verrebbe quasi da dire esageratamente, polisemica questo potrebbe essere ben rappresentato dalla parola folk. Basterebbe infatti scorrere in un qualsiasi negozio di dischi e cd, se pur ancora ne rimane qualcuno, gli scaffali dedicati alla musica folk per accorgersi che possono contenere veramente di tutto. Sia che si tratti di musica italiana che internazionale.

Balli tradizionali, cori popolari e non, cantautori che usano strumenti acustici, gruppi elettrici che utilizzano arie e temi rubati alla tradizione popolare, canzoni dialettali e canti politici finiscono tutti accomunati dalla medesima definizione. Tale confusione, come si diceva all’inizio, deriva proprio dall’ampia gamma di significati che è possibile e si è soliti attribuire al termine in questione. Situazione che non migliora affatto se poi si passa a “musica popolare” che, come ben ci insegna il termine di derivazione anglofona pop, a quel punto può contenere veramente di tutto.

Il volume di Maurizio Berselli, appena pubblicato dalle edizioni Artestampa, cerca non tanto di fare chiarezza o contribuire a stabilire certezza nell’uso della parola folk e dei suoi possibili significati, ma almeno di rendere chiaro al lettore casuale quanto a quello appassionato dell’argomento, quanto ricca e varia sia stata in Italia l’esperienza del folk revival tra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato e nei primi due decenni di quello attuale.

Per fare questo l’autore ha comunque tracciato una sintetica e utilissima ricostruzione della rinascita dell’indagine e della produzione sulla e della musica folk nel nostro paese a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 che sia accompagna poi ad una più approfondita disamina delle esperienze prodotte sia a livello musicale che di ricerca dei due decenni successivi.

Maurizio Berselli è stato uno dei promotori della riscoperta e del rilancio dell’organetto nella musica dell’Italia settentrionale alla fine degli anni ’70 ed è stato fra i primi a reintrodurre l’uso dello strumento nell’esecuzione delle musiche dei balli dell’Appennino modenese, bolognese, reggiano; repertori tradizionali antecedenti al più conosciuto liscio. Con l’Orchestra Buonanotte Suonatori e poi con il gruppo Suonabanda, nel cui ensemble suona l’organetto fin dal 1983, si è dedicato ad una approfondita ricerca sulle musiche e i balli staccati emiliani, apprendendolo direttamente dai tanti suonatori incontrati negli anni.

Nel 1984 dà vita allo “STRAbollettino”, la prima pubblicazione prevalentemente rivolta all’informazione sugli avvenimenti musicali nell’ambito del folk nell’Italia settentrionale e centrale, che contribuisce in tal modo a pubblicizzare e render noti ad un pubblico più vasto. E’ proprio nell’ambito di tale esperienza editoriale che, a partire dal 2016, matura l’idea di raccogliere memorie e conoscenze per documentare la storia e le storie del movimento del folk revival deglia nni Settanta e Ottanta e poi, ancora, di quelli successivi.

Il risultato sta tutto, e davvero non è poca cosa, all’interno di questo libro costruito letteralmente attraverso la viva voce e le testimonianze dei principali protagonisti di tale movimento. Una autentica storia orale che ben si adatta al tema trattato e che restituisce con vivacità e passione le differenti varianti, ma anche le basi comuni, dell’espressione musicale riassumibile all’interno dell’esperienza folk.
Per giungere a ciò, l’autore ha però ricostruito in maniera precisa e dettagliata, anche se sintetica, i percorsi che dagli anni ’50 hanno condotto ad una significativa riscoperta di una tradizione musicale che sembrava ormai in gran parte scomparsa. Soprattutto per quanto riguardava il canto e i suoi infiniti e, spesso, non convenzionali contenuti. In tal senso l’autore non dimentica di sottolineare l’importanza e l’influenza di ricercatori, etnografi e musicologi o etno-musicologi quali l’americano Alan Lomax (che introdusse in Italia, durante un suo soggiorno nei primi anni Cinquanta le tecniche della registrazione sul campo) e degli italiano Ernesto de Martino, Diego Carpitella, Gianni Bosio e Roberto Leidy, solo per citarne alcuni. E non dimentica il ruolo svolto da aggregazioni musicali e culturali quali “Cantacronache” (1957) e “Il nuovo canzoniere italiano” (1962 ca.), il quale ultimo darà vita e linfa all’omonima testata dedita allo studio della musica tradizionale.

Un’esperienza fondamentale che, però, tenderà a sottolineare troppo spesso, all’interno della tradizione popolare, l’aspetto “politico”, finendo così col confondere, soprattutto tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, le canzoni prodotte dal sentimento autenticamente popolare con quelle cantautorali di autori politicamente impegnati. Contribuendo così a sottolineare quell’aspetto fortemente polisemico legato all’uso del termine folk. Polisemia e scelta culturale che condurranno gli stessi protagonisti di quella stagione a non comprendere, se non addirittura a rifiutare, le esperienze portate successivamente avanti dai gruppi e dai musicisti operanti in tale ambito a partire dalla metà circa degli anni ’70.

Valga per tutti costoro la testimonianza, estremamente semplificatrice e riduttiva, di Gualtiero Bertelli, uno dei protagonisti della stagione precedente, riportata nel testo.

Verso la fine degli anni ’70, con l’aggravarsi della situazione politica (brigatismo rosso e nero) ed economica (crisi industriali, licenziamenti), queste esperienze si spensero e cadde progressivamente nell’oblio l’interesse per la canzone sociale.
Carsicamente essa ricompare in manifestazioni sindacali, in spettacoli “storici” e in eventi rievocativi. I canti di quel tempo sono oggi genericamente definiti come “le canzoni del ’68” anche se quelle in quegli anni più note furono scritte fin dal 1960 (ad esempio“Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei) e molte altre furono prodotte anche neglianni ’801.

Quello che dimentica Bertelli, o forse semplicemente non vuole vedere, è che proprio intorno alla metà degli anni Settanta tra i movimenti antagonisti produttori di lotte e cultura e la stagione in cui il Partito Comunista e i sindacati avevano rappresentato comunque i cardini dell’esperienza politica di “sinistra” (in fin dei conti anche buona parte della sinistra cosiddetta extra-parlamentare si rifaceva a quei modelli e a quel tipo di impostazione organizzativa) era intervenuta una radicale frattura, che il movimento del ’77 avrebbe portato pienamente alla luce.

E’ chiaro che una tale frattura politico-culturale avrebbe finito col determinare, o forse ne era già determinata inconsapevolmente, anche un cambiamento del gusto e delle forme musicali attraverso cui la musica tradizionale avrebbe continuato ad essere riscoperta, riprodotte e, soprattutto, re-interpretata. Motivo per cui sono proprio le oltre trecento pagine dedicate al Nuovo Folk Revival degli anni ’70 e ’80 a costituire la parte più innovativa ed interessante del testo di Berselli.

Sono pagine ricche di testimonianze, ma anche di puntigliosi elenchi degli strumenti “riscoperti” ed utilizzati, delle danze riportate in auge, di riviste e festival destinati a sostenere il movimento; con un’attenzione particolare dedita anche a sottolineare come in tale contesto l’esperienza della musica straniera ( dalla riscoperta delle radici celtiche al folk rock fino a forme deraglianti di riproposizione in chiave “psichedelica” della musica di ispirazione folk messe in atto da gruppi quali l’Incredible String Band) avrebbe contribuito a rinnovare la tradizione. Così come, tra le altre cose, beat e rock avevano già contribuito a rinnovare la canzone e la musica popolare (nel senso di pop) italiana negli anni precedenti.

Valga invece da esempio per le storie contenute all’interno della ricerca la testimonianza di Franco Ghigini, etnomusicologo e musicista della Val Trompia.

“Nei primi anni Ottanta […] mi dedico con crescente interesse all’ascolto di musiche acustiche dai più o meno espliciti rimandi tradizionali: il folk revival anglo-celtico e francese; il bluegrass americano e la contemporary guitar music.
[…] decido di applicarmi allo studio della fisarmonica diatonica, strumento di cui apprezzo soprattutto l’adozione nel folk-revival francese. Introdotto alla pratica strumentale da Guido Minelli […] del gruppo Èl Bés Galilì e poi da Riccardo Tesi, mi perfeziono con Alain Floutard negli stages organizzati periodicamente a Cervasca dall’Accademia del Bordone di Sergio Berardo. Suono per il ballo folk – nel Bresciano s’è fatto un discreto giro di folkettari dediti al ballo – insieme ai sodali Angelo Arici e Giovanni Foresti, oggi animatori del gruppo Hòfoch & Hstòfech. Il repertorio comprende standard francesi e occitani, ma anche valzer, polche e monfrine tradizionali della Valle Trompia. La frequentazione di appassionati bergamaschi – fra essi, i musicisti del mai abbastanza valorizzato gruppo Magam – è all’origine del progetto Bandalpina, prefigurato proprio in Valle Trompia, a Bovegno, in occasione della prima edizione della rassegna ‘I Suoni delle Prealpi’. […] Partecipo alla Bandalpina per tre anni, vivendo un’intensa esperienza musicale e umana.
[…] Il coinvolgimento nel variegato mondo revivalistico m’induce parallelamente ad approfondire
la conoscenza delle musiche di tradizione orale.[…] mi laureo in etnomusicologia con Roberto Leydi. Contribuisco a nuove fonoregistrazioni della Famiglia Bregoli e studio i repertori strumentali tradizionali e le musiche cosiddette popolaresche documentando per anni nel Bresciano anziani fisarmonicisti e mandolinisti, orchestrine, bande e bandini. Tale ricerca, tuttora foriera di interessanti acquisizioni, mi permette di comprendere la ricchezza e l’ampia articolazione – dalle forme propriamente tradizionali sino alle musiche ready-made di dischi e radio – di una ‘memoria musicale’ popolare novecentesca modulatasi sui comportamenti conservativi ed evolutivi tipici dell’oralità.”2

Chiude la vasta esposizione e parata di esperienze sonore, sociali e personali, un’attenta ed inedita ricostruzione del movimento degli anni 2000: La Mazurka Klandestina e le nuove realtà giovanili del bal folk3.
Va poi ancora sottolineato come il testo sia accompagnato da un ricco apparato iconografico, un’esaustiva bibliografia su tutti gli argomenti trattati e, non ultimo, un apparato di indici utile a rintracciare tra le sue pagine autori, gruppi e storie folk, appunto. La USB card che accompagna il libro arricchisce poi ulteriormente l’opera, rendendola assolutamente indispensabile per chiunque si interessi o voglia interessarsi dell’argomento. Sia in particolare che in generale.

Quasi contemporaneamente all’uscita del libro è stato anche ristampato in cd, ad opera dell’Associazione culturale Barabàn (info@baraban.it – www.baraban.it), il disco, originariamente registrato a Brescia e pubblicato nell’aprile del 1980, del gruppo musicale Èl Bés Galilì. Il nome del gruppo richiama la tradizione leggendaria del serpente galletto che secondo la tradizione dell’area bresciana abiterebbe i boschi montani. Il nome scelto dal gruppo indica già di per sé la scelta di un canone musicale ed espressivo estremamente differente da quello cui si richiamava la testimonianza di Bertelli riportata più sopra.

Il gruppo, certamente uno dei migliori dell’epoca, formato da Bernardo Falconi (violino, ghironda, dulcimer, salterio ad arco, voce), Guido Minelli (organetto diatonico, plettri, tastiere, arpa celtica, percussioni, voce), Marisa Padella (voce, flauti diritti e traverso, tin whistle, percussioni) e Luisa Pennacchio (voce, bodhran, percussioni) è chiaramente ispirato, oltre che dalla riscoperta della tradizione delle valli bresciane, dalla musica celtica cui si è precedentemente accennato e dallo psych-folk di matrice anglo sassone. Come sottolineato dalle parole, riportate nel testo di Berselli, di uno dei membri del gruppo, Guido Minelli, che nel 1975 con Marisa Padella, Placida “Dina” Staro e Bernardo Falconi aveva già fondato il gruppo Il Paese delle Meraviglie.

“Dall’incontro nel 1975 con il giovane violinista Bernardo Falconi e con Placida Staro nacque il gruppo ‘Il Paese delle Meraviglie’ che sviluppò un repertorio ispirato inizialmente al folk revival britannico e irlandese (Incredible String Band, Steeleye Span tra i maggiori ispiratori) e anche alle danze del carnevale di Bagolino. Nel gruppo entrò ben presto anche Luisa Pennacchio alla voce, percussioni e whistle. Per un breve periodo si unì a noi alla chitarra anche Beppe Casciotta, purtroppo prematuramente scomparso. Nella famiglia di mia moglie, originaria di Vobarno in Valsabbia, il papà era violinista e la mamma e gli zii avevano un vasto repertorio di ballate popolari da cui traemmo ispirazione per impostare successivamente un repertorio basato su tale patrimonio italiano. Il gruppo cambiò così il nome in ‘Èl Bés Galilì’ e impostò il proprio repertorio sulla tradizione del Nord Italia, utilizzando però lo stile e gli strumenti tipici del folk revival anglosassone. Nel 1978 iniziammo le registrazioni del nostro disco eponimo, che uscì nel 1980.[…] Alle registrazioni partecipò anche Giovanni Padella al violino, papà di Marisa, con cui facemmo alcuni concerti in Italia e in Francia. Per un certo periodo, dal 1979 al 1981, si unì al gruppo anche Giuliano Illiani, maggiormente noto col nome d’arte Donatello, conosciuto a Brescia durante le registrazioni di un suo disco. Con Giuliano avviammo una collaborazione in quanto anche lui aveva
fatto delle ricerche sul campo simili alle nostre, ma sulla musica tradizionale piemontese, in particolare quella di Tortona. Il gruppo Èl Bés Galilì si sciolse nel 1982”4.

Accompagna il cd un libretto ricco di informazioni, sia sull’esperienza musicale del gruppo che sulla storia e la tradizione dei brani interpretati. Aspetto quest’ultimo che rende ancora più piacevole l’ascolto, contribuendo a inquadrare il suono in un contesto antico e allo stesso tempo ancora estremamente attuale per chiunque non voglia accontentarsi dell’omogeneizzazione dominante e della banale offerta musicale contemporanea.


  1. G. Bertelli, Il canto sociale tra ricerca e nuove canzoni in M. Berselli, Storie Folk, p.26  

  2. in M. Berselli, op. cit. pp. 189-191  

  3. Op. cit, pp. 337-370  

  4. in op. cit., p. 187  

]]>
Una storia di musicisti e suonatori dimenticati https://www.carmillaonline.com/2017/10/25/storia-musicisti-suonatori-dimenticati/ Wed, 25 Oct 2017 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41122 di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo. Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00

Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo.
Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business musicale e del mainstream pop giovanile. Che di popolare, specie qui in Italia, hanno poco e molto di più, invece, rivestono i caratteri della programmazione mediatica richiesta dall’industria musicale.

Un testo, quello di Franco Ghigini, che ha richiesto circa vent’anni di lavoro di indagini, interviste e consultazione di archivi, e che si propone come modello di ricerca sia per quanto riguarda la musica tradizionale vera e propria, sia per quanto riguarda la “popular music” nella sua più ampia accezione. In un contesto sociale e culturale, quello italiano, che se da un lato ha visto un grande sviluppo degli studi sulle musiche e le tradizioni popolari tra gli anni cinquanta e settanta, sulla base dei lavori di Ernesto De Martino, Gianni Bosio, Roberto Leydi (tutti variamente influenzati da Alan Lomax, forse il più importante etnomusicologo statunitense insieme al padre John, durante il periodo di assenza dello stesso dagli Stati Uniti a causa della caccia alle streghe del senatore McCarthy), vede oggi una minore attenzione della ricerca (e soprattutto del mercato culturale e librario) nei confronti di tale settore.

Eppure attraverso questo tipo di ricerche la grande Storia (le trasformazioni socio-economiche e culturali avvenute nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, il dramma della Prima Guerra Mondiale, l’avvento del fascismo, la Resistenza e la caduta del regime, i primi anni della Repubblica con tutte le loro contraddizioni politiche e sociali) incrocia realmente la storia individuale, delle piccole comunità e delle classi sociali meno ricordate dalla storiografia ufficiale. E tale incrocio di grande e di “piccolo”, anche se tale il secondo non è, restituisce al lettore non soltanto un curioso quadretto sociale ma, piuttosto, il quadro reale di come tali eventi sono stati assorbiti o rigettati, riletti e trasformati oppure passivamente accettati da una parte consistente della Nazione. Di solito quella inizialmente più rimossa dalle memorie storiche.

Perché un ricerca come quella di cui si parla non ridona solo la voce ai gruppi corali, famigliari e non, oppure musicali, ricordandocene i suoni, gli strumenti e i brani “più celebri” (almeno in loco).
Una ricerca del genere, anche soltanto per questo motivo indubbiamente degna di attenzione, ridona la voce a classi sociali e individui, marginali e non, che spesso soltanto attraverso la spontanea creazione musicale sono riusciti o tuttora ancora riescono a dare voce ai propri sentimenti e alle proprie opinioni.

Dalla fine dell’Ottocento, in sintonia col rinnovarsi d’istanze politiche e culturali, si moltiplicarono ovunque bande, fanfare, orchestre mandolinistiche e società filarmoniche. Esse promuovevano peculiari repertori e nuove consuetudini esecutive: un’espressività popolare “moderna”, diversa da quella propriamente etnica o tradizionale, che durante il Novecento sino al secondo dopoguerra evolverà assumendo susseguenti connotazioni stilistiche.

Nello specifico il volume, promosso dall’Associazione Valtrompiacuore ed edito dalla Comunità Montana di Valle Trompia, illustra le molteplici esperienze musicali di ambito popolare nella prima metà del Novecento a Gardone V.T. e in Valle Trompia, opportunamente contestualizzate a livello provinciale e nazionale.

L’opera, accompagnata da un ricchissimo apparato iconografico, ripercorrendo le tradizioni musicali della Val Trompia, dalla fine dell’Ottocento fino agli albori della musica giovanile o beat degli anni ’60, traccia quindi un quadro interessante, variegato e spesso per nulla scontato delle trasformazioni avvenute in un contesto in cui i grandi cambiamenti del ‘900 si sono sommati alla trasformazione di una comunità inizialmente agricolo-montanara, basata sostanzialmente su un’economia di sussistenza, in cui un precoce sviluppo dell’industria metallurgica e dell’economia monetaria aveva rapidamente portato ad una società in cui il lavoro industriale era diventato predominante. Si potrebbe dire dal coro famigliare alla banda e all’orchestrina, anche se ancora in anni recenti tutte e tre queste tradizionali aggregazioni musicali non erano ancora da considerarsi del tutto scomparse.

Data la particolarità dell’opera si ritenuto giusto dare voce all’autore della stessa, attraverso l’intervista che si propone qui di seguito. In calce alla stessa, e per i lettori interessati, seguono le modalità per poterne acquisire una o più copie.

1) Qual è il senso della ricerca etnomusicologica oggi?
Preferisco parlare di funzione piuttosto che di senso. Ritengo che oggi la funzione sia la medesima del passato, ovvero documentare – evidenziandone specificità e correlazioni – le manifestazioni musicali (i repertori, i contesti esecutivi, le modalità conservative ed evolutive, le valenze antropologiche) di un’area geografica, una comunità, un aggruppamento etnico o sociale. La nobile vocazione di generazioni di etnomusicologi – tuttora valida e meritoria – a valorizzare musiche di tradizione spesso marginalizzate, misconosciute e affatto diverse da quelle cosiddette “colte” e “di consumo”, s’offre oggi anche a una nuova declinazione. È quella della popular music, disciplina che mutatis mutandis s’applica con medesimi obiettivi alle innumerevoli forme della fruizione musicale contemporanea, laddove però viene a cadere la netta separazione fra musiche “di consumo” e “altre”. Risulta invece assai interessante studiare quanto e come la musica – non importa se nel villaggio globale o in un ristretto contesto locale – influenzi i comportamenti sociali e da essi sia informata, quali istanze trattenga e quali compiti assolva. Ritengo perciò che – oggi come ieri – l’etnomusicologia ed egualmente la popular music siano una preziosa opportunità conoscitiva per superare grossolane generalizzazioni e intendere l’espressività musicale, oltre che nelle peculiarità formali ed estetiche, come condizione variegata e mutevole che si relaziona fortemente a ragioni culturali e sociali.

2) Quanto tempo hai dedicato alla tua ricerca e quanto tempo hai impiegato per darle l’attuale veste definitiva?
La ricerca presentata nel volume – in precedenza e parallelamente ne ho condotte altre più mirate e assai meno impegnative – è iniziata nel 1995 e ha avuto nel 1996 un primo riscontro nella mia tesi di laurea in Etnomusicologia presso il D.A.M.S. di Bologna. Negli anni successivi ho proseguito, in modo discontinuo, la raccolta di documenti. Dal 2012 ho ripreso la ricerca con nuove interviste biografiche a testimoni, l’acquisizione di ulteriori fondi fotografici familiari e più approfondite indagini in emeroteca e archivi, concludendola durante i mesi di stesura del volume. Mi piace ricordare come non mi sia mai mancato in questi ultimi anni il sostegno filantropico dell’Associazione Valtrompiacuore, anche promotrice del volume. La ricerca e il volume “Quando suonavano strade e piazze” sono stati perciò il mio cimento e il mio rovello per oltre un ventennio: lunghi periodi a tempo pieno e altri in cui vi riservavo sere e fine settimana; in mezzo, alcune pause per svolgere altre ricerche. Segnalo che oggi l’intero repertorio documentario da me raccolto è consultabile presso l’archivio multimediale S.I.B.C.A. della Comunità Montana di Valle Trompia, editore del volume, e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale A.E.S.S. della Regione Lombardia, ente cofinanziatore il volume.

3) Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano nel realizzare una ricerca di questo genere?
Stiamo parlando di una materia specialistica, quindi non è facile far comprendere il valore e la professionalità del tuo impegno; il riconoscimento, in primis quello economico, è perciò da scordare. Vi sono poi le difficoltà – intendo i tempi e contrattempi – di un approccio inevitabilmente laborioso poiché applicato a differenti fonti documentarie: archivistica, bibliografica, materiale, storico-iconografica e, con ruolo tutt’altro che secondario, orale. Sono convinto che la ricerca etnografica debba configurarsi in servizio alla comunità e negli anni ho sperimentato una metodologia che chiamo partecipata. Essa si qualifica concretamente a più livelli: creazione di rapporti consapevoli coi testimoni titolari delle interviste biografiche, in corso d’opera coinvolti in una vera e propria équipe impegnata attivamente nella ricerca; illustrazione della ricerca in un report che, dettagliando nominativi, incontri e contenuti, sia documento dirimente a futura memoria; restituzione comunitaria che si formalizzi, oltre che in un volume, una mostra o un docufilm, in un archivio multimediale (videoregistrazioni di interviste, scansioni digitali di fotografie) ordinato, catalogato e pubblicamente consultabile. Ho perfezionato così una buona prassi che oggi condivido formando gruppi di storia locale: come si conduce un’intervista biografica, si ordinano e catalogano le fotografie storiche, si produce un archivio. Operare secondo questi criteri comporta sicuramente maggiore dedizione e tempi più lunghi.

4) Da cosa ha avuto origine la tua passione per la musica popolare?
Inizialmente – lo accenno nella prefazione – c’è stata una fascinazione quasi romantica: il guardare le montagne e la valle in cui vivo ed emozionarmi nell’immaginarne il passato, un mondo preindustriale animato da cantori e suonatori di musiche poi dimenticate. C’è stato pure – lo confesso – il piacere di vivere un’avventura quasi elettiva: il paradosso, infatti, è che la musica popolare o di tradizione, il cosiddetto folk, oggi risulta minoritaria e che il folk-revival, se escludiamo felici esperienze d’interazione virtuosa con permanenze propriamente tradizionali, è di fatto pratica di nicchia. Niente a che fare quindi, all’inizio della mia storia, con un’attitudine vorrei dire gramsciana. Un provvidenziale indirizzo è stata la ricerca promossa dalla Regione Lombardia nei primi anni Settanta – presentata nel volume “Brescia e il suo territorio” e in alcuni dischi Albatros – che ha documentato repertori tradizionali del Bresciano quali i canti e le musiche della Famiglia Bregoli di Pezzaze e il Carnevale di Bagolino. Dopo sono arrivati il rigore metodologico e le riflessioni sul ruolo del ricercatore.

5) Qual è stata la tua formazione e quale il percorso che ti ha condotto a diventare etnografo ed etnomusicologo? Quali sono i tuoi maestri ideali?
L’interesse per le musiche di tradizione, coltivato ascoltando dischi, leggendo libri e riviste nonché svolgendo le prime registrazioni sul campo, è cresciuto e ho sentito indispensabile darmi una più solida preparazione teorica. Allora, negli anni Ottanta e Novanta, il D.A.M.S. di Bologna era l’approdo più autorevole. Per me sono state quindi fondamentali le lezioni in università di Roberto Leydi che considero il mio maestro decisivo. Le ho seguite per tre anni: lavorando, scendevo a Bologna per gli esami e appositamente per le lezioni sue e di pochi altri. Ricordo con grande piacere anche quelle del filologo e medievalista Piero Camporesi, un intellettuale straordinario oggi considerato meno di quanto meriti, e quelle di Gianni Celati. Da Leydi ho appreso come l’attenzione metodologica non debba disgiungersi dallo stupore nella scoperta e dalla generosa apertura all’incontro umano. Non posso non citare pure i testi di Ernesto De Martino, illuminanti per comprendere quanta e quale forza interpretativa del mondo stia nei saperi popolari.

6) Tu hai “praticato” la musica popolare, sia come musicista che come organizzatore di eventi e festival. Vuoi parlare di questa tua esperienza?
Nel 1984 ho deciso che mi sarei dedicato alla musica studiandola e suonandola, organizzando concerti, scrivendo di essa. Ho così interrotto, poco prima della laurea, gli studi in medicina e mi sono buttato nello studio della fisarmonica diatonica. Dal 1990 sono stato per alcuni anni docente di questo strumento in Svizzera, presso la scuola di Musica Popolare ACP Valle Verzasca. Per tre anni ho pure partecipato con entusiasmo – suonando un po’ in tutta Europa – al gruppo Bandalpina, tuttora in attività. Negli anni Novanta ho scelto uno studio ritirato, applicandomi alla composizione; alcune mie musiche sono state utilizzate in film, documentari e produzioni teatrali. Nel 2001 ho smesso di suonare poiché non ne ero più motivato. Avevo già chiuso, nel 1997, anche con l’organizzare concerti. In proposito ricordo con soddisfazione il successo delle tre edizioni del festival “Suoni nella Valle”, fra le prime vetrine per l’allora nuova generazione del folk-revival italiano (La Ciapa Rusa, Cantovivo, Baraban, Calicanto, Re Niliu, Riccardo Tesi, ecc.), e delle dieci edizioni della rassegna internazionale “I legni, le pietre… i suoni”, in cui s’è sperimentato un suggestivo cortocircuito fra tradizione, proposte revivalistiche e nuove musiche. Un’intensa attività, quella dell’organizzare concerti, che ho svolto operando nella Cooperativa A.R.C.A. di Gardone V.T.

7) Hai anche sviluppato un grande amore per la musica folk anglosassone, al di qua e al di là dell’Oceano. C’è un collegamento tra i tuoi ascolti musicali e l’impegno propriamente etnomusicologico?
Continuo tuttora ad acquistare dischi e ascoltare molta e varia musica. Del resto mi sono formato come ascoltatore negli anni Settanta. Allora l’unica distinzione, per me e tanti coetanei, era fra musica “leggera” e musica “alternativa”. Nella nostra colonna sonora generazionale convivevano il british blues e il southern rock, la perfetta canzone beatlesiana e le dilatazioni lisergiche californiane, la “cassa in quattro” dell’hard rock e le poliritmie del progressive, i timbri acustici del folk e l’elettronica del kraut-rock tedesco, la canzone d’autore italiana e il jazz. Ho però riservato, ritengo per indole, l’ascolto più attento alle musiche acustiche e al folk-revival anglo-celtico e francese: anche da lì parte l’interesse per l’etnomusicologia.

8) Condividiamo una grande passione per la musica rock nelle sue infinite varianti, ma il tuo libro si ferma nel momento in cui anche nelle valli del Nord Italia iniziano a formarsi i primi gruppi beat. È un’altra storia oppure è la musica popolare che, soprattutto, negli anni Sessanta assume un’altra forma e dimensione?
Non dobbiamo dimenticare che le musiche di tradizione e, in modo più evidente, quelle più genericamente di diffusione popolare dicono di un’espressività che è insieme conservativa ed evolutiva. È tipica dell’elaborazione in ambito popolare una continua rielaborazione che sedimenta e si formalizza in stilemi e repertori, ma che sa accogliere nuove sollecitazioni e aprirsi addirittura a radicali cambiamenti. Sono state due le rivoluzioni musicali nel Novecento, in evidente concomitanza con importanti accelerazioni economiche e sociali. La prima, che analizzo nel volume, s’impone all’inizio del secolo e si rinnova per alcuni decenni in una sorta di onda lunga: è caratterizzata dalla diffusione di nuovi repertori sovralocali e nuove forme di apprendimento – alla trasmissione orale s’aggiunge o sostituisce la notazione musicale – attraverso bande, circoli mandolinistici, corali, accademie filarmoniche. Con questa musica “moderna” cosiddetta popolaresca – a spartito – il suonatore afferma una propria emancipazione culturale e sociale. La seconda rivoluzione, negli anni Sessanta, è quella del beat. Si tratta di una vera cesura: un nuovo linguaggio, nuovi strumenti, una lingua misteriosa – l’incomprensibile inglese cantato dai giovani per imitazione fonetica – e l’apprendimento a orecchio, da radio e dischi, nelle cantine. Anche in questa seconda rivoluzione la musica è perentoria dichiarazione identitaria e generazionale.

9) Ritieni che i dischi e, più in genere, la musica registrata industrialmente abbiano valore documentario anche per l’evoluzione della musica popolare oppure tendano piuttosto a castrare l’originaria creatività dal “basso” che questa esprimeva?
Trovo che la distinzione fra musica popolare e musica “di consumo” vada intesa in modo non riduttivo e dogmatico. Certo, la musica popolare ha usufruito – soprattutto in passato – di precipue modalità espressive, comunicative e conservative. Esiste e presumo sempre esisterà un fare musica che si sottrae alle leggi delle mercato o quanto meno mantiene una distanza critica. Penso peraltro che la separazione sia infine fittizia. Pur considerando l’innegabile impronta orientativa e coercitiva dell’industria musicale, ritengo che a dare forza a un’esperienza – disco o non disco – siano la consapevolezza degl’interpreti e una creatività che si traduca in percepibile e condivisibile visione del mondo.

10) Nel documentare il rapporto con la “grande” Storia, quella delle bande, dei circoli mandolinistici e delle orchestrine ha più significato se analizzata dal punto di vista delle storie personali, dei testi o della scelta degli stili e dei generi musicali seguiti?
Sono convinto – dico peraltro un’ovvietà – che la più provveduta e interessante indagine sulla “grande” Storia debba affidarsi alla dettagliata documentazione di come essa si sia estrinsecata a livello locale. Nelle innumerevoli connessioni comunitarie fra realtà istituzionali e composito ordito sociale, nelle vicende minime di gruppi e d’individui, proprio lì possiamo intendere pienamente le ragioni e le implicazioni di fenomeni sovralocali e nazionali. Nella modalità di diffusione capillare dei repertori, negl’incontri conviviali, nelle osterie e nei teatri di paese, proprio lì ci è dato comprendere il senso dei grandi cambiamenti musicali novecenteschi. Il volume ha una duplice valenza che spero venga considerata: di comunità, offrendo una lettura dell’evoluzione sociale e culturale precisamente gardonese e della Valle Trompia; più generale, poiché racconta di vicende ovunque simili. V’è inoltre la presunzione che questo volume possa offrirsi come plausibile paradigma di un’efficace divulgazione etnografica.

11) Ti occuperai ancora di ricerca sul campo sia in chiave etnomusicale che etnologica?
Con questo volume ho dato compimento a un percorso che ho voluto fosse esemplare di ciò che intendo per ricerca etnografica, nello specifico anche etnomusicologica. Ora sto terminando la curatela di un altro volume, poi penso mi fermerò qualche tempo per capire dove ancora andare. Saranno importanti i nuovi incontri che spero d’avere. Confesso che m’affascina l’idea di raccontare, usando le medesime chiavi d’accesso di “Quando suonavano strade e piazze”, ovvero la dettagliata documentazione locale congiunta all’ampia contestualizzazione sovralocale e nazionale, la rivoluzione giovanile del beat negli anni Sessanta. Ho già raccolto un po’ di documentazione e potrebbe essere un viaggio emozionante come quello di “Quando suonavano strade e piazze”.

Reperibilità del volume
Franco Ghigini
Quando suonavano strade e piazze. Bande, orchestrine e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento
Edizioni Comunità Montana di Valle Trompia, 2017
15,00 Euro

Il volume è reperibile presso i seguenti recapiti
(anche per spedizione postale: 15,00 Euro + spese di spedizione).

Comunità Montana di Valle Trompia
Via Matteotti, 327
25063 Gardone V.T. (BS)
Info e contatti
Tel. 030 8337409 (Ufficio Amministrativo)
Dal lunedì al venerdi, dalle ore 9.00 alle 12.30
Mail: cristinafausti@cm.valletrompia.it – info@cm.valletrompia.it

Nuova Libreria Rinascita
(vendita esclusiva per Brescia)
Via della Posta, 7
25122 Brescia
Info e contatti
Tel. 030 3755394
Mail: libri@cooperativaarticolouno.it

Il volume è nel catalogo on-line IBS Internet Bookshop Italia
https://www.ibs.it

Info e contatti con l’autore
ghigini.franco@gmail.com

]]>
La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / seconda parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/29/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-seconda-parte/ Mon, 28 Aug 2017 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40067 di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa Balistreri, Gualtiero Bertelli, la mondina Giovanna Daffini e suo marito Vittorio Carpi (suonatore ambulante di violino), reggiani di Santa Vittoria di Gualtieri, Caterina Bueno, Ciccio Busacca, Sandra e Mimmo Boninelli1 , gli ex Cantacronache2 Fausto Amodei-Michele Luciano Straniero-Emilio Jona-Sergio Liberovici-‘Margot’, Alberto D’amico, Giorgio Gaslini, Sandra Mantovani ; mentre nella fase iniziale d’attività anche Dario Fò ed Enzo Jannacci sono stati canzonieri militanti e gruppi musicali (Canzoniere del Lazio, Nuovo Canzoniere Bresciano, Canzoniere Popolare Veneto, Gruppo Padano di Piadena, Canzoniere Pisano, I Giorni Cantati di Calvatone e Piadena, Canzoniere di Rimini, Canzoniere Popolare di Bergamo, Canzoniere Popolare della Brianza, Canzoniere Popolare Romano, Canzoniere Popolare Modenese) hanno raccontato, affiancato, sostenuto, con ballate, lettere musicali, racconti orali, canzoni, rappresentazioni teatrali, la vita, le lotte, le storie della classi subalterne. Anche Franco Fortini e Umberto Eco sono stati ispiratori pratici di questo progetto. Oltre ai protagonisti, anche alcune delle loro realizzazioni-rappresentazioni hanno inciso sul tessuto socio culturale di quest’Italia. Si sono già ricordati gli allestimenti di ‘Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane’ e ‘L’altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova’. Altrettanto importanti sono stati ‘Pietà le morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964 ‘, ‘Ci ragiono e canto’ (Rappresentazione popolare in due tempi su materiale originale curata da Cesare Bermani e Franco Coggiola) e’La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche’ (Rappresentazione teatrale in due tempi su materiale raccolto da Cesare Bermani, Gianni Bosio, Franco Coggiola con allestimento, testo e interpretazione del Collettivo Teatrale di Parma). Infine, ‘Il bosco degli alberi. La storia d’Italia dall’ Unità a oggi attraverso il giudizio delle classi popolari’ (Rappresentazione in due tempi a cura di Gianni Bosio e Franco Coggiola).

Già sul finire degli anni cinquanta (1957) Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese, pensavano di costituire una struttura stabile e polifunzionale dove far convergere, organizzare, raccogliere e conservare tutto il diverso materiale (libri, riviste, pubblicazioni sparse, dischi, manifesti, spettacoli teatrali-musicali, fotografie e filmati) frutto del lavoro già compiuto e di quello futuro ancora da svolgere. Il “Centro di documentazione e studio delle arti e tradizioni popolari” è stato (anche se solo in bozza) il precursore ed anticipatore dell’ Istituto Ernesto de Martino.

Bosio e Cirese costituiscono ‘legalmente’ l’Istituto il primo gennaio 1966, convenendo di affidare la direzione a Roberto Leydi.3 Divergenze di opinioni e metodologie distinte portano al distacco di Leydi dai due promotori del progetto e rallentano l’inizio delle attività dell’Istituo, che slitta al primo luglio dello stesso anno. Nel 1965 era morto Ernesto de Martino 4 antropologo,5 etnologo,6 storico delle religioni, studioso, professore universitario, uomo di cultura nel senso più ampio del termine. Tra lui e Cesare Pavese intercorre un corposo carteggio relativo a come impostare e gestire la mitica Collana Viola dell’ editore Einaudi (poi passata a Bollati Boringhieri) “collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici7 . La ‘viola’, riuscì a far appassionare lettori ed esperti, veicolando nel paese scienze fino ad allora semi-sconosciute: etnologia e storia delle religioni, conferendo tagli ed impostazioni disciplinari particolari: psicologia religiosa e studio dei dislivelli culturali.

Ma de Martino è stato anche un militante politico che affrontava rilevanti questioni teoriche e ne discuteva con, ad esempio, Pietro Secchia8 , il ‘rivoluzionario eretico’ che dialogava con molti, nonostante gli sciocchi appellativi con cui veniva etichettato: l’ uomo che sognava la lotta armata, l’ultimo stalinista, l’amico di Giangiacomo Feltrinelli (sottinteso in odore di guerriglia).

Gli uomini, le donne, i collettivi citati non sono tutti i protagonisti di questo viaggio culturale-umano-storico-musicale-teatrale-letterario e politico. Ci sono stati abbandoni, distacchi e, in alcuni casi, ritorni. Alcuni hanno compiuto solo un breve tratto di strada comune, altri un tragitto più lungo, i più convinti il percorso completo. Così come non è stato ‘ricostruito’, in maniera totale, tutto il ‘movimento’ che, partito dalle intuizioni-elaborazioni-realizzazioni di Gianni Bosio si è organizzato attorno a lui. Si è voluto, però, offrire un panorama il più rappresentativo possibile.
Oggi, l’Istituto, è un insieme di “…gruppi collegati: dalla Lega di Cultura di Piadena, al Circolo Gianni Bosio di Roma, alla Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino di Venezia, ad altre nate negli ultimi anni come gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo o la recentissima L’altra Cultura di Orta San Giulio9
Di seguito, per completezza parziale, alcuni esempi di ‘eredi’ non diretti, esperienze cioè che, con il lavoro dell’innovatore culturale mantovano, hanno tratti comuni. Ad esso, sostanzialmente, si richiamano o ispirano. Oppure compiono una traiettoria simile.

Eredi ‘paralleli’

Nel dicembre 1963 nasce a Reggio Emilia con un primo numero ciclostilato ‘Il Cantastorie. Rivista di tradizioni popolari’, come continuazione di un saggio monografico di Giorgio Vezzani, fondatore e attuale direttore, dedicato ai cantastorie allora numerosi e presenti sul territorio emiliano. Con l’anno successivo la rivista viene stampata in tipografia e continua fino ad oggi con periodicità semestrale.10

Dopo il 2000 si sono formate, oltre alla direzione centrale di Reggio Emilia, altre due redazioni a Milano e a Roma. Il 2013 segna la chiusura definitiva della storica Rivista per decisione del suo fondatore che continua la sua attività di ricerca. I cinquantanni di attività sono certificati con un convegno. “I cinquant’anni della rivista ‘Il Cantastorie’ (1963-2012)” i cui atti e relazioni sono stati raccolti e pubblicati nel 2012, come quaderno n. 13, da “Il Giorno di Giovanna”.
Ed inizia la pubblicazione di ‘Foglio Volante’ nuovo strumento ‘elettronico’ informativo della rivista di tradizioni popolari “Il Cantastorie on line”11 che continua tutt’oggi. Ultimo numero diffuso è il 13 dell’aprile 2017.

A Montecchio Emilia, paese reggiano al confine con la provincia Parmense, Bruno Grulli stampa, nel maggio1979, il numero 1 di “La Piva dal carner. Foglio volutamente rudimentale di cultura popolare, ricerca, comunicazione e dintorni a 361°”. La prima serie prosegue fino al n. 74 dell’ottobre 2012 che pubblica la ricerca sulle 18 pive emiliane superstiti e che di fatto avviava il nuovo corso della PdC. Nell’aprile del 2013 viene pubblicato il primo numero della nuova serie e viene leggermente modificato il sottotitolo: ‘Foglio rudimentale di comunicazione a 361°’. In questo n. 1 si segnala un saggio di Gianpaolo Borghi: “Due recenti studi sui cori delle mondine”. Nel n. 7 (ottobre 2014) Franco Piccinini, in ‘Non solo folk’, racconta la storia di Ferruccio Reggiani, migrante per reato di antifascismo, e del suo salone da parrucchiere in rue Faubourg St. Denis a Parigi: “Un covo di antifascisti, boxeurs, magnaccia e prostitute”.
Sul n. 8 del gennaio 2015, un contributo di Stefania Colafranceschi racconta di “Sant’ Antuone, Sant’ Antuone, lu nemiche de lu demonie”. “La copertina è dedicata a Sant’Antonio Abate, santo col quale la PdC intrattiene uno speciale rapporto nella ricorrenza del 17 gennaio consumando il “tradizionale” ZAMPETTO che quest’anno raggiunge la 30^ seduta. Lo zampetto è connesso con la pratica della macellazione del suino che culmina in questo periodo secondo l’ operatività di una cultura materiale antichissima. «Tradizionale» è una parola della quale andrebbe chiarito il significato. Gli attribuiamo semplicemente il valore «…che avviene calendarialmente e regolarmente da tanto tempo…». Oggi però si inseriscono nel tradizionale anche cose di recente origine, prive di un reale retroterra e fissate da esigenze commerciali o ludiche e pertanto ci chiediamo quale veramente sia la portata di quella parola. Optiamo dunque per una distinzione tra ciò che deriva dalla «cultura popolare operativa» e ciò che è «qualcosa d’ altro». Le feste patronali, i balli antichi, la fiaba, ecc. a quale categoria appartengono?” E’ quanto chiariscono in presentazione d’opuscolo, GianPaolo Borghi e il direttore di testata Bruno Grulli. Il n. 9 (aprile 2015) titola: “Cantar bisogna. Canto sociale e canzoni partigiane a Reggio Emilia”. Sull’ultimo numero, luglio 2017, Riccardo Varini ricorda cosa si fa “Nelle ultime osterie del medio Appennino Reggiano”.

Nel 1984, Saverio Tutino, giornalista, ex inviato de ‘L’Unità’ e di altra stampa comunista, ha l’idea di fondare a Pieve Santo Stefano (Ar) un luogo in cui accogliere le scritture autobiografiche degli italiani, per concedere il diritto di parola ai ‘senzastoria’. Lo chiama Fondazione Archivio Diaristico Nazionale12 ed istituisce il Premio letterario ‘Pieve’. “Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future. Naturalmente cerchiamo documenti autentici, non rielaborati né corretti da altri”.13 Il premio si svolge dal 1986, ed è giunto alla 33° edizione. Dall’edizione 2012 è diventato Premio Pieve Saverio Tutino-Diritto di memoria, in omaggio al suo fondatore, scomparso nel novembre 2011. L’autore vincitore, viene premiato ogni anno con la pubblicazione del ‘diario’ prescelto. L’efficace motto che accompagna il ‘Premio’ è: ‘sostieni la causa della memoria’.

La ricerca folklorica, contributi allo studio della cultura delle classi popolari’, è la rivista trimestrale che La Grafo Edizioni di Brescia, con direttore responsabile Glauco Sanga, inizia a pubblicare dall’aprile 1980. Il n.1, dedicato a ‘La cultura popolare’, contiene contributi dello stesso Sanga, ‘Due note sulla cultura contadina’, di Diego Carpitella, ‘Comunicazione e mentalità orale’ e Bruno Pianta, ‘Ricerca sul campo e riflessioni sul metodo’. Collaborano a questo primo numero anche, ma non solo, Umberto Cerroni, Alberto Mario Cirese, Roberto Leydi. Il n° 70 (2015) è l’ ultimo numero rintracciato. Dal numero 41 (aprile 2000) ha modificato denominazione, grafica e ‘testata’: non più il precedente titolo per esteso, bensì le iniziali ‘pronunciate’ di R(icerca) e F(olklorica). Ed è diventata ‘ErreEffe’.

A Motteggiana (Mn) dal 1994 si svolgono gli incontri denominati “Il Giorno di Giovanna”, dedicati alla mondina-cantastorie mantovana Giovanna Daffini. Nata, il 22 aprile 1914, esattamente a Villa Saviola frazione di Motteggiana, anche se, dal 1936, dopo essersi sposata con il violinista di strada Vittorio Carpi, si stabilisce a Gualtieri (Re) dove muore il 7 luglio 1969. Contemporaneamente agli incontri, vengono consegnati i premi ai vincitori del ‘Concorso nazionale Giovanna Daffini per testi inediti da cantastorie’. I premiati andrebbero ricodati tutti, purtroppo per esigenze di spazio, e notorietà, citiamo i ‘conosciuti’: Franco Trincale, nel 1997 con ‘La Resistenza’, Sandra Boninelli, nel 2004 per ‘Con te’ e nel 2011 con ‘O rondinella se passi di qua’. Nel 2016 lo speciale premio della giuria è stato conferito a Mehta Jagjit Rai (amico-collaboratore della Lega di Cultura di Piadena) per “melismi di altre terre che narrano il dramma degli emigranti” . Il 4 giugno 2017, durante il 23° Concorso Nazionale sono stati attribuiti questi riconoscimenti. Premio speciale fuori concorso a ‘Lega di Cultura di Piadena’ “nel 50° della sua fondazione”; a ‘I Giorni Cantati’ il “premio continuità e tradizione”. Ancora a Meha Jagjit Rai il 1° premio per “Nessuni mi ha detto spegni la luna’ “tra memoria e ironia”.

Dal 2001, il Comune di Motteggiana-Archivio Nazionale “Giovanna Daffini”, in occasione de “Il Giorno di Giovanna”, diffonde un quaderno monografico con, oltre al programma della giornata, nomi dei vincitori e loro composizioni e contributi e notizie varie sul mondo dei cantastorie e degli ‘ambulanti’ delle note.
Dei ‘quaderni’, giunti al 17 numero (tutti preziosi e dal n. 7, del 2007, con allegato Cd contenente l’esecuzione, da parte degli autori stessi, dei brani vincitori) si segnalano il n. 14 del 2014: “Giovanna Daffini: celebrando il centenario della sua nascita nel ventennale del suo giorno” e il ‘fuori collana’, “Giovanna Daffini. L’amata Genitrice. Le canzoni di Giovanna Daffini dall’archivio di Roberto Leydi (1963-1965)” con Cd allegato. Ristampa della precedente edizione storica registrata da “I Dischi del Mulo”.

L’ultimo richiamo, forse atipico, è riservato ad un gruppo musicale di ‘combat-rock’, i Gang dei fratelli Severini14. Amici e collaboratori di Alessandro Portelli ed Ambrogio Sparagna si rifanno a “Quella scuola cha ha radici nei lavori di De Martino, di Carpitella, di Alan Lomax, di Gianni Bosio fino appunto a ‘I Giorni Cantati’ (la rivista, nda). Portelli è stato e resta il guru dei Gang, una guida spirituale e scientifica”. 15
Del resto “sono solo dei vecchi Comunisti”.

Io e Bosio

Saranno circa vent’anni, forse meno/e proprio a casa mia/c’era il Gianni Bosio/che io chiamavo Giuan/gli occhiali sul naso/gli scivolavano via/fumava e chiaccherava/il Bosio, il mio Giuan/E io per fare il grande/restavo lì a guardare/e mi rompevo le palle/di tutto quel gran parlare/tra il Gianni e mio fratello/e gli altri che erano lì/ma quello che loro dicevano/non potevo capire”.
Così, nella primavera del ’72 (non ancora diciottenne) ad un anno dalla sua morte, ho conosciuto Gianni Bosio. Attraverso quelle ballate che Ivan Della Mea aveva raccolto e inciso nel disco “Se qualcuno ti fa morto”. Dopo averlo ascoltato, e riascoltato, mi sono detto: “non ho capito nulla”. Della Mea era, per me, colui che aveva scritto e cantato “Cara moglie” e proprio non riuscivo a capire quel suo poetare e mischiare Giuan con i socialisti, i Maggi di Costabona e Che Guevara. Ma è stato proprio da lì, dalla prima volta che ho sentito parlare di quell’ animale strano che ho imparato a conoscerlo.

Gianni Bosio, me l’hanno insegnato : Ivan, attraverso le sue canzoni e scritti, Cesare Bermani, il curatore privilegiato della pubblicazione dei suoi scritti postumi, gli animatori della Lega di Cultura di Piadena, con cui collabora strettamente. Per un’altra realtà di base piadanese, il Gruppo Padano, cura la pubblicazione in vinile di “I Giorni Cantati”. Un disco in cui sono raccolte canzoni e comportamenti delle genti che abitano quella porzione di terra racchiusa fra due fiumi, il Chiese e l’Oglio, “paesi come Calvatone, Piadena, Voltido, San Paolo, Canneto, Vho, Bizzolano, Acquanegra con tante osterie, differenti situazioni di lavoro e uomini incerti tra l’antica fatica dei campi e la pressione che viene dai nuovi insediamenti industriali”.

E’ ancora Ivan Della Mea che, pochi mesi dopo (maggio 1972) aver cantato “Se qualcuno ti fa morto”, riprende e prosegue, per me, il dialogo ‘a distanza’ con Gianni. Con lui ripercorre idealmente gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra, quelli della ricostruzione, i bei tempi di buriana (bufera) che contraddistinsero il ’48, gli anni del Fronte Popolare, dell’illusione della sinistra (PCI-PSI) al potere e dell’effige di Giuseppe Garibaldi che, soprattutto nella Padania lombarda ed emiliana, campeggiava ovunque: edifici di città, baite di montagna, cascine, fienili. Con ‘Sent un po’, Giuan te se ricordet…‘ racconta otto anni della nostra storia (‘dalla parte del torto’) dal 1948 al 1956 , e canta le speranze dei giovani che, in qualsiasi occasione e situazione, abbracciati, cantavano Bandiera Rossa ed esternavano le loro aspirazioni. Ma anche allora e proprio in quel mese primaverile “han vint i pret cont i bali e i orazion”. Questo, d’altronde, era stato l’epilogo del 18 aprile 1948.

Il 14 luglio sparano a Togliatti in parlamento. Si è, forse, sull’orlo della guerra civile. Ma a Parigi Bartali taglia per primo il traguardo. Si aggiudica il Giro di Francia e così il vicino di casa che il pomeriggio caldeggiava l’occupazione delle piazze, la sera, ascoltata la radio, urla Viva Bartali! Come ricorda Della Mea, “i democristi han vinciu i elezion”.
Poi, ancora, il ’50, Anno Santo, con Pacelli (Papa Pio XII) che dispensa scomuniche e anatemi anticomunisti, e la statua della Madonna Pellegrina vaga in lungo e in largo per la penisola. Ma il ’50 è anche un anno maledetto : il 29 agosto, in un albergo di Torino, Cesare Pavese muore suicida. Pone così fine al suo difficile ‘mestiere di vivere‘.

Dopo i fatti politici gli eventi ‘naturali‘. Nell’inverno a cavallo tra il ’51 e il ’52 la grande alluvione nel Polesine. Il fiume Po straripa e allaga mezza pianura del basso Veneto. “Case allagate dispersi a centinaia. E poi le foto, Giuan, ti ricordi? Galline e cani e vacche nella fanga, la gente acquattata sui tetti, è un grande silenzio di acqua e di dolore”.
Lo stesso silenzio che abbiamo sentito nel Vajont (9 ottobre 1963).

Ancora la politica nel ’53, con la ‘Legge Truffa’, e sempre in quegli anni, agosto ’56, un’altra tragedia della fame e del lavoro, che in Italia non c’è. A Marcinelle,16 in una miniera del Belgio, perdono la vita 262 lavoratori, 136 sono italiani. Vittime della miniera, dell’emigrazione, della miseria.
Gianni Bosio muore, Mantova, il 21 agosto del 1971. I Compagni che lo accompagnano, ricoprono la sua bara con una bandiera rossa, senza nessun simbolo o marchio di partito.
“L’Unità” ne da solo un laconico annuncio tramite un trafiletto anonimo nell’edizione del giorno successivo. Ivan Della Mea, sempre su “L’Unità”, ma di sabato 17 agosto 1985, sostiene:“Gianni Bosio misconosciuto in vita. Misconosciuto dopo la sua morte. Non dovrebbe succedere, ma succede”.17


  1. Il Nuovo Canzoniere Italiano dal 1962 al 1968 reprint, con prefazione di Cesare Bermani, Istituto Ernesto de Martino-Gabriele Mazzotta Editore, Milano, novembre 1978; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino, Jaca Book-Istituto Ernesto de Martino, Milano, marzo 1997  

  2. Emilio Jona e Michele Luciano Straniero (a cura di) Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Scriptorium & Ddt Associati, Torino, novembre 1995 – Giovanni Straniero-Carlo Rovetto, Cantacronache. I 50 anni della canzone ribelle. L’eredità di Michele L. Straniero, Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana (Ar) maggio 2008  

  3. Ivrea (To) 1928-Milano 2003, cultore di musica contemporanea e jazz, poi ricercatore di musica popolare, nella più ampia accezione del termine. Dal 1973 docente di etnomusicologia al DAMS di Bologna  

  4. Napoli 1908-Roma 1965, nel 1948 pubblica ‘Mondo magico’, testo fondamentale delle sue esperienze e convinzioni. Iscritto al Psi, è segretario di federazione in Puglia, lì approfondisce le ricerche ed indirizza i suoi interessi verso lo studio etnografico delle comunità contadine del meridione d’Italia. Di questa fase sono le sue opere più conosciute: “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia”, “La terra del rimorso” incentrata, quest’ultima, sul fenomeno del tarantismo e realizzata con ricerche sul campo in Salento, la collaborazione di Giovanni Jervis (psichiatra), Letizia Comba Jervis (psicologa), Amalia Signorelli (antropologa culturale) Diego Carpitella (etnomusicologo), Franco Pinna (fotografo) e la consulenza di S. Bettini, medico. Nel 1950 aderisce al Partito Comunista Italiano. Nel 1962 pubblica “Furore Simbolo Valore”, forse il suo contributo più importante alla comprensione degli ‘episodi di costume dell’Europa contemporanea‘  

  5. Amalia Signorelli, Ernesto de Martino, Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro edizioni, Roma, maggio 2015  

  6. Clara Gallini e Francesco Faeta (a cura di) I viaggi nel sud di Ernesto De Martino, fotografie di Arturo Zavattini, Franco Pinna e Ando Gilardi, Bollati Boringhieri, Torino, maggio 1999  

  7. Pietro Angelini (a cura di) Cesare Pavese-Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950. Storia di una battaglia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, gennaio 1991  

  8. Riccardo Di Donato (a cura di) Compagni e amici, Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze, dicembre 1993  

  9. Istituto Ernesto de Martino, Un laboratorio sul mondo oppresso e antagonista, Gli uomini, le opere, i giorni, Il de Martino. Rivista dell’Istituto n. 25 del 2015  

  10. https://www.rivistailcantastorie.it/pagina-iniziale/  

  11. https://www.rivistailcantastorie.it/  

  12. http://www.archiviodiari.org/index.php/home.html  

  13. Salvate dalla distruzione i diari e le lettere, Premio Pieve  

  14. Marino e Sandro Severini (The Gang), Banditi senza tempo, prefazione di Alessandro Portelli, Selene Edizioni, Milano, settembre 2003  

  15. Lorenzo ‘Lerry’ Arabia e Gianluca Morozzi (a cura di), Le Radici e le Ali. La storia dei Gang, Associazione Culturale Musica e Idee – Ferenandel, Ravenna, aprile 2008  

  16. https://www.carmillaonline.com/2016/08/08/marcinelle-8-agosto-1956-carbone-cambio-vite-umane/  

  17. Maurice Mariani (F.A.), L’intellettuale rovesciato, BresciaOggi, 21 agosto 1985  

]]>
La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / prima parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/22/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-parte/ Mon, 21 Aug 2017 22:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40048 di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

La ristampa anastatica di “Il trattore ad Acquanegra” e l’anniversario della prematura scomparsa dell’autore, Gianni Bosio (Mantova, 21 agosto 1971) offrono l’occasione per approfondire la sua traiettoria umana, culturale e politica.

Gianni Bosio nasce ad Acquanegra sul Chiese, nella provincia mantovana, il 23 ottobre 1923. Primogenito di Lorenzo Barbato Bosio e Ida Pellegrini, Gianni frequenta le scuole elementari nel paese d’origine. I primi anni delle scuole di avviamento li compie invece a Brescia e Cremona. Successivamente si ‘trasferisce’ al Liceo Scientifico ma, quando viene estromesso dal Convitto Arcivescovile di Cremona, per incompatibilità ideologica, è costretto a ‘migrare’ a Bergamo presso il Liceo Classico ‘Paolo Sarpi’, dove conseguirà la maturità. Nello stesso anno della maturità (1943) si iscrive all’Università di Padova: facoltà di Lettere e Filosofia.

A Padova completa il piano di studi sino all’inizio del quarto anno allorché si trasferisce alla Statale di Milano. Proprio a Milano, e in seguito ai contatti con Antonio Banfi, accresce il proprio interesse per la storiografia. A 23 anni, con tutti gli esami superati e la tesi di laurea preparata (“Storia del marxismo in Italia sino al 1862”), decide di non discutere la tesi e non conseguire la laurea. Nel corso della propria attività, Bosio ha dato vita e collaborato a numerose pubblicazioni. Anche durante “l’era fascista”. Sono di quel periodo ‘Noi Giovani’- organo dell’omonimo gruppo clandestino di Acquanegra; ‘Chiaroscuri’ – Bergamo ’40; ‘Eccoci’-Cremona ’43; per l’Editrice «Terra nostra» di Mantova pubblica “Il Manifesto dei comunisti”.

L’attività politico-culturale

Nel dopoguerra collabora a: ‘Terra Nostra’, settimanale del Socialismo mantovano, all’edizione milanese de “L’Avanti!”, all’organo della federazione milanese del Psi ‘Il Proletario’. Nei primi mesi del ’46 è redattore di “Quarto Stato”, pubblicazione fondata e diretta da Lelio Basso. Nell’inverno ’49 ‘fonda’ “Movimento Operaio”. Nel ’62, dopo aver ridato fiato alle Edizioni Avanti!, riesce ad ottenere, per le stesse, una autonomia formale ed economico-amministrativa dal Psi.

Al momento della scissione (1964) del Psi, e conseguente nascita del Psiup, aumenta gli sforzi per ottenere totale autonomia dal partito di Nenni; ciò gli riesce e con i colleghi delle Edizioni Avanti!, che proseguiranno la loro attività con il nuovo nome di “Edizioni del Gallo”, approfondisce e riconduce nell’alveo della cultura proletaria nuovi filoni di ricerca.

Per raggiungere tali obiettivi fonda l’”Istituo Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario” e parallelamente ad esso si esibisce con il “Nuovo Canzoniere Italiano”.
Bosio cercò di coniugare alcune delle sue feconde intuizioni con la realtà concreta del movimento d’opposizione antagonista: “Il lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica”, afferma Bosio. E la cultura è soprattutto quella del popolo: le mascherate, i maggi, ma anche e più semplicemente, il gioco della morra o i canti in osteria con il solo accompagnamento di fisarmoniche e posate da cucina; oppure ancora il ‘fischio della beverata’ attuato dai paesani durante le lotte agrarie condotte cascina per cascina, nella Padania verso la fine degli anni quaranta, e altre iniziative attuate in anni più recenti dagli operai in lotta: l’occupazione delle fabbriche, lo sciopero selvaggio o il ‘salto della scocca’.

L’attività di scandaglio di Bosio è ancorata alla metropoli, alla città, alla classe operaia; questo perché egli partiva dall’assunto che il capitalismo perseguiva ”con coerenza spietata lo spopolamento delle nostre campagne”. Questa teorizzazione trova più chiara esplicazione in un suo scritto del 1966: “Le ricerche e gli studi sul mondo popolare si muovono all’interno del mondo contadino; un mondo destinato a perire in quanto autonomo e determinante della società italiana […] L’egemonia della città sulla campagna, come forma adatta di dominio e di espansione del capitalismo contemporaneo, pone questi studi di fronte ad una scelta: o si riducono a disciplina tradizionale, cioè si atrofizzano, o si trasformano in mezzo per la conoscenza della società contemporanea […] La campagna, dissolta, può servire a far capire la città: ma la città fa giustizia della campagna. La città è dominata, diretta e organizzata dal profitto”.1

Bosio è il precursore – insieme, ma in maniera diversa e distinta, a Danilo Montaldi –2 della ‘ricerca sul campo’, dell’ inserimento della ‘storia orale’, del recupero e riproposizione dei canti popolari (quelli di piazza/strada e d’osteria) operai-contadini, politici e sociali, tra gli strumenti di lotta, sviluppo e progresso, delle classi subalterne.

Nonostante il lavoro politico-culturale del mantovano Bosio e del cremonese Montaldi partisse da presupposti simili, alcuni individuano e colgono nella diversa interpretazione dello stile di lavoro da applicare (non solo pratico ed organizzativo, ma anche politico, metodologico e filologico) le divergenze tra i due ‘intellettuali di campagna’ (questa definizione non vuole essere dispregiativa, nemmeno riduttiva, bensì solo territoriale per indicare i principali luoghi di ricerca: inizialmente Acquanegra sul Chiese, Piadena, Calvatone, Persico Dosimo, Rivarolo del Re, Persichello, Pescarolo, poi il Salento, gli Abruzzi, il Lazio, le zone agricole del nord e sud Italia, per Bosio e collaboratori; tutta la provincia cremonese, ma anche Milano e le città operaie del settentrione per Montaldi).

Così, ad esempio, in maniera molto ‘educata’ Stefano Merli in “L’altra storia”3 coglie e fa notare le diversità e le divergenze tra i due ‘irregolari’ della ortodossia PSI-PCI. “…la critica di Montaldi ha ragione in molti punti, si preclude però la comprensione generale del lavoro di Bosio”. In maniera più ‘volgare’, sia come stile e metodo, la rivista ‘Ombre Rosse’, diretta da Goffredo Fofi, nel suo numero 13, febbraio 1976, sferra un violento attacco a Bosio, utilizzando uno scritto di Danilo Montaldi dell’ autunno 1973 e non destinato alla pubblicazione “Esperienza operaia o spontaneità”.4

Proprio in questa occasione, rispondendo ai rilievi sollevati da Stefano Merli, Cesare Bermani non nasconde o censura le divergenze fra i Compagni padani Bosio e Montaldi, precisando che i rapporti tra i due “… furono aleatori . Montaldi collaborò solo di sfuggita alla rubrica ‘Questioni del Socialismo’ ma nel 1959 si ebbero tra Bosio e Montaldi un paio di incontri e una intensa ma breve corrispondenza epistolare. Dopo di allora i due si ignorarono a vicenda e non si videro più. E’ lo stesso Montaldi a ricordare l’occasione di quegli incontri e l’impressione negativa che ne riportò e che lo spinse a troncare ogni rapporto con Bosio”.

E proprio attraverso le argomentazioni di Bermani si evidenziano le notevoli diversità di vedute dei due organizzatori di culture.
Così, Montaldi, parte dall’inizio: “…si rifece (Bosio, nda) al lavoro svolto da ‘Movimento Operaio’ per illustrare il concetto stesso di cultura delle classi subalterne. In realtà io ero abbastanza critico nei riguardi di ‘Movimento Operaio’: mi era parso che tutti quei ricercatori si fossero buttati a indagare nel passato appunto per non scontrarsi con i dirigenti politici sul presente…Si spinse, allora, in una critica della sociologia a tutto profitto della letteratura e del ‘documento in sé’, rivelando la sua anima assai tradizionale di fronte a questi temi. Che fosse possibile un uso marxista della sociologia nemmeno gli sfiorava la mente (assai diversamente, come è noto, da Panzieri)…” per finire col bollarlo, poi, come “…un crociano di ritorno”.

La rottura definitiva, e finale, si consuma con la mancata (più per scelta di Montaldi che non per volontà comune) pubblicazione, da parte delle Edizioni Avanti!, di “Autobiografie della leggera”.
Dopo di allora, ignorando reciprocamente ciò che facevano, Montaldi continuò a ricercare come se il marxismo fosse un sistema di conoscenza sociologica, Bosio come se il marxismo fosse la concezione materialistica della storia”.

Militante politico5 organizzatore di cultura, dopo essere stato consigliere delegato delle Edizioni Avanti!6 animatore di case editrici non ortodosse (Edizioni del Gallo, Edizioni Bella Ciao), direttore di riviste ‘socialiste’ (Quarto Stato, Il Labriola, Mondo Operaio) poco allineate con la linea ufficiale del Psi, collaboratore di “La Classe” e “Quaderni Rossi”, produttore de “I Dischi del Sole” (il primo disco, DS 1, esce nel 1963) e di spettacoli (all”Umanitaria’ di Milano si allestisce, nel 1962, la prima rappresentazione di “L’altra Italia. Canti del Popolo italiano” curata da Roberto Leydi e Tullio Savi, con Fausto Amodei, Sandra Mantovani e Michele Luciano Straniero. Anche se il più famoso, ed importante, sarà ‘Bella Ciao’, presentato al Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1964, e di cui parleremo più diffusamente) musicali e teatrali; fondatore, con Roberto Leydi, del Nuovo Canzoniere Italiano: inteso come rivista (il primo numero è del luglio 1962) e strutturazione di più ‘individui’ e gruppi musicali-teatrali; con il contributo anche di Alberto Mario Cirese,7 dell’Istituto Ernesto de Martino (1967), promotore delle Leghe di Cultura8 .

Nel quaderno si ricorda che “L’aggregazione di questi gruppi ed il loro modo di intervenire sulle realtà di classe locali erano stati suggeriti da Gianni Bosio, con la sua proposta delle ‘Leghe di Cultura’…”. Oltre alla Lega di Acquanegra sul Chiese (Mn) e Piadena (Cr), al Movimento Culturale Giovanile di Calvatone (Cr), al Gruppo Operai-Studenti-Braccianti di Rivarolo del Re (Cr), al Gruppo Lavoratori Studenti di Persico Dosimo (Cr), si segnalano le “Esperienze di ricerca e intervento del Circolo ‘Gianni Bosio’ a Roma e nel Lazio”: “…per un raffronto fra le finalità, la ricerca e l’attività di un circolo che opera in una realtà urbana, anche se periferica, di una grande città e le leghe e i gruppi di una zona ad economia agricola quali sono le provincie di Cremona e Mantova”.9.

Oltre ai molti articoli e collaborazioni con quotidiani, settimanali, riviste con periodicità variabile, è autore di pubblicazioni significative, ormai difficilmente reperibili: “Giornale di un organizzatore di cultura” (27 giugno 1955- 27 dicembre 1955) del 1962; “Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali su nastro del Fondo Ida Pellegrini” (1966) forse il suo saggio più importante riguardante la cultura orale e una chiave di lettura indispensabile ai 655 nastri del suo fondo di registrazioni, che aveva chiamato con il nome della madre10 ; “L’intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emergenza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione ‘spontanee’ nel mondo popolare e proletario” che viene pubblicato in primo conio dalla Lega di Cultura di Piadena, come ‘quaderno n. 3-maggio 1967’. Ed è un ciclostilato di 183 pagine. La seconda edizione (che, però, è indicata come prima edizione del novembre 1975) è pubblicata-con una nota introduttiva di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio – nella collana ‘Strumenti della cultura di classe’ dalle Edizioni Bella Ciao di Milano, a cura, si precisa, dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio. Il titolo è identico a quello scelto anche per il ‘quaderno’ della Lega di Piadena, con la sola aggiunta: gennaio 1963-agosto 1971, mese e anno della sua morte. Una terza edizione, a cura di Cesare Bermani, è stampata nel 1998 dall’Editoriale Jaca Book di Milano.

“Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina” 11 è l’opera postuma, ed incompiuta, ritenuta “…il primo lavoro che Bosio concepì con l’uso di testimonianze orali e poi di narrazioni orali…era quanto ci voleva per tentare di fare ‘storiografia marxista attraverso la ricerca metodica, lo spirito critico, cioè opponendo il fare, la produzione, alla polemica, all’intenzione’12 . Bermani è stato, oltre che curatore, anche uno dei più stretti collaboratori di Bosio, ha raccolto, riordinato, sistemato gli scritti sparsi lasciati dall’autore e che coprono un periodo molto lungo, dal 1962 sino alla scomparsa (1971) e li ha organizzati per questa pubblicazione.

Sempre Bermani ha curato un’ altra pubblicazione postuma di Bosio: Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato».13 L’attività di ricerca, e le pubblicazioni di quello che può essere definito il ‘biografo ufficiale’ di Gianni Bosio, sono numerose ed abbracciano un ampio terreno d’indagine, per questo si rimanda alla biografia e bibliografia completa riportata nel suo sito web.14 Voglio, soltanto a titolo illustrativo dei vasti interessi di Bermani, ricordare alcuni suoi lavori ‘esemplari’. Il monumentale,15 Pagine di Guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia.16

Anche la ricostruzione storico-politica delle vicende relative alla ‘Volante Rossa’, effettuata tramite i resoconti di quotidiani e periodici dell’epoca ma, e soprattutto, grazie alle testimonianze orali dei protagonisti di quelle vicende, è un’altro esempio di ‘storia militante’. Una prima bozza di lavoro con il titolo La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) è stata pubblicata sul n. 9/10, inverno 77/78, della rivista Primo Maggio. Ampliata e più strutturata diventa un libro nel 1996,17 con una ristampa nel 2009.18

Un altro argomento di scottante realtà storica e storiografica è quello che, Bermani, affronta in Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista. Titolo e sottotitoli chiariscono e spiegano già tutto19 . Sempre in ambito strettamente politico sono anche queste due pubblicazioni: Gramsci raccontato, testimonianze raccolte da Cesare Bermani, Gianni Bosio e Mimma Paulesu Quercioli,20 e una sorta di riedizione, molto ampliata sia nei testi che nelle testimonianze audio-sonore (due cd allegati) è Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria21 con nuove testimonianze.
Completamente diversa rispetto a quelle appena ricordate è la segnalazione relativa ad una ricerca particolare. Si tratta di “Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia”22 .

L’ultimo rimando è relativo ad un vero e proprio manuale pratico-teorico-ideologico di cos’è, e come si conduce, ‘la ricerca orale’: “Introduzione alla storia orale”23 . Due volumi in cui, oltre ad indicare qual’è la metodologia da utilizzare, si dimostra che “…la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è colta per mezzo della comunicazione orale…la comunicazione orale resa permanente dal disco è ‘di più’ della cultura scritta…”.24

I compagni e collaboratori di Bosio furono numerosi. Con alcuni percorse un tratto di strada, poi le vedute e i ragionamenti si divaricarono. Purtroppo non è possibile dedicare attenzione a tutti loro. Oltre a Bermani, i più stretti e fedeli, sicuramente da ricordare, sono Luciano Della Mea, da sempre e per sempre al suo fianco, Franco Coggiola, autore di numerose ricerche a quattro mani condotte proprio con il virtuoso del magnetofono. Le più interessanti e significative sono quelle relative ai ‘Maggi’: “L’avvento della primavera, della stagione che apre un nuovo anno di vita per la campagna e i suoi lavori, è festeggiato nel mondo contadino in vari modi, tutti sostanzialmente pagani e laici: riti di propiziazione, di iniziazione, di fertilità (della terra e della donna) che hanno in comune, nonostante le notevoli differenze, la denominazione di “Maggi”.25

Un altro compagno-collaboratore, ma anche amico e, quasi, compaesano è Giuseppe Morandi (in realtà, Morandi è di Piadena (Cr) e Bosio di Acquanegra (Mn) ma i due piccoli paesi confinano, le abitudini e tradizioni si mischiano, inoltre sono avvicinati da due corsi d’acqua: il fiume Chiese che scorre in territorio mantovano, e proprio a metà strada tra i due centri abitati, si getta nell’Oglio, fiume che, in quel tratto, scorre nel territorio cremonese di Piadena) che, insieme a Gianfranco ‘Miciu’ Azzali (di Voltido-Cr) e Mauro Cesini, costituisce ufficialmente (14 aprile 1967) la Lega di Cultura di Piadena.26 La più longeva, tutt’ora operativa e che ha all’attivo numerosi ‘quaderni’, quasi tutti realizzati tramite interviste, testimonianze e racconti ‘orali’. Nel nucleo fondatore sono da annoverare anche Pierino Azzali ed Eugenia Genia Arnoldi in Azzali. Quest’ultima, attrice in Novecento di Bertolucci dove si esibisce in una struggente ‘Quando Bandiera Rossa si cantava’ .27

Giuseppe Morandi è anche autore di “Spoleto 1964, Bella Ciao. Il diario”,28 in cui, puntualmente, si raccontano le vicende e le polemiche relative allo spettacolo che aveva come sottotitolo “Un programma di canzoni popolari italiane”, presentato, quell’anno, dal Nuovo Canzoniere Italiano al Festival dei due Mondi. Lo ‘scandalo’ scoppia quando Michele Luciano Straniero, interprete di “O Gorizia tu sei maledetta”,29 canta queste strofe: “Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù”.

Altro cooperatore del ‘socialista anomalo’, decentrato (solo geograficamente) rispetto ai precedenti, è Alessandro Portelli. Quando Bosio lo introduce nei suoi ambiti organizzati, lo presenta così: “E’ romano, ma è serio”. Un complimento che, forse, è anche una critica. Non a lui, ma a certi ambienti della capitale. Portelli è autore di una minuziosa ricostruzione storico-documentale delle atrocità commesse dai nazi-fascisti a Roma con la strage delle Fosse Ardeatine (335 trucidati il 24 marzo 1944) e conseguente smascheramento della mistificazione tentata ed orchestrata, e a tutt’oggi non ancora esaurita, da nazisti, fascisti, reazionari e revisionisti vari, di attribuire la responsabilità politico e morale dell’eccidio al Gap di Roma (Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Gianfranco Mattei, Marisa Musu, Luigi Pintor) autore di un’azione di Resistenza armata (atto di guerra) contro una divisione di SS italiane, l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment ‘Bozen’ appartenente alla Ordungspolizei (polizia d’ordine) e composto da reclute altoatesine, compiuto in via Rasella il 23 marzo, in cui persero la vita 33 militi nazi-fascisti. Con questo documento storico, L’ordine è già stato eseguito30 in cui già dal titolo si capisce la sostanza e dimostra come le due cose non siano collegate.

Portelli, con Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, il Canzoniere del Lazio, fonda a Roma, nel 1972, il ‘Circolo Gianni Bosio’. Animatore e direttore della rivista “I Giorni Cantati. Storia-Memoria-Immaginario”, bollettino di informazione e ricerca sulla cultura operaia e contadina.
E’ stato lasciato per ultimo colui che si può definire il ‘pupillo’ di Bosio, l’allievo preferito: Ivan Della Mea. Sicuramente, Della Mea considera Bosio il suo mentore prediletto. Con il quale litiga ma poi, come un figliol prodigo laico, torna alla pratica tratteggiata da Bosio e alla fruttuosa collaborazione-contaminazione.
Coggiola e Della Mea sono stati direttori della creatura più importante del ricercatore mantovano, l’Istituto Ernesto de Martino.

Storici, politici, militanti e anche i collaboratori più vicini, attribuiscono a Gianni Bosio la qualifica di ‘marxista critico’, formato e cresciuto, cioè, nel solco teorico tracciato e sviluppato da Rosa Luxemburg e Karl Korsch. Ma questa collocazione è abbastanza strana e stride con quanto Bosio scrive e teorizza già nel gennaio 1948. Così, dopo aver ribadito che “Oggi è la classe che, come classe dirigente, deve imparare a pensare in termini di massa…Deve agire in termini di massa se vuole trasferire la democrazia su un terreno nuovo, sostanziale oltre che formale, sociale oltre che politico” .31 Bermani, in ‘Attualità di Gianni Bosio’,32 a proposito di questo ‘pensiero’, chiarisce: “Un moderno partito marxista-leninista cioè, basato sul centralismo democratico, che alle sezioni territoriali affianca organizzazioni capillari (nuclei di strada, nuclei di fabbrica)”. Quanto di più ortodosso e in linea con la teoria e la pratica della maggior parte dei Partiti Comunisti, non solo ‘occidentali’.

Anche Emanuele Gino Tortoreto (Milano, 1928-2012), esponente milanese socialista, ricorda: “La sua produzione intellettuale […] e la sua attività politica […] credo che si siano manifestate anche nel richiamo ossessivo al partito (…) al partito e alla sua funzione…”.33

(Fine della prima parte – la seconda sarà pubblicata su Carmilla il 29 agosto)


  1. Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato, introduzione di Cesare Bermani e Clara Longhini Bosio-collana ‘Strumenti della cultura di classe’-a cura dell’Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario fondato da Gianni Bosio, Edizioni Bella Ciao, Milano,
    novembre 1975  

  2. Cremona 1° luglio 1929-Val Roia (Im) 27 aprile 1975. Autore, con Franco Alasia, della prima ‘scandalosa’ ricerca sugli immigrati (meridionali) in Italia, Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Prefazione di Danilo Dolci, Feltrinelli, Milano, marzo 1960; D. Montaldi, Autobiografie della leggera. Vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute raccontano la loro vita, Einaudi, Torino, dicembre 1961; D. Montaldi, Militanti Politici di base. Testimonianze di vita politica nella Bassa padana, dalle origini del socialismo a oggi, Einaudi, Torino, aprile 1971; D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970 (postumo), Edizioni ‘Quaderni Piacentini’, Piacenza, dicembre 1976, ristampato, per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), marzo 2016. Per la cronologia completa della vita e delle opere, nonché bibliografia, vedi D. Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, edito, per conto dell’Associazione Culturale Centro d’Iniziativa Luca Rossi-Milano, dalla Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), luglio 1994  

  3. Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Opuscoli marxisti, Feltrinelli, Milano, aprile 1977  

  4. Cesare Bermani (a cura di) Bosio oggi: rilettura di una esperienza. Testimonianze di Gaetanò Arfè, Cesare Bermani, Eugenio Camerlenghi, Alberto Mario Cirese, Luciano Della Mea, Roberto Leydi, Stefano Merli, Tullio Savi, con un’appendice di scritti di Gianni Bosio, Provincia di Mantova, Biblioteca archivio, Casa del Mantegna, Istituto Ernesto de Martino, Mantova, dicembre 1986. Atti del convegno tenuto al Teatro Accademico del Bibbiena di Mantova, il 3-5 ottobre 1975.  

  5. Cesare Bermani (a cura di), Cronologia della vita e opere, Istituto Ernesto de Martino, http://www.iedm.it/istituto/gianni-bosio-cronologia-della-vita-e-delle-opere/  

  6. Paolo Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio 1953-1964, Biblion Edizioni, Milano, novembre 2011  

  7. Antropologo che scriveva per ‘L’Avanti!’, ‘Paese Sera’, ‘Calendario del Popolo’, ‘Mondo Operaio’, e insieme al padre Eugenio aveva curato la pubblicazione di “La Lapa (‘come l’ape quand’è primavera’) Argomenti di storia e cultura popolare” e svolge attività di assistente volontario presso la cattedra di Etnologia, per la quale collabora anche con Ernesto de Martino  

  8. La Lega. Dieci anni di attività delle leghe di cultura e dei gruppi del cremonese e del mantovano, Quaderni della lega di Cultura di Piadena (Cr), serie terza, a cura di Gianfranco Azzali, Enio Camerlenghi, Gioietta Dallò, Giuseppe Morandi, Silvio Uggeri, n. 5-luglio 1976-ciclostilato in proprio  

  9. Premessa a La Lega, Quaderno n. 5 della Lega di Cultura di Piadena, cit;  

  10. C. Bermani, Cronologia della vita e delle opere, cit;  

  11. Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, Associazione Postumia Centro Studi e Ricerche di Scienze Lettere Arti, Gazoldo degli Ippoliti (Mn), Quaderni di Postumia 1, stampato da Publi Paolini in Mantova, aprile 2016 – Prima edizione a cura di Cesare Bermani, De Donato, Bari, settembre 1981  

  12. C. Bermani, Gli inizi di una nuova storiografia sociale, in E Gianni Bosio disse, Il de Martino. Rivista dell’Istituto de Martino, n. 19-20, Firenze, marzo 2009  

  13. Cesare Bermani (a cura di), Scritti del 1942 al 1948. Da «Noi giovani» a «Quarto Stato», Mantova-Gianluigi Arcari editore Piàdena-Lega di Cultura, ottobre 1981  

  14. http://www.omegna.net/bermani/  

  15. 1.614 pagine di documenti e testimonianze dirette, raccolte con il magnetofono, distribuite in tre volumi, più 108 pagine (4° volume) di fonti ed indici, e controverso per le polemiche che ha alimentato, tanto che il secondo volume è uscito a distanza di un quarto di secolo rispetto al primo  

  16. Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini nella Val Sesia, volume I (Cap. I-XXXV) Sapere Edizioni, Milano, dicembre 1971; volume II (Cap. XXXVI-LII) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 1995; volume III (Cap. LIII-LXXIV) Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, dicembre 1996; Volume IV, Fonti e indici, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Biella e Vercelli ‘Cino Moscatelli’, Vercelli, aprile 2000  

  17. Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa, con una testimonianza di Eligio Trincheri, prefazione di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, ottobre 1996  

  18. C.Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di un ‘gruppo di bravi ragazzi’, Archivio Primo Moroni-Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), maggio 2009  

  19. Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945. La vita quotidiana degli emigrati italiani nella Germania nazista, Bollati Boringhieri, Torino, giugno 1998  

  20. C. Bermani (a cura di), Gramsci raccontato, Istituto Ernesto de Martino, Edizioni Associate, Roma, novembre 1987  

  21. C. Bermani, Gramsci gli intellettuali e la cultura proletaria, Archivio Primo Moroni e Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) edito da Cooperativa Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), dicembre 2007  

  22. Cesare Bermani, Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia, Edizioni Dedalo, Bari, novembre 1991  

  23. Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale, vol. I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di merito, Odradek, Roma, novembre 1999 ; vol. II, Esperienze di ricerca, Odradek, Roma, giugno 2001  

  24. G. Bosio, L’Italia nelle canzoni, Catalogo I Dischi del Sole prodotti dalle Edizioni del Gallo, Milano, maggio 1968  

  25. Franco Coggiola, in Ivan Della Mea, Se qualcuno ti fa morto -DS 1009/11, libretto allegato al disco omonimo, marzo 1972  

  26. La Lega, cit.; http://legadicultura.it/  

  27. Quando “Bandiera rossa” si cantava, trenta lire al giorno si ciapava e adesso che si canta “Giovinesa” si crepa dalla fame e dala debolessa  

  28. Giuseppe Morandi, Spoleto 64, Bella Ciao, n. 20 dei Quaderni della Biblioteca Popolare di Piadena, Piadena, gennaio 1965; G. Morandi, Spoleto 1964. Bella Ciao. Il diario, Il de Martino, supplemento al n. 21/2012, Istituto Ernesto de Martino, Il Nuovo Canzoniere Italiano, Lega di Cultura di Piadena, Firenze, febbraio 2012  

  29. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  30. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, febbraio 1999  

  31. G. Bosio, Scritti dal 1942 al 1948, cit.;  

  32. Bosio oggi: rilettura di una esperienza, cit.;  

  33. Emanuele Tortoreto, Gianni Bosio: democrazia di base e tradizione socialista, in Socialismo di sinistra. Sei contributi nella storia italiana ed europea, Milano, Quaderni del Centro Rosa Luxemburg, n. 1, 1983  

]]>