Roberto Giacomelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Sguardi sull’alterità. Colonialismo e fantascienza https://www.carmillaonline.com/2021/06/29/nemico-e-immaginario-sguardi-sullalterita-colonialismo-e-fantascienza/ Tue, 29 Jun 2021 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66734 di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro [...]]]> di Gioacchino Toni

Se nel momento in cui sono venuti a contatto per la prima volta con le popolazioni indigene i colonialisti occidentali hanno visto in esse una “specie” diversa dalla propria, gli antropologi ed i viaggiatori occidentali ottocenteschi le hanno invece guardate dall’alto del loro ritenersi detentori esclusivi di “civiltà”. A ben guardare lo sguardo occidentale euroamericano contemporaneo, anche quando proiettato nel futuro, non sembra essersi pienamente liberato dai vecchi preconcetti.

Legando il ritorno del mostruoso alla cattiva coscienza coloniale e al neocolonialismo, la studiosa Gaia Giuliani ha constatato come in molta fiction frequentemente il nemico si manifesti «come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l’“umanità” con la propria invadenza o con la propria incontrollabile “pazzia” e/o sete di vendetta»1.

L’incontro con l’alterità sugli schermi televisivi e cinematografici è ravvisabile soprattutto ricorrendo a contesti particolari come quello fantascientifico. Ed è proprio a quest’ultimo ambito popolato da alieni ed extraterrestri che è dedicato un intero capitolo di Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (Meltemi 2021)2, importante volume nell’ambito della Visual culture steso allo scadere del vecchio millennio e recentemente riproposto in italiano dopo alcune precedenti edizioni.

Nel cinema di fantascienza la questione della differenza si palesa facilmente nel confronto tra l’umano ed il non-umano ed il più delle volte lo scompiglio determinato dall’incontro con l’alterità sembra risolversi con il ripristino della “normalità umana” precedente. Nelle produzioni hollywoodiane quando il finale sembra lasciare aperta qualche porta suggerendo che la normalità faticosamente riconquistata potrebbe non rivelarsi definitiva è più probabile che ciò sia dovuto ad esigenze di produzione (possibili sequel) che non ad una vera e propria messa in discussione delle certezze umane.

Spetta piuttosto alle comunità di fan di serie come X-Files (The X-Files, dal 1993) ideata da Chris Carter e Star Trek (id., dal 1966) ideata da Gene Roddenberry aver saputo creare un ambiente mediatico flessibile ove la questione della differenza è stata articolata e reimmaginata. Tali comunità di fan hanno sfruttato abilmente le lacune e le incoerenze presenti in tali produzioni seriali per elaborare versioni alternative del futuro non di rado tentando di superare i pregiudizi contemporanei.

La descrizione degli esseri alieni è presente in numerose produzioni hollywoodiane che è indubbiamente la rappresentazione dominante pur non essendo l’unica3. Ovviamente il significato attribuibile alla figura aliena che si incontra in un’opera è mutevole; se una delle peculiarità della fantascienza è quella di affrontare le paure e i desideri del presente proiettandoli in un futuro più o meno lontano, è inevitabile che la medesima figura aliena acquisisca nuove significazioni in base al momento storico in cui la si considera oltre che a seconda degli occhi che la guardano e la interpretano. In quest’ultimo caso le variabili si ampliano ad una pluralità di pubblici che si differenziano per genere, formazione culturale, visioni politiche ecc.

È altrettanto indubbio che l’opera possieda pur sempre una sua forza che si esercita soprattutto sulle visioni meno attente in cerca di mero intrattenimento, una forza che tende ad orientare la lettura suggerendo un punto di vista coincidente, sostanzialmente, con quella che si vuole “la visione nordamericana del mondo”. Una visione che il più delle volte è maschile, bianca, eterosessuale e cristiana.

Riferendosi agli Stati Uniti alle prese con la guerra fredda, Mirzoeff nota come tutto sommato siano segnate da un immaginario analogo la fantascienza negli anni Cinquanta e la coeva celebre mostra fotografica di Edward Steichen – The Family of Man (1955) – tenuta presso il Museum of Modern Art di New York in cui la fotografia viene proposta come “specchio dell’essenziale unicità della specie umana nel mondo”.

Se nell’Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegel traspare il timore per l’infiltrazione comunista sul territorio statunitense e gli alieni vengono mostrati come esseri in grado di assumere sembianze umane salvo però essere del tutto privi di emozioni – rappresentati come “burocrati senza vita” ha suggerito efficacemente Vivian Sobchak4 –, in maniera del tutto analoga, sostiene Mirzoeff, anche nella mostra di Steichen traspare l’idea l’unicità umana sia in realtà soltanto esteriore. All’immagine di una contadina sovietica intenta a raccogliere il grano con le mani la mostra contrappone una foto aerea ritraente un’ordinata batteria di moderne mietitrebbia statunitensi al lavoro nei campi. In entrambe le contrapposizioni l’alterità sembrerebbe essere messa in scena al fine di confermare la superiorità nordamericana, tanto che, a testimonianza di tale convincimento/finalità, sono numerose le fotografie della mostra rimarcanti agli occhi occidentali degli anni Cinquanta quanto l’Africa sia restata primitiva se confrontata all’Occidente che ha saputo civilizzarsi.

La fantascienza nordamericana, sostiene Mirzoeff, proiettandosi in un futuro immaginario, ha saputo creare un ambiente in cui le contraddizioni possono essere espresse ed affrontate pur mantenendo le certezze granitiche della superiorità statunitense nell’epoca della divisione in blocchi. Restando agli anni Cinquanta, la superiorità tecnologica degli esseri alieni palesata in film come La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin o Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953) di William Cameron Menzies ha contribuito a rafforzare la convinzione dell’impellente necessità di sviluppare armi sempre più sofisticate per fronteggiare le minacce al territorio statunitense che possono giungere dall’esterno.

Allo stesso modo gli scenari del futuro mostrati dai film si rivelano utili all’avanzata della società dei consumi in quanto contribuiscono a rendere desiderabili anche beni non ancora disponibili sul mercato. A tale proiettarsi dei desideri nel futuro il mercato ha risposto incrementando la frequenza degli aggiornamenti delle merci disponibili e pianificandone di nuove.

Di conseguenza, il pubblico si è abituato a immaginare il futuro in termini molto precisi e a confrontare le diverse versioni di quel futuro. È stata questa strana fusione di desiderio consumistico e retorica politica che ha dato al genere fantascientifico la sua particolare risonanza, in una prima versione di quella che Allucquère Roseanne Stone ha chiamato “guerra di tecnologia e desiderio”5.

Col finire della guerra fredda la fantascienza sembra interessarsi più agli effetti spettacolari che non a suggerire minacce agli esseri umani (coincidenti con gli statunitensi), si pensi ad esempio a Guerre stellari (Star Wars, 1977) di George Lucas, mentre gli stessi extraterrestri si fanno decisamente più amichevoli, come avviene nelle produzioni di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) ed E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982).

Parallelamente a questo filone di fantascienza spettacolare o in cui l’essere alieno non si rivela più una minaccia per l’umanità, compaiono opere per certi versi in controtendenza, come Alien (id, 1979) e Blade Runner (id, 1982) entrambi di Ridley Scott, contraddistinte anche da un’esplicita critica alle corporation che per certi versi si sostituiscono agli apparati statuali nel loro determinare la vita degli esseri umani; si tratta di film destinati ad aprire una corrente distopica prospettante un’umanità in crisi identitaria costretta a fare i conti con scenari futuri inquietanti ed inediti.

Se nella narrativa degli Anni Cinquanta gli alieni sono una minaccia, negli Anni Settanta, il decennio in cui la generazione dei baby boomer credette di poter cambiare il mondo, gli alieni diventano pacifici perché gli esseri umani sono finalmente disponibili a un contatto, più o meno la stessa metamorfosi subita dai pellerossa […]. Il desiderio che l’altro si avvicini, però, comporta anche l’avvicinamento del desiderio provato dall’altro. Questo desiderio che per noi resta, per ovvie ragioni culturali, significativamente indecifrabile, sul lungo termine innesca il conflitto, come i meccanismi mimetici ci insegnano. Così, mentre il percorso narrativo principale degli Anni Settanta, costruito sugli archetipi dell’inconscio collettivo portati in superficie da quell’ipotesi psicosociale, si stava dirigendo verso il suo coronamento con la cristologia aliena di E.T. Del 1982 […], su questo percorso si innesta [Alien] di Ridley Scott con il suo xenomorfo, quasi ad aprire una nuova porta […] dalla quale scaturirà un nuovo potente immaginario, con caratteristiche del tutto inedite6.

Nell’analizzare le opere di fantascienza in cui l’essere umano viene a contatto con l’alterità aliena, Mirzoeff nota come le due principali tipologie di alieno extraterrestre – il mostro terrificante e l’inquietante copia umana – derivino dalle classificazioni colonialiste europee. Tra i film che palesano punti di contatto tra l’epopea colonialista e la fantascienza, lo studioso cita Robinson Crusoe su Marte (Robinson Crusoe on Mars, 1964) di Byron Haskin, in cui un essere umano restato bloccato su Marte si trova ad avere come compagno di avventure un alieno in fuga da suoi simili chiamato emblematicamente Venerdì dal novello civilizzatore.

Rimandi tra colonialismo e fantascienza sono individuabili secondo Mirzoeff anche all’interno della produzione di Ridley Scott: elementi di contiguità nell’incontro dell’umano con l’alterità sono segnalati dallo studioso nei già citati Blade Runner, Alien e nell’opera proiettata nel lontano passato 1492: la conquista del paradiso (1492: Conquest of Paradise, 1992)7.

Sebbene quest’ultima pellicola sia stata fatta uscire nelle sale in concomitanza con la ricorrenza della scoperta di Colombo l’atteso successo al botteghino non è arrivato; il cinquecentenario non ha portato bene alla figura dell’esploratore europeo alle prese con le critiche delle popolazione native e, più in generale, con una rilettura critica della sua epopea. «Mentre il pubblico si sarebbe dovuto identificare con gli “umani” contro gli “alieni”, nel contesto coloniale la rettitudine morale ora sembrava appartenere a “loro” – e cioè, agli indigeni che avevano sofferto la violenza della conquista coloniale»8.

In quel lontano 1492, nel momento stesso in cui vengono a contatto con gli abitanti del “nuovo mondo”, gli europei non tardarono a categorizzare le popolazioni indigene come esseri fondamentalmente diversi in linea con un immaginario già predisposto a possibili presenze mostruose. La visione di uno senario naturalistico sino ad allora sconosciuto ha spinto con maggior forza gli esploratori europei a prestar fede ai racconti sui mostri e a raccontare, a loro volta, di aver incontrato individui di specie diverse durante i viaggi. Analogamente, sostiene Mirzoeff, «il film di fantascienza stabilisce e normalizza accuratamente la propria ambientazione prima di presentare il suo alieno o il suo mostro, cosicché esso sembri appropriato al contesto. Inoltre, persuade il pubblico ad arrendersi all’illusione, non perché i mostri siano reali, ma perché essi sono uguali sia ad altri mostri che ad altre immagini filmate»9.

I resoconti fantasiosi dei viaggiatori e dei missionari europei hanno certamente contribuito rafforzare la convinzione di una incolmabile discrepanza tra “civiltà” e “primitivismo” e tra “cristianità” e “paganesimo”. «Dal punto di vista occidentale, per essere completamente evoluti, gli umani dovevano essere civilizzati, il che vuol dire che dovevano essere cristiani. Nel contesto fantascientifico, la questione dell’evoluzione avanzata è altrettanto dominante. L’alien, per esempio, è fisicamente quasi indistruttibile, mentre i replicanti di Blade Runner possono sembrare più “umani” degli umani biologici.»10.

Lo studio di Mirzoeff si sofferma anche sul film Congo (id. 1995) di Frank Marshall, derivato dall’omonimo romanzo del 1980 di Michael Crichton, notando come questo, sin dalle prime sequenze, metta in scena stereotipi occidentali sul continente africano ormai sedimentati nel tempo.

Il contrasto tra la spedizione occidentale hi-tech, con i suoi occhi protesici, e il primitivo, ma pericoloso Congo, così minaccioso per gli occhi biologici, ma fonte vitale di materie prime, difficilmente poteva essere rappresentato in modo più sinistro. Inoltre, Congo lega direttamente il progetto coloniale del diciannovesimo secolo alla fantascienza contemporanea, con la sua accurata evocazione di Houston come sede della compagnia, ricordando agli spettatori la stazione di controllo delle missioni della NASA, nella stessa città. Film come Congo minano alla radice il presupposto rassicurante secondo cui non ci sarebbe più la convinzione che l’Occidente è più evoluto dei suoi Altri11.


  1. Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, Firenze, 2016, p. 10. Su tale volume: Luca Cangianti, I mostri dell’accumulazione originaria, Carmilla, 14 Marzo 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo, Carmilla, 20 settembre 2016. 

  2. Nicholas Mirzoeff, “Capitolo sesto. Il primo contatto: da Independence Day a 1492 e Millennium” in Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021. 

  3. Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma, 2014. Sul volume: Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, in Carmilla 9 agosto 2016; Gioacchino Toni, Nemico (e) immaginario. L’alieno e l’umano, in Carmilla 16 agosto 2016. 

  4. Vivian Sobchak, Screening Space: The American Science Fiction Film, Rutgers University Press, New York, Brunswick. 

  5. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op cit., p. 301. Allucquère Roseanne Stone, Desiderio e tecnologia: il problema dell’identità nell’era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997. 

  6. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria, 2019, pp. 83-84. 

  7. Curiosamente, in quest’ultima pellicola, oltre a Sigourney Weaver nei panni di Isabella di Castiglia, recita anche quel Gerard Depardieu che il pubblico statunitense ricorda per l’interpretazione, poco tempo prima, di un immigrato squattrinato in cerca del permesso di soggiorno negli Stati Uniti – insomma un vero e proprio “Resident Alien” – nel film di successo Green Card – Matrimonio di convenienza (Green Card, 1990) di Peter Weir. 

  8. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, op. cit., pp. 310-311. 

  9. Ivi, p. 312. 

  10. Ivi, p. 313. 

  11. Ivi, p. 314. 

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Nemico (e) immaginario. Alterità marziane e rifondazione dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2020/09/29/nemico-e-immaginario-alterita-marziane-e-rifondazione-dellumanita/ Tue, 29 Sep 2020 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62858 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Daniele Porretta, L’altra Terra. L’utopia di Marte dall’età vittoriana alla New Space Economy (Luiss University Press, 2020), propone una ricostruzione critica della storia del mito del pianeta Marte soffermandosi sul suo evocare scenari alternativi alla società terreste e alle sue problematiche politiche, sociali, etiche, tecnologiche, ecc.

Tanto nella fiction quanto nell’osservazione reale, si è spesso guardato a Marte come a una “seconda Terra”, uno specchio della società terrestre. Nella costruzione del mito di Marte a cavallo tra Otto e Novecento, spiega Porretta, hanno un ruolo importante gli studi di Giovanni Virginio Schiaparelli, di Percival Lowell e di Camille Flammarion, convinto dell’esistenza di una vita extraterrestre sul pianeta rosso.

C’è […] una corrispondenza fra lo spirito morale dei costruttori della mitologia marziana, Schiaparelli, Lowell e Flammarion, e quello che sarà lo sviluppo letterario del genere ambientato in questo pianeta. Uno specchio in cui guardare la Terra, in cui proiettare i propri desideri e le proprie paure, in cui costruire un mondo alternativo per mostrare ciò che non siamo ma che potremmo essere. Rimane in questi uomini ancora o spirito positivo dell’epoca, quello che vedeva nelle grandi opere dell’ingegneria ottocentesca un primo passo verso una società migliore in cui la tecnologia sarebbe stata parte integrante della società e i sui frutti democraticamente distribuiti fra tutta la popolazione, un sogno utopico che on durerà a lungo, messo in crisi dai due conflitti mondiali, dai nuovi mezzi di distruzione offerti dall’industria bellica alle potenze nazionali e sostituito, nel suo modo di immaginarie il futuro, dalla distopia. (pp. 48-49)

Marte inizia così a essere percepito come luogo abitato da una specie tecnologicamente superiore che ha saputo utilizzare la scienza per salvarsi dall’estinzione e che dunque merita di essere esplorato, a maggior ragione nel momento in cui la Terra sembra ormai conosciuta in ogni sua parte. La volontà di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta rosso conduce, nel passaggio tra Otto e Novecento, a svariati tentativi di inviare messaggi verso questa lontana civiltà, compreso il ricorso a pratiche paranormali all’epoca in voga; celebre è il caso della medium Hélène Smith che, con le sue visioni, contribuisce a creare un immaginario dettagliato su questo nuovo mondo.

È proprio a partire da tale periodo che Marte inizia a diviene protagonista di numerose opere narrative tra cui La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1898) di Herbert George Welles, storia capace di mostrare ai lettori inglesi dell’epoca gli effetti di una guerra tra civiltà a potenziale tecnologico decisamente asimmetrico; non è difficile leggervi una denuncia della violenza dell’imperialismo occidentale ai danni dei popoli colonizzati. Si può constatare come a partire dall’uscita di tale libro la figura dell’alieno si carichi di molteplici significati tanto da essere utilizzata per alludere allo “scontro tra razze” ottocentesco, al “pericolo comunista” durante la “guerra fredda”, ecc.

Se per qualche tempo nell’immaginario collettivo gli abitanti di Marte sono visti come creature benevole ed esotiche con cui vale la pena entrare in contatto e fraternizzare, le cose cambiano con la pubblicazione dell’opera di Wells: da quel momento prende piede l’idea che l’incontro con gli alieni avrebbe potuto essere tutt’altro che pacifico. Numerose sono le opere di fiction che, riprendendo il racconto di Wells, contaminano il genere della Future War innestandovi la questione aliena. Si diffondono anche versioni della stessa opera wellsiana che spostano l’ambientazione dall’Inghilterra agli Stati Uniti e prolungamenti delle vicende raccontate, come nel caso di Edison’s Conquest of Mars (1898) di Garrett P. Serviss che mette in scena la ripresa della vita in una Terra devastata dagli alieni e la decisione di prevenire futuri ritorni del nemico attaccandolo in anticipo direttamente “a casa sua”.

Nel romanzo di Serviss non è difficile individuare echi coloniali, celebrazione della superiorità anglosassone e orgoglio a stelle e strisce. Si tratta di elementi ricorrenti all’interno di opere – dette non a caso detto “edisonate” – che a partire dalla fine dell’Ottocento hanno come protagonista un giovane eroe-inventore, maschio, americano, che oltre a preservare se stesso dalla corruzione dei tempi, riesce a salvare la famiglia, la comunità e la nazione intera dall’invasione straniera. Su questa linea l’alieno marziano finisce facilmente per alludere al nemico di turno dell’America.1.

Le vicende che vedono il confronto militare tra alieni ed esseri umani narrate, pur con spirito diverso, da Wells e Serviss non esauriscono di certo le modalità del contatto tra le due parti; vi sono anche storie in cui il pianeta è abitato da società complesse e sfaccettate, come nel caso della saga dedicata a Marte e alla pluralità di razze che lo abitano da Edgar Rice Burroughs, iniziata nel 1912 e proseguita fino agli anni Quaranta, serie venata di nostalgia per i “vecchi tempi” popolati, oltre che da uomini coraggiosi, da donne schiave o principesse; non a caso si è parlato a tal proposito di “retroutopia antifemminista”. Più in generale lo spazio extraterrestre è tratteggiato come qualcosa di complesso e mutevole, non per forza di cosa ostile ai terrestri, anche da diverse opere di Clive Staples Lewis, legato a Tolkien e al gruppo degli Inklings.

Questa idea dello spazio come qualcosa di vivo è parte della costruzione di un mondo cristiano contrapposto alle due forze che Lewis considerava come le componenti distruttrici della società dell’epoca, rappresentate dai due personaggi [che] riassumono, esasperandole, le due facce del capitalismo multiplanetario: il capitalismo estrattivista, che vede nello spazio una fonte di nuovi guadagni, e quello scientifico, infarcito di retorica antropocentrica che vede nella conquista degli altri pianeti una maniera di garantire l’immortalità della specie umana. (p. 72).

I viaggi spaziali intrattengono una stretta relazione con l’utopia a partire dal Settecento, quando il viaggio in direzione delle luna diviene un sottogenere dell’utopia; nel momento in cui si diffonde la convinzione dell’esistenza di vita intelligente su Marte, questo pianeta assume un ruolo di primo piano nella letteratura di fantascienza.

Secondo una concezione ampiamente diffusa nell’epoca vittoriana, Marte era sia un luogo del presente che una proiezione della storia dell’umanità, un’idea determinata da una concezione evoluzionista dei processi sociali. Marte divenne quindi, a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, un topos per la costruzione di una società immaginaria da contrapporre a quella umana, e generò quell’estraniamento che è la condizione sine qua non dell’utopia. (p. 75)

Se, come detto, il mito di Marte diviene popolare soltanto a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, occorre ricordare che già negli anni precedenti il pianeta faccia da sfondo alle vicende narrate in alcuni romanzi. Nella fiction narrativa e cinematografica Marte viene scelto in diversi casi come luogo di ambientazione tanto dal sottogenere delle “edisonate”, quanto da quello delle “robinsonate”, incentrate sulla sopravvivenza di un essere umano sul pianeta, come nel caso del film Robinson Crusoe on Mars (1964) di Byron Haskin o del recente romanzo The Martian (2011) di Andy Weir, trasformato in film da Ridley Scott nel 2015.

Tra e prime opere narrative di ambientazione marziana Porretta cita Across the Zodiac: The Story of a Wreckes Record (1880) di Percy Greg e A Plunge into Space (1890) di Robert Cromie. Diffusa in molti racconti è l’idea che le società tecnologicamente avanzate comportino un inaridimento delle passioni; esemplare in tal senso Noi di Evgenij Zamjatin, uscito nel 1924 anche se scritto alcuni anni prima.

In generale la letteratura utopica a cavallo tra Otto e Novecento riflette le preoccupazioni e le aspettative di progresso sociale del tempo. Il pianeta rosso come luogo di realizzazione di società migliori è presente anche in To Mars via the Moon: An Astronomical Story (1911) di Mark Wicks e in Unveiling Parallel: a Romance (1893) di Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, in cui si prospetta una società paritaria per uomini e donne. In ambito cinematografico Porretta cita la pellicola danese Himmelskibet (1917) di Holger-Madsen, girata nel corso della Grande guerra con evidenti intenti pacifisti.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Persa la fiducia nella scienza come motore di miglioramento in voga agli albori della Rivoluzione industriale, l’immaginario legato allo società del futuro è ben descritto dallo scrittore e illustratore francese Albert Robida: «da una parte c’è un’immaginaria borghesia del futuro, che avrebbe affollato i cieli con le sue macchine volanti per andare all’opera, e dall’altra i moderni mezzi di distruzione che avrebbero progettato chimici, medici e farmacisti» (p. 58). Tale immaginario di distruzione futura riflette le ansie della società vittoriana timorosa di trovarsi presto coinvolta in qualche conflitto, tanto da determinare il successo del genere Future War che prende il via con La battaglia di Dorking (1871) di Geroge Tomkyn Chesney narrante di un’invasione tedesca dell’Inghilterra. Ai timori per guerre internazionali si aggiungono presto i timori per un invasione di popoli orientali capace di annientare la civiltà europea. È attorno a tali ansie generate dai fenomeni migratori di massa che si strutturano stereotipi razziali destinati a durare nel tempo. Non è difficile che le tensioni razziali entrino in gioco nella fiction catastrofista.

Il romanzo scientifico e la letteratura fantascientifica ottengono un certo successo anche in Russia ove, sull’onda della Rivoluzione il progresso tecnologico diviene uno degli elementi simbolici della nuova era socialista. Se tradizionalmente l’utopismo russo tende a focalizzarsi sulla fondazione di comunità religioso-spirituali, sostiene Porretta, con il passaggio tra Otto e Novecento l’immaginario dell’industrializzazione e del progresso tecnologico prendono piede anche nell’immaginario russo.

Tra gli esempi in cui si ricorre al pianeta rosso come luogo immaginario per produrre discorsi utopici o per rappresentare società distopiche, lo studioso fa riferimento alle due opere di Aleksandr Bogdanov La stella rossa e L’ingegner Menni, pubblicati rispettivamente nel 1908 e nel 1912, esempi di romanzo utopico in cui si ripone estrema fiducia nel progresso tecnologico e in cui viene tratteggiata una società comunista realizzata. Se il ricorso a Marte può darsi per mostrare un esempio di società di stampo comunista realizzata, il film Аėlita (1924) di Aleksandrovič Protazanov, tratto dal romanzo omonimo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, utilizza invece il pianeta rosso per mostrare una rivoluzione in corso contro la tirannia e la schiavitù.

A cavallo tra le due guerre mondiali cambia la rappresentazione di Marte; la tecnologia inizia ad essere osservata con minor entusiasmo avendo nel frattempo evidenziato il portato distruttivo. «È terminato il tempo dell’utopia ed è il suo contrario, la distopia, a diventare lo strumento più utilizzato per la descrizione del futuro» (p. 90).

Nei primi anni Cinquanta, pochi anni prima dell’avvio dell’era spaziale, se il romanzo Le sabbie di Marte (1951) di Arthur C. Clarke tenta di immaginare in maniera realistica il processo di colonizzazione del pianeta, lo scienziato tedesco Wernher von Braun, l’ideatore dei razzi V-2 per il regime nazista, dopo essersi messo al servizio dei vincitori statunitensi, lavora a un progetto finalizzato alla colonizzazione di Marte. Pur rivelatosi di impossibile realizzazione, il progetto evidenzia come, giunti a metà Novecento, l’idea di un viaggio verso Marte non riguardi più esclusivamente le fantasie narrative si scrittori e registi.

Durante la guerra fredda la fantascienza tende a focalizzarsi sulla paura dell’attacco straniero/comunista e sul pericolo di una graduale sostituzione dell’umanità con “altri esseri”, come ne Gli invasori spaziali (Invaders form Mars, 1953) di William Cameron Menzies e L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) d Don Siegel.

A resistere nel tempo, anche quando il mito marziano inizia ad affievolirsi, è la raccolta di racconti Cronache marziane di Ray Bradbury, pubblicata la prima volta nel 1950, il cui successo è però forse dovuto soprattutto «alla sua capacità di incarnare lo spirito americano, esattamente come La guerra dei mondi di Wells aveva rappresentato mezzo secolo prima l’imperialismo inglese tardo-vittoriano» (p. 103).

Sin dai primi anni Sessanta lo scrittore inglese James Graham Ballard ritiene terminata l’epoca della narrativa spaziale, tanto che preferisce indagare l’inner space dell’essere umano. Il calo di interesse per il pianeta rosso coincide con l’arrivo delle prime immagini ravvicinate di Marte a metà degli anni Sessanta, quando per qualche tempo il centro della scena viene lasciato alla Luna. Nonostante la Space Age possa dirsi davvero conclusa attorno alla metà del decenni successivo, ultimamente il pianeta rosso sembra di nuovo interessare la letteratura, il cinema e l’economia. Marte ricompare non solo nella fiction o nella docu-fiction – oltre al film The Martian (2015) di Ridley Scott, si pensi alle serie televisive Mars (2016) della National Geographic, The Mars Generation (2017) di Michael Barnett, The First (dal 2018) di Beau Willimon – ma anche in ambito economico e con esso si ripresenta anche l’idea, evidentemente legata a una “utopia della ricostruzione”, di una sua futura terrificazione.

Non si può evitare di osservare che la costruzione di questa nuova utopia marziana appare in un momento in cui la distopia esercita un dominio pressoché assoluto sull’immaginario collettivo riguardo il futuro dell’umanità. […] Tralasciando l’attrazione morbosa che la prospettiva di una società futura in rovina esercita sul pubblico, oggi la distopia incarna la sensazione di assistere a una fine del mondo al rallentatore. […] La distopia contemporanea ci connette con le nostre più recondite paure: la perdita dei capisaldi della sicurezza esistenziale, lo sfascio dello stato sociale, l’inevitabilità del disastro climatico, la fine della stabilità lavorativa, l’imporsi si un modello di società competitivo e atomizzante. Visto in questa prospettiva, abbandonare il pianeta Terra per andare su Marte non sembra poi un piano così assurdo. (p. 106)

I motivi per cui, da qualche tempo a questa parte, a più di un secolo dalla nascita del mito, il pianeta Marte è “tornato di moda” secondo Porretta sono probabilmente da ricercarsi in una sorta di desiderio di fuga dalla Terra, da una realtà percepita come inesorabilmente incamminata verso l’apocalisse. Se nell’immaginario contemporaneo il pianeta rosso può rappresentare una “utopia della ricostruzione”, un luogo da cui ripartire dopo la catastrofe terrestre, in esso è però possibile vedere anche una sorta di arca di Noè, un rifugio destinato soltanto a una piccola parte dell’umanità alle prese con l’esaurimento delle risorse vitali terrestri.

Illustrazione di un Tripodi da La guerra dei mondi edizione francese del 1906

Il successo di pubblico per il filone catastrofico ha sicuramente a che fare con i timori e con le emergenze del momento, riflettendo il clima di pessimismo di un’epoca in cui non si intravede alternativa a un sistema che mostra tutti i suoi limiti. È in questo clima di sfiducia che permea le opere di fiction che il pianeta rosso torna a conquistarsi spazio portandosi dietro quell’immaginario utopico marziano sedimentatosi nel tempo a partire dall’epoca vittoriana.

A una prima Space Age (1957-1975) inaugurata dallo Sputnik-1, e una seconda età spaziale (1981-1997) identificabile con i voli dello Shuttle, si aggiunge ora l’epoca della cosiddetta New Space Economy caratterizzata dall’apertura ai privati dei servizi di trasporto di merci e persone. La corsa allo spazio non vede più fronteggiarsi Stati Uniti e Unione Sovietica; nella nuova era spaziale a confrontarsi sono alcuni colossi privati spinti da business legati alla ricerca scientifica, al turismo spaziale, allo sviluppo di tecnologie da vendere ai governi e alla possibilità di sfruttare risorse minerarie di altri pianeti. Se ad oggi, sottolinea Porretta, la “terrificazione” di Marte appare estremamente improbabile, il pianeta rosso può però essere visto come obiettivo simbolico di una narrazione volta all’espansione capitalista verso lo spazio, un’ennesima riproposizione della lotta per l’indipendenza degli stati Uniti dall’Inghilterra e della conquista del West.

La colonizzazione dello spazio, a partire da Marte, sembrerebbe avere a che fare con i timori contemporanei per un prossimo collasso mondiale: il pianeta rosso viene identificato come luogo-rifugio per una parte dell’umanità in fuga dalla catastrofe terrestre. Il confine tra utopia e distopia può essere sottile, soprattutto se si cambia il punto di vista. Si potrebbe pensare al pianeta rosso come a un luogo inospitale in cui costringere un proletariato spaziale a lavorare in condizioni di vita terrificanti o, viceversa, come rifugio per una ristretta élite multiplanetaria che da lì sovraintende il lavoro di un proletariato invece costretto a restare su una terra sempre più invivibile.

Vista dall’ottica del capitalismo espansionista, Marte appare sempre di più la possibile utopia del futuro, o meglio, la distopia di una comunità perfettamente vigilata e autosufficiente […] la realizzazione finale del sogno utopico rincorso dalla modernità: la nascita di una comunità perfettamente controllata, pianificata e lamentatone dipendente dalla tecnologia. (p. 115)

In questo recente guardare allo spazio esterno, conclude Porretta, non è difficile vedere un modo per eludere le responsabilità nei confronti della Terra o lo sviluppo inevitabile di un sistema che non può fare a meno di espandersi e occupare nuovi territori.


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. Cfr. R. Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano, Sovera Edizioni, Roma 2014. Di tale saggio si parla negli scritti: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità, “Carmilla” e G. Toni, Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno, “Carmilla”. 

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La narrazione audiovisiva all’americana. Dall’avvento della tv all’età della convergenza digitale https://www.carmillaonline.com/2017/08/18/36436/ Thu, 17 Aug 2017 22:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36436 di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le [...]]]> di Gioacchino Toni

Nicholas_Ray-Martin_Scorsese_Nello scritto precedente [su Carmilla] ci siamo soffermati sulla narrazione audiovisiva all’americana compresa tra il muto e la fase classica del cinema hollywoodiano esposta da Federico di Chio nella prima parte del suo American storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci editore, 2016), in questo secondo intervento, integrandola con altri scritti, passeremo in rassegna quanto propone la seconda parte del saggio relativamente al periodo che va dall’avvento della televisione all’età della convergenza digitale.

Nell’affrontare la postclassicità degli audiovisivi statunitensi, Federico di Chio segnala come essa sia caratterizzata, tra le altre cose, dalla progressiva diffusione della televisione, che a metà anni Cinquanta è presente già nella metà delle case americane, e da una regolamentazione che, rompendo il modello industriale dei decenni precedenti – basato sul monopolio degli Studios nella produzione, distribuzione e proprietà delle sale -, penalizza la distribuzione delle opere minori. Il nuovo assetto hollywoodiano comporta una maggiore attenzione verso il mercato internazionale ed un decentramento produttivo finalizzato all’abbattimento dei costi, oltre che all’aggiramento dei vincoli protezionistici introdotti da diversi paesi stranieri.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta il western e la produzione di grandi opere per il cinema affiancano la realizzazione di numerosi telefilm per la televisione. In generale i nuovi eroi tendono ad essere non più giovanissimi, spesso si mostrano acciaccati, indeboliti e costretti a destreggiarsi senza l’aiuto della collettività. «Per questi eroi la frontiera non è più il limite da oltrepassare, l’orizzonte della possibilità, ma la fine del percorso, il luogo in cui finalmente fare i conti con se stessi e con quei valori (autodeterminazione, fiducia in se stessi, senso dell’onore) celebrati, sì, dalla tradizione e che però, se assolutizzati, si rivelano fattori di isolamento, di autodistruzione e persino di disumanità» (p. 88). L’ambientazione stessa si rivela ostile e tale ripiegamento tende a trasformarsi in un’insistita teatralità dei dialoghi in cui sono più le relazioni ad interessare che non le azioni.

Numerose sono le pellicole belliche realizzate nel periodo compreso tra la guerra di Corea e quella del Vietnam ed anche in questo caso, diversamente rispetto al passato, si assiste ad una maggiore introspezione: la guerra viene mostrata più per la sua durezza che non per la sua spettacolarità.

In American storytelling si sottolinea come siano diversi i generi che risentono del clima della guerra fredda e della paranoia anticomunista. La figura del detective borderline tende a lasciare il posto a quella dell’uomo delle istituzioni integerrimo ed un certo spazio viene dedicato all’americano qualunque che si trova improvvisamente coinvolto, suo malgrado, in situazioni pericolose. Non mancano pellicole che mostrano il crimine dal punto di vista dei malviventi. Ad inizio degli anni Sessanta il crime si sviluppa lungo due direzioni; se al cinema si mettono in scena situazioni cupe e violente, nelle produzioni televisive si seguono maggiormente i canoni consolidati. Nei telefilm polizieschi, ad esempio, trionfano uomini delle istituzioni senza macchia e senza peccato.

Tale periodo è caratterizzato dal trionfo del macro genere del drama che ricorre spesso ad autori teatrali e letterari. «Le commedie degli anni Cinquanta sono forse lo specchio più evidente del clima culturale americano dell’epoca: risultano, in generale, prive di mordente, opache, prevedibili, per quanto visivamente sofisticate» (p. 92).
La fantascienza degli anni Cinquanta è invece fortemente permeata dalle avventure spaziali, dalla paranoia atomica e dal clima della guerra fredda che vede minacce comuniste ovunque. A tal proposito si rimanda al saggio di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) su cui ci siamo lungamente soffermati in passato [su Carmilla].

Nel corso degli anni Sessanta se la commedia al cinema , dopo un avvio sofisticato, intraprende una direzione decisamente movimentata, in linea con le turbolenze del periodo, la produzione televisione pare decisamente più convenzionale. In un clima fortemente condizionato dal perbenismo e dal pericolo dell’infiltrazione comunista, in generale «il malessere psicologico e relazionale dei personaggi […] viene circoscritto alla sfera privata e, dunque, isolato dal contesto sociale, economico e politico. Individualizzando e patologizzando il disagio, gli autori si [mettono] al riparo dall’accusa di ritrarre una società malata. Una prudenza di ordine politico che peraltro si [aggiunge] a quella convinzione tipica della mentalità americana […] per cui le ragioni della debolezza o della devianza di un uomo sono da ricondurre alla sua indole e non a contesto sociale in cui vive» (p. 94).

Di Chio si sottolinea come la famiglia resti uno dei temi più trattati durante questo periodo, soprattutto attraverso la sua celebrazione, ma non mancano opere capaci di mostrarne la crisi. Anche la donna viene trattata come soggetto problematico e se al cinema viene mostrata alla faticosa ricerca di un equilibrio tra realizzazione professionale ed impegni domestici, le produzioni televisive tendono invece ad accontentarsi di modelli molto più rassicuranti per il pubblico maschile. «Le donne pericolose degli anni Quaranta lo erano perché irretivano l’uomo: lo manipolavano (per sbarazzarsi del marito, arricchirsi ecc.), ma ne avevano bisogno; quelle degli anni Cinquanta, invece, sono pericolose perché sanno farne a meno!» (p. 96).

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Rebel Without a Cause (1955, Nicholas Ray)

Una delle maggiori novità del periodo riguarda la figura del “giovane sensibile e tormentato” che si presenta sullo schermo assai distante dagli stereotipi della middle class masculinity. In alcune pellicole ad essere messo in scena è un giovane riflessivo, sensibile, insicuro e magari ribelle ma quasi sempre lontano dai risvolti politici e sociali; si tratta di un ragazzo che non vuole scappare dal mondo o cambiarlo ma solo farne parte a pieno titolo.

Secondo lo studioso nodi centrali della produzione postclassica sono il difficile rapporto tra individuo e comunità e la degradazione dell’eroe. Nel primo caso i film esplicitano le difficoltà del rapporto ricorrendo spesso al topoi narrativo dell’arrivo del forestiero o del ritorno a casa di un membro della comunità dopo una prolungata assenza; questa figura altra contribuisce a rompere gli equilibri di facciata ed a far emergere il rimosso. Nel caso della degradazione dell’eroe nel saggio si insiste sulla sua ambiguità e sul suo isolamento dalla comunità, tanto che questa figura finisce col perdere quella gradevolezza necessaria all’immedesimazione da parte dello spettatore.
Nell’era postclassica più che al cinema le figure forti ed affascinanti di official hero in cui identificarsi le si ritrovano nelle produzioni televisive. Anche la figura dell’outlaw degrada la sua posizione e mentre al cinema diventa sempre più simile al villain, in televisione conserva tutto sommato il suo vecchio statuto.

Nella seconda metà degli anni Sessanta gli Stati Uniti sono scossi da una serie di spinte sociali, politiche e culturali che mettono in discussione nelle fondamenta il modello americano palesando contraddizioni sino a questo momento celate e taciute. Anche l’industria cinematografica è costretta a fare i conti con il nuovo clima che attraversa la società e lo fa avviando una ristrutturazione degli Studios da qualche tempo in preda ad una crisi economica e d’identità. Nel frattempo anche il Codice Hays, riformulato una prima volta nel 1956 ed una seconda nel 1966, finalmente, nel 1968, viene accantonato e sostituito da un sistema di mera “indicazione di visione” (es. “G” General, per tutti, “X” vietato ai minori ecc.). Tale sistema, gestito dalla CARA – Code And Rating Administration, permette sostanzialmente al cinema di rappresentare esplicitamente (quasi) qualsiasi tematica e situazione. A cambiare, però, a partire dalla fine degli anni Sessanta, è soprattutto il pubblico: nelle sale cinematografiche il calo della presenza   di famiglie e componente femminile, tendenzialmente assorbite dalla televisione, lascia il campo ad un segmento maschile, giovane e scolarizzato di middle class.

Se da un lato, sul finire degli anni Sessanta, Hollywood dedica numerose produzioni low budget al pubblico giovanile (i figli del baby boom) concentrandosi su tematiche controverse legate al sesso ed alla violenza, dall’altro continua a produrre opere ad alto budget decisamente più convenzionali. A tal proposito nel saggio si ricorda come negli Oscar del 1969 vengano premiati contemporaneamente due cowboy molto diversi: la statuetta al miglior film viene assegnata a Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, 1969 di John Schlesinger), mentre il riconoscimento al miglior attore tocca a John Wayne per il film True Grit (Il “Grinta”, 1969 di Henry Hathaway).

I film maggiormente impostati su posizioni anticonformiste sono centrati «più sui personaggi che sul plot, con un andamento narrativo lasco e rapsodico ben oltre i canoni della forma debole del racconto […] dominati da antieroi irregolari, gravati dal senso del limite, che manifestano un’attitudine critica, spesso anche apertamente ostile, verso le agenzie istituzionali (la famiglia, la politica, l’esercito, la polizia, la religione) e verso l’autorità in genere» (p. 109). In alternativa, sull’altro versante, si trovano spesso personaggi attivi e risoluti, come militari fanatici e poliziotti ossessionati dalla persecuzione del crimine, che popolano narrazioni dallo sviluppo lineare.

Di Chio sottolinea anche come non manchino nemmeno pellicole di incerta classificazione in cui si trovano giustizieri che non agiscono secondo la tradizionale visione «reazionaria e machista, bensì per disperazione e paranoia […] e per necessità, tradendo un’angoscia e una sensibilità che ne fanno eroi di segno decisamente diverso. In tutti i casi, la produzione della New Hollywood è caratterizzata da un’amarezza e da una cupezza decisamente evidenti. «La cupezza di questi film si deve al dilagare di scene di violenza, lunghe e disturbanti. Molto spesso si tratta di una concessione facile ai gusti del pubblico più giovanile e maschile, resa possibile dall’abbandono dell’eufemismo tematico e visivo imposto dal Codice. Ma in taluni casi […] la rappresentazione rivela un consapevole approccio “controculturale”: quell’elemento così controverso e tuttavia costitutivo della storia de del carattere degli americani, che la narrazione mitica aveva sublimato e a volte addirittura rimosso, viene ora esibito in modo talmente insistito e iperbolico da rivelare al sua vera natura e la sua autentica funzione storica. Il processo si riscrittura operato dal mito viene in questo modo smascherato» (pp. 110-111).

Di Chio si sofferma anche su come il genere horror moderno offra una rappresentazione del tutto nuova del male e di come la minaccia si sviluppi in seno all’umanità stessa. Da parte nostra abbiamo approfondito in un precedente scritto [su Carmilla] il tema dell’essere umano nemico di se stesso in ambito fantascientifico. Una profonda revisione tocca un po’ tutti i generi: dal noir al musical, dal crime al western che si avvia, tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta, ai suoi ultimi colpi di coda alternando opere convenzionali ad opere manierizzate presentando anche interessanti riletture del mito della frontiera.

Trasversale a diversi generi, la figure dell’eroe, sia outlaw che official, tende a dissolversi. Secondo lo studioso nel caso dell’outlaw si perdono alcune sue caratteristiche fondamentali come l’asocialità e la performatività; si tratta ora di un personaggio fragile e sbandato che non riesce più a cavarsela da solo e ciò lo rende sempre più simile alla figura del villain. Nel caso dell’official, ad esempio nel poliziotto, si perdono la disciplina istituzionale ed il legame sociale tanto che diviene sempre più solitario. Nel saggio viene fatto notare come outlaw ed official non si incontrino quasi più nelle storie: o abbiamo uno o l’altro. Al posto di queste due tipologie tradizionali di eroe sembra sempre più prendere piede la figura dell’antieroe privo di una visione del mondo e di riferimenti valoriali forti. Tutto ciò, però, sottolinea lo studioso, non avviene in televisione; in questo caso ci si tiene decisamente alla larga dagli antieroi tragici e distruttivi.

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)_

Taxi Driver (1976, Martin Scorsese)

In American storytelling si pone l’accento su come il cinema della New Hollywood risulti contraddistinto dal pressoché totale predominio di personaggi maschili ed in parte ciò è dovuto alla crisi in cui versa la figura maschile ormai incapace di raccapezzarsi nella nuova società. Qualche persistenza di eroe forte la si ritrova ancora, ad esempio, nei film poliziesco-giustizialisti, negli spy-thriller e, soprattutto, nei disaster movie ove, non di rado, si ritrova un personaggio maschile maturo che, a costo di fuoriuscire dalle norme comportamentali istituzionali, funge da leader di un piccolo gruppo che si trova a dover fronteggiare una situazione estrema. «Come nel dopoguerra, ma in modo ancora più evidente, la messa in scena della debolezza del maschio (l’antieroe), così come la riaffermazione fin troppo esibita della sua forza (i nuovi eroi d’azione, tutti d’un pezzo e politically incorrect) hanno a che fare con la crisi della maschilità e del modello patriarcale della società che in questi anni, a valle della rivoluzione femminista, emerge in modo davvero esplosivo» (p. 117).

Tra le novità introdotte dalla produzione della New Hollywood nel saggio vengono indicati il ricambio generazionale degli attori, l’uso di una fotografia decisamente contrastata e desaturata con effetti realistici, il ricorso a focali in grado di cogliere dettagli tanto ravvicinati che in lontananza o di allargare a dismisura i confini del visibile.

Alla New Hollywood succede quella che è stata definita l’età della restaurazione o del ritorno all’ordine anche se, a dire il vero, le cose risultano decisamente più complesse e variegate. È comunque sicuramente vero che sul finire degli anni Settanta l’immaginario americano cominci a distanziarsi da quel clima caratteristico della New Hollywood in cui si intersecano critica, sfiducia e pessimismo. Sul finire del decennio nei diversi generi riemerge la volontà di riproporre la forza dei miti non di rado viene messo in scena il riscatto di protagonisti del ceto medio-basso che ritrovano un sogno per cui vale la pena fare sacrifici. Sembra dunque far capolino nuovamente l’American dream smarrito.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso viene abbandonata la strategia classica di distribuzione che tendeva a centellinare il numero di pellicole distribuite per allungare il più possibile il tempo di permanenza dei film nelle sale. Ora la strategia diventa quella della saturazione: vengono distribuite contemporaneamente molte copie, supportate da un lancio pubblicitario ragguardevole, cercando di incassare tutto l’incassabile nel minor tempo possibile. Ciò contribuisce alla sempre più marcata tendenza hollywoodiana di concentrare enormi investimenti su di un numero ridotto di pellicole, tendenza che poi, nel corso degli anni Ottanta, si relaziona con la possibilità di sfruttare i grandi titoli anche nei circuiti delle pay tv. Il pubblico di questi blockbuster votati alla spettacolarità è quello delle famiglie anche se una fetta importante di produzioni mira ad un pubblico maschile per il quale vengono realizzati prodotti privilegianti scene violente.

Esauritosi il western, secondo l’autore, è per certi versi la fantascienza a raccogliere il testimone del mito della frontiera tanto caro al pubblico americano. Una parte importante della produzione a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta spetta alle commedie demenziali giovanili, anche se spesso costrette ad ambientazioni retrodatate per potervi collocare condotte sguaiate ed anticonformiste altrimenti difficilmente ambientabili nell’edonismo dell’epoca del rappel à l’ordre. Inoltre, dalla metà degli anni Ottanta la paura dell’AIDS non consente ai film di trattare la sessualità giovanile in maniera scanzonata. «Se il melodramma giovanile degli anni Cinquanta-Sessanta e l’horror degli anni Sessanta-Settanta […] avevano radici nella repressione causata dalla struttura rigida, patriarcale o matriarcale, della famiglia, i teen drama e i teen horror di questi anni ci raccontano che i ragazzi, una volta liberati dalle autorità oppressive, iniziano ad aver paura di loro stessi, delle proprie emozioni e persino dei propri sogni!» (p. 123).

Nel clima che attraversa i decenni Ottanta e Novanta è evidente il disimpegno politico ed il ripiegamento nel privato, tanto che della critica espressa dai due decenni precedenti resta ora soltanto il disincanto che facilmente si trasforma in cinico opportunismo ed è per certi versi da quest’ultimo che riemerge, con non poche contraddizioni, l’American dream.

Nel cinema più commerciale, di pari passo all’accantonamento dell’impegno e della critica sociale e politica, tende a far capolino un certo ottimismo in cui spiccano eroi d’azione inclini a sfidare i pericoli più incredibili uscendone indenni. Da un certo punto di vista rientrano in questo profilo anche diversi supereroi e personaggi delle serie poliziesche televisive. Grazie a tali eroi viene «nuovamente celebrata la maschilità performante attraverso l’esibizione di “hard bodies” […], forti e violenti: un’evidente riscossa nei confronti dell’antieroismo e del femminismo critico del periodo precedente» (p. 125).

Insieme al ritorno dell’eroe maschile sotto tali sembianze, sottolinea Federico di Chio, ricompare con forza l’affermazione dell’ordine patriarcale, mentre la donna autonoma ed indipendente, comunque già poco presente nelle produzioni della New Hollywood, ora diviene una moglie egoista, una madre scostante ed un pericolo per l’uomo. Soltanto nei primi anni Novanta, secondo lo studioso, si ha un’attenuazione del riflusso patriarcale con il conseguente ritorno sugli schermi di figure femminili meno stereotipate. Nel saggio viene riportata anche l’interessante tesi dello studioso Fred Pfeil (“From Pillar to Postmodernism” in Jon Lewis , ed., The New American Cinema, 1998) che tende a ricollegare «la restaurazione patriarcale, il rilancio dell’individualismo capitalistico e il ritorno della narrazione “forte” degli anni Ottanta» (p. 126).

Da parte nostra abbiamo affrontato il clima di nostalgia e di bisogno di normalità trasmesso dal cinema americano degli anni Novanta nello scritto “A Family Affair” (2004) [su Carmilla] mostrando come in molte opere si palesi la crisi della vecchia istituzione famigliare ed una visione nostalgica per un’epoca idilliaca che sembra essersi eclissata. In diverse pellicole dell’epoca il riscatto della nazione, gravemente ammalata, sembra potersi dare solo attraverso la riconquista, da parte maschile, di quello smarrito senso di responsabilità nei confronti della sua cellula base: la famiglia. In sostanza il ristabilimento del sistema patriarcale viene presentato come condizione necessaria al riscatto dell’intera nazione.

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

Falling Down (1993, Joel Schumacher)

In “A Family Affair” abbiamo evidenziato come in diverse opere l’incapacità, non solo da parte maschile, di far fronte ai problemi che investono la famiglia, conduca i protagonisti a veri e propri deragliamenti mentali e comportamentali. Ad accomunare molti film è il desiderio provato dai protagonisti di riottenere quella normalità americana andata perduta certo anche a causa loro, ma, più spesso, per colpa di una società che, inspiegabilmente, sembrerebbe aver perso la bussola. È un’America malata quella messa in scena, con personaggi che manifestano i sintomi della malattia: l’incapacità di costruirsi una normalità, di praticare quei valori tramandati da generazioni a cui si credeva e si vuol continuare a credere. I protagonisti percepiscono non solo la propria incapacità nel raggiungere tali obbiettivi ma anche di trovarsi di fronte una società ostile, pronta a rinfacciare loro i fallimenti.
Sempre in “A Family Affair” abbiamo visto come non manchino film in cui la perdita di identità di un membro della famiglia sembra derivare dal successo professionale quando al suo conseguimento corrisponde la perdita dei vecchi valori sui quali si fondava il rapporto di coppia.

Di Chio sottolinea giustamente come la serializzazione di alcuni film d’azione o d’avventura finisca con il minare la narrazione forte: al fine di giustificare nuovi capitoli, al protagonista è negata la risoluzione definitiva della minaccia che affligge il mondo. In tali film l’eroe risolve la minaccia immediata ma «non riesce a operare una piena trasformazione di sé e della realtà in cui vive. Ed è questa la grande differenza con il regime classico» (p. 126). A tale incapacità risolutiva che tocca tanto il cinema, quanto le produzioni televisive, facilmente seriali, si supplisce spesso con eccessi autoreferenziali poco utili all’evoluzione narrativa e/o con un’accentuazione dell’aspetto ludico.

Naturalmente, a fianco di una produzione hollywoodiana orientata all’ottimismo superficiale, esiste anche una proposta più amara e riflessiva. Non mancano infatti opere votate a smascherare le ipocrisie e i miti riproposti. Nel saggio sono elencati diversi film che denunciano la politica istituzionale ed il mito yuppie, che sottolineano la fine dell’innocenza americana e palesano le difficoltà di convivenza tra le diverse etnie e tra i diversi orientamenti sessuali. Occorre sottolineare che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta finalmente anche la televisione propone situazioni problematiche, tanto da giungere a mettere in scena rappresentazioni della famiglia meno stereotipate e più critiche.

Nel corso degli anni Ottanta diverse opere cinematografiche danno immagine ad una problematica che inizia a diffondersi nell’immaginario collettivo occidentale: la mutazione. Come abbiamo sostenuto nello scritto “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” (2004) [prima parte e seconda parte, su Carmilla] tale tematica non può essere ricondotta al solo New Horror del decennio; la sensazione di perdere la propria identità è una problematica diffusa che ha a che fare con la paura o, in misura minore, con la speranza della mutazione. L’idea stessa di mutazione sembra svilupparsi in reazione alla perdita dell’identità e se il più delle volte l’individuo tenta di resistere alla mutazione, in altri casi ne palesa la necessità.

Sempre in “Immagini e trasformazioni postindustriali americane” abbiamo visto come il cinema degli anni Ottanta e Novanta metta in scena diverse forme di crisi di identità e diverse forme di mutazione: crisi della middle class, classe cinematografica per eccellenza, in preda all’amaro risveglio post-reaganiano (crollo del tenore di vita e del sogno americano), crisi dell’identità di genere tradizionale (amplificata dall’incapacità maschile di comprendere il mutato ruolo sociale), dunque crisi della famiglia e con essa dell’idea di nazione ma anche crisi dell’individuo nei confronti delle nuove tecnologie di comunicazione e dei relativi modelli di percezione delle realtà.

Nei film di questo ventennio il senso di crisi che ha investito la società americana è rappresentato a volte come crisi temporanea di un modello fondamentalmente sano, altre come crisi definitiva che ha finito per colpire anche l’unico sistema sopravvissuto alla guerra fredda. A tal proposito nella nostra analisi abbiamo indicato due filoni di opere, dai confini non sempre marcati: uno votato alla nostalgia per un passato felice andato perduto, ed uno decisamente più apocalittico.

Spesso nelle produzioni hollywoodiane tanto le visioni progressiste quanto quelle reazionarie tendono ad individuare le cause della deriva non nelle fondamenta stesse del modello americano, ma nelle deviazioni dalla retta via che esso ha subito. Se la visione più reazionaria tende a leggere la disgregazione come conseguenza di ciò che ha prodotto l’epoca della contestazione (a cui vengono sostanzialmente imputate la sconfitta militare in Vietnam, la distruzione della famiglia come nucleo-base della società, il dilagare dei problemi razziali, il disordine sessuale ecc.), la visione più progressista proposta dal cinema sembra voler ricercare le colpe in quella politica economica ultraliberista che, al potere, ha prodotto il cinismo individualista di uomini d’affari senza scrupoli che ha distrutto quanto generazioni e generazioni di veri americani hanno pazientemente costruito. In entrambe le letture il male non sembra tanto essere endemico al modello quanto piuttosto derivato dal suo tradimento.

L’idea di vecchia-America socialmente unita e solidale, che sugli schermi sembra propria tanto della visione conservatrice quanto progressista, tende a vedere nei mali dell’America contemporanea il crollo di tutti i suoi valori a causa di chi ha operato smarrendo l’American way. La soluzione, in entrambi gli approcci, parrebbe essere nel ristabilimento dell’ordine e della morale di un tempo, dunque in molte pellicole si procede secondo una narrazione volta alla redenzione.

Molti film mettono in scena personaggi cresciuti con sani valori che, improvvisamente, ed inspiegabilmente, si trovano magari a maneggiare tastiere di computer pericolose come i comandi delle testate nucleari, in grado di distruggere l’intero sistema costruito da generazioni di americani che ora si sentono traditi da quegli stessi figli che hanno messo al mondo. Può il mito americano aver allevato un mostro? É possibile porvi rimedio e redimerlo dall’interno? O siamo di fronte ad un mostro che soltanto oggi inizia a mostrare anche alla middle class quanto milioni e milioni di individui di ceto sociale più basso, all’interno ed all’esterno del paese, conoscono già da diverso tempo? Sulla sostanziale coincidenza tra tante visioni progressiste e quelle più apertamente reazionarie ha impietosamente insistito Sandro Moiso in diversi suoi scritti utili a comprendere l’attualità statunitense. Si veda, ad esempio, “Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo)” (2017) [su Carmilla].

Se c’è una cosa che i colletti bianchi, nel corso degli anni Ottanta, hanno finito per comprendere, al di là della retorica mediatica a cui hanno voluto prestar fede fino a quando non ne sono stati coinvolti direttamente, è il vero significato del termine ristrutturazione: peggioramento delle condizioni e dei rapporti di lavoro, se non il licenziamento vero e proprio. E quell’America cresciuta con il mito del consumo illimitato senza pensare che si sarebbe potuto perdere il lavoro e con esso tutto il resto, quell’America che ha contribuito a costruire e difendere il Paese, improvvisamente si sente abbandona a se stessa.

Anche in American storytrelling viene concesso spazio al problema dell’ibridazione corpo/macchina segnalando come diverse pellicole affrontino «la dissoluzione, lo slittamento, l’incertezza dell’identità personale e la labilità della soglia tra umano e non umano, nelle due opposte forme dell’umanizzazione del non umano, con il proliferare di cloni, droidi, robot; e della disumanizzazione dell’umano, insistendo sulla virtualizzazione delle esperienze» (p. 128). Da parte nostra abbiamo affrontato l’immaginario attorno al quale ruotano tali tipi di opere nello scritto “Il postumano tra soggettivazione emancipatoria e nuove forme di dominio” (2016) [su Carmilla].

L’insistenza sul corpo umano di molti film si lega inevitabilmente alla riflessione sull’identità americana che «si è costruita storicamente sull’esistenza di un nemico esterno, dai pellerossa ai comunisti, dai nazisti ai viet-cong» (p. 129). Dal momento che viene a mancare una minaccia esterna sentita come realmente tale, l’individuo americano tende a rivolgersi verso di sé: «al corpo che non ci risponde più, alla mente che ci tradisce o che si sdoppia, alla fantasia che ci minaccia. Nell’era dell’individualismo senza antagonisti, insomma, il nemico sono io. Non a caso, altro grande tema ricorrente è l’indistinzione di realtà e immaginazione» (p. 129).

Se dal punto di vista contenutistico la produzione hollywoodiana degli anni Ottanta è certamente contraddistinta da un evidente rappel à l’ordre, pur essendo più variegata di quel che appare ad un primo sguardo, dal punto di vista produttivo il nuovo decennio porta invece una vera e propria rivoluzione tecnologica, con le sue inevitabili ripercussioni produttive e distributive: si apre l’era digitale e con essa l’età della convergenza. In altri termini l’innovazione digitale e la rimozione di vecchi vincoli normativi permettono forme convergenti tra Studios, Broadcaster televisivi, DVD, tv multi-channel ed internet che non mancano di avere importanti ricadute anche sull’immaginario collettivo. Qua si apre davvero una nuova fase tutta da approfondire.

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2016/08/09/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-nemici-dellamerica-nemici-dellumanita/ Tue, 09 Aug 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29805 di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto [...]]]> di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto essere il nemico in un determinato momento storico, dall’altro tale rappresentazione contribuisce a rafforzare alcuni aspetti stereotipati dell’immaginario del periodo. Se spesso si tratta di confermare e rafforzare convincimenti in linea con l’establishment, in altri casi il cinema non manca di svolgere una funzione critica anche radicale.

Sono diversi i nemici individuati ed affrontati nel corso del tempo dall’America e, direttamente od indirettamente, dal suo cinema fantascientifico. Per sommi capi, a partire dal Secondo conflitto mondiale, si possono elencare: il Giappone con il suo attacco improvviso a Pearl Harbor; la Germania nazista con le sue mire espansionistiche; l’Unione Sovietica ed in generale la diffusione del comunismo; il Medioriente forte delle sue risorse petrolifere desiderate e considerate immeritate dall’Occidente. Vista la potenza di fuoco di cui il cinema a stelle e strisce dispone, la figura del nemico da esso messa in scena coincide con il nemico dell’intera umanità. Nonostante, in un modo o nell’altro, i nemici dell’America tendano ad essere presentati come i nemici dell’umanità, non mancano pellicole di science fiction in cui il nemico è lo stesso establishment statunitense con i suoi eterni vizi imperialisti e guerrafondai.

Al fine di approfondire tali questioni, risulta utile far riferimento al libro di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014). Il volume attraversa la storia del cinema di fantascienza americano alla ricerca delle modalità con cui viene presentata la figura del nemico. Certo, non ci si può attendere un’analisi esaustiva di un genere che ha prodotto centinaia di pellicole, soprattutto se si vogliono esaminare anche le opere di minor qualità. La scelta dei film operata da Giacomelli è inevitabilmente parziale ma si tratta di una buona base di partenza su cui riflettere e, volendo, l’analisi proposta dallo studioso può essere integrata da opere non citate e/o se ne possono togliere alcune che appaiono ai limiti del genere o, ancora, nulla vieta di riassemblare i film trattati secondo logiche differenti.

La prima tappa del viaggio di Giacomelli all’interno della cinematografia fantascientifica statunitense parte dagli anni ’40, quando gli schermi risultano popolati da figure di mad doctor, in linea con i timori esercitati dal progresso scientifico applicato all’ambito bellico che richia di finire nelle mani di folli megalomani. Il cinema di fantascienza, sostiene l’autore, non è riuscito a trarre grande ispirazione dal nemico giapponese, nonostante il suo rappresentare un antagonista infido che attacca di sorpresa ed alle spalle. Piuttosto, il riferimento al Giappone, nell’abito fantascientifico, si è concentrato sul tragico epilogo del conflitto bellico rappresentato della bomba atomica americana, con i suoi nefasti effetti che, oltre al massacro immediato, si proiettano sull’ambiente e sulle generazioni a venire. Il filone dei monster movie degli anni ’50 si sviluppa proprio a partire dai disastri provocati dagli esperimenti nucleari, tanto che nello stesso Giappone vengono prodotti diversi film ruotanti attorno alla figura del mostro derivato dalle mutazioni innescate dalla catastrofe atomica di Hiroshima e Nagasaki e dagli esperimenti nucleari nel Pacifico. A tal proposito non si può che citare il nipponico Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954).

Negli anni ’40 il cinema americano preferisce concentrarsi sul nemico nazista seppure, si argomenta nel saggio, in maniera indiretta. Secondo l’autore, «è possibile riscontrare un’influenza tra la fanta-scienza del Terzo Reich e la fantascienza cinematografica» (p. 26). Non è pertanto difficile cogliere il parallelismo tra la figura dello scienziato pazzo, incline ad utilizzare gli sviluppi scientifici per folli progetti personali, ed i gerarchi e medici nazisti, quando non lo stesso Führer, con i loro progetti eugenetici.

Dr_Cyclope_and_HimmlerNel saggio vengono portati tre esempi su tutti di opere degli anni ’40 in cui compaiono figure di mad doctor. Il primo, Mostro Pazzo (The Mad Monster, Sam Newfield, 1942), narra la storia di uno scienziato che, al fine di rafforzare le truppe americane nella loro guerra contro il Terzo Reich, finisce col progettare un’armata di soldati licantropi. Il film pare voler mettere in guardia gli Stati Uniti dai rischi che si corrono nell’accentrare troppo potere nelle mani di un singolo che può rivelarsi un pazzo. Il secondo film, Il Dottor Cyclops (Dr. Cyclops, Ernest B. Schoedsack – Merian C. Cooper, 1940), è un’opera in cui uno studioso, non a caso di origine nord europea e palesemente somigliante ad Heinrich Himmler, decide di miniaturizzare coloro che intralciano i suoi esperimenti, suggerendo così allo spettatore l’idea del malvagio che costruisce un regno di terrore in cui gli altri esseri umani vengono sovrastati, miniaturizzati, appunto. Nel terzo caso, La donna e il mostro (The Lady and the Monster, George Sherman, 1944), si racconta di uno scienziato che riesce a mantenere in vita il cervello degli esseri umani anche dopo la morte e di come tale esperimento finisca con lo sfuggirgli di mano visto che il cervello mantenuto in vita risulta in grado di controllare la volontà altrui. In queste tre pellicole il nemico è da ricercarsi nelle mire megalomani di qualche scienziato pazzo ma non si manca di denunciare la responsabilità di chi consente che ciò accada: la Nazione deve impedire che un singolo sia messo in condizione di determinare la rovina del Paese se non dell’umanità intera.

Terminatala la Seconda guerra mondiale si entra presto nella Guerra Fredda ed il nemico cambia dentro e fuori lo schermo. Il Blocco sovietico sostituisce il Terzo Reich ed al regime hitleriano succede il pericolo comunista. Il filone cinematografico fantascientifico non può che trarre feconda ispirazione dalla corsa allo spazio che vede l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti contendersi il cielo e, soprattutto, attraverso esso, il primato in ambito scientifico, tecnologico e militare. In un simile clima che mette a contatto l’essere umano con lo spazio, la science fiction, attraverso centinaia di romanzi e film, non può che far riferimento ad invasioni aliene e conflitti stellari. «Il nemico assume sembianze polimorfiche, si insinua nella mente, prende il controllo delle sue vittime, è invisibile, subdolo e letale. È alieno e spesso marziano, rosso come il pianeta da cui proviene e come il paese in cui vivono i russi, comunista. Il nemico può nascondersi ovunque, assumere le sembianze dell’americano modello, arrivare perfino ai vertici politici. E così la concretizzazione della paranoia dilagante è presto in atto» (p. 33).

Soprattutto a partire dai primi anni ’50, con il diffondersi del maccartismo, non solo il vero nemico dell’America è il comunista ma questo può essere chiunque. Dunque, sostiene Giacomelli, «dagli anni ’50 agli anni ’70 […] il nemico aveva una valenza ben specifica ma allo stesso tempo non possedeva una fisionomia autentica. Chiunque poteva essere il nemico e il cinema di fantascienza lo intuì ammantando gli alieni invasori che popolavano i cinema degli anni ’50 di chiare connotazioni metaforiche che richiamavano le paure dell’epoca» (pp. 33-34).
Gli alieni, proprio come i comunisti, mirano a colonizzare il pianeta mimetizzandosi con i comuni esseri umani. Il film simbolo di tale filone di alieni alla conquista della terra è indicato dal saggio in L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956). In realtà il regista e lo sceneggiatore affermano di non aver mai pensato a metafore politiche che vedessero le forze aliene identificabili con i comunisti ma resta il fatto che il film, contestualizzato all’interno della Guerra Fredda, non può che esser letto dal pubblico americano degli anni ’50 in tal modo.
Nel film A prova di errore (Fail-Safe, Sidney Lumet, 1964), rifatto per la tv nel 2000 da Stephen Frears, tratto dall’omonimo romanzo di Eugene Burdick ed Harvey Wheeler, si fa riferimento a come il malfunzionamento tecnologico determini la catastrofe nucleare. Chiaramente, suggerisce Giacomelli, il film riesce a risultare coinvolgente anche grazie al clima che si è venuto a creare con la Crisi dei missili di Cuba del 1962. Anche nel celebre lungometraggio Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove: How I Learned to Stop Worrying and love the Bomb, Stanley Kubrick, 1964) si fa riferimento all’avvio della catastrofe nucleare. In questo caso la causa non è imputabile ad un errore tecnologico ma alla follia militare supportata da un consigliere ex scienziato nazista che sogna la ripopolazione del pianeta, dopo il disastro, ad opera di una razza superiore. Attraverso il registro della commedia grottesca, il film di Kubrick, tratto dal romanzo del 1958 Allarme Rosso (Red Alert) di Peter Geroge, mostra che «il nemico è come una serpe che l’America ha covato in seno per diverso tempo» (p. 37). E questa serpe è parte integrante dell’establishment.

giacomelli_nemici_americaA proposito di film statunitensi che, rifacendosi alla corsa allo spazio delle due superpotenze, si concentrano sulla possibilità di invasioni aliene o sui pericoli provenienti da quello spazio che l’uomo intende conquistare, Giacomelli si sofferma su Uomini sulla Luna (Destination Moon, George Pal, 1950) e RXM – Destinazione Luna (Rocketship XM, Kurt Neumann, 1950). Nel primo film viene mostrata la frenesia delle superpotenze intente a giocare d’anticipo sulla rivale e come la scelta di affrettare i tempi da parte americana, determini una serie di problemi risolti soltanto grazie ad un patriottico happy end. Nel secondo lungometraggio alcuni astronauti americani, finiti per errore su Marte, hanno modo di vedere gli esiti di una guerra atomica che ha sconvolto gli abitanti del lontano pianeta e, sul finale del film, l’umanità viene esplicitamente messa in guardia circa gli esiti nefasti di un conflitto nucleare. Anche Conto alla rovescia (Countdown, Robert Altman, 1967) mostra come la fretta di anticipare gli avversari porti gli americani a mettere piede sulla luna il più presto possibile. A metà anni ’70 la competizione tra USA ed URSS nella corsa allo spazio termina con una missione in cui i due paesi collaborano. Anticipando i tempi La cortina di bambù – Il mistero di Saturno (The Bamboo Saucer, Frank Telford, 1968) narra di una collaborazione spaziale tra russi ed americani contro la Cina. Non sfugge come il comune nemico cinese proiettato nello spazio dagli schermi cinematografici coincida con l’epoca della Rivoluzione culturale di Mao.

Affinché termini la Guerra Fredda nella realtà occorre attendere la finire degli anni ’80, nel frattempo, ricorda Giacomelli, la fantascienza americana produce film che non mancano di palesare nuove e vecchie paure. Ad esempio, Capricorn One (id., Peter Hyams, 1978) è un film che narra di un finto sbarco americano su Marte traendo linfa dal diffondersi negli anni ’70 di teorie cospirazioniste che manifestano dubbi anche a proposito dell’autenticità dello sbarco sulla luna di Apollo 11. Dopotutto non è passato molto tempo dallo svelamento delle menzogne relative al Watergate ed alla guerra del Vietnam. Il nemico tende, dunque, ad essere identificato nel Governo stesso e nelle agenzie che cospirano alle spalle dei cittadini. Il saggio cita anche The Day After – Il giorno dopo (The Day After, Nicholas Meyer, 1983) come esempio di film che continua a narrare del confronto militare-nucleare tra le due superpotenze. Invece, in Essi Vivono (They Live, John Carpenter, 1988) la pura deriva dalla possibilità di controllare la volontà altrui ed in questo caso la minaccia, suggerisce l’autore, anziché comunista appare essere borghese e capitalista.

Chiusa la parentesi della Guerra Fredda, il nuovo nemico, dentro e fuori dagli schermi, diventa il mondo mediorientale: un antagonista che palesa una cultura, una religione ed usanze difficilmente conciliabili con l’Occidente. Ovviamente la contrapposizione dell’America con il nemico mediorientale inizia ben da prima dell’abbattimento delle Twin Towers, comunque la Prima Guerra del Golfo si ha ad inizio anni ’90 ed un decennio dopo è la volta della Seconda e, «come accaduto nei precedenti conflitti che hanno delineato la fisionomia del nemico statunitense, è l’intero Occidente ad entrare in prima persona nella questione. Il terrorista diventa l’incubo post 2000 per eccellenza […] Bin Laden è il moderno ba-bau, immortale raffigurazione del terrore capace di spazzare via i simboli del potere occidentale, ossessione di una nazione» (p. 43). Il nemico è il mediorientale, non importa di quale nazionalità, egli rappresenta una minaccia senza volto, un nemico pronto ad immolarsi senza preavviso, un po’ come i vecchi kamikaze giapponesi.

In RoboCop (id., José Padilha, 2014), reboot realizzato dal regista brasiliano del film degli anni ’80 di Paul Verhoeven, «l’intento di attualizzazione della vicenda che da un immaginario futuristico di fine anni ’80 avrebbe dovuto legarsi a quello post 2000, tende a identificare immediatamente il mediorientale come minaccia per gli Stati Uniti, da combattere e soprattutto da prevenire. […] Il film di Padilha si muove poi su altri terreni che interessano, oltre al conflitto politico interno, anche le questioni di carattere etico sull’utilizzo della tecnologia applicata alla medicina, ma [l’incipit] già riesce ad inquadrare efficacemente la preoccupazione tutta americana verso un estraneo imprevedibile e l’azione diretta per sabotarlo e prevenire la minaccia che in passato ha colpito il cuore degli Stati Uniti» (pp. 44-45).

Cloverfield (id., Matt Reeves, 2008), film che riprende le modalità del mockumentary, è indicato dallo studioso come apologo sulle paure americane post 11 settembre: «Cloverfiled è proprio il manifesto più esplicito di un malessere comune tra i cittadini di New York (e on solo), che sotto all’aspetto del film di genere nasconde il più efficace e spaventoso specchio della tragedia avvenuta e sempre pronta a ripetersi» (pp. 46-47). Nel film il mostro che semina distruzione nelle strade di New York è ripreso dal “cineocchio” di un ragazzo qualsiasi che si ritrova casualmente a documentare gli avvenimenti. «Una sorta di temerarietà da testimone (audio)visivo che nell’epoca di You Tube e dei videofonini si inocula nel più impensabile individuo, spinto dalla voglia di documentare, di poter dire ad amici ed estranei “io c’ero” […] nel post 11 settembre Cloverfield utilizza a suo vantaggio la paura per gli attentati terroristici e ne ricrea il caratteristico clima di terrore trasfigurandolo in una nuova creatura che si va ad aggiungere al nutrito bestiario di mostri di fantascienza che da oltre mezzo secolo spaventa e diverte il pubblico» (p. 47)

Se la paura per il gesto terroristico, per l’azione improvvisa del nemico, accomuna diverse produzioni di science fiction catastrofica contemporanea, nel saggio si ricorda come non siano mancati cenni ad attentati terroristici nemmeno nel cinema di fantascienza del passato, come, ad esempio, avviene nel film La guerra dei mondi (War of the Worlds, Steven Spielberg, 2005), attualizzazione di inizio millennio del romanzo di H.G. Wells del 1898. L’invasione aliena ai danni dell’umanità narrata dal romanzo ben si presta ad attualizzazioni: «il marziano è il diverso con intenti ostili, colui che proviene dall’altra parte del confine e invade il nostro territorio con potenza distruttiva. Ogni epoca ha la sua guerra e ogni guerra ha, secondo il punto di vista, un nemico ostile e guerrafondaio» (p. 47). Giacomelli ricorda come il romanzo di Wells abbia dato «profetica forma al nemico giapponese nel celebre sceneggiato radio curato da Orson Welles nel 1938 ed è stato adattato con efficacia nel 1953 nella riduzione cinematografica di Byron Haskin… Nel film di Haskin il nemico venuto da Marte poteva essere letto come la metafora del nemico comunista […] e infatti si inseriva nel momento clou della Guerra Fredda» (pp. 47-48). Se nel film di Haskin dei primi anni ’50, in fin dei conti, sembra essere la fede cristiana a «veicolare l’abbattimento delle navette spaziali aliene», nel film di Spilberg del 2005 sembra , piuttosto, essere la fede nella famiglia a determinare la sconfitta aliena.

Invasion_body_Snatchers_1956Anche il già citato L’invasione degli ultracorpi (1956), tratto dal romanzo di Jack Finney, viene indicato dal libro come opera-simbolo della “paranoia da Guerra Fredda”. Il romanzo di Finney è fonte d’ispirazione anche per Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) che, secondo Giacomelli, rappresenta la versione più pessimistica tra le opere cinematografiche ispirate all’opera narrativa. Nei primi anni ’90 i pericolosi baccelli alieni tornano nel film Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993) ed, in questo caso, non è difficile scorgere l’eco della Guerra del Golfo. Nel film di Ferrara l’invasione nemica prende avvio proprio in una base militare americana, il male si propaga a partire da quel mondo militare che dovrebbe difendere il Paese dagli attacchi nemici. I militari «sono i primi a cadere sotto il fuoco omologante dei parassiti vegetali di provenienza extraterrestre, che trovano nel mondo militare un ambiente molto fertile ai loro intenti di massificazione. La mente militare, infatti, detta la disciplina e la disgregazione dell’ego di fronte ai dettami di chi è gerarchicamente superiore, un’ideologia che svuota le coscienze così come gli invasori alieni fanno con le vittime umane, creando così un parallelismo che sembra minare in special modo i sistemi di difesa dell’uomo, rendendolo inerte di fronte all’attacco nemico» (p. 49). Tutto ciò ci induce a prendere atto che, in realtà, il nemico siamo noi.

Nella serie televisiva Invasion (ideata da Shaun Cassidy, 2005-2006), all’interno di uno scenario di provincia semi-rurale scosso dai grandi uragani che hanno sconvolto gli Stati Uniti, si torna a trattare la clonazione e l’assenza di emozioni delle copie che sostituiscono gli esseri umani. In questo caso viene narrata una società in cui non ci si può più fidare di nessuno e in cui non ci si riconosce più nemmeno all’interno della famiglia. Nel film Invasion (The Invasion, Oliver Hirschbiegel, 2007), ennesima produzione cinematografica che si rifà al romanzo di Finney, si torna ad ambientazioni metropolitane che, secondo Giacomelli, evidenziano un parallelismo tra il loro presentarsi lugubri e l’assenza di emotività che contraddistingue i replicanti alieni. In questo caso «sono gli stessi corpi umani a trasformarsi in armi per il nemico, come se l’uomo fosse già predisposto al cambiamento, all’invasione. […] Il male è già sedimentato nell’essere umano, ha bisogno solo di una spinta esterna che possa farlo emergere e Invasion ci lascia il dubbio che il cambiamento in atto non sia proprio un male, ma semplicemente una ulteriore fase del processo evolutivo e adattativo dell’essere umano» (p. 51).

battle-los-angelesIn alcuni film gli extraterrestri-invasori rimandano esplicitamente al nemico mediorientale ed a tal proposito il saggio si sofferma su Skyline (id., Colin Strause, Greg Strause, 2010), che sin dal titolo rinvia all’attacco al WTC, e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2011), ove i marines si trovano a combattere strada per strada «contro una minaccia aliena che mira all’estinzione dell’umanità, anzi dell’americanità, vista l’enfasi patriottica che la vicenda tende a sollevare soprattutto con l’esaltazione della figura del soldato a stelle e strisce» (p. 51). In Dead Air (id., Corbin Bernsen, 2009) il virus letale che deve distruggere l’America è propagato da un gruppo di terroristi esplicitamente mediorientali. In questo caso, suggerisce il saggio, il film, nel far ricorso a tutti gli stereotipi relativi al terrorista arabo, scadendo nel becero razzismo, ha almeno il merito di esplicitare la xenofobia dilagante dell’America di Bush Jr. Il film riprende la tematica del contagio ed in questo caso si tratta di un virus diffuso nell’aria dai terroristi mediorientali che provoca comportamenti aggressivi ed antropofagi. Nonostante il piano criminale non si attui totalmente, il Paese, una volta che si è messo in moto il contagio, pare ormai destinato a dover continuare a fare i conti con rabbiosi, distruttivi e dinamici morti viventi. «Per l’opinione pubblica le azioni terroristiche provenienti dal Medio Oriente sono la paura reale di inizio secolo, aggressori che distruggono le certezze e la quotidianità di ogni individuo, di ogni onesto lavoratore colpito a morte nelle sua stessa abitazione o sul luogo di lavoro […] Si tratta di nemici degli Stati Uniti e, di riflesso, dell’intero Occidente» (pp. 53-54).

Giacomelli, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America, si concentra sulle figure dell’Umano e dell’Alieno così come vengono presentate dalla science fiction statunitense. Entrambe le figure vengono analizzate come figure di nemico: l’essere umano come minaccia per se stesso e per il pianeta, come artefice del male, causa e conseguenza dei disastri e l’Alieno come figura su cui proiettare, quasi sempre, le caratteristiche peggiori dell’umanità stessa. Nel nostro prossimo scritto ci soffermeremo su tali aspetti analizzati dall’autore nella seconda parte del saggio.

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