rivoluzione industriale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Alle radici della Rivoluzione industriale: la schiavitù https://www.carmillaonline.com/2024/03/06/alle-radici-della-rivoluzione-industriale-la-schiavitu/ Wed, 06 Mar 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81300 di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua [...]]]> di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua morte.

E’ considerato come uno dei più noti storici dei Caraibi, insieme a Cyril Lionel Robert James, soprattutto per il suo libro intitolato “Capitalismo e schiavitù”, appena pubblicato in Italia da Meltemi editore. Frutto di uno studio del 1944, la ricerca costituisce un’opera imprescindibile per la comprensione dello sviluppo e del successo dell’Impero britannico e della Rivoluzione industriale. Collegando la seconda alla tratta atlantica degli schiavi e ripercorrendone l’ascesa e la caduta, tra Settecento e Ottocento, e sostenendo che l’impiego di schiavi neri nell’Impero britannico – e, di conseguenza, il fenomeno del razzismo – abbia avuto inizio per ragioni di natura esclusivamente economica, ovvero promuovere il capitalismo industriale attraverso il reperimento di manodopera a basso costo, l’autore caraibico smonta e disvela la fasulla retorica liberale sull’umanitarismo che l’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale avrebbe portato con sé.

In Eric Williams l’impegno politico e l’attività di ricerca storica non andarono mai separate, come dimostra nella Premessa William Darity Jr.:

Fervente nazionalista trinidadiano, Williams mostrava verso i suoi concittadini un sentimento misto, tanto di profondo attaccamento quanto di alterigia. Negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza, tra il 1955 e il 1962, egli si propose espressamente di portare la sua erudizione dentro al dibattito politico tenendo una serie di tortuose conferenze in una piazza del centro, nel cuore della capitale Port of Spain. I suoi discorsi contribuirono a rendere il luogo popolarmente noto come l’“Università di Woodford Square”. Eric Williams era l’insegnante e il suo uditorio riceveva delle vere e proprie lezioni accademiche di storia trinidadiana, caraibica e transatlantica, in particolare riguardo al commercio degli schiavi, alla schiavitù e al colonialismo europeo1.

Fu proprio su quella piazza che, il 15 gennaio 1956, Eric Williams lanciò il People’s National Movement (PNM), il partito politico di cui da lì in poi sarebbe stato alla guida per un quarto di secolo. Woodford Square, che prendeva il nome da un governatore coloniale razzista e corrotto dei primi dell’Ottocento, Sir Ralph James Woodford, fu ironicamente anche il luogo in cui si sarebbero radunati gli ideatori del movimento per il Black Power negli anni Settanta, trovandosi a discutere con lo stesso Eric Williams quando, durante il periodo della sua leadership, questi dovette affrontare lo status contraddittorio di essere a capo di un paese a predominanza nera sulla cui scena nazionale si stava imponendo l’attivismo del Potere Nero. Contraddizione che non fu mai risolta.

Tra il 1968 e il 1970, infatti, il movimento per il Black Power si era andato sviluppando a Trinidad e Tobago a partire dall’interno della Lega degli Studenti Universitari presso il Campus di Sant’Agostino dell’Università delle Indie Occidentali e si unì al sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi. In risposta alla sfida, lanciata dal Black Power durante il Carnevale dl 1970, Williams replicò con una trasmissione intitolata “Io sono per il Black Power” e introdusse un prelievo del 5% per finanziare la riduzione della disoccupazione e fondò la prima banca commerciale di proprietà locale. Tuttavia, questo intervento ebbe scarso impatto sulle proteste e il 3 aprile 1970 un manifestante fu ucciso dalla polizia. Il 18 aprile i lavoratori dello zucchero entrarono in sciopero e si parlò di uno sciopero generale. In risposta a ciò, Williams proclamò lo stato di emergenza il 21 aprile e arrestò 15 leader del Black Power.

Williams fece poi ancora altri tre discorsi in cui cercò di identificarsi con gli obiettivi del movimento Black Power, rimescolando il suo gabinetto e rimuovendo tre ministri e tre senatori, ma proponendo anche un disegno di legge sull’ordine pubblico che avrebbe limitato le libertà civili nel tentativo di controllare le marce di protesta. Disegno di legge che, però, dopo l’opposizione pubblica fu ritirato.

Anche se Eric William, una volta al governo, mostrò probabilmente i limiti e le contraddizioni di un cambiamento politico che non era seguito a una radicale rivoluzione nei confronti del dominio coloniale, lo stesso può essere considerato come uno dei più lucidi e spietati critici di quel “paternalismo” umanitario di cui il capitalismo britannico aveva voluto indossare i panni per giustificare con il “progresso” la propria secolare politica di rapina e oppressione che non era certo finita con la fase dell’accumulazione primaria. In cui pirati, come Sir Francis Drake, e schiavisti si erano contraddistinti e messi in bella mostra; tanto da far dire ad Adam Smith che è “il gentiluomo di ventura” (ovvero il corsaro descritto in termini più gentili) a rappresentare il primo e vero self-made man della tradizione individualista liberale.

La sua moderna critica del sistema di produzione che aveva sfruttato la manodopera schiava per incrementare il proprio sviluppo e i propri profitti non fu ben vista negli ambienti dell’Università di Oxford dove l’autore aveva studiato con ottimi risultati e soltanto con il ritorno oltre Atlantico, dove riuscì a ottenere un incarico come professore di Scienza politica e sociale presso la Howard University, che mantenne dal 1938 al 1948, riuscì a completare e a pubblicare le sue ricerche, iniziati già in Gran Bretagna con una tesi intitolata The Economic Aspects of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery – un po’ macchinoso rispetto alla precisa definizione di Capitalism and Slavery.

Prima di tornare nelle Indie occidentali, Williams aveva provato senza successo – con sei case editrici – a pubblicare la sua dissertazione del 1938 per l’Università di Oxford, e non era riuscito a ottenere un incarico accademico in nessuna università britannica. Questi ostacoli emersero nonostante Williams si fosse laureato con la lode, avesse difeso con successo la sua tesi davanti a una commissione formata dai più celebri storici dell’imperialismo di Oxford e malgrado si fosse classificato come il miglior studente del dottorato di ricerca in Storia della stessa università2.

Fu così che la ricerca, con il titolo con cui è diventata nota e con cui è stata pubblicata anche qui da noi, fu pubblicata nel 1944 dalla University of North Carolina Press. Evidentemente, una Università americana che, sarcasticamente Williams definiva come la “Oxford dei nei”, poteva allora permettersi di pubblicare un lavoro all’epoca troppo scomodo per il cuore degli studi imperiali inglesi, anche se anche all’Università di Howard i corsi fossero ancora « dominati da una premessa esplicita secondo cui la civiltà era il prodotto della razza bianca del mondo occidentale».

Ecco, proprio contro questa premessa, tutt’altro che soltanto sottintesa, o perlomeno contro l’apporto umanitario e civilizzatore degli imperi occidentali nei confronti del resto del mondo e dei popoli non bianchi, si rivolgeva l’analisi di Eric Williamsa. Così, in primo luogo, la sua tesi

si impegnava a sostenere, in modo dettagliato e ricco di evidenze, che l’abolizione britannica del commercio degli schiavi nelle Indie occidentali – ed eventualmente anche l’emancipazione delle persone in stato di schiavitù nei medesimi territori – era stata il frutto di un calcolato egoismo economico e strategico da parte dei funzionari inglesi. Williams si schierava così contro la scuola di pensiero che vedeva la causa primaria dell’abolizione e dell’emancipazione in un mutamento della moralità, in un travolgente sentimento umanitario nazionale3.

In secondo luogo, l’autore sostiene « come sia stata la schiavitù a produrre il razzismo, non viceversa». Sostenendo che il razzismo è un’ideologia emersa per fornire una potente razionalizzazione a una pratica assolutamente immorale ma economicamente profittevole.

La terza ipotesi che domina ampie sezioni di Capitalismo e schiavitù è l’argomento secondo cui il commercio degli schiavi africani e lo schiavismo nei Caraibi hanno alimentato lo sviluppo industriale britannico, facendo della schiavitù il fondamento storico del capitalismo inglese. Williams sostiene che la tratta e lo schiavismo sono stati cruciali per lo sviluppo economico britannico lungo tutto il XIX secolo, e che una volta affermatosi il progetto del “ciclo manifatturiero” essi hanno visto anch’essi declinare la loro importanza4.

Quest’ultima ipotesi è quella che lo avvicina di più a Marx, anche se è difficile capire se vi fu su di lui un’influenza diretta del pensatore tedesco, magari per il tramite di Cyril L. R. James (Port of Spain, 1901– Londra, 1989) di cui fu allievo, oppure, come si sostiene nella premessa:

È più probabile che – sempre che di influenza di Marx su Capitalismo e schiavitù si possa parlare – essa sia provenuta indirettamente dall’approccio di storia economica della Howard University, e in particolare da quello dell’economista Abram Harris.
Harris aveva anticipato l’analisi di Williams sulla relazione tra schiavitù nelle Americhe e industria britannica nel seguente pregnante passaggio di una sua pubblicazione del 1936, The Negro as Capitalist:

“Nella coltivazione della terra e nell’estrazione delle materie prime del Nuovo Mondo fu utilizzato dapprima il lavoro degli indiani e dei bianchi. Alla fine quello dei neri africani ebbe la precedenza su tutti gli altri e prese a esser visto come la fonte di un’offerta di forza lavoro quasi inesauribile e a basso costo. L’Africa ha rifornito il mondo occidentale non solo di lavoro ma anche di molto dell’oro necessario all’economia monetaria delle nazioni dell’Europa occidentale. In sintesi, l’introduzione del lavoro africano nelle Indie occidentali britanniche e i profitti ottenuti dal traffico di questa forza lavoro e dei suoi prodotti, oltre che dallo sfruttamento del continente africano per l’oro nei secoli XV e XVI, sono stati fondamentali per quell’accumulazione di capitale sulla cui base è stato costruito il sistema industriale inglese nel corso del Settecento. Analogamente, negli Stati Uniti, i profitti che il traffico degli schiavi ha portato al New England sono stati un fattore importante nella crescita dell’industria marittima e, al contempo, una fonte di surplus di ricchezza per l’industrialismo americano”5.

Nel capitolo XXXI del primo volume del Capitale, Marx aveva esplicitamente sostenuto che la schiavitù del “Nuovo Mondo” aveva costituito il pilastro cruciale dell’ascesa dell’industria britannica, motivo per cui “la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase del Nuovo Mondo”, sostanzialmente in piena sintonia con la terza ipotesi di Capitalismo e schiavitù. Ma il Moro di Treviri aveva trattato ancora il tema della schiavitù e del suo ruolo nel mantenimento della potenza dell’industria britannica anche nel corso della guerra civile americana quando, insieme al sodale Engels, aveva sostenuto la causa del Nord e di Lincoln, invitando gli operai ad arruolarsi nelle file dell’esercito federale, non per motivi “umanitari” ma per colpire, abolendo la schiavitù e il sistema delle grandi piantagioni del Sud degli Stati Uniti, una importantissima fonte di materie prime a basso costo che ancora alimentavano l’industria britannica e il suo colonialismo, diretto e indiretto.

Ecco allora che le riflessioni di Williams manifestano tutta la loro potenza ancora oggi, non soltanto nei confronti di un modo di produzione odioso che vuole, invece, fingersi sempre come il più umano e il più giusto possibile, ma anche di quella cancel culture che del primo è ancora succube, poiché soffermandosi sulla cancellazione delle “ingiustizie” non coglie lo stretto rapporto che intercorre tra queste e il sistema di produzione e riproduzione della vita che lo ha fondato e tutt’ora lo fonda, accontentandosi, troppo spesso e come sottolinea ancora William Darity nella sua premessa, di chiedere riparazioni e rimborsi per i torti subiti dagli antenati. Un risoluzione monetaria di crimini e oppressioni di cui proprio lo scambio mercantile e monetario hanno costituito, da sempre, la premessa.

In questo caso, occorre poi ancora sottolineare che, come afferma Williams in altra parte del testo, la progressiva abolizione della schiavitù non è dovuta a una nuova morale o a una progressiva perdita di convenienza economica della stessa, ma anche alla lotta vittoriosa degli ex-schiavi che, proprio nelle Antille, ad Haiti, avevano sconfitto militarmente sia le armate francesi, anche nella loro versione rivoluzionaria, che quelle inglesi inviate per sostituirle approfittando della debolezza della Francia già impegnata su troppi fronti. In questo caso è sicuramente da rilevare l’influenza di C. L. R. James e della sua opera: prima Toussaint L’Ouverture, pubblicata nel 1936, e successivamente The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution, del 19386.

Riconosciuto come “il punto di partenza per una nuova generazioni di studi”, Capitalismo e schiavitù resta ancora oggi una lettura essenziale per chi voglia comprendere la modernità e il mondo post-coloniale.


  1. W. A. Darity Jr., Premessa a E. Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, p. 9.  

  2. W. A. Darity Jr., op. cit., p. 11.  

  3. Ibidem, p. 12.  

  4. Ibid, pp. 13-14.  

  5. Ibid, pp. 14-15 

  6. trad. franc.: Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. di Pierre Naville, Parigi, Gallimard, 1949 e successivamente, in italiano, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968.  

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Il morbo neoclassico https://www.carmillaonline.com/2023/10/18/il-morbo-neoclassico/ Wed, 18 Oct 2023 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79245 di Sandro Moiso

Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro.

Al contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.

Steve Keen, professore [...]]]> di Sandro Moiso

Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro.

Al contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.

Steve Keen, professore di Economia alla Western Sidney University e Distinguished Research Fellow alla University College di Londra, importante critico della scienza economica convenzionale e uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi economica del 2007-2008, in questo testo appena uscito per Meltemi, nella collana «Rethink», cerca di dimostrarne l’infondatezza soprattutto sulla base dell’attuale e più che evidente cambiamento climatico di cui la suddetta teoria non ha mai tenuto sufficientemente conto.

Il giudizio espresso dall’autore sull’insieme degli assiomi del paradigma neoclassico è netto e tagliente:

Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quando mi sono reso conto dei difetti dell’economia neoclassica, il termine che esprime al meglio i miei sentimenti a riguardo è, come Marx disse del proto-neoclassico Jean-Baptiste Say, “insulsa” (Marx , Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,1857). Al meglio, il capitalismo è visto come un sistema che evidenzia l’armonia dell’equilibrio, dove ognuno viene pagato il proprio giusto salario (secondo il suo “prodotto marginale”), la crescita procede senza intoppi secondo un tasso che massimizza nel tempo l’utilità sociale e tutti sono mossi dal desiderio di consumare, invece che dall’accumulazione e dal potere, perché, per citare Say, “i produttori, benché abbiano tutti l’aria di chiedere soldi in cambio dei loro prodotti, in realtà vogliono scambiarli con altri prodotti” (Say, Catechisme d’economie politique, 1821, capitolo 18).
Che visione monotona e grigia del complesso e mutevole mondo in cui viviamo!1

Ed è proprio la complessità del mondo reale ad essere esclusa dai modelli economici neoclassici dominanti, a partire non soltanto dall’idea di un fantomatico equilibrio tra produzione, consumi, investimenti e “giusti” profitti raggiungibile soltanto attraverso l’applicazione di regole esoteriche derivate da calcoli improbabili, ma anche dalla sostanziale negazione della divisione in classi della società attuale.

Una visione “monotona” e riduttiva che già non ha saputo prevedere la crisi del 2007-2008, certamente la più grave e devastante crisi economico-finanziaria sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti dopo quella che aveva generato la Grande depressione a partire dal martedì nero del 29 ottobre1929, ma che ha fatto anche di peggio ignorando oppure sottostimando i danni, non solo economici, derivanti dal drastico cambiamento climatico in corso. Di cui l’attuale modo di produzione, insieme ai calcoli previsionali che lo accompagnano e “giustificano”, è uno dei fattori più rilevanti e devastanti.

Questa scuola, o dottrina economica, però ha un inizio e un laboratorio d’origine come racconta lo stesso Keen:

Com’è successo che la rappresentazione esaltante del capitalismo proposta da Marx sia stata sconfitta dalla insipida visione di Say? In parte è stato intenzionale. Nitzan e Bichler notano che il robber baron per antonomasia del XIX secolo, John D. Rockefeller, riteneva che i 45 milioni di dollari lasciati in dote all’università battista di Chicago, la quale sarebbe poi diventata l’alma mater di Milton Friedman, fossero il miglior investimento che avesse mai fatto (Nitzan J., Bichler S., Capital as Power: A Study of Order and Creorder [Londra 2009], p. 76.). Come ha sostenuto De Vroey, “il nuovo paradigma era particolarmente attraente perché sembrava scientifico al pari delle teorie delle scienze naturali, mentre evitava di trattare le pericolose tematiche degli interessi di classe e della trasformazione del pensiero […] Dal punto di vista della classe dominante capitalistica, il principale pregio del paradigma neoclassico era ed è proprio il suo essere innocuo” (De Vroey M., The Transition from Classical to Neoclassical Economics: A Scientific Revolution, «Journal of Economic Issues»,1975, p. 435.)2.

E’ infatti la scuola monetarista di Chicago,da cui ebbero inizio gli esperimenti politico-sociali che Milton Friedman suggerì di metter in atto nel Cile golpista di Pinochet, ad esser messa sotto accusa dall’autore del testo. Autore che, pur non allontanandosi affatto dal paradigma del mercato e degli scambi monetari e dei modelli matematici più adatti a migliorarne l’interpretazione (ma non il cambiamento radicale), ha sicuramente il merito di sottolineare i gravi danni che l’attuale modello interpretativo economico dominate causa a livello climatico e ambientale.

Mentre l’Europa e l’America soffocano in una delle estati più calde mai registrate, mentre tremende siccità pregiudicano i raccolti e azzoppano le centrali elettriche, mentre diluvi improvvisi distruggono paesi e città, emerge con forza il fatto che le cose non stanno così: abbiamo decisamente superato la capacità della biosfera di sostenere la nostra civiltà industriale. Il nostro obiettivo dovrebbe essere ridurre nel modo più equo possibile l’impronta ecologica dell’umanità,
non contribuire ad aggravare la situazione. Anche in questo caso l’economia mainstream è un ostacolo ingombrante a fare ciò che si dovrebbe fare. […] gli economisti ortodossi hanno sempre
minimizzato il pericolo rappresentato dal cambiamento climatico, in quelli che sono, senza alcun dubbio, i peggiori studi che abbia mai letto.
[…] Il fallimento degli economisti mainstream nell’analizzare gli effetti del cambiamento climatico è di gran lunga peggiore dei loro errori nel prevedere la crisi finanziaria globale, quando, ignorando del tutto la crescita del debito privato e sulla base dei loro modelli macroeconomici sbagliati, erano convinti che l’immediato futuro fosse decisamente roseo. Nel 2008, d’altronde, ci hanno solo condotto, bendati e inermi, alla più grande crisi economica dai tempi della Grande depressione. Questa volta, invece, ci stanno portando a vivere la potenziale, completa distruzione dell’economia capitalista per effetto dei cambiamenti climatici, proprio loro che del capitalismo sono i cantori.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di una teoria economica realistica, che sia in grado di tenere pienamente conto dei vincoli ecologici del pianeta finito in cui ci troviamo a vivere. E il compito fondamentale di questa economia nuova non sarà quello di gestire l’economia, bensì di salvare il salvabile dopo che sui nostri sistemi economici e sociali si sarà abbattuta la furia devastatrice di questo Prometeo scatenato con la complicità degli economisti neoclassici3.

Come ben si può comprendere da queste ultime righe l’intento di Keen non è quello di rivoluzionare l’attuale modo di produzione, nonostante i suoi frequenti ricorsi a Marx nel corso dell’esposizione, ma piuttosto quello di rendere più governabili i processi in atto e sviluppare una maggior “giustizia” distributiva in ambito economico e sociale. Ma l’interesse del libro sta proprio no tanto nel proporre nuovi modelli matematici di interpretazione dell’economia vigente e della sua crisi, quanto nell’avvicinare scienza economica e scienze naturali e fisiche. Sottolineando come l’attuale modello economico estrattivista ed energivoro sia destinato ad ampliare sempre più, e in maniera sempre più distruttiva, la tendenza all’entropia compresa nelle attività della specie rivolte alla sua sussistenza ovvero la tendenza alla dissipazione dell’energia senza possibilità di ricrearne.

Tendenza che, se era contenuta in quelle società che primariamente si affidavano alle energie rinnovabili (vento, acqua, energia animale o umana) o almeno parzialmente (ad esempio il calore prodotto bruciando legname che poi poteva essere rinnovato con nuove piantumazioni), ha raggiunto il massimo della sua capacità energivora e della sua voracità nei confronti dell’ambiente con lo sviluppo della Rivoluzione industriale e la susseguente necessità di consumare e distruggere ogni forma di risorsa e/o combustibile fossile.

Ecco allora che il giudizio sulla convenienza o meno del consumo delle risorse fossili non spetta tanto al mondo della morale o della politica, ma semplicemente a quello della fisica e delel sue leggi. Come afferma ancora Keen nella parte più interessante del suo testo:

Non c’è mai stata una crescita sostenibile. Se pensate altrimenti – se siete, per esempio, uno scettico del cambiamento climatico (come molti economisti, d’altronde) – dovreste prendere in considerazione quanto sostenuto di recente dun fisico (T. Murphy, Exponential Economist Meets Finite Physicist. Do the Mat, San Diego 2012). ora, la crescita delle nostre economie implica una crescita del nostro impiego di energia. Una crescita continua non può non tradursi in un’alterazione significativa del nostro pianeta, e la nostra economia, in ultima analisi, finirebbe per distruggere la vita sul pianeta Terra – e questo non ha niente a che fare con il riscaldamento climatico: è una conseguenza delle leggi della termodinamica.
In virtù della seconda legge della termodinamica, il ricorso all’energia per svolgere lavoro implica la generazione di una quantità prevedibile di dissipazione o di scarto. A un ritmo di crescita economica globale sostenuto, come il 2,3% annuo attuale – un tasso di crescita peraltro ritenuto al giorno d’oggi troppo basso, in quanto porterebbe a una crescita continua della disoccupazione – l’energia dissipata porterebbe la temperatura sulla superficie della Terra a quella dell’acqua che bolle (100°) per il venticinquesimo secolo […] Non credo sia necessario specificare che la vita sulla Terra per allora sarebbe scomparsa del tutto – e il capitalismo ben prima4.

E’ proprio il quarto capitolo del libro, intitolato Economia, energia, ecosistema, a rivelare definitivamente come l’economia del capitale e dei suoi servitori neoclassici non possa costituire altro che un’inevitabile produzione di morte e distruzione in tutte le loro più diverse forme. Vale dunque la pena di riportare quindi anche qui quanto citato da Keen nel suo studio, nel paragrafo dello stesso capitolo, intitolato Un futuro insostenibile, sostenendo che «il riscaldamento globale non ci concede il lusso dei secoli: abbiamo a stento qualche decennio. Abbiamo infatti raggiunto quel punto che già trent’anni fa Kennet Boulding chiamava “l’economia dell’astronauta”, rispetto all’“economia del cowboy” all’origine del capitalismo»:

Il sistema-Terra chiuso del futuro richiederà dei principi economici differenti rispetto a quelli della Terra aperta del passato. Per amor di metafora, sono tentato di chiamare l’economia aperta una “economia del cowboy”, dove il cowboy rappresenta simbolicamente le pianure senza confini ed è associato a un comportamento spregiudicato, sfruttatore, romantico e violento, tutte caratteristiche delle società aperte. L’economia chiusa del futuro invece potrebbe essere piuttosto un’“economia dell’astronauta”: la Terra è come una nave spaziale, senza riserve illimitate di alcun genere, sia per fini estrattivi sia per la gestione degli scarti, e in cui, ne consegue, l’uomo deve trovare necessariamente il suo posto in un sistema ecologico ciclico che riesca a sostenere una riproduzione costante delle sue forme materiali, anche se non può sottrarsi alla necessità di ricorrere a input di energia5.

Su queste riflessioni è bene concludere la recensione di un testo che evidenzia, tra le mille altre cose, anche se indirettamente, come il termine antropocene sia assolutamente da abbandonare a favore di un ben più preciso e utile capitalocene, soprattutto per tutti coloro che, oltre la critica climatologica e ambientalista, vogliano rivolgere la loro attenzione e pratica militante al superamento definitivo del modo di produzione più devastante, mai esistito prima, per la specie e per l’ambiente: quello capitalistico.


  1. Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, Capitolo sesto, p. 177.  

  2. S. Keen, op. cit., p.178.  

  3. Ibidem, pp. 12-14.  

  4. Ibid., pp. 142-143.  

  5. Boulding K.E., The Economics of the Coming Spaceship Earth. In Markandya A., Richardson J. (eds.), Environmental Economics: A Reader. New York, St. Martin’s Press, 1992, pp. 27-35 ora in N. Keen, op. cit., p. 143.  

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Contro l’etica e la disciplina del lavoro che uccide https://www.carmillaonline.com/2023/09/15/contro-letica-e-la-disciplina-delle-stragi-sul-lavoro/ Fri, 15 Sep 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78816 di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 190, 14 euro.

La recensione di questa indagine di Sandro Busso, edita dal Gruppo Abele, arriva per esclusiva colpa del recensore un po’ in ritardo, ma d’altra parte non vi potrebbe essere momento migliore per segnalarne l’importanza e indicarla come validissimo strumento per riflettere su quanto sta accadendo quasi quotidianamente nei cantieri e nelle fabbriche, a partire dalla strage di lavoratori avvenuta sui binari della stazione ferroviaria di Brandizzo.

Spesso, su Carmillaonline, chi qui scrive ha sottolineato l’hybris, l’arroganza e la tracotanza, di un modo di produzione che pur di soddisfare le proprie ambizioni di guadagno non si preoccupa minimamente della salvaguardia della specie e dell’ambiente in cui dovrebbe soprav/vivere. Un distruttività che in nome del profitto e del “lavoro” non si perita nemmeno di salvaguardare o proteggere chi, per salari spesso da fame, si adatta ad accettarne le logiche e le richieste legate a una necessità di estrazione di plusvalore e plus-lavoro che risponde soltanto agli interessi immediati del capitale e dei suoi miserabili funzionari.

Anzi, si potrebbe dire che proprio dallo sfruttamento selvaggio della forza lavoro deriva quello dell’ambiente e delle sue risorse, tra le quali, è bene non dimenticarlo mai, il lavoro umano e l’intelligenza ad esso applicata sono forse da annoverare tra le principali per il prosieguo della specie e della sua riproduzione.

Però è proprio sul concetto di “lavoro” che lo scontro deve e dovrà farsi, così come è già avvenuto in passato, particolarmente cruento nel prossimo futuro. Proprio per liberarlo da ogni ambiguità e ogni residua permanenza di intesa tra interessi del Capitale e interessi della specie e della classe lavoratrice. Ed è proprio intorno a questo punto che la riflessione di Sandro Busso, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino, che insieme a Eugenio Graziano aveva già curato l’edizione italiana di Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà di Joe Soss, Richard C. Fording e Sanford F. Schram (Mimesis Edizioni 2022, recensito qui), si rivela particolarmente efficace.

In un testo destinato a portare la riflessione sulla necessità di ridurre l’orario lavorativo, più che ad aumentarlo a dismisura per chi già lavora escludendo dal circuito del lavoro regolare un numero sempre più ampio di giovani, donne e lavoratori di vario genere e provenienza, e su quella di migliorare le retribuzioni ad esso collegate, l’autore sembra non dimenticare mai, nemmeno per un momento, l’autentica lezione, o se si vuole il filo rosso, che corre lungo tutta la storia del movimento operaio: quello della lotta non “per il lavoro”, ma “contro il lavoro salariato” e lo smisurato sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Occorre qui ricordare che a caratterizzare la classe operaia e la sua funzione di innovazione rivoluzionaria, per Marx, non era tanto l’orgoglio del lavoro, ma la necessità di liberarsi proprio dalle catene di quel lavoro che la schiavizzava, abbruttiva e sfruttava senza sosta. Come ebbe infatti a ricordare più volte il rivoluzionario originario di Treviri, «la classe o lotta o non è». Affermazione non tanto apodittica, quanto chiarificatrice del fatto che per l’antagonismo sociale il termine classe nella sua essenza non costituisce una categoria sociologica, ma politica.

Nella classe sociologica il lavoratore e la lavoratrice sono individui dispersi in conteggi dal carattere puramente alfanumerico (occupati, disoccupati, etc.), di volta in volta valutabili attraverso il plusvalore prodotto (di cui è il PIL nazionale a render conto) oppure come vittime di uno sfruttamento “eccessivo ed erroneo”. Mai come protagonisti della propria esistenza collettiva e autori della trama del proprio futuro insieme a quello della specie.

Basterebbe riferire le frasi fatte piene di lacrime di coccodrillo, gli stanchi riti delle istituzioni e dei sindacati per cogliere questo aspetto, così come è stato fatto nei giorni successivi alla strage sul lavoro di Brandizzo, per comprenderlo al meglio. Si piangono gli oggetti e si ignorano i soggetti, comodamente liquidabili con le frasi di circostanza ammantate di pietà i primi, ma non riconoscibili e forse addirittura innominabili i secondi.

Troppo spesso si pensa, infatti, che il rifiuto del lavoro sia stata una bella e originale invenzione o teorizzazione dell’autonomia operaia degli anni ’70, dimenticando che il rifiuto del lavoro salariato, delle sue stimmate sociali, culturali, economiche e politiche e dell’interiorizzazione delle sue logiche è stato, già nel passato, l’elemento centrale delle lotte operaie più avanzate. Là dove i braccianti di Captain Swing incendiavano macchine e stalle dei proprietari terrieri che erano anche i datori di lavoro agli albori dell’Ottocento; là dove i minatori e ferrovieri americani impugnavano i winchester contro le squadre armate della Pinkerton e l’esercito federale alla fine del XIX secolo e là dove i giovani operai degli anni ’60 e ’70 lanciavano sanpietrini e molotov contro le forze dell’ordine che intervenivano per riportarli alla disciplina di fabbrica: là si manifestava la classe nel suo significato politico ovvero nel suo rifiuto di una condizione di sottomissione che proprio nel lavoro “ben disciplinato e organizzato” e nei suoi implacabili ritmi produttivi riconosceva spontaneamente il volto del suo avversario storico: il capitale.

Capitale che proprio intorno all’esaltazione del lavoro e del suo valore etico, dall’epoca del protestantesimo medioevale fino alla Rivoluzione industriale e dopo, aveva visto costituirsi la classe che ne avrebbe rappresentato gli interessi e l’essenza: la borghesia.

Per comprendere come l’etica del lavoro sia a pieno titolo da considerare come il prodotto di processi sociali, e non un immanente comandamento morale insito in ognuno di noi, è necessario tornare […] a quelle civiltà classiche che vedevano nel lavoro un’attività squalificante da riservare unicamente a chi si trovava ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Solo adottando una prospettiva temporale così è possibile cogliere come la rappresentazione positiva del lavoro sia un fenomeno culturale estremamente recente e sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione industriale del XIX secolo […] Il concetto di valore morale del lavoro è ovviamente di molto precedente l’industrializzazione, e il suo processo di estensione è almeno in parte graduale […] quell’impianto valoriale era diffuso in un ambiente estremamente ristretto e dinamico che si collocava (temporalmente) «tra il feudo e la fabbrica»: era il credo del capitalismo preindustriale […] il binomio grazia-ricchezza rendeva quell’etica un tratto distintivo dei «salvati»1.

Un tale «stato di grazia» attribuibile al lavoro lo si può, in fin dei conti, riscontrare anche in slogan triti e ritriti, e oggi decisamente populisti, spesso con un fondo di intrinseco razzismo, come «Chi non lavora non mangia!». Ispirato sicuramente in origine dall’odio contro la borghesia e gli imprenditori, ma che rischia di rivoltarsi contro la stessa classe lavoratrice quando questa, come in passato e ancor ai nostri giorni, pencola sempre più tra lavoro e non lavoro, tra proletariato occupato e proletariato marginale (lumpenproletariat).

Quello che succede a metà del XIX secolo è un processo di «astrazione», in cui tutti i lavori divenivano nobili, indipendentemente dal prestigio o dalla ricchezza che ne poteva conseguire, ma unicamente per l’atto in sé. Questa estensione rispondeva a un obiettivo politico: utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la sua «collaborazione» senza bisogno di eccessi di coercizione […] Le prescrizioni dell’etica del lavoro sono incredibilmente stabili nel tempo, non mutano a seconda dei soggetti che la predicano e comportano sempre «l’identificazione e la dedizione sistematica al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come un fine in sé»2.

Come dire che il proletariato deve fare di necessità virtù e di ciò accontentarsi, come la deriva sindacale e delle politiche di sinistra sembra predicare e aver fatto sua ormai da decenni. Anche al di là di una riflessione non solo di classe, ma anche di genere. Busso, infatti, sottolinea ancora, grazie alle le ricerche della studiosa femminista Kathi Weeks, come le due strategie del femminismo delle prime due ondate:

tanto quella che si è concentrata sull’ingresso delle donne in tutte le forme di lavoro salariato, quanto quella mirata a ottenere il riconoscimento sociale e la pari responsabilità degli uomini per il lavoro domestico non salariato non abbiano problematizzato il lavoro, ma anzi l’abbiano considerato una leva materiale e simbolica imprescindibile.
Un meccanismo analogo può essere rintracciato adottando altri sguardi. A ben vedere, per quanto eretico possa sembrare, possiamo pensare che il valore in sé del lavoro sia uno dei pochi tratti ad accomunare operai e borghesi o che si ritrova su entrambi i lati della lotta di classe o nelle retoriche tanto di progressisti quanto di conservatori. Addirittura, la si trova al centro della lotta generazionale: giovani desiderosi di dire la loro nel mondo del lavoro contro anziani che rimproverano una mancanza di etica e di spirito di sacrificio. Il risultato è una chiusura dello spazio discorsivo che porta con sé la scomparsa delle alternative3.

Alternative che, oggi, si riferiscono solo e sempre all’interno dei diritti individuali distribuiti dall’ordine liberale del mondo e in cui tutti devono essere oggetto di legge ma non soggetto di cambiamento radicale e definitivo dell’esistente (delle sue stragi, distruzioni e guerre).

Ed è esattamente questo meccanismo che rende l’etica del lavoro uno strumento disciplinare molto efficace, che lo trasforma in un elemento che accomuna tutti e genera identità collettiva occultando come i benefici che ha portato non sembrano essere per nulla equamente diffusi. In fondo , riprendendo un aforisma attribuito al sindacalista statunitense Lane Kirkland, «se il duro lavoro fosse davvero una cosa così preziosa, i ricchi lo avrebbero tenuto tutto per loro»4.

Su queste note si rende necessario chiudere la recensione di un testo utile e ricco di spunti che, alla luce di avvenimenti come quelli legati alle sempre più frequenti morti sui luoghi di lavoro, occorrerebbe leggere con estrema attenzione. Specie se si è giovani, donne, lavoratori precari o disoccupati, disposti a tutto pur di avere un lavoro, anche a costo della vita stessa. Poiché la morte, che ormai troppo spesso attende in agguato chi lavora, non è un errore di percorso o «un oltraggio alla convivenza civile» come ha affermato la più alta carica dello Stato in occasione della morte dei cinque operai a Brandizzo, ma l’estrema espressione di quello sfruttamento mascherato da norma universalmente condivisa che costituisce altresì la base della più incivile forma di convivenza sociale.


  1. S. Busso, Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023, pp. 91-93  

  2. S. Busso, op. cit., pp. 93-94  

  3. Ivi, pp. 94-95  

  4. Ibidem, p. 95  

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L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

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Come un’onda che sale e che scende* https://www.carmillaonline.com/2023/01/25/come-unonda-che-sale-e-che-scende/ Wed, 25 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75695 di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta [...]]]> di Sandro Moiso

Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro

Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.

Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.

L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.

Il testo qui recensito segue il percorso della lunga onda, che sale e scende attraverso i secoli e le società, delle lotte dei lavoratori e dei ceti disagiati fin dal comparire di un’economia di mercato in età medievale, moderna e, infine, contemporanea. Un’analisi delle rivolte e della loro organizzazione che, secondo l’autore, è possibile svolgere proprio a partire dal lavoro di Marx sulla sfera della produzione e su quella della circolazione. Sostenendo, sulla base degli scritti del rivoluzionario tedesco, che la seconda non si riduce, come sosterrebbero gli “ortodossi” alla sola sfera dello scambio, ma che farebbe invece da sfondo all’agire sociale nel suo insieme poiché, come spiega Clover nel poscritto all’edizione italiana: «Una volta che l’agricoltura di sussistenza e il baratto locale sono sradicati, e le forme di servitù assoluta trasformate oppure occultate dalla legge, il proletariato, di qualunque tipo esso sia, si trova a dipendere dal mercato»2. E quindi ad agire all’interno di essa.

E’ in questo contesto che si svilupparono i riot del tardo medioevo e della prima età moderna, che raccoglievano poveri delle città, contadini rovinati dal progressivo diffondersi di norme economiche e legali che ne impedivano la sopravvivenza secondo le vecchie tradizioni comunitarie e strati sociali il cui unico orizzonte era rappresentato dalla necessità di ottenere un abbassamento dei prezzi per poter sfamare la propria persona e/o la propria famiglia. Riot in cui spesso erano protagoniste le donne che vivevano sulla propria pelle tutte le condizioni appena riassunte e che cercavano, nella sostanza, di imporre una forma di riduzione o di controllo dei prezzi delle merci.

Sono questi riot che precedono lo sciopero nel titolo. Sciopero che, tra mille difficoltà e durissimi scontri, diventerà la forma di lotta e di organizzazione della forza lavoro fin dall’apparire in Inghilterra della Rivoluzione Industriale e che rimarrà, nei fatti e nell’immaginario collettivo, lo strumento determinante per la battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice. Almeno fino alla seconda metà del ‘900 in Occidente.

Forma di lotta prevalente all’interno della sfera della produzione che, però, finiva col costituire anche una forma di controllo dei prezzi attraverso un innalzamento del valore della forza lavoro.
In qualche modo la lotta intorno al mercato del lavoro finiva col sostituirsi a quelle intorno al mercato popolare e urbano. Forma di lotta spesso vincente sul lungo e medio periodo, ma che spesso ha finito coll’escludere dall’orizzonte proletario forme di lotta e fasce sociali che non potevano vantare un’appartenenza alla classe operaia o lavoratrice. Ma, c’è sempre un ma…

Storicamente, la forza dei lavoratori si è basata sulla crescita del settore produttivo e sull’abilità nel prendere possesso di una parte del sovrappiù in espansione. Dalla fine degli anni Settanta in poi, i movimenti dei lavoratori sono stati costretti a negoziati difensivi, venendo obbligati a tenere in vita le aziende capaci di fornire i salari e rendendo manifesta la dominazione del capitale in cambio della sua stessa preservazione. Chi lavora compare sulla scena in un periodo di crisi in quanto lavorator* e affronta una situazione nella quale “lo stesso fatto di agire come una classe appare come una costrizione esterna”. Tale dinamica, che potremmo descrivere come la trappola dell’auto-affermazione, è diventata una forma sociale generalizzata e un quadro concettuale, la razionale irrazionalità della nostra epoca. Il disordine intrinseco al riot può essere inteso come un’immediata negazione di tutto questo3.

Sottolinea più volte l’autore, nel corso del testo, che l’analisi delle lotte non può essere scissa da una teoria della crisi e da un’analisi materialistica delle condizioni in cui vengono a svolgersi e del contesto generale in cui si sviluppano.

Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti4.

Potremmo aggiungere, come fa lo stesso autore in altra parte del testo, le lotte valsusine contro il TAV e dei Gilet Jaune in Francia, che proprio in questi giorni stanno riprendendo vigore intorno alla questione dell’innalzamento dell’età pensionabile proposta da presidente Macron e dal suo governo.

I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo5.

Come si afferma ancora nella Nota editoriale del Gruppo di Ricerca Ippolita che ha voluto la pubblicazione del testo in Italia:

Il libro di Clover contribuisce a ridare dignità politica al riot, aiuta a ricostruire storicamente le sue trame costituite in gran parte da rivendicazioni più che legittime, ne propone una teoria in chiave marxiana. C’è, però, un elemento che, più di altri, ci ha convint* a pubblicarlo nella collana “Culture radicali”: il fatto che invita a considerare il riot non solo come una fiammata di malcontento o come una sommossa disordinata, ma, anche e soprattutto, come una formula multipla di proteste appropriata e necessaria, in riferimento a questo particolare momento storico. Esso pertanto comprende diverse forme di protesta: il presidio, il corteo, l’occupazione di piazze, strade, stazioni e così via. L’economia di produzione perde di centralità a vantaggio di quella di circolazione. Ciò fa sì che non sia solo il luogo e il modo a mutare, cioè la fabbrica e lo sciopero, ma necessariamente anche il soggetto che si riconfigura lungo gli assi della razza e – aggiungiamo – del genere, oltre a quello tipico della classe. Elemento, quest’ultimo, che comunque si ridefinisce comprendendo quelle fasce di popolazione tradizionalmente escluse dal concetto novecentesco di proletariato: i corpi che non contano. È sotto gli occhi di tutt*. In una congiuntura unica tra necropolitica di stato, disastro ecologico, neoliberalismo da rapina, tecnologie del dominio, violenza di genere e razzismo, negli ultimi dieci anni ha avuto luogo una serie straordinaria di eventi insurrezionali in ogni angolo del mondo […] In questo groviglio inseparabile di istanze e lotte, la tradizionale contrapposizione tra sciopero e riot salta, non funziona più perché figlia di un’altra epoca. Chi oggi insorge chiede migliori condizioni di vita – non solo un salario migliore –, chiede giustizia nelle sue diverse e numerose declinazioni. Questo percorso è ancora in divenire e, se è difficile prevederne l’esito, è, invece, facile immaginare che questa marea sia solo all’inizio e che non si placherà tanto facilmente. Di tutto ciò Joshua Clover propone una teoria brillante e sofisticata; il nostro intento, pubblicandolo, è che questo testo possa diventare uno strumento utile per le lotte di oggi e di domani6.

Certo, all’interno della teoria e della pratica del riot c’è stato un salto qualitativo rispetto a quelli ancora definiti dal Riot Act emanato da re Giorgio I nel 1714. Non a caso nel testo di Clover l’evoluzione è indicata dall’uso della formula riot-sciopero-riot’ che rinvia immediatamente a quella marxiana dell’accumulazione D-M-D’ , marcando un passaggio per accumulo di esperienze e di istanze che rendono i riot contemporanei diversi da quelli del passato. Intanto perché nel capitalismo attuale la sfera della circolazione si è ampliata ben al di là del mercato come luogo di scambio di merci.

Partendo dall’assunto marxiano che «La circolazione e lo scambio di merci, non crea nessun valore»7, Clover osserva che:

Sono categorie infinitamente problematiche e in questo hanno un peso i limiti di questo tipo di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, uno dei tratti distintivi della nostra epoca, sembrerebbe in un primo momento garantire una soluzione adeguata a questo problema, portando a una circolazione dei prodotti che tende verso la realizzazione come profitto del plusvalore valorizzato altrove. Altri sostengono la tesi contraria, e cioè che lo spostamento nello spazio aumenti il valore di una merce. Di fatto, nella loro accezione più ristretta, i “costi puri di circolazione” potrebbero limitarsi a quelle attività che istituiscono lo scambio stesso, il trasferimento astratto del titolo di proprietà: vendite, contabilità e attività simili. Inoltre, anche la finanziarizzazione e la “globalizzazione” (termine con cui si estende l’estensione verso i confini planetari delle reti e dei processi logistici, guidati dall’innovazione informatica) dovrebbero essere intese come strategie temporali e spaziali orientate verso l’internalizzazione di nuovi input di valore provenienti, rispettivamente, da altri luoghi e da altri tempi. Questo, tuttavia, può soltanto corroborare l’assunto secondo cui la fase attuale del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema-mondo; è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza. I dati sono, in questo senso, illuminanti. Come osserva Brenner, «[d]al 1973 a oggi, la performance economica degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale e del Giappone è peggiorata secondo tutti gli indicatori macroeconomici standard, ciclo dopo ciclo, decennio dopo decennio (con la sola eccezione della seconda metà degli anni Novanta)»8. La crescita del PIL globale dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è rimasta sempre al di sopra del 4 per cento; in seguito, si è arrestata al 3 per cento o ancora meno, a volte molto meno. Durante la Lunga Crisi, anche il periodo migliore è stato peggiore, nel complesso, della fase peggiore del lungo boom precedente. Anche se stabilissimo che il trasporto può essere parte tanto della valorizzazione quanto della realizzazione del profitto, dovremmo in ogni caso confrontarci con il fatto che i grandi avanzamenti sul piano del trasporto globale e l’accelerazione del tempo di turnover rispetto agli anni Settanta coesistono, nelle maggiori nazioni capitaliste, con il ripiegamento della produzione. […] In ogni caso, né la spedizione delle merci né la finanza sembrano aver arrestato la stagnazione e il declino della redditività globale. […] Tuttavia, questo non significa che tra gli effetti non ci sia stato quello di consolidare i profitti delle singole aziende, che possono ottenere vantaggi competitivi dal calo dei loro costi di circolazione, in una politica beggar thy neighbour (“impoverisci il tuo vicino”) trasposta nell’era dell’informatica. […] Senza addentrarci troppo nel labirinto marxologico, possiamo affermare in modo piuttosto incontrovertibile che nel periodo in questione il capitale, di fronte a profitti notevolmente diminuiti nei settori produttivi tradizionali, va a caccia degli utili oltre i confini della fabbrica – nel settore FIRE (Finance, Insurance e Real Estate), secondo le rotte predisposte dalle reti globali della logistica – pur non trovandovi alcuna soluzione percorribile alla crisi che, in prima battuta, l’ha allontanato dalla produzione. Anzi, l’agitazione è sempre più frenetica, gli schemi più elaborati, le bolle più grandi, e più grandi le esplosioni. In un moto di disperazione dialettica, lo stesso meccanismo che ha incluso il capitale nella sfera fratricida della circolazione a somma zero opera più o meno allo stesso modo nei confronti di un numero crescente di esseri umani. Crisi e disoccupazione, i due grandi temi de Il Capitale, sono entrambi espressione del tragico difetto del capitalismo che, nella ricerca del profitto, deve prosciugarne la sorgente, scontrandosi con i suoi limiti oggettivi nell’incessante rincorsa all’accumulazione e alla produttività […] L’unitarietà di questo fenomeno rende manifesta anche la contraddizione tra plusvalore assoluto e relativo. Le lotte intercapitaliste per ridurre i costi di tutti i processi correlati arrivano alla reiterata sostituzione della forza lavoro con macchine e forme di organizzazione più efficienti, e questo, nel tempo, aumenta la ratio del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, espellendo l’origine del plusvalore assoluto dalla lotta per la sua forma relativa. La crisi è uno sviluppo di queste contraddizioni fino al punto di rottura. Ciò prevede non tanto una carenza di denaro, bensì il suo sovrappiù. Il profitto maturato giace inutilizzato, incapace di trasformarsi in capitale, poiché non c’è più alcuna ragione abbastanza attrattiva per investire in nuova produzione. Le fabbriche vanno tranquillamente avanti. Cercando salari altrove, chi è stat* licenziat* scopre che l’automazione che avrebbe dovuto ridurre la sua fatica si è ormai generalizzata nei vari settori. Adesso il lavoro non utilizzato si accumula gomito a gomito con la capacità produttiva non utilizzata. È la produzione della non-produzione. Siamo tornati, in una forma in qualche modo diversa, a una questione di classe, nella forma in cui Marx la descrive nel Capitale come “sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiori infine sono lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica”9.

Chi è espulso, o sta per esserlo, dai luoghi di produzione e dal mercato del lavoro non può far altro che colpire il capitale là dove finge ancora di aggiungere valore ai suoi prodotti ovvero bloccando reti stradali e autostradali, ferroviarie, informatiche e porti. Forse per questo le leggi sui blocchi stradali, come qui in Italia, vanno organizzandosi in forme sempre più dure.
Motivo per cui mentre nel ‘700

lo stato era lontano, mentre l’economia era vicina. Nel 2015, lo stato è vicino e l’economia lontana. La produzione è nebulizzata, le merci sono assemblate e distribuite secondo catene logistiche globali. Anche i prodotti alimentari più basilari possono essere stati prodotti in un altro continente. Nel frattempo, si è sempre a tiro dell’esercito permanente interno d ello stato, progressivamente militarizzato con il pretesto di dover fare la guerra alle droghe o al terrore. Il riot’ non può fare a meno di sollevarsi contro lo stato: non c’è alternativa10.

Tra gli obiettivi immediati, lo abbiamo visto negli Stati Uniti con i riot avvenuti dopo l’uccisione di afroamericani dal 1992 a Los Angeles fino ad oggi, vi sono infatti i commissariati di polizia, luoghi in cui la violenza e la sopraffazione statale espongono spesso il loro vero volto. Ma anche i supermercati o catene di negozi il cui saccheggio odierno finisce col riunire il riot’ con il suo predecessore più antico

La principale difficoltà nella definizione del riot deriva dalla sua profonda correlazione con la violenza; per molti, questa associazione è talmente connotata dal punto di vista affettivo, in una direzione o nell’altra, che è difficile da dissipare, rendendo arduo, in questo modo, osservare anche altri aspetti. Non c’è dubbio che molti riot implichino l’uso della violenza – la stragrande maggioranza, probabilmente, se si includono in questa categoria i danni alla proprietà, o le minacce, tanto dirette quanto indirette. […] Che i danni alla proprietà siano equiparabili alla violenza non è tanto una verità, quanto l’effetto di un’adozione di un particolare discorso sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implica una specifica identificazione degli esseri umani con una ricchezza astratta di qualche tipo e che porta, ad esempio, alla considerazione giuridica delle corporations in termini di “persone”. In ogni caso, l’enfasi sulla violenza del riot riesce efficacemente a oscurare la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che giorno dopo giorno perseguita le vite di gran parte della popolazione mondiale. La visione di una socialità generalmente pacifica nella quale la violenza scoppia soltanto in circostanze eccezionali è un immaginario che solamente alcuni si possono permettere. Per gli altri – la maggioranza – la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa uno strumento di esclusione, indirizzato non tanto contro la “violenza”, ma contro gruppi sociali specifici. Inoltre, per più di due secoli, anche gli scioperi hanno spesso fatto ricorso alla violenza: battaglie campali tra chi lavora, da un lato, e poliziotti, crumiri e picchiatori mercenari, dall’altro, che al loro culmine assomigliavano a scontri militari11.

Occorre, per motivi di spazio chiudere qui il discorso su un testo che presenta molti validi motivi per essere letto e diffuso, costituendo una sorta di storia del capitalismo e delle sue crisi attraverso lo sguardo dal basso che proviene da chi lotta, in un mondo in cui razializzazione delle lotte e coincidenza tra chi lavora e chi è comunque costretto a consumare apre nuovi e problematici orizzonti di ricerca per il lavoro militante, non soltanto teorico. E anche se molti attivisti e militanti di “sinistra” vorrebbero avere a che fare con lotte e obiettivi già ben delineati e “facili” da perseguire, Clover sottolinea ancora come una caratteristica di queste lotte possa essere quella di una certa familiarità con le destre.

Il tentativo di pseudogolpe attuato negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 è stato senza dubbio un riot di destra, la piazza Syntagma della reazione. Un anno più tardi, sono stati i “Freedom Convoys” ad apparire in varie località, con il blocco delle principali arterie e dei corridoi commerciali come protesta contro i protocolli medici imposti dagli Stati in risposta alla pandemia. I blocchi più duraturi sono avvenuti in Canada, e la parentela di questi riot con la variante nazionale canadese dei gilets jaunes, nel 2019, non è passata inosservata. Tuttavia, quei riot portavano con loro anche i ricordi dei blocchi indigeni sugli assi di comunicazione transfrontalieri, economicamente cruciali, tra il commercio canadese e gli Stati Uniti. Tale deriva attraverso lo spettro politico chiarisce quello che dovrebbe essere già evidente: le lotte della circolazione sono una tecnica. Non hanno un contenuto politico prestabilito. In un certo senso, anzi, il loro contenuto è la mancanza di contenuto: sono lotte che ricevono una definizione in funzione della loro apertura a un ampio ventaglio di attori sociali, e possono quindi diventare la via maestra per l’espressione di una vasta gamma di tensioni sociali. D’altro canto, non si tratta di una situazione completamente amorfa. Questi riot di destra hanno un carattere nazionalista, razzista, devoto alle gerarchie e alle pratiche di dominazione, che non può passare sotto silenzio. Per contro, tale analisi non può essere svincolata dalla constatazione che il declino nelle opportunità di vita è arrivato a lambire quei gruppi sociali che per lungo tempo non ne erano stati toccati: la “classe media”, la petite bourgeoisie, e così via. Il motivo per cui tutto questo arriva talvolta a lambire la sinistra (come per buona parte del movimento Occupy) e talvolta la destra (come per i Freedom Convoys) non è chiaro. Siamo entrati in un periodo storico in cui i palliativi e i disciplinamenti dell’economia sono sempre meno a disposizione, e lo stato è sempre più obbligato a imporre con la forza il proprio ordine, apparendo sempre di più come il principale antagonista in campo. Potrebbe essere che questo sviluppo corrisponda a un indebolimento dello stesso spettro politico destra-sinistra, il cui orientamento, ormai, non è facilmente individuabile tra i poli-, pro- e anti-stato, pro- e anti-capitalismo. Allo stesso tempo e indipendentemente da una simile volatilità ideologica, queste forme di contestazione continuano a essere le armi a disposizione di chi subisce l’esclusione dalla buona vita, di chi soffre lo spossessamento delle proprie terre (senza che vi sia alcun assorbimento nella classe operaia), di chi riceve il marchio generazionale dell’essere stati proprietà di qualcun altro e di chi sperimenta la degradazione nell’ambito del lavoro domestico. È il conflitto che sceglie i propri attori, e non viceversa; questo, tuttavia, non sminuisce in alcun modo le lotte, gli sforzi, i rischi e la furia morale che informano i conflitti, così come non sminuisce il fatto che questa individuazione si basa, tra l’altro, sul fatto che le storie di depauperazione sono anche storie di formazione di classe. Tutto ciò non sminuisce le speranze di emancipazione che hanno queste persone. Ed è questo che, con ogni probabilità, manda in tilt l’equilibrio rappresentato dalla terza ambiguità. Le lotte della circolazione, in costante crescita, non si assoggettano con facilità ad alcuna volontà politica e sono qui per restare. In questo frangente, le loro tecniche possono essere appropriate da qualsiasi tipo di gruppo sociale, anche da quelli che aspirano a una distruzione reciproca. Chi continuerà a ribadire la qualità emancipatrice di tali lotte dovrà accettare il fatto che dentro alla rivoluzione ce n’è sempre un’altra: non una rivoluzione centrata sul significato di queste lotte, ma su quello che esse riusciranno a realizzare, sul loro ambiguo futuro12.

* Il titolo scelto vuole costituire un omaggio a uno degli studi più significativi sulla violenza nella storia e nella società, Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine di William T. Vollmann. Pubblicato all’inizio deI 2004 negli USA ha visto, l’anno successivo, l’uscita di una versione ridotta a un solo volume che rappresenta il frutto di oltre vent’anni di lavoro, uscita in Italia con il titolo Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza (Mondadori 2007 – oggi ripubblicato da Minimum Fax, 2022).


  1. Cfr.: M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Bollati Boringhieri 1989 e la polemica tra Togliatti ed Elio Vittorini sui contenuti di «Il Politecnico», una rivista di politica e cultura fondata dallo stesso Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre1947. Il periodico basato su un programma antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”, conteneva, tra le altre cose, saggi di sociologia e testi di letteratura americana. Cosa che continuava la ricerca di nuove e vitali esperienze letterarie già avviata da Vittorini con la sua celebre antologia Americana, uscita nel 1942 ma accompagnata, come afferma Michela Nacci nel suo lavoro sull’antiamericanismo, da «un’introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere; la letteratura americana è “letteratura barbara, o in certo qual modo primitiva”, è “come dementata e percossa dal ballo di san Vito”» ( p. 14). Tale introduzione all’antologia sarebbe stata rimossa soltanto nell’edizione Bompiani del 1968.  

  2. J. Clover, Lotte della circolazione: tre ambiguità in J. Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, p.220  

  3. J. Clover, Riot. Sciopero. Riot, op. cit., p. 49  

  4. Ibidem, p.21  

  5. Ibid, p. 19  

  6. Gruppo di Ricerca Ippolita, Nota editoriale in J. Clover, op. cit., pp. 9-10.  

  7. K. Marx, Das Kapital [1867]; tr. it. di A. Macchioro, B. Maffi (a cura di), Il Capitale, UTET, Torino 1996, p. 214  

  8. R. Brenner, What’s Good for Goldman Sachs, prologo all’edizione spagnola di The Economics of Global Turbulence [2006], La economía de la turbulencia global, Akal, Madrid 2009, p. 6.  

  9. J. Clover, op. cit., pp.41-45  

  10. Ibidem, p. 48  

  11. Ibid., pp. 30-31  

  12. Ibid, pp. 230-232. Sugli stessi temi si veda anche S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

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Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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Il nuovo disordine mondiale /17: storia breve di una débâcle inevitabile https://www.carmillaonline.com/2022/09/07/il-nuovo-disordine-mondiale-17-cronaca-di-una-debacle-annunciata/ Wed, 07 Sep 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73890 di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa [...]]]> di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa a gara con Enrico Letta nel tentativo di dimostrare di essere più servilmente atlantista dello stesso PD, il povero “ex-capitano” de noantri, si è visto messo alla berlina, sia dagli avversari che dagli alleati, per aver ribadito ciò che da mesi è possibile riscontrare sulla stampa economica internazionale e nazionale: ovvero che fino ad ora le sanzioni hanno danneggiato l’economia europea ancor più di quella russa e che la “serrata del gas” da parte di Gazprom e di Putin può costituire un pericoloso innesco per un incendio che potrebbe rivelarsi disastroso sia sul piano industriale che sociale.

Ma, prima che il genio giornalistico di Natalie Tocci accomuni chi scrive agli “utili idioti di Putin”1, proviamo a fare qualche passo indietro e, soprattutto, nella realtà. Partendo proprio dalla questione “gas”, inseparabile dalla condizione di esistenza fondamentale di un sistema che, non ci vuole un genio per capirlo, è sostanzialmente energivoro.

Tale passo, prima di ricondurci alla situazione creatasi a livello globale, come conseguenza della guerra in Ucraina, nel settore dei prezzi e dei rifornimenti di gas e idrocarburi, vede costretto l’autore di questo intervento a ricordare come l’avvento della Rivoluzione Industriale, alla metà del XVIII secolo, abbia visto un passaggio epocale dal consumo di energie che oggi si direbbero “rinnovabili “ (vento, acqua, animali e umane) a quello di un’energia che rinnovabile non era, ma che per il tramite della macchina a vapore prima e del motore elettrico o a scoppio poi, forniva alla nascente produzione industriale, e al suo modello di organizzazione sociale, una continuità e regolarità di utilizzazione che le altre non potevano fornire.

Vento, acqua, fatica dell’animale e dell’uomo dovevano infatti sottostare a limiti “naturali” (di carattere stagionale e di tempi di rinnovo) che la macchina a vapore e tutti i suoi derivati (fino all’uso dell’energia nucleare) non dovevano rispettare. Il vento poteva infatti essere troppo (nel caso della stagione invernale o degli urgani estivi) o troppo poco (come nel caso delle bonacce atlantiche, durante le quali una nave a vela poteva dover attendere per settimane il ritorno di condizioni di vento favorevoli) così come l’acqua che faceva funzionare mulini, macine oppure i primi telai meccanici. L’uomo e gli animali, per quanto messi alla catena per remare oppure far girare una macina oppure ancora per trainare strumenti agicoli di un certo peso (ad esempio aratri ed erpici), oltre a dover interrompere il lavoro per i suddetti limiti fisici naturali (si legga “fatica”), finivano comunque col consumare, per quanto in quantità minime nel caso di schiavitù e maltrattamenti connessi all’uso della forza animale, una parte del prodotto che contribuivano a creare.

Per capirci: gas, petrolio, energia elettrica non consumano il prodotto (ad esempio la farina) che concorrono a realizzare. Inoltre sono fonti di energia o energie sempre disponibili nella giusta quantità necessaria, sia di notte che di giorno, in inverno che in estate, senza forzose interruzioni. Inevitabile quindi che, per il “buon funzionamento” della macchina industriale capitalistica e i suoi ritmi produttivi, la scelta si indirizzasse sempre più verso il loro diffuso e devastante utilizzo.

Sistema che nel divenire “energivoro” ha finito col dar vita a una serie di conflitti sempre più intensi, ravvicinati e distruttivi, per l’appropriazione di materie prime di origine fossile che, se ai tempi di Marco Polo potevano costituire una semplice curiosità o una mercanzia tra le altre2, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, in particolare, dal Primo macello imperialista diventano il premio di ogni guerra, allargata, coloniale e non3. Prova ne sia il fatto, qui citato a solo titolo di esempio, che la marcia delle truppe dell’Asse verso i territori sud-orientali dell’URSS, interrottasi forzatamente a Stalingrado, poco aveva di “ideologico”, ma molto di pratico vista la cronica fame di risorse energetiche e di petrolio della Germania. Cosa che aveva spinto Hitler a spostare un congruo numero dei tre milioni di soldati inviati sul fronte orientale con l’Operazione Barbarossa sul fronte del Caucaso; nel tentativo di appropriarsi sia delle regioni petrolifere là presenti che delle aree petrolifere incluse dai dominion inglesi in Iraq ed Iran. Come sia andata a finire ce lo dicono i libri di storia. Stesso discorso vale per la campagna d’Africa condotta con l’alleato Mussolini, alla ricerca della conquista o del mantenimento del controllo del petrolio libico e dell’interruzione dei traffici marittimi e commerciali inglesi dall’India e verso la stessa.

Ma è necessario interrompere qui il Bignami della storia del ‘900 e dei suoi devastanti conflitti, per tornare ai problemi attuali, che dimostrano, comunque, come tale secolo sia stato tutt’altro che breve e si prolunghi ancora nel nostro disastrato presente. Compresa la scarsa passione del capitalismo industriale per l’uso delle fonti energetiche alternative, nonostante la predicazione greenwashing dei media falsamente progressisti.

E visto che si parlava di Germania del Reich, proprio dalla (ex-?) locomotiva d’Europa occorre ripartire per la riflessione sulle sanzioni, e poiché il danno causato all’economia europea dalle sanzioni alla Russia e dal taglio delle forniture di gas sembra appartenere, all’interno della propaganda bellico-politica in cui siamo immersi, soltanto alle fake messe in campo dal Cremlino e dalla sua portavoce Maria Zakharova, torneremo al 30 marzo di quest’anno, quando il quotidiano tedesco «Handelsblatt», l’equivalente dell’italiano «Il Sole 24 Ore», scriveva:

L’industria tedesca ad alta intensità energetica avverte con urgenza il rischio di una possibile interruzione della fornitura di gas naturale russo. Anche il razionamento potrebbe portare a perdite di produzione, che avrebbero conseguenze per l’intera industria di trasformazione in Germania, spiegano ad esempio i manager dell’industria chimica. Laddove è necessario molto gas come fonte di energia e materia prima, le aziende sono minacciate di estinzione in caso di restrizioni.
Mercoledì, il ministro federale dell’Economia Robert Habeck (Verdi) ha annunciato il “livello di allerta precoce” del cosiddetto piano di emergenza gas, avvertendo così l’economia di un significativo deterioramento dell’approvvigionamento di gas. L’ industria che sarebbero più colpita da un’interruzione dell’offerta o dal razionamento è quella chimica che per Christian Kullmann è il “cuore dell’economia tedesca”. In questa frase Boss è contenuto un avvertimento: se non batte più, ha gravi conseguenze per tutte le industrie. E questo è uno scenario realistico in caso di fallimento delle forniture di gas all’industria4.

Per poi continuare il giorno successivo con un’intervista al Direttore delle poste tedesche, in cui si affermava:

Un embargo sarebbe devastante per la Germania e l’Europa, ha detto il manager in un’intervista a Handelsblatt. “Ci sarebbe la minaccia di un collasso di parti del nostro settore”.
Un tale passo non garantirebbe in alcun modo la fine della guerra in Ucraina. “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, ha detto Appel. Ha anche accolto con favore il fatto che il governo tedesco non stava saltando immediatamente su ogni questione nel conflitto ucraino, ma stava prendendo decisioni “con calma e chiarezza” […] Frank Appel teme un collasso di parti del settore in caso di boicottaggio e si oppone anche a un disaccoppiamento dalla Cina.5.

Mentre, sempre negli stessi giorni, «Die Welt», un altro importante quotidiano tedesco equivalente del «Correiere della sera» italico, occupandosi dell’inflazione, scriveva:

Un mese dopo lo scoppio della guerra, i tedeschi stanno vivendo uno shock storico dei prezzi: al 7,3%, l’inflazione a marzo è stata più alta che mai nella Germania riunificata. Secondo l’Ufficio federale di statistica, la vita nei vecchi Stati federali era aumentata così tanto solo nel novembre 1981.
[…] La Repubblica Federale ha registrato l’inflazione più forte nel dicembre 1973 con il 7,8 per cento. E questo segno potrebbe presto essere rotto se la guerra in Ucraina dura ancora più a lungo o la disputa energetica con la Russia si intensifica.
Perché è l’improvviso aumento del prezzo dell’energia che farà salire il tasso di inflazione nel 2022. “È principalmente energia, ma anche cibo, che ancora una volta si è rivelato un driver di prezzo. L’aumento di quasi il 40% dei prezzi dell’energia spiega più della metà dell’inflazione attuale”, afferma Sebastian Dullien, direttore dell’Istituto per la macroeconomia e la ricerca economica (IMK). […] “Non si prevede che i mercati dell’energia allenteranno le tensioni nei prossimi mesi: i prezzi all’ingrosso del gas e dell’elettricità indicano che l’energia domestica in particolare rischia di diventare ancora più costosa per i clienti finali”. Nel caso del carburante, c’è un certo sgravio, anche perché temporaneamente le tasse su di esso devono essere ridotte.
Tuttavia, queste riduzioni sono matematicamente troppo piccole per compensare l’aumento dei prezzi dell’energia delle famiglie nel tasso di inflazione. “Tutto sommato, l’inflazione rimarrà alta per il resto dell’anno”, è certo Dullien.
L’IMK ha aumentato le sue stime in risposta agli eventi. […] “Se l’energia dovesse diventare ancora più costosa, ad esempio in caso di interruzione della fornitura di energia russa, l’inflazione potrebbe essere di nuovo significativamente più alta”, afferma Dullien.
[…] E oggi non sono solo i prezzi dell’energia a guidare l’inflazione in questo paese. Ad eccezione degli affitti, l’intero carrello della spesa dei tedeschi sta diventando più costoso della media.
“Il rollover a tutti i settori possibili è in pieno svolgimento. Aggiungete a ciò i ricarichi aggiuntivi nei settori dell’ospitalità, della cultura e del tempo libero, una volta terminato l’attuale ciclo di restrizioni, ed è difficile immaginare che l’inflazione diminuirà in modo significativo nel prossimo futuro “, afferma Carsten Brzeski, capo economista di ING.
[…] Gli alti tassi di inflazione stanno mettendo sotto pressione la Banca centrale europea (BCE). Perché mentre gli economisti aumentano le loro previsioni di inflazione, tagliano le loro previsioni di crescita. Il Consiglio tedesco degli esperti economici ha più che dimezzato le sue previsioni di crescita economica quest’anno all’1,8%.
Nelle loro precedenti previsioni di novembre, gli esperti economici avevano promesso una crescita del 4,6% per il 2022. Una tale combinazione di stagnazione economica e alta inflazione (chiamata anche stagflazione) è temuta perché getta le autorità monetarie in un dilemma.
“Per la BCE, questo alto rischio di stagflazione nell’eurozona metterà sotto pressione la prevista normalizzazione della politica”, afferma Brzeski. Mentre la crescita è recessiva, almeno nella prima metà dell’anno, l’inflazione complessiva sarà significativamente più alta nel lungo termine.
In un tale contesto macroeconomico, l’attenzione della BCE sembra spostarsi dalla crescita all’inflazione. “Ma per quanto la BCE possa contribuire a far arrivare i container dall’Asia più velocemente e più a buon mercato in Europa o ad aumentare la produzione di microchip a Taiwan, non può porre fine alla guerra o abbassare i prezzi dell’energia”, afferma Brzeski.
Quanto sia profondo il dilemma è reso chiaro da un’altra cifra: quando l’inflazione in Germania era del 7,3 per cento, il tasso di interesse di riferimento fissato dalla Bundesbank era dell’11,4 per cento. In questo modo, le autorità monetarie volevano contrastare massicciamente ulteriori aumenti dei prezzi. Oggi, d’altra parte, il tasso di interesse di riferimento in tutta Europa è pari a zero.
Gunther Schnabl, professore di politica economica all’Università di Lipsia, critica la BCE. A differenza della Federal Reserve statunitense, l’istituzione di Francoforte ignora il fatto che la stabilità valutaria è minacciata a lungo termine.
[…] Secondo la sua stima, le radici sono più profonde che nella crisi attuale. “Indipendentemente dalla ragione dell’inflazione, la BCE deve agire per contenere i cosiddetti effetti di secondo impatto”, afferma l’economista.
Gli effetti di secondo impatto si verificherebbero se i sindacati chiedessero una compensazione salariale a causa delle pressioni inflazionistiche, che a loro volta costringevano le aziende ad aumentare i prezzi. “Tali spirali salario-prezzo osservate nel 1970 manterrebbero alta l’inflazione per lungo tempo. Ciò sarebbe rischioso a causa della crescita negativa e degli effetti distributivi dell’inflazione dei prezzi al consumo e degli asset” 6.


La citazione può apparire troppo lunga, ma è importante perché rivela come tutto quanto sta accadendo a livello europeo e italiano fosse ampiamente prevedibile fin dall’inizio del conflitto in Ucraina. Non solo, ma anche che i paletti per la risposta all’inflazione erano già stati messi dalla BCE, insieme alla necessità, per il capitale, di contrastare qualsiasi richiesta proveniente dai sindacati o da movimenti sociali auto-organizzati per aumenti salariali o aiuti di altro genere, non alle imprese, ma alle famiglie e ai lavoratori in difficoltà.

Ma anche su altri quotidiani europei, in quei giorni si sottolineavano le conseguenze, presenti e future, dei processi inflattivi messi in atto a partire dal conflitto e dalle politiche adottate dall’Unione Europea e dell’Occidente per “contrastarlo”. Ad esempio il quotidiano spagnolo «Cinco Días», sempre in data 31 marzo, scriveva:

L’inflazione si rivela sempre più come una tassa per i poveri e i lavoratori. I prezzi hanno iniziato a salire in Spagna a cavallo dell’estate del 2021, trainati principalmente dal prezzo dell’energia, con il quale l’IPC medio annuo ha chiuso lo scorso anno al 3,1% […]. Ma quello che sembrava un aumento molto congiunturale i cui effetti sarebbero scomparsi in primavera, secondo i primi calcoli degli analisti, è diventato un vero incubo per il paniere della spesa, a causa degli effetti della guerra in Ucraina, che ha già completato un mese.
I dati sull’inflazione anticipata pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (INE) per il mese di marzo, sono arroccati ad un tasso su base annua del 9,8%, molto vicino al livello psicologico delle due cifre, dopo un aumento mensile del 3%, che colloca questa cifra tra le più alte da quella registrata nel maggio 1985. Ci sono voluti 36 anni per vedere questa mancanza di controllo dei prezzi in Spagna, anche se tutto indica che questa escalation non si fermerà qui, in quanto potrebbe persino raggiungere due cifre a breve e persino superarle.
[…] Dietro questa evoluzione continuano a pesare fattori geopolitici esterni come la durata della guerra in Ucraina e la tensione nei prezzi di prodotti strategici come il petrolio o il gas, che distorcono completamente i prezzi della componente energetica, che si manifesta in aumenti dei prezzi di elettricità, combustibili e per effetto indotto cibo e bevande analcoliche. […] Da qui la continuità dei messaggi del governatore della Banca di Spagna per raggiungere un patto di reddito che mitighi questa escalation.
Il tasso sottostante, che misura l’evoluzione dei prezzi, eliminando i prodotti alimentari freschi ed energetici, ha raggiunto un tasso su base annua del 3,4% a marzo, aumentando di quattro decimi in più rispetto a febbraio. Un fatto che lungi dall’essere rassicurante sull’evoluzione futura, anticipa le tensioni rialziste nell’indicatore generale per tutti i prossimi mesi.
Lo tsunami a cui sono sottoposti i prezzi di tutti i prodotti del carrello ha come effetto più diretto sui cittadini una netta e sempre più profonda perdita di potere d’acquisto. […] Questo calo del potere d’acquisto è particolarmente sentito nei redditi salariali e nei risparmi delle famiglie e delle imprese.
Quindi è relativamente facile fare un’approssimazione quantificabile del denaro che potrebbe supporre questo impatto dell’escalation inflazionistica in questi redditi e che potrebbe essere di circa 70.000 milioni di euro di riduzione del potere d’acquisto di salari e depositi. Come ci si arriva?
La prima cosa che bisogna specificare per fare questo calcolo è quanto i prezzi siano diventati più costosi e per questo, la cosa più giusta è prendere non solo i dati del mese – in questo caso marzo, 9,8% – ma determinare quanto i prezzi sono aumentati in media negli ultimi dodici mesi. Ciò produrrebbe un aumento misurato dell’IPC che tocca il 4,9% tra aprile 2021 e marzo 2022.
Una volta calcolata questa domanda, vengono presi i dati sul reddito salariale inclusi nei dati dei conti nazionali trimestrali, anch’essi preparati dall’INE, e mostrano che la massa salariale annuale del paese ammonta a circa 600.000 milioni di euro. Tenendo conto che l’aumento salariale medio concordato nei contratti collettivi alla fine dello scorso anno per 8,3 milioni di dipendenti – che salirà a circa 10 milioni nel corso di quest’anno a causa dei ritardi nella registrazione dei contratti – è stato dell’1,47% e che finora quest’anno questo aumento supera leggermente il 2%, si potrebbe dire che questi lavoratori secondo l’inflazione media degli ultimi dodici mesi (che sfiora il 5%) stanno perdendo tra i 3 e i 3,5 punti di potere d’acquisto. Ciò si traduce in una perdita di potere d’acquisto compresa tra 18.000 e 21.000 milioni di euro.
Inoltre, le prospettive salariali non sono molto migliori e, nel migliore dei casi, se i datori di lavoro e i sindacati raggiungessero l’accordo pluriennale di accordi di cui stanno parlando, la raccomandazione di un aumento salariale per quest’anno sarebbe di circa il 3 per cento, in modo che di fronte all’incertezza di come si evolveranno i prezzi, se la spirale inflazionistica continua, quel piccolo miglioramento dei salari potrebbe essere azzerato già nel corso di quest’anno. Pertanto, la suddetta perdita vicina a 20.000 milioni di reddito salariale a causa dell’impatto dell’inflazione sarebbe possibile anche nella fascia bassa di perdite.
Il conto successivo è ancora più semplice, la Spagna ha poco più di un trilione di euro di risparmi depositati in conti correnti. Questo denaro non è praticamente remunerato, quindi l’impatto vicino al 5% sarebbe completo, riducendo un importo approssimativo a 50.000 milioni di euro della capacità di acquisto dei risparmi degli spagnoli. Con la somma di entrambi gli importi, si ottiene il suddetto costo di 70.000 milioni di reddito e risparmio salariale.
[…] Jakob Suwalski e Giulia Branz, analisti di Scope Ratings, prevedono entro il 2022 che il tasso di inflazione supererà il 5% “anche in uno scenario di graduale convergenza verso l’obiettivo della BCE del 2% entro la fine dell’anno”. Se lo scenario è quello di una continuazione delle pressioni sui prezzi, il tasso annuo sarebbe in media dell’8%. Ritengono che un rialzo dei tassi da parte della BCE non affronterebbe direttamente gli effetti inflazionistici7.

Si è continuato citando giornali stranieri e titoli di diversi mesi or sono proprio per dimostrare come quanto recentemente affermato sul peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione dell’Europa e dell’Italietta, sempre falsa e buonista, non appartenga ad un immaginario distorto dovuto soltanto alla abilità russa nel produrre disinformatja, ma alla realtà di ciò che era ampiamente prevedibile fin dall’inizio del confronto militare, economico e politico con la Russia di Putin. Non un imprevedibile svolto di una situazione altrimenti normale, ma una conseguenza “certificata” per tempo delle scelte operate a livello politico ed economico dalla UE e dagli USA.
I quali ultimi, con il loro ruolo nel settore del controllo, produzione e vendita del petrolio e del gas, non potevano mancare in questo excursus a ritroso. Come affermava infatti il «Financial Times», giornale notoriamente filoputiniano, nei primi giorni di aprile di quest’anno:

Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia globale e adesso la guerra in Europa spingono i governi a cambiamenti inediti, che prima sembravano impensabili. L’ultimo in ordine di tempo è costituito dalla decisione degli Stati Uniti di attingere a 180 milioni di barili di greggio dalle loro riserve petrolifere strategiche: il più grande ricorso alle scorte nazionali mai avvenuto nella storia. Tuttavia, la reazione del mercato suggerisce che anche una mossa di così ampia portata potrebbe non essere sufficiente a ridurre la spirale dei prezzi del carburante come era nelle intenzioni di Biden.
[…] Un problema della decisione di Washington è che rischia di apparire come disperata, e quindi ottenere il risultato opposto di quello desiderato. Questi sei mesi di utilizzo delle riserve nazionali lasceranno le scorte petrolifere di emergenza più grandi del mondo ai livelli più bassi dal 1984, per di più in una fase in cui l’offerta di greggio è in una situazione di grave instabilità.
Questo milione di barili in più al giorno non basterà a risolvere la crisi, comunque. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha segnalato che la produzione russa potrebbe diminuire di tre milioni di barili al giorno, a causa non solo dell’embargo statunitense sul greggio e delle altre sanzioni stabilite dai Paesi occidentali, ma anche di quella sorta di “auto-sanzione” applicata indirettamente dagli acquirenti cominciano a rifiutarsi di comprare i prodotti russi. C’è anche il rischio che il prolungamento della guerra spinga definitivamente l’Ue a limitare i suoi acquisti di petrolio russo.
Biden ha anche rivelato un piano per fare pressione sui produttori statunitensi e spingerli a pompare di più, imponendo tasse su quelli che non trivellano dove hanno licenze sulle terre federali. Affermare che le scorte torneranno a essere riempite quando i prezzi scenderanno a 80 dollari al barile è un tentativo di fissare un prezzo minimo a lungo termine per il greggio più alto di quello degli scambi futures attuali. Ma gli addetti ai lavori ritengono che gli azionisti potrebbero cercare prezzi ancora più alti prima di portare i nuovi flussi a regime. Ci sono poi dei vincoli oggettivi all’aumento della perforazione americana da considerare, non da ultimo la carenza di materiali, mezzi e uomini per comporre le squadre addette al fracking (la perforazione idraulica delle rocce).
Se gli Stati Uniti intendevano scalare posizioni per diventare il produttore di greggio più importante del mondo, in realtà il loro annuncio potrebbe avere l’effetto di rinforzare ancora di più il peso dell’Opec. Secondo le stime, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti insieme avrebbero una capacità inutilizzata di oltre 2 milioni di barili al giorno. Ma il cartello mediorientale si è mantenuto prudente rispetto alla guerra e non ha dato seguito alla richiesta di Biden di aumentare l’offerta.
[…] La Casa Bianca affronta anche un altro dilemma. Biden ha cominciato il suo mandato assumendosi l’impegno di portare avanti una politica vigorosa sul clima, ma rischia di perdere entrambe le camere del Congresso alle elezioni di mid-term di novembre. Il balzo del 50% dei prezzi della benzina in un anno fa arrabbiare soprattutto gli elettori repubblicani8.

Escluso il fallimento dei rapporti tra USA e Opec, messo in risalto anche dal rifiuto degli ultimi giorni da parte dei principali produttori di gas e petrolio di incrementare l’offerta per abbassarne i prezzi9, e sconfitta la speranza di coinvolgere Cina e India nelle sanzioni alla Russia10 non è difficile vedere che quanto previsto dal Ministro Cingolani per affrontare la prossima crisi nell’autunno-inverno 2022/2023, non è affatto lontano da quanto prospettato dalla BCE o desiderato dagli USA. Indipendentemente dall’uso che farà di tutto questo la propaganda russa.

D’altra parte, va ancora qui ricordato che una parte degli aumenti del costo del gas è da attribuire alle manovre speculative in atto sul mercato di Amsterdam, tanto da far pensare, alla Commissione europea di mettere il Ttf olandese sotto il controllo dell’Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati)11, confermando così l’analisi marxiana del fatto che «l’unico limite del capitale è il capitale stesso». In questo caso inteso non come controllo sulla libera definizione dei prezzi in Borsa, ma per l’intralcio che gli interessi del capitale finanziario e della rendita finiscono col creare alla produzione industriale, peggiorandone le condizioni incrementandone i costi.

Infine, per non fare troppo torto alla stampa nazionale, val la pena di ricordare che già in data 18 marzo 2022, poco più di venti giorni dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina e delle prime decisioni prese in ambito europeo e atlantico, il «Sole 24 ore» titolava in prima pagina: Ocse: la guerra costa all’Ue l’1,4% del Pil. Dal neon al grano, l’Italia più esposta.

Mentre ancora pochi giorni or sono, poteva denunciare i paesi della Nato che guadagnano con la crisi del gas, dalla Norvegia agli Usa12. Sottolineando come gli Stati Uniti esportino in Europa il triplo di Gazprom e come la Norvegia abbia scalzato la Russia come primo fornitore. Ma non solo, poiché anche la Cina starebbe facendo affari d’oro rivendendo all’Europa Gnl, mentre la Russia ha visto aumentare i profitti sul gas nonostante, e forse grazie, le sanzioni13.

La ciliegina sulla torta del disastro l’ha messa però Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, che nel corso di un’intervista concessa a Rai News24 il 7 settembre ha esordito affermando seccamente: «Noi ormai siamo sconfitti».
Giustificando tale affermazione col fatto che se non ci sarà una “rcessione” i prezzi del gas e del petrolio, e perciò dell’energia, continueranno a crescere. Anche l’incremento dell’utilizzo delle centrali a carbone, ha continuato lo stesso Tabarelli, non porterà a decisivi miglioramenti, poiché non solo la maggior parte del carbone utilizzato in Italia proviene comunque dalla Russia, ma anche perché pur utilizzando le stesse al massimo si passerebbe da un 6 al 13% dell’energia elettrica prodotta. Concludendo poi col dire che, questo inverno, se la Russia continuerà a tagliare o azzerare le forniture di gas, si dovranno fare sacrifici da tempi di guerra e che, se non ci saranno significative riduzioni dei consumi e i prezzi continueranno a salire, ci saranno inevitabilmente chiusure di stabilimenti industriali e licenziamenti.

Ma allora perché sforzarsi di spiegare ad ogni costo che le cose «andranno bene», come nei primi giorni della pandemia per gli Italiani e gli Europei e male per i Russi14? Forse in grazia di un accordo stilato da Draghi con uno stato, l’Algeria, che è in attesa di entrare a far parte dei Brics e che nei giorni scorsi ha affiancato Russia, Cina, India, Corea del Nord e altri partner ancora nelle manovre militari Vostock 2022 tenutesi nelle vicinanze del Mar del Giappone?

Non è che tutta questa propaganda militar- parlamentare sia destinata soltanto a tenere buona quella parte di opinione pubblica che prima o poi sarà portata ad esplodere imprevedibilmente per le conseguenze coincidenti di pandemia, guerra, crisi ambientale ed energetica? E’ così che i governi dei migliori o dei peggiori, fa lo stesso, pensano di poter affrontare la crisi sociale, politica ed economica che inevitabilmente verrà? Con bonus ridicoli, ristori indirizzati solo alle aziende, la promessa della riduzione di un solo grado delle temperatura domestiche e il ritardo nell’accensione dei riscaldamenti privati e pubblici? Senza mai parlare seriamente dell’inevitabile disoccupazione e miseria che conseguirà a tutto ciò? Oppure, come è successo in questi ultimi giorni a Torino con la società Iren, accontentandosi di staccare il teleriscaldamento a coloro e ai condomini che sono già in difficoltà con il pagamento delle bollette arretrate15?

Speriamo di sì, a patto che chi rifiuta il nefasto modo di produzione attuale rinunci a qualsiasi illusione parlamentaristica e voglia tornare all’organizzazione dal basso e alla lotta di strada. In modo da poter rivendicare, ancora una volta con forza, come negli anni ’70: le bollette e la crisi le paghino i padroni!


  1. Si veda: Natalie Tocci, Lo Zar, le sanzioni e gli “utili idioti”, «La Stampa» 6 settembre 2022  

  2. Nel XIII secolo Marco Polo narrava di cammellieri che esportavano un liquido nero e puzzolente, da Baku, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese belliche fin dai tempi di Alessandro Magno. Una sostanza densa, non raffinata, esportata in tutto il Mediterraneo e fino a Baghdad, per essere usata come mezzo di illuminazione e come balsamo o unguento. Sostanza che in quella localita’ era particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno, formando autentici laghi.  

  3. Si veda in proposito: Daniel Yergin, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Biblioteca Agip, Sperling & Kupfer Editori, 1996  

  4. Livello di allerta precoce dichiarato: queste industrie sarebbero le più colpite da un congelamento della fornitura di gas. Le imminenti strozzature di approvvigionamento di gas stanno allarmando l’economia. Per molte aziende, un arresto delle forniture dalla Russia minaccerebbe la loro esistenza, «Handelsblatt», 30 marzo 2022  

  5. INTERVISTA A FRANK APPEL: Il capo delle poste avverte dell’embargo sul gas: “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, «Handelsblatt», 31 marzo 2022  

  6. Daniel Eckert e Holger Zschäpitz, Inflazione senza fine? Siamo intrappolati nella trappola dei tassi di interesse chiave, «Die Welt» 30.03.2022  

  7. JESÚS GARCÍA – RAQUEL PASCUAL CORTÉS, L’inflazione inghiotte 70 miliardi di euro di salari e risparmi in 12 mesi, «Cinco Días», 31 marzo 2022  

  8. Citato in Financial Times: effetto Ucraina, gli Usa vogliono diventare il primo produttore di petrolio, «il Fatto Quotidiano» 4 aprile 2022  

  9. Matteo Meneghello, L’Opec+ taglia la produzione, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  10. Sissi Bellomo, Sfida dell’India sul gas: noi con Mosca, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  11. Gas, la Ue vuole mettere la piattaforma Ttf sotto l’ombrello dell’Esma, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  12. Sissi Bellomo, Gas, emergenza ma non per tutti. Eldorado per alcuni paesi della Nato, «Il Sole 24 ore» 2 settembre 2022  

  13. Riccardo Sorrentino, In sei mesi l’Ue ha versato 85 miliardi alla Russia, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  14. Si veda ancora Natalie Tocci, cit., «La Stampa» 6 settembre 2022  

  15. cfr. PIER FRANCESCO CARACCIOLO, L’incubo di un inverno al freddo: a Torino boom di morosità nelle bollette e LODOVICO POLETTO, Termosifoni chiusi per morosità, la rabbia di Mirafiori contro l’Iren: “Questi rincari sono un salasso”, entrambi su «La Stampa», 8 settembre 2022  

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Un capitalismo totale? https://www.carmillaonline.com/2022/08/17/un-capitalismo-totale/ Wed, 17 Aug 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72271 di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso. All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso.
All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe rappresentato l’epoca del dominio formale del capitale in quanto il prodotto delle svariate attività produttive umane (artigianali, singole, collettive e proto-industriali, se non ancora collegate a forme di conduzione della terra comunitarie o semi-comunitarie) era destinato ormai ad alimentare principalmente lo scambio di merci in un mercato in via di mondializzazione. Merci la cui funzione era quasi esclusivamente rivolta allo scambio monetario, destinato poi a far circolare altre merci secondo lo schema riassuntivo Merce (M) – Denaro (D) – Merce (M), con una crescita continua della circolazione sia delle merci che del denaro come equivalente universale.

Nella stessa epoca, corrispondente pressapoco a quella della grande espansione coloniale europea, la borghesia però non aveva ancora il pieno dominio politico della società e dello Stato, ma era ancora costretta a sottostare ad accordi, anche questi formali, con la nobiltà e l’aristocrazia terriera di cui le monarchie, nazionali o imperiali che fossero, erano espressione ed emanazione diretta.
Soltanto le rivoluzioni borghesi, o atlantiche come alcuni ebbero a definirle, avrebbero successivamente liberato, tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, tutta le potenzialità sociali del capitale attraverso uno sconvolgimento del modo di produzione che avrebbe preso il nome di Rivoluzione industriale.

Con la trasformazione industriale di ogni singolo prodotto e il ruolo svolto dall’investimento capitalistico in ogni settore della produzione si sarebbe dunque passati alla prima forma di dominio reale del capitale, inteso come dominio sia sull’intero processo produttivo che sul potere politico e l’organizzazione della società. In tale contesto il produttore industriale, il lavoratore divenuto salariato, era destinato a perdere qualsiasi autonomia nei confronti dell’organizzazione del processo lavorativo e ad essere sottomesso ai tempi e ai ritmi dettati dal capitale costante rappresentato dalle macchine. In tale contesto generale anche le altre forme di organizzazione del lavoro e della produzione erano destinate a perdere la loro precedente relativa autonomia.

Soltanto alla luce di tale ipotesi è infatti possibile comprendere a fondo, a titolo di esempio, il giudizio dato da Marx stesso sull’economia schiavistica moderna applicata nelle colonie, soprattutto in quelle americane, separata nettamente dalla funzione di quella antica. Il problema infatti non era quello della durezza delle condizioni di vita oppure della negazione della libertà dei popoli resi schiavi, ma, piuttosto, quello della destinazione ultima del prodotto di tale forma di lavoro coatto.
Il capitalismo e la sua classe dirigente, giunti all’apice della scala sociale, potevano tranquillamente integrare nel processo di valorizzazione anche forme arcaiche della stessa, non più soltanto approfittando del basso costo del prodotto grezzo o semilavorato che ne derivava, ma anche indirizzandone le scelte e i tempi di produzione.

Il cotone americano, ad esempio, fu dunque indispensabile alla crescita industriale ed economica inglese e proprio per questo i socialisti come Marx ed Engels appoggiarono il repubblicano Lincoln, e chiesero alla classe operaia del Nord degli Stati Uniti di fare altrettanto, nella Guerra Civile proprio al fine di spezzare, tranciare e interrompere definitivamente il flusso di materie prime indispensabili alla crescita dell’imperialismo britannico. In tal senso, pertanto, anche la questione della liberazione degli schiavi e dei “neri” costituiva soltanto un corollario di tale scelta, ma non il primum movens della stessa.

Quella tattica, applicata all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, avrebbe rappresentato il primo tentativo di inserire l’azione del movimento operaio e proletario all’interno dei giochi per il dominio del pianeta o del loro rovesciamento in chiave rivoluzionaria.
Oggi sappiamo che quella guerra poco modificò la condizione sociale degli afro-americani in vaste aree del Nord America, ma che, invece, ampiamente contribuì allo sviluppo della potenza imperiale che avrebbe sopravanzato quella britannica definitivamente soltanto dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Questo trionfo del “secolo americano”, come lo ha ben definito Geminello Alvi1, non avrebbe soltanto rappresentato un cambio di segno ai vertici del potere geo-politico e militare occidentale, ma anche uno spostamento dei limiti del domino reale del capitale.

Il capitalismo sorto dalla prima rivoluzione industriale dominava la produzione, ma non poteva ancora integrare del tutto la società, e in particolare i lavoratori salariati, nella sua visione del mondo, se non attraverso strategie di carattere ideologico e politico messe in atto negli anni Venti e Trenta del XX secolo che erano destinate comunque a mostrare i propri limiti attraverso successivi tracolli militari ed economici. Infatti, anche se i regimi “fascisti” avevano contribuito a sottomettere l’intera politica statale alle necessità del capitale (rappresentando in tal modo un superamento della democrazia liberale e un ammodernamento dell’organizzazione socio-politica in chiave capitalistica), il capitalismo made in USA uscito vincitore dal secondo conflitto mondiale avrebbe saputo coinvolgere nella propria visione “consumistica” milioni di cittadini appartenenti ad ogni classe sociale soltanto attraverso l’offerta illimitata di beni disponibili, sia materiali che non e sia nel caso che questa promessa di benessere fosse concreta o illusoria.

Non a caso, in uno studio del 2005, la storica statunitense Victoria De Grazia definisce “impero irresistibile” la capacità statunitense di conquistare il mondo non solo attraverso l’uso delle forze militari di terra, di cielo e di mare oppure della forza del dollaro e della sua spregiudicata finanza, ma anche per mezzo della diffusione di nuovi e sempre più estesi consumi2 o, almeno, di una promessa in tal senso.
Al di là della diffusione dello star system cinematografico, della vendite rateali, delle catene di negozi associati nel nome e nel prezzo, che già erano stati protagonisti anche in Europa della promozione dei consumi dopo la prima guerra mondiale, nel Vecchio Continente fu il Piano Marshall a costituire il grimaldello definitivo per proporre a tutto l’Occidente lo stile di vita e di consumo americano. Come scrive infatti la storica americana:

Se lo si considera il fulcro della travagliata trasformazione dell’Europa in società dei consumi, il Piano Marshall va valutato non tanto per il contributo finanziario che seppe dare alla ricostruzione europea quanto piuttosto per le condizioni che impose all’elargizione degli aiuti. Nel complesso, le somme che vennero effettivamente spese in Europa sotto forma di crediti, sussidi e forniture sono oggi considerate irrisorie rispetto agli investimenti interni dei singoli paesi, pari forse al 5 per cento del capitale totale maturato negli anni della ripresa fino al 1950. Operando in stretta collaborazione con chi in Europa Occidentale condivideva le loro vedute, i pianificatori statunitensi, i responsabili degli aiuti e i grandi imprenditori mirarono ad impedire che i politici, ancora memori della Depressione, e della pianificazione di guerra, ripiegassero sull’intervento statale e sul protezionismo economico […] Ciò a cui si mirava era costruire un’Europa industrializzata capace di autosostentarsi, un’Europa compatta, unificata dalla spinta del commercio interregionale, eppure pienamente integrata nell’economia mondiale dominata dagli Americani3.

Se dal punto di vista economico e politico gli Stati Uniti avevano avviato quel processo di collaborazioni locali e di apertura delle frontiere di alcune aree un tempo del tutto o parzialmente ostili, che avrebbe finito col favorire la penetrazione dell’influenza politica, dei capitali e delle merci americane, dal punto di vista dell’immaginario politico e sociale la medesima azione ebbe come scopo quello di superare le resistenze sia di uomini d’affari ancora ispirati da obsolete vedute di carattere nazionalistico che quelle di una forza lavoro spaventata di fronte a ciò che il rinnovo dei sistemi di produzione avrebbe richiesto: disoccupazione, intensificazione dei ritmi di lavoro, cronometraggio, pagamento a cottimo senza un corrispondente aumento dei salari.

Fu così che oltre all’uso propagandistico della figura di «Joe Smith, il lavoratore medio americano», il cui alto tenore di vita, una casa linda e ordinata e l’auto in garage avrebbero dovuto convincere i lavoratori europei a lavorare più sodo e accettare la “momentanea” disoccupazione in nome dei miglioramenti futuri, l’obiettivo finale del piano di aiuti americano divenne non soltanto quello di promuovere un’alleanza transatlantica che attraversasse tutta l’Europa, ma anche quello di contribuire all’incremento dei livelli di consumo anziché ridare vigore alle coalizioni anticonsumo dell’era prebellica.

L’ostilità verso norme di consumo più elevate doveva durare poco. Nel 1951, quando con il calo dell’inflazione, il decollo delle industrie di base, la ripresa del commercio nell’Europa occidentale esplosero le proteste operaie, i funzionari americani dell’Eca (European Cooperation Agency) ricordarono ai loro alleati che in origine il Piano Marshall era stato concepito allo scopo di combattere i comunisti. Occorreva pertanto aumentare le concessioni dei fondi destinati ad alloggi, ospedali, scuole, strutture turistiche e simili; anche i datori di lavoro, se non volevano passare per industriali reazionari, borghesi ed economicamente retrogradi, ancora legati all’infelice passato del Vecchio Continente, avrebbero dovuto condividere i proventi della produttività con la «gente comune d’Europa»4.

Ora, aldilà della sorpresa per alcuni nello scoprire come il “superiore” sistema di welfare europeo in realtà sia stato indirettamente originato dalla pianificazione economico-politica statunitense post-bellica, è interessante vedere come le ragioni della lotta contro “il pericolo comunista” di stampo sovietico o filo-sovietico affondassero le loro radici sia nella necessità americana di non rallentare, ma anzi di ampliare il flusso delle merci su scala globale, sia nella capacità di affrontare il nemico con armi nuove e impari: ovvero con la capacità di offrire, almeno virtualmente piuttosto che di negare realmente, l’accesso a quegli stessi beni.

Da lì a poco, infatti, le immagini della famiglie americane soddisfatte intorno ai loro frigoriferi stracolmi e ai televisori e agli altri elettrodomestici, destinati a liberare il lavoro casalingo femminile ben più di qualsiasi altra formulazione ideale, avrebbero facilmente contrastato le immagini ideologiche del “socialismo reale”, accompagnate però da quelle dei banchi delle merci semivuoti, code per il pane lunghe e beni di lusso relegati a negozi e grandi magazzini destinati soltanto agli stranieri benestanti e ben paganti.

Sul piano della rappresentazione ideale il capitalismo americano seppe così, a partire da quegli anni, imporre un’immagine di sé estremamente efficace, tendente a contrastare nei fatti una promessa di un “radioso” e “più giusto” futuro di cui, però, da oltre cortina non arrivavano immagini altrettanto convincenti. Alle fotografie dei leader bolscevichi d’antan e sovietici del momento, il capitale americano poteva contrapporre non solo quella di auto ed elettrodomestici luccicanti e famigliole felici davanti all’abbondanza di cibo grazie ad uno sforzo lavorativo che offriva, a differenza di quello sovietico, risultati immediati, ma anche quella dei volti giovani e belli delle star di Hollywood, cui di lì a poco, con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, anche la politica americana avrebbe dovuto adeguarsi ai suoi vertici.

Si può così considerare estremamente simbolico il fatto che mentre il 14 maggio 1955 era nato il Patto di Varsavia, con sei anni di ritardo rispetto alla nascita del Patto Atlantico (NATO) e soltanto dopo aver schiacciato la rivolta operaia di Berlino Est e giusto un anno prima di quella più vasta e complessa degli operai ungheresi, il 17 luglio dello stesso anno ad Anaheim, nella periferia di Los Angeles, avvenisse l’inaugurazione della prima Disneyland. Prima autentica cittadella del divertimento di massa e della riproduzione concreta del sogno americano, destinata sicuramente ad un pubblico infantile, non solo per età, affamato di beni sia materiali che immateriali. Spostando definitivamente il conflitto per il controllo dell’immaginario su un piano che i partiti derivati dall’esperienza bolscevica e del Comintern o Cominform non erano assolutamente pronti ad affrontare se non denunciando, ancora una volta, gli intrighi statunitensi e i maneggi della CIA5.

Impegnati com’erano, gli stessi partiti, a contestare l’espansione economica americana ed occidentale presentando i lusinghieri, ma artefatti risultati dei piani quinquennali sovietici6, ignorarono del tutto il fatto che il dominio reale del capitale, sempre guidato dalla necessità di espandere la vendita delle merci per realizzare il valore di scambio in esse contenuto, si estendeva oltre le strutture produttive, economiche, politiche, giuridiche e amministrative, di cui già aveva assunto il controllo, a quelle psichiche di quella stessa classe che avrebbe dovuto, secondo le interpretazioni più ortodosse, rappresentarne la negazione storica e politica.

Victoria De Grazia afferma infatti che:

il Piano Marshall non fu affatto concepito allo scopo di creare un’Europa di consumatori. In prima istanza fu ideato per far fronte alla penuria di dollari, che impediva ai fornitori europei di acquistare prodotti statunitensi e minacciavano di bloccare la ripresa. Tale penuria fu attribuita al divario commerciale tra le due aree, che a sua volta era dovuto alla perenne fiacchezza della produttività dell’economia europea. Di conseguenza, la priorità assoluta del Piano fu quella di incentivare la produttività mediante gli investimenti nella riorganizzazione industriale e nelle infrastrutture […]. Quindi, non si poteva concedere alcun aiuto destinato a riempire i guardaroba vuoti, ristrutturare le case, pagare le pensioni e tanto meno aumentare i salari. Anche gli aiuti alimentari erano distribuiti con parsimonia – solo nel caso in cui era strettamente necessario per motivi politici – come nella Germania occidentale nel 1948, allo scopo di attenuare la malnutrizione, compensare le carenze più gravi e consentire ai governi di favorire la ripresa senza sollevare le furibonde proteste di chi pativa la fame. […] In sostanza era necessario convincere i popoli dell’Europa occidentale ad accettare ciò che Charles S. Maier ha sinteticamente chiamato la «politica della produttività»7.

Questo potrebbe apparire in contraddizione con quanto fino ad ora detto, ma non lo è se si considerano i due cardini ineliminabili della politica economica del capitale: 1) incrementare la produttività e quindi la redditività del lavoro vivo, come unica fonte di creazione di plusvalore e 2) impedire che l’aumento di produttività di qualsiasi o tutti i settori della produzione potesse trovarsi annullata da colli di bottiglia venutisi a creare nel settore della circolazione delle merci tra la prima e l’effettiva capacità di assorbimento del mercato.

Due problemi che da sempre assillano il modo di produzione capitalistico e la sua effettiva capacità di realizzare sul mercato il valore virtualmente prodotto dal pluslavoro estratto in forma sempre più massicce dalla forza lavoro per mezzo del continuo incremento e rinnovo del capitale costante.
Se si tengono ben presenti questi due ultimi concetti si vedrà allora che ad ogni svolta tecnologica e produttiva non c’è alcun bisogno di gridare alla novità o alla capacità del capitale e dei suoi funzionari di controllare massicciamente la società e l’agire umano. Il domino reale del capitale ha affinato le sue armi e le sue tecniche, ma non ha cambiato di segno la sua sostanza.

Se nella fase susseguente alla prima e seconda rivoluzione industriale il lavoratore era integrato nel processo di produzione attraverso la sua dipendenza dalla macchina, da cui derivava però ancora la sua alienazione rispetto alle finalità della stessa, nella nuova fase aperta dalla società dei consumi affermatasi dopo il secondo conflitto mondiale la forza-lavoro si ritrovava “coinvolta” nel prodotto attraverso il desiderio dello stesso, anche se non appartenente allo stesso segmento produttivo di cui faceva parte il singolo operaio. Non più per motivi ideologici (fascismo, nazismo, stalinismo) dunque, ma per “interesse” personale e spinta al consumo.

Motivo per cui ogni “nuova” fase dello sviluppo capitalistico non richiede analisi del tutto nuove o presunte tali, ma forme di lotta adatte alle nuove condizioni imposte dal capitale. Negli anni Sessanta, la ripresa delle lotte operaie aveva posto al proprio centro richieste salariali che erano state dettate anche dai nuovi bisogni che la diffusione delle immagini di un benessere basato sull’ampliamento dei consumi avevano innestato a livello individuale e collettivo8. Quella protesta, di fatto alimentata forse più dalla tendenza al “consumismo” che da una non meglio definita “coscienza di classe”, aveva, però, scardinato per un momento nemmeno troppo breve l’ordine sociale capitalistico e il suo comando sul lavoro. Una volta finita, come in ogni periodo controrivoluzionario, lo stesso aveva però potuto costituirsi ad un livello più alto, aiutato in questo proprio dalle lezioni apprese dallo scontro aperto con il nemico: l’insorgente, a tratti, proletariato di fabbrica. E’ proprio l’apprendere da tali lezioni che permette al capitale collettivo di avvantaggiarsi nelle fasi immediatamente successive e a far sembrare che siano le lotte proletarie a rafforzarlo in qualche modo.

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica.

Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità9.


  1. Geminello Alvi, Dell’Estremo Occidente. Il Secolo Americano in Europa. Storie economiche 1916-1933, Marco Nardi Editore, Firenze 1993  

  2. Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, Belknap Press, 2005 (in traduzione italiana: L’impero irresistibile. società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006)  

  3. V. De Grazia, op. cit., ed. italiana pp. 371-372  

  4. Ibidem, p. 374  

  5. Si veda, ad esempio, Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi Editore, Roma 2004  

  6. Si veda, ad esempio, l’attenta e dettagliata critica dei trionfalistici dati sovietici contenuta negli articoli dello stesso periodo di Amadeo Bordiga su «il programma comunista». In particolare in quelli raccolti successivamente in: Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976.  

  7. V. De Grazia, op. cit., pp. 372-373  

  8. Si veda in proposito: Dario Lanzardo, Produzione, consumi e lotta di classe, «Quaderni rossi» n. 4, Reprint, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1976  

  9. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

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Tutti allora qui facevano i contadini https://www.carmillaonline.com/2020/11/16/tutti-allora-qui-facevano-i-contadini/ Mon, 16 Nov 2020 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63427 di Sandro Moiso

Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, con contributi di Mauro Abati, Barbara D’Attoma, Valeria Ganzola, Roberto Mondinelli, Chiara Moroni, Mariangela Pezzotti, Carlo Rizzini, Carlo Sabatti, Giordano Saleri, Laura e Stefano Soggetti, Comunità Montana di Valle Trompia 2018, vol. 1° pp. 360 – vol. 2° pp. 374, 25,00 euro

E’ davvero con colpevole ed eccessivo ritardo che recensisco qui i due volumi sulla tradizione comunitaria e proprietaria di Cimmo e Tavernole in Valle Trompia in provincia di Brescia. La loro pubblicazione è inserita in un contesto [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, con contributi di Mauro Abati, Barbara D’Attoma, Valeria Ganzola, Roberto Mondinelli, Chiara Moroni, Mariangela Pezzotti, Carlo Rizzini, Carlo Sabatti, Giordano Saleri, Laura e Stefano Soggetti, Comunità Montana di Valle Trompia 2018, vol. 1° pp. 360 – vol. 2° pp. 374, 25,00 euro

E’ davvero con colpevole ed eccessivo ritardo che recensisco qui i due volumi sulla tradizione comunitaria e proprietaria di Cimmo e Tavernole in Valle Trompia in provincia di Brescia. La loro pubblicazione è inserita in un contesto in cui la Comunità Montana, spesso con il contributo intellettuale di Franco Ghigini, etnografo ed etnomusicologo, e in questo caso grazie soprattutto all’Associazione Antichi Originari dell’ex-comune di Cimmo, ha inteso rivalutare e riscoprire le tradizioni e le culture locali, in un tempo i cui il rapido avanzare della modernizzazione digitale rischia di cancellare dalla Storia e dalla memoria, con «una veloce e silenziosa corrente di mutamento che inghiotte il passato spesso senza neanche incresparsi in superficie»1, un contesto sociale locale che, in questo caso, può rimandare ad una ben più ampia tradizione di organizzazione comunitaria, sia economica che socio-culturale.

Proprio il tema centrale trattato nei due volumi (pubblicati indivisibilmente) di cui qui si parla, quello degli Antichi Originari ovvero quelle famiglie di Cimmo e Tavernole che hanno mantenuto per lungo tempo una sorta di statuto o funzione speciale nella gestione delle proprietà, rinvia ad un modello comunitario di condivisione e organizzazione dei suoli e del loro prodotto che è riscontrabile storicamente lungo tutto l’arco alpino, da Ovest ad Est2. Modello comunitario di proprietà della terra e condivisione del lavoro e delle responsabilità sociali che rinvia ad età precedenti alla modernità e, in molti casi, anche pre-comunali.

Parliamo quindi di una storia di lunga durata che ci parla di epoche in cui la centralizzazione statale e la concentrazione delle ricchezze e degli strumenti di produzione in pochissime mani era ben lontana dal venire e dall’affermarsi. Una storia fatta di famiglie e non di istituzioni che attraversa il Medio Evo, il dominio veneziano sul bresciano, la discesa di Napoleone in Italia, l’inizio dello Stato unitario, la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo e la successiva Repubblica per giungere, attraverso le voci dei discendenti attuali documentate, e spesso riprodotte nel dialetto/lingua locale, nella straordinaria raccolta di testimonianze orali registrate da Franco Ghigini nel corso di anni e contenuta nelle prime 300 pagine del secondo volume, fino ai giorni nostri.

Oggi, di fronte alla catastrofe pandemica e all’incapacità delle amministrazioni centralizzate di far fronte nell’interesse di tutti alle necessità in ambito sociale ed economico suscitate o, meglio, ampliate dalla stessa, una riflessione sulla storia di quelle antiche esperienze appare almeno necessaria; proprio per superare il modello unico di società e mercato ancora troppo spesso esaltato oggi nonostante i suoi evidenti fallimenti.

Per chi appartiene alla mia generazione è ancora possibile ricordare quando, negli anni ’70, due giovani Cochi e Renato, agli albori della loro carriera in un programma contenitore televisivo domenicale, assumevano la Val Trompia come luogo di arretratezza ed ignoranza. Con l’ironia apparentemente bonaria, figlia di un’epoca progressista che, tanto a Destra che a Sinistra con parole d’ordine differenti ma finalità simili, mirava a cancellare, ritenendole superate, quelle civiltà contadine e montane che pur avevano resistito attraverso i secoli all’assalto dei poteri centralizzati, riuscendo allo stesso tempo a garantire ai propri membri una vita dignitosa, nel rispetto dell’ambiente e delle risorse fondamentali come l’acqua e la terra.

In questo senso vale dunque l’annotazione, tratta dallo storico francese March Bloch, posta in esergo al saggio curato da Carlo Rizzini: «La storia non è soltanto ciò che è stato, ma anche ciò che se n’è fatto». Che aggiunge, poi ancora, nelle pagine successive:

E’ alla storia di lungo periodo, alla storia sommersa e silenziosa, ma effettivamente costruttrice delle vicende umane, che appartiene l’esperienza degli Antichi Originari.
Chiarito questo concetto, è evidente come sia necessario abbandonare la pretesa di una visione universale, ponendo invece attenzione ai particolari: le singole persone e la comunità che esse hanno costruito sono i reali protagonisti della storia, di ogni storia. Così, in queste pagine, pur attraverso documenti e fonti assai diversificate, pur dovendo tener conto dell’istituzione creata, dei rapporti tra istituzioni locali e rappresentanti governativi, pur non ignorando fatti e aspetti amministrativi, statistici, economici e politici, dobbiamo ricordare che stiamo ripercorrendo le vicende delle famiglie Cioli, Comini, Cottali, Ganzola, Garneri, Mutti, Pelizzari, Saleri e Zuccotti3.

La prima testimonianza scritta della comunità formatasi intorno agli antichi detentori delle terre, amministrate e gestite in comune, sul territorio di Cimmo e Tavernole risale al 1372 e costituisce di per sé testimonianza, assai evidente, che il Comune stesso costituiva uno dei più antichi insediamenti valtrumplini. Si tratta degli Statuti di Cimmo e Tavernole, il cui manoscritto originale è oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia.

Ma tale testimonianza “scritta” rivela, quasi sicuramente, che tale accordo per la gestione comunitaria delle terre e del loro prodotto doveva risalire a tempi ben più antichi e che tale testo scritto doveva essere già il prodotto di mutamenti avvenuti nel corso del tempo. Trasformazioni la cui memoria rimane muta in un contesto in cui per secoli era stata la cultura orale a predominare su quella scritta (sicuramente poco diffusa tra le comunità montane per lungo e immemorabile tempo). Una cultura e un’organizzazione socio-economica, potremmo dire pre-omerica, che soltanto l’arciprete di Inzino, Bernardino de Caciis da Cimmo, e il notaio Bressanino Bicocchi de Milanibus, avrebbero sistematizzato per iscritto nell’aprile di quell’anno.

Al giorno d’oggi siamo portati a ritenere che una proprietà possa essere considerata secondo una duplice opzione: pubblica o privata. Ignoriamo che in epoche remote esisteva anche un altro modo di possedere, ovvero la proprietà collettiva. Essa è il chiaro esempio di un legame solidaristico, espresso in uno spirito cooperativo, che si manifesta all’interno di una comunità, non inteso in senso moderno come appartenenza a un ente, bensì nel senso più appropriato di sintesi di individui: i singoli si sacrificano e sacrificano il proprio personale interesse per il raggiungimento di un bene comune.
L’origine delle proprietà collettive deriverebbe, secondo varie teorie, dall’usanza romana di concedere ai soldati congedati dei terreni da colonizzare, come tributo per il servizio svolto; in alternativa, si considera attendibile l’origine germanica di questo tipo proprietà, laddove le invasioni barbariche portarono a nuovi stanziamenti e al controllo di territori dell’ex-impero romano. Probabilmente entrambe le interpretazioni sono verosimili e si sovrappongono a tradizioni autoctone poiché il legame tra l’uomo e la terra, intesa come il necessario mezzo di sostentamento, doveva essere comune a molte popolazioni anche di diversa origine; solo successivamente entrò in campo il concetto di proprietà privata: E’ quindi evidente che, per fissare l’origine per questo tipo di gestione economica, si deve risalire ad un’età precomunale, ovvero ben prima dell’istituzione dei Comuni stessi nelle loro forme giuridiche4.

Per meglio comprendere il significato storico e pratico di tali modelli di organizzazione sociale è forse bene citare le parole di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia nel 2009, riportate dallo stesso Rizzini:

Ciò che si può osservare a livello globale è che né lo Stato né il mercato sono in grado di garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo delle risorse naturali. Non meno importante deve essere la consapevolezza dell’esistenza di istituzioni non identificabili in modo netto in base alla dicotomia stato-mercato, che sono state in grado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguendo successi significativi e per lunghi periodi di tempo (E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio 2006, p.12)5.

Ciò che viene poi indagato in questa storia dei Grandi Antichi di Cimmo e Tavernole è il significato che assume lo scontro col forestiero quando, a seguito di spostamenti di individui o gruppi famigliari sul territorio comunitario oppure di contrasto con le comunità confinanti, questo, o questi, chiede di partecipare alla condivisione della ricchezza prodotta. Al di là degli episodi di violenza cui tutto questo può dare atto (e nella storia delle due comunità non sono pochi), occorre però dire da subito che chiunque volesse avvicinare, per qualsiasi motivo, tali conflitti a quelli attuali riguardanti l’immigrazione trans-mediterranea, sarebbe completamente fuori luogo poiché nei conflitti del passato di cui si parla spesso era la comunità a difendersi dal tentativo istituzionale (Chiesa, Stato o Principato, borghesia in ascesa) di penetrare al suo interno per minarla e privarla delle sue risorse.

Ecco dunque il punto sostanziale: la proprietà dei beni e il diritto di usufruirne da parte di un gruppo di famiglie che, con tutta probabilità, in origine componevano l’intera comunità e che si trovavano a dover giustificare il possesso e la distribuzione delle rendite a quei rappresentanti dei governi che, via via cominciavano ad avere sempre maggior controllo sul territorio e a cui ricorrevano spesso i Forestieri, ovvero i nuovi arrivati della comunità, che ambivano a partecipare alla suddivisione delle rendite.
Non dobbiamo scordare che, a partire dal XVII secolo, gli Stati si organizzarono sempre più per garantirsi il controllo capillare dei propri territori, istituendo strutture giudiziarie, poliziesche, amministrative ed economiche in grado di tenere sotto controllo la situazione6.

Nel corso degli anni e con l’avvento dello Stato nazionale post-unitario «I motivi di contrasto si crearono sull’interpretazione e sull’applicazione delle norme e sul confronto con i poteri centrali, con architetture sempre più strutturate, quindi anche più difficili da affrontare che portavano avanti in modo più rigoroso il controllo sui territori.
Possiamo riassumere questi aspetti con una frase attribuita a Giovanni Giolitti: Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano»7.

Questa ultima e autentica anticipazione dell’attuale diritto penale del nemico serve anche per spiegare come il conflitto, spesso, potesse dare adito a delitti ed atti di violenza che furono in seguito usati per ridurre ulteriormente l’autonomia delle comunità. La questione Potrebbe dunque rinviare, anche se indirettamente, a quella della rimozione (ben più cruenta) e messa fuori legge, in alcuni casi per più di un secolo, di quei clan delle Highland scozzesi che si rifiutavano di accettare l’autorità della corona britannica e l’avvento dell’allevamento, diffuso sui terreni privatizzati, delle pecore destinato non al consumo in loco ma a sostenere lo sviluppo dell’industria laniera nella prima fase della rivoluzione industriale inglese8.

Per un’ultima osservazione, prima di congedare il lettore senza neppure aver potuto affrontare gli altri saggi contenuti nei due volumi, ancora una volta giungono in aiuto le parole di Elinor Ostrom:

Nonostante l’incertezza legata ai fattori ambientali, le popolazioni di queste località si sono mantenute stabili per lunghi periodi di tempo. Gli individui hanno condiviso il passato e prevedono di condividere il futuro. Per i singoli individui è importante mantenere la propria reputazione di elementi affidabili della comunità […] Inoltre la reputazione legata al mantenimento delle promesse, all’onestà e all’affidabilità, in n contesto circoscritto, è un bene prezioso […] In nessuna di queste situazioni chi partecipa all’uso delle risorse collettive appare diverso dagli altri in relazione al diritto di proprietà vantato sulla terra, all’abilità, conoscenze, etnia, razza o altre variabili che potrebbero fortemente dividere un gruppo di individui (E. Ostrom, op. cit. p. 132)9.

Parole perfette per comprendere il radicamento di una comunità nel suo territorio e per spiegare l’importanza storica, culturale e, perché no, anche politica di riflessioni e ricerche come quelle contenute nell’opera che è stata, anche se in maniera parziale e forse riduttiva, qui esaminata.


  1. K. Polannyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974, p. 6  

  2. Per una sintetica eppur esaustiva trattazione dell’argomento, si consulti almeno Naturalmente divisi. Storia e autonomia delle antiche comunità alpine, progetto curato da Luca Giarelli e Marta Ghirardelli per la Comunità Montana della Valle Camonica e Provincia di Brescia, Lontàno Verde – I.S.T.A., maggio 2013, pp. 382  

  3. C. Rizzini, Gli Antichi Originari e la comunità di Cimmo, in Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole, vol. 1°, pp. 15-16  

  4. C. Rizzini, op. cit. pp. 18-19  

  5. Op. cit. p.19  

  6. op.cit. p. 41  

  7. op. cit. p. 42  

  8. Si consultino in proposito: J. Prebble, The Lion in the North, Penguin Books 1971 e, ancora, J. Prebble, The Highland Clearances, Penguin Books 1963  

  9. Rizzini, op. cit. p. 20  

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