Rivoluzione d’Ottobre – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Jul 2025 20:00:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Quale resistenza in Ucraina? https://www.carmillaonline.com/2022/11/29/quale-resistenza-in-ucraina/ Tue, 29 Nov 2022 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74759 di Sandro Moiso

Alexander V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, pp. 232, euro17,00

Adesso, dopo che le truppe russe si sono ritirate e attestate sulla riva orientale del Dnepr, di fronte a Kherson, e che la guerra unisce i suoi effetti al freddo e alla fame per la popolazione civile, è giunto il momento di formulare un giudizio politico spassionato sulla realtà della “resistenza” ucraina, propagandisticamente e troppo spesso romanticamente sbandierata come eroica e popolare. Così, mettendo a disposizione dei lettori un possibile termina di paragone storico, può rivelarsi utile il volume appena [...]]]> di Sandro Moiso

Alexander V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, pp. 232, euro17,00

Adesso, dopo che le truppe russe si sono ritirate e attestate sulla riva orientale del Dnepr, di fronte a Kherson, e che la guerra unisce i suoi effetti al freddo e alla fame per la popolazione civile, è giunto il momento di formulare un giudizio politico spassionato sulla realtà della “resistenza” ucraina, propagandisticamente e troppo spesso romanticamente sbandierata come eroica e popolare. Così, mettendo a disposizione dei lettori un possibile termina di paragone storico, può rivelarsi utile il volume appena ristampato da elèuthera (che lo aveva già proposto al pubblico italiano nel 2012) in cui Alexander Vladlenovich Shubin analizza e descrive nel dettaglio le vicende della machnovščina ucraina tra il 1917 e il 1921.

L’autore (n. 1965) insegna Storia in due università di Mosca: l’Accademia delle Scienze dove, dal 2003, dirige il Centro di studi storici, e, dal 2007, l’Università Statale per gli Studi Umanistici, dove ha condotto approfondite ricerche per riportare alla luce la storia dei movimenti di opposizione al bolscevismo, con particolare attenzione a quelli di matrice libertaria. In tale contesto di ricerca va dunque inquadrato questo testo dedito alla ricostruzione delle vicende legate alla figura di Nestor Machno e alle insurrezioni contadine che si svilupparono in Ucraina nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la fine della Guerra Civile. Come scrive lo stesso Shubin nella Premessa:

Il movimento machnovista ucraino, poco studiato dalla storiografia mondiale, è stato uno degli episodi più importanti della rivoluzione e della guerra civile esplosa nel 1917 nell’ex impero russo. Negli anni tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini, e cercando al contempo di non sottomettersi al nuovo potere comunista. Non sorprende che l’iniziale alleanza tattica con i comunisti si sia poi conclusa con uno scontro militare, durante il quale l’esercito insurrezionale machnovista si batté impugnando la bandiera nera dell’anarchia. Alla guida di questa armata contadina c’era Nestor Ivanovic Machno, uno stratega geniale che fino al 1918 non aveva preso parte ad alcuna guerra, ma che in seguito si ritrovò al posto giusto nel momento giusto. Nei brevi momenti di tregua, i machnovisti provarono a costruire una nuova società basata sull’autogestione, e nonostante questo movimento sia sopravvissuto soltanto fino al 1921, ha rappresentato comunque uno degli esempi più vividi del desiderio di liberazione sociale e politica che ha caratterizzato quell’epoca1.

Basterebbero le parole «tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini» a marcare già tutta la differenza tra quella espressione diretta della volontà di classe e popolare e l’attuale “resistenza”, ma occorre ancora procedere con ordine per verifica la validità di tale assunto.

L’area che vide protagonista il movimento machnovista è principalmente la regione compresa tra il Mar d’Azov a sud, la riva sinistra del Dnepr a ovest e il bacino carbonifero del Don a est. Ma i machnovisti agirono anche sulla riva destra del Dnepr, soprattutto nella regione di Ekaterinoslav (ora Dnepropetrovsk), e a nord in quelle di Poltava e Cernigov [in ucraino Cernihiv – N.d.T.]. Il cuore della rivolta era la cittadina di Guljaj Pole nella provincia di Aleksandrovsk (l’attuale Zaporozhye). La storia di questi luoghi è legata a quella dei cosacchi e alla loro cultura rurale e nomade, anche se ai primi del Novecento nella provincia di Aleksandrovsk i cosacchi erano ormai solo un ricordo. […] L’economia rurale in quelle zone era piuttosto rappresentata dai pomesiki, ovvero dai grandi proprietari terrieri, e quando la riforma agraria del governo di Pëtr Stolypin tentò di abolire le tradizionali terre comuni, la maggiore resistenza la incontrò proprio nel governatorato di Ekaterinoslav. Dal punto di vista agricolo e industriale, l’area di azione del futuro movimento machnovista era una delle regioni più sviluppate dell’impero russo, grazie alla vicinanza dei porti e a una rete ferroviaria che aveva favorito lo sviluppo del mercato del grano.
[…] Nelle province di Ekaterinoslav e della Tauride si produceva il 24,4% delle macchine agricole del paese (a Mosca solo il 10%). Una parte significativa dell’industria di Ekaterinoslav era dislocata su tutto il territorio: piccole città e villaggi di grandi dimensioni erano diventati dei veri e propri complessi agro-industriali. A Guljaj Pole, futura capitale del movimento machnovista, c’erano una fonderia e due mulini a vapore, e nel distretto c’erano dodici fabbriche di piastrelle e mattoni. Tutto ciò contribuiva non solo alla produzione ma anche al rafforzamento del legame tra contadini e operai. Molti contadini andavano a cercare lavoro nelle vicinanze dei grandi centri industriali, sicuri che in caso di crisi sarebbero potuti rientrare nei villaggi di origine, e nei villaggi non c’era carenza di prodotti industriali grazie alla vicinanza di numerose fabbriche. Erano le grandi città a essere percepite dai contadini come un mondo estraneo e distante di cui non avvertivano alcun bisogno. Quanto al nazionalismo, mentre nel nord dell’Ucraina era solidamente radicato nell’economia autocratica che caratterizzava quell’area, nella regione del Mar d’Azov stentava invece a trovare una sua base sociale. È in questo contesto che sarebbe nato uno dei più grandi movimenti contadini della storia europea, che tuttavia sarà strettamente legato al movimento operaio, tanto da avere nelle sue fila anche leader operai, tra i quali lo stesso Machno che in gioventù aveva lavorato in una fonderia di ghisa2.

La Russia era stata fin dal XVI-XVII secolo teatro di rivolte, contadine e cosacche, che si erano rivolte sia contro il governo degli czar che nei confronti dei dominatori polacchi di una parte dell’attuale territorio ucraino. Rivolte rese celebri attraverso la letteratura russa dell’Ottocento sia dal racconto Taras Bul’ba scritto da Nikolaj Gogol’ nel 1834 che dal romanzo La figlia del capitano, pubblicato da Aleksandr Sergeevič Puškin nel 1836, oltre che dal poema Pugacev di Sergej Aleksandrovic Esenin scritto negli anni ’20 del Novecento, ma che ancor prima di ciò avevano lasciato un segno, seppur disordinato dal punto di vista dei contenuti, nella memoria collettiva3.

Invece come si sottolinea nel testo di Shubin quella capeggiata da Nestor Machno, nato a Guljaj Pole da una famiglia di ex-servi della gleba nel 1888 e morto in esilio a Parigi nel 1934, era riuscita a unificare sia i contadini poveri che gli operai delle regioni interessate dimostrando, nonostante fosse stata alla fine schiacciata dall’Armata Rossa, che la rivoluzione russa avrebbe potuto prendere una ben diversa piega da quella sviluppatasi con l’industrializzazione forzata e la repressione delle istanze delle comunità di villaggio e dei consigli operai.

E’ qui che sta tutta la differenza tra una guerra condotta in nome degli interessi di classe e nel tentativo di realizzare una società più giusta e l’attuale guerra condotta da Zelensky in nome del nazionalismo oligarchico più bieco e degli interessi dell’imperialismo occidentale. Senza voler con ciò voler giustificare in alcun modo la propaganda russa sulla guerra in corso.

In fin dei conti anche la rivolta e la guerra machnovista era nata ed era guidata da un bandito che, prima di acquisire una più ampia coscienza di classe e del ruolo che le masse contadine e operaie potevano rivestire nell’ambito della Rivoluzione della guerra civile, aveva assaltato banche per finanziare un piccolo gruppo terroristico e aveva rischiato, proprio per questo motivo, di finire sulla forca. Ma i risvolti di quella lotta, durata alcuni anni, sia contro le armate bianche, in alleanza con quelle rosse nella prima fase, e poi in seguito solo contro le seconde, riguardavano solo e sempre una rivoluzione sociale e il tentativo di dar la scalata al cielo. Proprio in quelle aree in cui oggi è solcato soltanto da droni, missili, aviogetti, proiettili di cannoni, tutti irrimediabilmente destinati a far trionfare una delle due parti fortemente segnate dal nazionalismo e dagli interessi del capitale.

Ecco allora che leggere e studiare questo ennesimo bel libro pubblicato da elèuthera può dunque servire a spalancare gli occhi del lettore che fosse ancora distratto dalle chimere di una propaganda che, con la scusa della “resistenza”, ci invita soltanto ad appoggiare la guerra imperialista. E null’altro.


  1. A. V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, p. 7  

  2. Shubin, op. cit., pp. 13-15  

  3. Le principali guerre contadine in Russia si svolsero nel 1606-07, 1670-71 e 1774-75, guidate da Ivan Bolotnikov, da Stepan Razin, da Emel’jan Pugacev  

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Gli altri volti della Rivoluzione: considerazioni di un antimarxista https://www.carmillaonline.com/2022/01/30/gli-altri-volti-della-rivoluzione-riflessioni-di-un-antimarxista/ Sun, 30 Jan 2022 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70321 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro

Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)

Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol.I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, pp. 484, 28,00 euro

Lasciate oltrepassare al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi immaginari. (Descartes, Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière)

Per chi, come il sottoscritto, crede che il politico costituisca principalmente null’altro che uno dei tanti territori dell’immaginario, non è difficile condividere l’idea di Diego Gabutti che anche la Storia non sia altro che un aspetto, forse il più antico e meglio conservato, della narrazione letteraria e che come tale vada trattata.

I due aspetti, il politico come una delle tante espressioni dell’ immaginario e la Storia come uno dei generi letterari possibili, si intrecciano profondamente infatti nella monumentale opera in due volumi, di cui si recensisce qui il primo, dedicata alla ricostruzione dei percorsi del marxismo e delle sue rivoluzioni attraverso aforismi letterari e filosofici, recensioni di saggi e di romanzi, divertite e divertenti analisi di testi che da sempre dovrebbero costituire il “canone” marxista, che si accavallano nelle sue pagine, non concedendo al lettore un attimo di tregua (ma in compenso regalandogli numerosi motivi per sorridere oppure riflettere su “verità” date troppo spesso per scontate).

Un’opera che se, nei suoi tratti essenziali, potrà infastidire più di un lettore, da un altro lato potrebbe rivelarsi davvero necessaria e stimolante in ambienti sinistresi in cui, ancora e forse soprattutto oggi, il dibattito sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche rifiuta troppo spesso il peso avuto nello stesso dall’autentica controrivoluzione staliniana e dagli eccessi ideologici, che ebbero però risvolti drammatici nelle scelte politiche, sociali e culturali che ne derivarono, di coloro che dissero di ispirarsi a Marx e ancor più al marxismo-leninismo (non importa qui se di stampo bolscevico o maoista). Una sinistra che, fingendo si averlo digerito e superato, così come aveva già fatto il PCI nei confronti dello stesso retaggio storico, ogni qualvolta si approccia allo stalinismo afferma che ormai qualsiasi diatriba che lo riguardi è un fatto meramente ideologico. Appartenente ad un passato ormai morto e sepolto.

Cosa che ha fatto sì che nel nostro paese qualsiasi riferimento ad un possibile binomio lager-gulag sia ancor considerato da molti come lesivo della dignità rivoluzionaria bolscevica e leniniana. E che, peggio ancora, ha contribuito al fatto che ad appropriarsi del ricordo delle vittime italiane dello stalinismo in URSS sia stata spesso più la Destra che la Sinistra, la quale ultima dopo averle negate per decenni attraverso la voce dei rappresentanti del PCI ha finito poi, senza alcun timore di rendersi ridicolmente colpevole, di cercare di nasconderle sotto il tappeto rappresentato dal paragone con un dramma, quello della Shoha, che, nella vulgata ufficiale, qualsiasi altra violenza dovrebbe superare in termini di unicità e nefandezze.

A farne le spese sono stati alcuni dei più importanti scrittori del ‘900: Aleksandr Isaevič Solženicyn che, solo per citare un intellettuale ex-organico del più grande partito comunista dell’Occidente, Umbero Eco all’uscita delle sue prime opere in Italia definì come un «Dostoevskij da strapazzo»; oppure Varlam Tichonovič Šalamov che con le sue memorie del Gulag non ha mai trovato il dovuto spazio sulle pagine di riviste e webzine che si vorrebbero radicali oppure, ancora, Gustaw Herling, polacco e autore della drammatica testimonianza contenuta in Un mondo a parte, la cui prefazione alla raccolta dei Racconti di Kolyma di Salamov è stata respinta dall’editore Einaudi, pochi anni or sono, poiché tracciava il paragone di cui si è parlato più sopra tra lager nazisti e gulag sovietico, mentre nel 1965 il quotidiano del PCI «Paese sera» ne aveva chiesto l’espulsione dall’Italia, dove viveva, proprio a causa della sua testimonianza sul Gulag, ritenuta ancora allora, nove anni dopo il XX congresso del Partito sovietico che aveva aperto uno spiraglio sui crimini di Stalin, falsa e blasfema.

Fermiamoci qui, soltanto per dire che i motivi per leggere l’ultima raccolta di saggi e recensioni di Gabutti potrebbe rivelarsi utile soprattutto per i giovani che soltanto adesso scoprono una storia narrata troppe volte con l’enfasi della leggenda e del mito, ma priva di molti elementi tesi a disvelarne completamente i volti, anche quelli orrendi e insopportabili della Rivoluzione e delle sue promesse troppe volte non mantenute. Un dichiarato antimarxista potrebbe, in tal senso, rivelarsi più utile di tanti “marxisti” che sicuramente hanno conoscenze meno approfondite della materia, dei fatti e dei testi (di cui tanti dichiarano l’avvenuta lettura senza mai averla realmente fatta).

Lo stesso titolo, tratto dai versi di una poesia di Vladimir Vladimirovič Majakovskij che i marinai, secondo la leggenda aurea dell’Ottobre, avrebbero cantato nei giorni dell’insurrezione1, gioca sulle illusioni e l’immaginario, tra ciò che si vorrebbe e ciò che realmente è oppure è stato in ogni sommovimento rivoluzionario degno almeno di questo nome. In un contesto in cui, oltre agli interpreti principali si muovono una miriade di figuranti, controfigure, terroristi, intellettuali (più o meno raffinati), cospiratori, prime donne e donne di malaffare, bohémien, banditi, dittatori e grassatori, poeti, resurrezionisti, baroni sanguinari, Kafka e Lovecraft (sì, anche loro) in una girandola di cui è impossibile, in una recensione, rendere pienamente e dettagliatamente conto.

A fare una classifica di questo vasto compendio di testi, opere ed idee che si sarebbero volute rivoluzionarie si potrebbe dire che, dopo il trattamento riservato loro dalla penna di Gabutti, Marx ed Engels ne escono con diversi lividi e lesioni da codice giallo, mentre Lenin, Stalin e lo stesso Trotsky, invece, con le ossa fracassate ancor più che rotte, così come l’esperienza bolscevica nel suo insieme e quella dei socialisti rivoluzionari prima, durante e dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Anche per gli anarchici sono riservati sonori schiaffoni e brusche tirate d’orecchie e soltanto Amadeo Bordiga sembra cavarsela con qualche scappellotto sul coppino, forse per personale e antica simpatia dell’autore per lo stesso e la sua lingua letteraria che non aveva nulla da invidiare a quella di Gadda (l’altro ingegnere colto e letterato della cultura italiana) in termini di ricchezza ed inventiva.

Il tutto senza mai dimenticare la contraddizione derivante dal fatto che, in origine:

Per Marx la guerra allo «zarismo, gendarme d’Europa» non era solo un chiodo fisso. Era il chiodo fisso. Trascurando la stesura del Capitale, tra il 1863 e il 1864 Marx lavorò ai Manoscritti sulla questione polacca, che dopo un lunghissimo oblio vennero ripubblicati proprio nei giorni di Solidarność, al principio degli anni ottanta, quando l’URSS minacciava un intervento militare in Polonia. Marx sapeva che fin dai tempi di Caterina II, «sincera democratica» (come si sarebbe detto un secolo dopo in langue de bois stalinista) e grande protettrice degli enciclopedisti, non c’era che una politica estera russa, la stessa che i sovietici avrebbero adottato, due secoli più tardi, in Ungheria e Cecoslovacchia: l’intervento dell’esercito russo ovunque una ribellione minacciasse la tenuta dell’Impero. Nel 1863, quando scrisse i suoi appunti sulla questione polacca, era scoppiata a Varsavia l’ennesima insurrezione antirussa2.

Cosa che a lungo gli studiosi sovietici, escluso David Borisovič Rjazanov poi condannato a morte il 21 gennaio 1938, in esito ad un processo superficiale, dal Collegio Militare della Corte Suprema dell’URSS, cercarono di nascondere e sminuire, insieme agli scritti di Engels contro la politica degli zar.

Però, a ben guardare, vi sono alcuni eventi che, nonostante qualche eccesso di idealismo romantico secondo l’autore torinese, escono dal libro in altra maniera: la Comune di Parigi e l’insurrezione di Kronštadt, insieme alle motivazioni dell’insurrezione dei marinai della corazzata Potëmkin. Con le ossa rotte, ma soprattutto a causa dello scontro impari tra utopia e realtà autoritaria dello Stato, qualunque esso sia (capitalista, zarista, bonapartista o bolscevico poco cambia), o del Partito.

Siamo nel marzo del 1871 e via con la leggenda: i borghesi fuggono dalla città, sparisce l’esercito, dio è morto, il governo va in fumo, via le chiese, via la servitù del lavoro, o la va o la spacca, niente più polizia, libertà o morte. Comincia la grande avventura della Comune detta di Parigi. È festa grande e così sono tutti presenti. Gli anarchici, gli studenti sfaccendati, i gazzettieri, la teppa, i membri della Prima Internazionale, che qualche anno più tardi Zola celebrerà in Germinale, i seguaci del grande cospiratore Louis-Auguste Blanqui e la pasionaria Louise Michel in persona, i bottegai spremuti dal fisco, i soldati e gli ufficiali che sono passati al popolo, dirà Marx, «disertando il campo della borghesia» […] È una scena originaria, anzi una première: le altre rivoluzioni moderne, quella russa come quella cinese – la Comune di San Pietroburgo come quella di Canton – saranno solo una nota a piè di pagina di questo mese di guerra feroce, classe contro classe, il socialismo contro tutti, il capitale pure. Circoscritto quanto si vuole, senza che si diffonda oltre le mura della città, la Commune è un dramma che si recita su scala ciclopica ed è all’interno di questo dramma storico, nel suo microcosmo, che il regista e romanziere francese Jean Vautrin muove le pedine e tira le fila del Grido del popolo, un perfido feuilleton alla Éugene Sue, ma scritto nella lingua di Céline e di Leo Malét, che si dipana attraverso le strade di Parigi dove dilagano le barricate, lampeggiano i fucili, si fucilano i traditori e le spie, s’indicono e si sciolgono le assemblee […] . Seguono avventure atroci, scannamenti, immersioni nella Parigi del crimine e dei peggiori bordelli, frequentazioni a rischio di ghenghe assassine e corti dei miracoli […] C’è la materia bruta e canagliesca di cui sono fatti i feuilleton, le tinte forti, gli sguardi feroci, gli strippamenti, le passioni erotiche divoranti. Be’, a pensarci è la stessa materia di cui son fatte anche le rivoluzioni, altra cosa, com’è noto, dai pranzi di gala3.

Per quanto riguarda la rivolta dei marinai della corazzata Potëmkin, invece:

Casus belli fu la carne per il borsch, la tradizionale zuppa russa e ucraina. Brulicante di vermi, invereconda, i marinai rifiutarono di mangiarla, per quanto certificata dal medico di bordo come ottima e abbondante. Gli ufficiali, che erano a tutti gli effetti dei poveri pazzi, gente che in nessun altro esercito dell’epoca avrebbe avuto mostrine né (tanto meno) mano libera, s’impuntarono: mangiare il borsch, vermi e tutto, o essere puniti. Uno degli ufficiali puntò il fucile. Ne risultò una sparatoria e il marinaio Afanasij Nikolaevic Matjusenko, figlio di contadini, frequentatore di circoli clandestini fin quasi dall’infanzia, che capeggiava la rivolta, uccise l’ufficiale, che sotto la minaccia delle armi ancora prometteva rappresaglie. «Non ne avrai l’occasione» – disse Matjusenko – «Ora ti mando a fare il mozzo dall’ammiraglio Makarov», e sparò. Stepan Osipovic Makarov, contrammiraglio russo, era morto un anno prima a Port Arthur insieme al suo equipaggio quando la corazzata Petropavlovsk era saltata su una mina giapponese. Ormai non si tornava più indietro: l’ammutinamento, che nei piani dell’organizzazione segreta dei marinai (la cosiddetta Centalka) avrebbe dovuto coinvolgere tutta la flotta contemporaneamente, scoppiò prima del previsto sulla Potëmkin, e così sia. Molti ufficiali, compresi quelli che riuscirono a gettarsi in mare, e che per lo più furono uccisi a fucilate mentre tentavano di raggiungere le banchine a nuoto, vennero brutalmente massacrati, secondo l’uso delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni asiatiche. S’unì agli ammutinati l’ufficiale di macchina, un nazionalista ucraino, che odiava lo zar almeno quanto l’odiava Matjusenko. Un paio di ufficiali vennero utilizzati per le loro competenze tecniche dal Comitato del popolo che aveva assunto il comando della nave. Poi la Potëmkin, un’icona futurista fusa nell’acciaio dei cannoni e dei lanciasiluri, nave corsara della rivoluzione, ammainò la bandiera zarista dal pennone, issò quella rossa e cominciò la sua odissea attraverso il Mar Nero, tra battaglie e fughe e inseguimenti, fino all’olocausto finale.
[Lo zar] ordinò che a Odessa, dove la corrazzata ribelle era attraccata, gli scioperi e le manifestazioni di solidarietà con gli ammutinati fossero soffocati con la forza. Ne risultò l’ennesimo massacro. In poche ore si contarono quasi 1300 morti. Ne seguì l’ammutinamento, quasi subito rientrato, d’una seconda corrazzata, la Georgij Pobedonosov, che per qualche ora affiancò la Potëmkin nel porto d’Odessa. Segnali d’ammutinamento serpeggiavano in tutta la flotta del Mar Nero. In un’occasione, quando la flotta circondò il porto d’Odessa per farla finita con la nave che inalberava la bandiera rossa, nessun ufficiale osò dare l’ordine d’aprire il fuoco, nel timore di scatenare così la rabbia e la ribellione dei propri marinai. Fu la flotta a ritirarsi, poi la Potëmkin lasciò Odessa per Costanza, in Romania, dove sperava di potersi approvvigionare. Ma le autorità rumene non concessero nulla, né cibo né carbone, e la corazzata corsara, che aveva minacciato di bombardare la città qualora le sue richieste fossero state ignorate, lasciò Costanza senza sparare un colpo. Ormai il sogno di trasformare la flotta nell’avanguardia della rivoluzione democratica russa era svanito. Anche la stampa internazionale, passati i primi entusiasmi, non vedeva più di buon occhio l’avventura rivoluzionaria della : gli ammutinamenti sono malvisti da tutti i regimi, e questo ammutinamento in particolare costituiva un pessimo esempio per le masse anarchiche e socialiste sparse in tutti i continenti, e particolarmente minacciose nei paesi democratici. Dopo essere tornata in acque russe, sempre tenuta d’occhio a distanza dalla marina zarista, che sognava di prenderla per fame, la nave ribelle tornò a Costanza e si consegnò alle autorità rumene, che avevano garantito, ignorando le proteste zariste, asilo politico agli insorti.
[…] Soltanto quando Matjusenko, il leader contadino della flotta, che dopo aver vissuto per qualche tempo a New York e Parigi era tornato in Russia per svolgere attività clandestina, fu arrestato due anni più tardi a Nikolaev, in Ucraina, lo zar pretese che nel suo caso la pena di morte fosse ripristinata. Matjusenko morì impiccato. Nicola II «e ultimo» e il suo regime non gli sopravvissero a lungo4.

Destinato altrettanto ad avverarsi sulla pelle dei propri persecutori fu l’ultimo radiogramma lanciato nell’etere dai marinai di Kronštadt insorti, quando ormai tutto era scritto e stabilito, diretto a un loro antico tribuno:

«Ascolta. Trotsky!» profetizzano quelli di Kronštadt. «Fino a quando tu potrai sfuggire il giudizio del popolo, ti sarà facile fucilare in massa gli innocenti. Ma è impossibile fucilare la verità. Essa finirà col farsi strada. E tu e i tuoi cosacchi sarete obbligati a rendere conto delle vostre infamie». Colpito dalla maledizione dei marinai, senza più uomini da mandare all’assalto, Trotsky lascerà, di lì a pochi anni, la Russia sovietica, i killer di Stalin alle calcagna5.

Marinai che erano insorti, pur avendo alle spalle una ben radicata storia politica:

Nel 1918, all’epoca in cui i socialrivoluzionari di sinistra, stanchi di portare acqua al mulino leninista, provocano l’ammutinamento simultaneo di molti reggimenti contro il comando bolscevico, il Soviet di Kronštadt si schiera con i comunisti […] La nuova opposizione, a Kronštadt, si è formata lentamente, faticosamente, quasi controvoglia. È solo quando gli operai di San Pietroburgo entrano in sciopero che Kronštadt perde la pazienza. Mandano una delegazione nella capitale per condurre un’inchiesta nelle fabbriche. «Visto che siete di Kronštadt», urla un operaio, «quelli che tirano sempre in ballo per spaventarci, e volete sapere la verità, eccola. Noi moriamo di fame. Non abbiamo scarpe né vestiti. A tutte le nostre richieste le autorità rispondono con il terrore. Abbasso la dittatura comunista! Vogliamo Soviet liberamente eletti. Soltanto loro possono toglierci da questo imbroglio!». Pochi giorni dopo Kronštadt è in rivolta6.

Come ricorda ancora Gabutti, citando Boris Souvarine, autore di una delle più importanti biografie critiche di Stalin: «Per una sinistra ironia della storia la Comune di Kronštadt soccombette il 18 marzo 1921, cinquantesimo anniversario della Comune di Parigi»7.
Tutto questo e molto altro è possibile leggere e apprendere in questo primo volume di Mangia ananas, mastica fagiani, in maniera tale che per il lettore interessato e curioso non rimane altro che attendere l’uscita del volume successivo, Dai Processi di Mosca al «disgelo» e a Pol Pot.


  1. «Mangia ananas, mastica fagiani, / più non ti resta, borghese, un domani», aveva scritto in gloria della rivoluzione. Un «distico», annota M. a suo proprio margine nel 1927, che «divenne la mia poesia preferita» dopo che «i giornali pietroburghesi dei primi giorni dell’ottobre scrissero che i marinai avevano dato l’assalto al Palazzo d’inverno canticchiando questi due versi»  

  2. D. Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani. Vol. I – Dal Manifesto del partito comunista alla Rivoluzione d’Ottobre, WriteUp Books, Roma 2021, p. 118  

  3. D. Gabutti, op. cit., pp.107-108  

  4. Ibidem, pp. 146-148  

  5. Ibid., p. 301  

  6. Ibid, pp. 299-300  

  7. p. 294  

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“Strisciare col ventre nel fango” https://www.carmillaonline.com/2018/06/27/strisciare-col-ventre-nel-fango/ Wed, 27 Jun 2018 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46183 di Sandro Moiso

Francesco Dei, La Rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa, 2 voll., Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2018: 1° vol. 1917-1918, pp. 244, € 22,00; 2° vol. 1919-1922, pp. 510, € 28,00

Il testo in due volumi di Francesco Dei, proposto da Mimesis, va a colmare una lacuna non secondaria della storiografica sulla Rivoluzione d’Ottobre e le sue conseguenze sociali, politiche, economiche e militari. Si tratta infatti non tanto di una prima, approfondita storia della guerra civile seguita alla Rivoluzione russa del 1917, quanto piuttosto di una ricostruzione dettagliatissima delle vicende militari che l’accompagnarono.

A [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Dei, La Rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa, 2 voll., Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2018: 1° vol. 1917-1918, pp. 244, € 22,00; 2° vol. 1919-1922, pp. 510, € 28,00

Il testo in due volumi di Francesco Dei, proposto da Mimesis, va a colmare una lacuna non secondaria della storiografica sulla Rivoluzione d’Ottobre e le sue conseguenze sociali, politiche, economiche e militari. Si tratta infatti non tanto di una prima, approfondita storia della guerra civile seguita alla Rivoluzione russa del 1917, quanto piuttosto di una ricostruzione dettagliatissima delle vicende militari che l’accompagnarono.

A differenza di molte altre storie dello stesso periodo, quasi sempre comprese all’interno di opere più generali sulle vicende che accompagnarono la nascita e l’affermazione dell’URSS e del Partito bolscevico, il testo appena edito costituisce un’autentica storia militare del conflitto, privilegiando maggiormente gli avvenimenti sul campo di battaglia piuttosto che le risoluzioni politiche, le decisioni dei Soviet e del Partito oppure quelle prese in ambiti politici e diplomatici avversi alla nascente repubblica proletaria.

Viene da ridere, mente si leggono le pagine estremamente dettagliate e allo stesso tempo emozionanti di questo libro, pensando alle difficoltà che i governi odierni, nascituri o sconfitti, di destra o di “sinistra” sbandierano oggi per giustificare la propria incapacità di risolvere i problemi o nell’affrontare la finanza internazionale e le troike europeiste. Viene da ridere, anche se l’argomento è certamente serio e drammatico, se paragonato alle difficoltà che i rivoluzionari, non soltanto quelli appartenenti alla frazione bolscevica poi risultata vincitrice, i lavoratori, i contadini e i soldati russi dovettero affrontare in un periodo di carestie, massacri, battaglie che contribuì in maniera prevalente a determinare poi il divenire della società sovietica.

Una guerra che succedeva ad una rivoluzione che era scoppiata , essenzialmente, per porre fine ad un’altra guerra: quella imperialista del 1914-1918. Una guerra che vide essenzialmente scontrarsi sul territorio della più grande nazione del mondo non soltanto gli eserciti rossi, bianchi, verdi, le formazioni anarchiche e quelle di autentici banditi che cercarono di approfittare del disordine politico, sociale e militare per i loro scopi criminali, ma anche, almeno fino a tutto il 1919, gli eserciti di almeno altre 15 nazioni intervenire pesantemente nel conflitto.

Il dramma non era soltanto costituito dal fatto che la maggioranza di questi eserciti, soprattutto quelli stranieri ma non solo, era formata da uomini stanchi di guerra e che pure una guerra ferocissima dovevano ancora condurre, ma anche dai milioni, decine di milioni di russi, donne e uomini, che in tale marasma dovettero riuscire a sopravvivere, lottando per farlo, schierandosi a fianco dell’uno o dell’altro e, in certi casi, di un altro ancora dei contendenti. Talvolta passando per necessità, sconfitta, scelta o tradimento dall’uno all’altro, come pietre che rotolavano sul fondo del fiume di sangue della guerra.

Una narrazione che assomiglia, nonostante l’accuratezza delle ricerche e un’attenta analisi di tutte le fonti (spesso inedite per l’Italia) disponibili, ad un grande romanzo storico. Una guerra senza pace, che sembrerà finire più per sfinimento e progressivo ritiro dei nemici dei Soviet e del loro governo, più che per una decisiva vittoria militare dei secondi. Una sconfitta del nemico che diventa opaca, meno gloriosa di quella che la propaganda della Russia stalinizzata vorrà poi celebrare. Resa opaca poi dal fatto che i suoi veri vincitori, dal punto di vista militare, quali Trockij, Tuchačevskil o Frunze (solo per citarne alcuni), sarebbero diventati invisi al potere negli anni successivi e tutti eliminati prima entro il 1940. Lasciando un vuoto enorme nell’organizzazione e nella teoria militare dell’Unione Sovietica, una volta che questa fu assalita da Hitler.

I personaggi tragici si trovano su ogni fronte: oltre a quelli già superficialmente citati per il fronte rosso, occorre ricordare la figura di Nestor Makhno e della sua lotta anarco-contadina, oppure dei generali bianchi come Denikin o il ferocissimo barone folle Ungern-Sternberg o i tanti atamani cosacchi al servizio dell’idea imperiale. Il libro, giustamente, va però ben oltre i nomi più famosi e illumina il lettore con una miriade di personaggi, fatti, battaglie che, fino ad ora erano stati rimossi dalla storiografia politica “ufficiale”.

Comandanti dell’Armata rossa di estrazione proletaria e contadina, ufficiali di carriera arruolati nella stessa armata per la loro esperienza militare ma posti al comando di quegli stessi uomini che nel 1917 si erano rifiutati di combattere ancora ai loro ordini o a quelli dei loro colleghi che, al contrario, nel corso della guerra civile si troveranno schierati sul fronte opposto.

Giovani operai arruolatisi come volontari nelle file delle armate rivoluzionarie che grazie all’inesperienza o alla scarsa preparazione (nel corso del conflitto imperialista spesso gli operai non erano stati arruolati per meglio assolvere alle loro funzioni produttive e di fabbrica) verseranno un tributo di sangue terribile nel corso delle prime fasi della guerra civile.
Contadini arruolati a forza in tutte le armate mentre le campagne e le comunità venivano depredate, bruciate, distrutte. E tutto questo potrebbe andare a costituire il coro dell’immensa tragedia che anima le pagine della ricerca di Dei, che può così affermare:

“Porteremo il lettore sulle rive del placido Don a seguire le colonne dei giovani cosacchi in marcia verso il Volga; nel gelido fango della tragica marcia sul ghiaccio dell’Armata bianca di Kornilov o nei quartieri generali sovietici, tra carte geografiche, matite e qualche bicchiere di vodka a scoprire la nascita dell’Armata rossa e di quei comandanti che ne influenzarono il primo anelito di vita come Tuchačevskil e Frunze. Inoltre il lettore avrà anche l’occasione di conoscere quei personaggi, meno famosi per noi occidentali, che le conferirono il tono di una vera e propria epopea […] Tra questi il sanguinario Stanislav Bulak-Balachovich che fece dei viali di Pskov una via crucis di bolscevichi, o lo sconclusionato e folle atamano Grigoriev poco credibile Pugačev del XX secolo…e così tanti altri”.1

Il tutto compreso in una cornice quasi surreale di armi luccicanti al sole, vessilli di tutti i colori mossi e agitati dal vento, di povere uniformi oppure di divise ricche e vistose che talvolta si mescolano con i treni blindati che percorrono la vastità del territorio russo, spesso affiancandosi su binari paralleli da cui daranno vita a scontri terrestri e rapidi che però sembrano ricalcare quelli delle grandi battaglie navali del passato.

Velocità ferroviaria e lentezza delle fanterie, modernità tecnologica e arretratezza organizzativa, aerei che galleggiano tra le nuvole mentre animali e soldati sprofondano nel fango delle campagne in primavera e in autunno (in Siberia anche d’estate). Un paesaggio infinito squarciato da ferite irrimarginabili e soffuso di un rosso che apparterrà più al colore del sangue che non a quello delle bandiere di partito. Questo lo sfondo del dramma, lo scenario di una vicenda che metterà alla prova la tenacia dei contendenti e, soprattutto, dei bolscevichi. Motivi per cui Lenin avrebbe affermato: «Se non riusciamo ad adattarci alle circostanze, se non siamo inclini a strisciare col ventre nel fango, non siamo rivoluzionari ma ciarlatani».2

Anche se sarà proprio questo spirito indomito a prevalere, nel corso del conflitto, sugli avversari, l’autore ci invita a non credere superficialmente che :

“la guerra civile russa sia un semplice scontro tra due fazioni contrapposte […] poiché, in questa, si confrontarono non solo bolscevichi e controrivoluzionari ma anche movimenti e partiti diversi, regioni che reclamavano l’autonomia, nazioni straniere ed eserciti sbandati. Possiamo, quindi, affermare con certezza assoluta che la guerra civile non fu una lotta a due ma una guerra senza quartiere tra una moltitudine di fazioni”.3

Il compito per lo storico è stato sicuramente gravoso, sette anni di lavoro, ma il risultato è per il lettore appassionato, sicuramente, interessantissimo e spesso rivelatorio.
Il corredo iconografico e di carte che riproducono l’evolversi degli scontri e delle battaglie, oltre che lo spostamento e il formarsi dei fronti, aiuta sicuramente chi legge ad orientarsi al meglio in un conflitto che, come pochi altri, ha contribuito alla formazione di un’esperienza politica, di una nazione, di una società e di una classe dirigente e, last but not least, dei suoi rapporti economici, politici e diplomatici con le nazioni vicine e lontane.

Ancora una volta dunque, a discapito delle più superficiali convinzioni pacifiste e falsamente umanitarie, la storia militare si rivela estremamente utile per comprendere non soltanto l’evoluzione di avvenimenti solo apparentemente lontani nello spazio e nel tempo, ma anche l’origine di contraddizioni che agitano il mondo in cui viviamo e che, molto probabilmente, ancora lo faranno nel prossimo futuro.


  1. F.Dei, La rivoluzione sotto assedio, Vol. 1°, pag. 11  

  2. in F.Dei, op.cit., Vol. 1°, pag. 11  

  3. op. cit. pag. 11  

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Dopo cinque generazioni https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/ Wed, 08 Nov 2017 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41429 di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla, io sulla bocca. (Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono. Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli. Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far [...]]]> di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla,
io sulla bocca
.
(Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono.
Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli.
Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far sì che quella prima rivoluzione proletaria e socialista non dimenticasse le differenze e le specificità legate alla loro condizione che ancora costituivano un ostacolo alla piena e reale liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione di classe e di genere.
Infine con la lotta serrata che molte di esse, dentro e soprattutto fuori dal partito bolscevico rapidamente salito al potere, condussero per opporsi alla degenerazione non solo progettuale di una rivoluzione che, nata in nome del trionfo dell’eguaglianza sociale ed economica, avrebbe portato ad uno dei regimi massimamente responsabili per il trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

Il volume intenso e serrato di Lorenzo Pezzica, che si era già occupato in parte dell’argomento nel precedente Anarchiche. Donne ribelli del Novecento,1 si occupa fondamentalmente dell’ultimo dei tre punti sopra elencati e lo fa con passione e indiscutibile efficacia. Anche se talvolta le fonti storiografiche utilizzate per la ricostruzione generale del periodo affrontato (1917-1921) appaiono un po’ limitate e segnate dalle interpretazioni liberali tipiche della meritoria, ma pur sempre “orientata”, storiografia anglo-sassone.2

Tenendo come filo conduttore per una parte del testo l’autobiografia dell’anarchica americana di origine russa Emma Goldman,3 che tra il gennaio del 1920 e la primavera del 1921 ebbe modo di compiere un lungo viaggio attraverso il paese dei soviet per osservare più da vicino quella rivoluzione che aveva acceso in lei, come in tanti altri anarchici, grandi speranza in un prossimo avvicinarsi della rivoluzione mondiale, l’autore traccia le sintetiche e più che drammatiche vicende che accompagnarono le vite di Fanya Baron, Marija Nikiforova (meglio conosciuta come Marusja), Fanya Kaplan (detta anche Dora), Marija Spiridonova, Irina Kakhovskaja, Ida Mett, Mollie Steimer (pseudonimo di Marthe Alperine), Senya Fleshin, Marija Veger, Marija Korshunova (nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja») e della poetessa Anna Barkòva.

Quasi tutte queste donne furono militanti anarchiche o socialiste rivoluzionarie. Tutte pagarono pesantemente con anni di carcere, deportazione, torture, violenze e quasi sempre con la morte la colpa di essere ribelli e rivoluzionarie. Molte avevano impugnato le armi e sparato contro i funzionari dello zar, i generali delle armate bianche o contro i rappresentanti di un bolscevismo ormai tramutatosi in strumento di oppressione. In un caso anche contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. Molte di loro erano di origine ebraica e diverse, dopo essere emigrate in giovane età in America da sole o con la famiglia per sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni che si abbattevano spesso sulle fasce più povere della popolazione di lingua yiddish, tornarono sul suolo russo proprio a seguito dello scoppio della rivoluzione.

Come afferma l’autore:

“Un aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne […] è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale. […] Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». […] La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917.
La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale.
Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai ad esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica.” 4

Accanto a loro compaiono anche altre donne, anch’esse rivoluzionarie, anch’esse prese negli ingranaggi spietati della rivoluzione in cui, nonostante tutto, cercano di difendere i diritti di genere e affermare una nuova morale sessuale e sociale. Sono bolsceviche come Aleksandra Kollontaj, Angelica Balabanoff, Inessa Armand o la stessa Nadeshda Krupskaja, compagna di Lenin. Anche nei confronti di queste ultime le figure dei leader rivoluzionari bolscevichi, anche i più importanti come Lenin e Trockij, impallidiscono dal punto di vista umano e politico, trascinati come sono in un fiume di cui non possono, non sanno e, forse, non vogliono dirigere la corrente se non canalizzandola in un flusso costante di repressione e negazione di ogni forma di autonomia di classe e di genere.

Scomparse nel Gulag, colpite nei loro affetti, uccise e seviziate nei corridoi più oscuri della Čeka, come Marija Spiridonova torturata e violentata prima dagli agenti della polizia zarista5 e in seguito condannata a lunghe detenzioni in manicomio e infine a morte dai tribunali di Stalin, o ancor prima da quelli messi in atto dai bolscevichi già prima della tragica repressione di Kronstadt, oppure salvatesi soltanto dopo essere state messe nell’impossibilità di esprimere le loro idee, queste rivoluzionarie ferme e coraggiose ci raggiungono ancora oggi con la loro voce e la loro esperienza a cinque generazioni di distanza.

Proprio come la poetessa Anna Barkòva, che passò quasi tutta la sua vita nel Gulag, aveva osato anticipare in una sua poesia:
Chissà, forse tra cinque generazioni
Dopo il terribile straripare del tempo,
il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti
e il mio nome fra gli altri
.

Davanti a tanto coraggio e a tanta lucida passione non ci resta altro da fare che chinare il capo in segno di rispetto e ringraziare l’autore che ha voluto così ricordarcele in occasione di questo contraddittorio centenario di una rivoluzione destinata a diventare, sostanzialmente, la prima delle grandi rivoluzioni nazionali asiatiche, ma non la realizzazione effettiva di una comunità umana più giusta ed eguale.


  1. Shake Edizioni 2013  

  2. Valga da esempio il testo di Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori 2016  

  3. Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra 1980 e Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta 1993 (che forse qualche editore, magari la stessa eléuthera che già nel 2016 ha dedicato alla rivoluzionaria e femminista americana il testo di Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, «la donna più pericolosa d’America», dovrebbe prendere la decisione di ripubblicare)  

  4. pp. 10-11  

  5. Marija Spiridonova era stata arrestata e condannata nel 1906 a 11 anni di lavori forzati in Siberia per l’attentato portato a termine contro l’ispettore generale di polizia Gavriil Luznovskij che aveva diretto la repressione dei contadini della regione di Tambov dopo la rivoluzione del 1905. Per un tragico paradosso della Storia quella stessa regione nel 1920 vide ancora i contadini protagonisti di una vasta rivolta contro la leva obbligatoria che, nel 1921, fu duramente repressa dall’armata rossa. La ribellione era stata organizzata militarmente da Aleksandr Stepanovič Antonov (ucciso in combattimento nel 1922 da agenti della Čeka) che, mentre era a capo della Milizia governativa del Soviet di Tambov, era riuscito anche a disarmare le legioni cecoslovacche, autentica spina nel fianco dell’armata rossa durante i primi anni della guerra civile.  

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Quando le latrine saranno d’oro https://www.carmillaonline.com/2017/07/28/quando-le-latrine-saranno-doro/ Thu, 27 Jul 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39712 di Luca Cangianti

Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00.

“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” [...]]]> di Luca Cangianti

Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00.

“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” Gli scritti curati da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione si collocano all’interno di questa forbice storica: in queste pagine infatti il profilo del rivoluzionario russo è quello del padre costituente e soprattutto dello statista costretto a calare la teoria marxista in un contesto emergenziale di guerra e sottosviluppo.

Vladimiro Giacché limita il suo lavoro di selezione agli scritti economici posteriori alla Rivoluzione d’Ottobre suddividendoli in tre periodi: quello riguardante i primi sei mesi di potere sovietico, il comunismo di guerra e la Nuova politica economica (Nep). Il pensiero di Lenin nel corso di queste tre fasi subisce evoluzioni, sia a causa delle emergenze del momento che per gli esiti delle sperimentazioni cui i singoli provvedimenti economici venivano sottoposti. Nei primi scritti si affrontano: i problemi sollevati dalla legge sulla socializzazione della terra che aboliva il latifondo distribuendo i campi ai contadini; il decreto sul controllo operaio che non intaccava né il diritto di proprietà né la funzione direttiva del capitalista; la nazionalizzazione del settore bancario. Gli scritti del periodo della guerra civile si focalizzano invece sulla crisi alimentare e sulle requisizioni delle eccedenze cerealicole. Nella primavera del 1918 fu infatti vietato il commercio privato del grano e istituito il monopolio statale con acquisto a prezzo fisso. Infine i contributi che vanno dal marzo 1921 allo stesso mese del 1923 sono dedicati alla Nep che sostituì le requisizioni emergenziali – volte al sostentamento degli operai e dei soldati a danno dei contadini – con un’imposta in natura, pagata la quale si riacquistava la libertà di vendere localmente i cereali.

L’intera periodizzazione è tuttavia attraversata da un filo rosso ben definito: secondo Lenin senza lo sviluppo delle forze produttive e la conseguente crescita culturale delle masse il comunismo è impossibile. Di conseguenza la Russia postrivoluzionaria, essendo un paese sottosviluppato e devastato dalla guerra, avrebbe dovuto attraversare una serie di fasi di transizione – quali il capitalismo di Stato e il socialismo – necessarie a “preparare – con un lavoro di una lunga serie di anni – il passaggio al comunismo.” La forma di potere instaurata in Russia dopo la rivoluzione, infatti, lungi da configurarsi come socialismo o comunismo, per Lenin è solo un governo proletario gestito da comunisti che cercano le vie più efficaci per sviluppare le forze produttive. Da questo punto di vista egli consiglia l’introduzione del taylorismo, il sistema del cottimo e quello dei premi; si schiera contro l’egualitarismo retributivo e per l’utilizzo degli intellettuali borghesi: “bisogna imparare il socialismo in larga misura dai dirigenti dei trust, bisogna imparare il socialismo dai massimi organizzatori del capitalismo.”
Secondo Lenin – che in questo segue Marx – il capitalismo è il metodo più potente per sviluppare la produttività del lavoro. Il sottosviluppo russo quindi può essere superato se lo Stato proletario gestito dai comunisti riesce a sviluppare in vitro forme di capitalismo controllate dal potere politico: “Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive”. Le forme di questo capitalismo gestito e controllato dallo Stato sono le concessioni estere (che rafforzano la grande produzione di contro alla piccola), le cooperative (che facilitano la sorveglianza statale in economia e preparano il terreno al socialismo), l’intermediazione commerciale (il capitalista viene assunto dallo Stato per fare il commerciante), l’appalto di settori industriali o di appezzamenti di terra a capitalisti nazionali.
Che la soluzione del capitalismo di Stato non sia esente da pericoli è ben chiaro a Lenin: i capitalisti potrebbero avere il sopravvento, “cacceranno i comunisti, e allora sarà la fine di tutto”, oppure “il potere statale proletario” saprà “guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio”.
La garanzia del successo dell’operazione sta tutta nella soggettività dello Stato quale motore e garante del cambiamento. Ma come fanno i comunisti a dominare lo Stato se la società rimane dominata dal capitalismo? Potrebbero farlo solo se fossero un agente storico sottratto agli influssi della società. Ma che i materialisti storici siano esenti dal materialismo storico sarebbe un paradosso: mentre le forze produttive si sviluppano, l’esistenza di funzionari comunisti gestori della proprietà e di proprietari capitalisti non è una realtà che possa rimanere a lungo senza conseguenze per l’orientamento del processo rivoluzionario. Come qualsiasi gruppo sociale cercheranno di rafforzare e solidificare le proprie posizioni avendo leve di potere importanti per riuscirvi. Questo non significa condannare a priori ogni misura transitoria messa in atto da un governo rivoluzionario in condizioni d’emergenza o di sottosviluppo. Significa solo rendersi conto che, in mancanza di un processo espansivo mondiale e di una dialettica tra potere statale e autorganizzazione sociale, una società postcapitalista è soggetta a potenti pressioni degenerative, interne ed esterne.

Marx nella Critica al programma di Gotha teorizza una “prima fase” della società comunista “non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica”, ovvero portando “quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le ‘macchie’ della vecchia società dal cui seno essa è uscita”. Si tratta di una fase di socializzazione delle forze produttive e, di conseguenza, della forza lavoro: è come se il lavoratore ricevesse “dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritir[asse] dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente”. È da notare che né Marx né Engels abbiano mai chiamato questa “prima fase” socialismo, o peggio modo di produzione socialista, dandole quindi una connotazione d’autonomia. Si trattava della teorizzazione di una possibile fase transitoria precedente alla “fase più elevata della società comunista” in cui si produce tendenzialmente tutto con quantità lavorative tendenzialmente nulle, e il capitalismo è superato al livello planetario. Ora, se il proletariato giunge al potere in una fase dello sviluppo delle forze produttive troppo lontana dallo scenario posteconomico del comunismo, la transizione, lungi dall’essere una “prima fase” avrà una più alta probabilità di ossificarsi in formazioni economico-sociali dominate da una perdurante divisione di classe (es. capitalismo di Stato) o di casta (es. socialismo reale). In questi casi, specialmente se il processo rivoluzionario è confinato in un solo paese accerchiato dalla concorrenza capitalista, lo sviluppo delle forze produttive rischierà di configurarsi come un’accumulazione originaria che da un capitalismo meno sviluppato condurrà a un capitalismo più sviluppato – come del resto testimonia la storia dell’Urss.

Le rivoluzioni tuttavia scoppiano senza chiedere il permesso e senza che sia certificato il grado di sviluppo delle forze produttive. I rivoluzionari che si trovano a gestire il potere hanno il compito di trovare le strategie adeguate a sfruttare le brecce di libertà costituenti apertesi con il collasso dello status quo, possibilmente senza perdere mai il contatto con i limiti storici nei quali agiscono e senza dimenticare le lezioni dei fallimenti precedenti. Da questo punto di vista Economia della rivoluzione è un libro di storia dell’economia e del pensiero economico fondamentale. La raccolta e il lucido saggio introduttivo di Vladimiro Giacché ci consegnano infatti l’elaborazione teorica e l’azione politica con la quale Lenin pensò di colmare lo iato tra la miseria ereditata dallo zarismo e la promessa di un mondo di abbondanza. L’esito non fu quello sperato, ma il tema della transizione è destinato a ripresentarsi, come dimostrano non da ultime le esperienze dei governi progressisti latinoamericani. Ecco perché a cento anni di distanza dal 1917 i problemi economici affrontati in questo volume non perdono di attualità.

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Nikolaj Vavilov: eroe della Scienza, poeta della Natura https://www.carmillaonline.com/2017/05/25/nikolaj-vavilov-eroe-della-scienza-poeta-della-natura/ Wed, 24 May 2017 22:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38427 di Sandro Moiso

vavilov Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016 (II edizione), pp. 232, €14,00

Andremo al rogo, bruceremo, ma non rinnegheremo mai le nostre opinioni!” (Nikolaj Vavilov)

Nikolaj Ivanovič Vavilov, nato a Mosca nel 1887, fu un agronomo, botanico e genetista russo. La ripubblicazione della sua opera più famosa, pubblicata per la prima volta nel 1926 nell’URSS e giunta oggi alla sua seconda edizione italiana per i tipi di Pentàgora, permette però di ricordarlo proprio in occasione di quella rivoluzione d’Ottobre, di cui si celebra quest’anno il centenario, della quale [...]]]> di Sandro Moiso

vavilov Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016 (II edizione), pp. 232, €14,00

Andremo al rogo, bruceremo, ma non rinnegheremo mai le nostre opinioni!” (Nikolaj Vavilov)

Nikolaj Ivanovič Vavilov, nato a Mosca nel 1887, fu un agronomo, botanico e genetista russo.
La ripubblicazione della sua opera più famosa, pubblicata per la prima volta nel 1926 nell’URSS e giunta oggi alla sua seconda edizione italiana per i tipi di Pentàgora, permette però di ricordarlo proprio in occasione di quella rivoluzione d’Ottobre, di cui si celebra quest’anno il centenario, della quale egli fu contemporaneamente eroe e successiva vittima della sua degenerazione staliniana.

Certo lo scienziato russo non incarna le qualità epiche dell’eroe rivoluzionario che dirige le masse o che cade nell’azione avvolto da un autentico sudario costituito dalla bandiera rossa del Partito. Incarna però lo spirito di rinnovamento sociale, economico, culturale e scientifico che quella rivoluzione avrebbe dovuto rappresentare e che la controrivoluzione staliniana, con il suo atteggiamento inquisitoriale degno dei tempi di Galileo e del Sant’Uffizio, avrebbe finito col reprimere e distruggere. Finendo col trasformare anche la scienza in un puro dettato ideologico.

Laureatosi nel 1911 , Vavilov alternò, fino al 1917, attività di ricerca e di insegnamento sia in Russia che in altri paesi europei dove venne in contatto con il genetista inglese William Bateson. Dopo essere diventato, proprio nel 1917, prima docente presso presso l’Istituto agrario di Voronež e poi all’ Università di Saratov, vinse per tre volte il premio Lenin.
La prima volta nel 1926 proprio per il suo lavoro sulle origini delle piante coltivate.

vavilov 2 In quest’opera, che egli dedicò alla memoria del botanico francese Alphonse De Candolle, che nel 1882 aveva per la prima volta tentato di individuare i luoghi d’origine delle piante coltivate nella sua Origine des plantes cultivées, lo scienziato russo amplia su scala planetaria la ricerca dei luoghi d’origine delle piante coltivate, individuandoli non nei luoghi in cui queste si sono maggiormente affermate come colture selezionate, ma là dove tali piante presentano la maggior quantità di varietà e differenze.

Proprio in queste aree era possibile rintracciare varietà con caratteristiche che potevano rivelarsi vantaggiose per l’agricoltura come, ad esempio, la resistenza alla siccità, al freddo o a specifiche malattie. Un tipo di pianta più adatto ad un determinato ambiente poteva garantire migliori rese produttive e, di conseguenza, maggiore produzione di cibo. Costringendo, per certi versi, l’uomo a farsi collaboratore della Natura e dell’ambiente e non suo proprietario e manipolatore. Intuendo ciò finì così col diventare il “padre” e il nume tutelare di tutte le ricerche scientifiche che, in seguito, avrebbero fatto della ricerca e della difesa delle biodiversità la loro ragione d’essere.

Devo confessare di essermi imbattuto per la prima volta nel suo nome durante la lettura di un testo sulla biodiversità pubblicato in Italia negli anni ’90,1 e che le vicende della sua vita e delle sue ricerche mi avevano incuriosito anche per la determinazione con cui i ricercatori che lavoravano presso l’Istituto di botanica applicata di Leningrado, sorto per sua iniziativa, difesero la preziosissima raccolta di semi e piante, sia dai concittadini affamati che dai soldati tedeschi, nel corso dell’assedio della città durante il secondo conflitto mondiale.

L’assedio di Leningrado può essere considerato come una delle battaglie più importanti della seconda guerra mondiale e come uno degli assedi più lunghi e sanguinosi della Storia. Sempre messi in ombra dalla battaglia di Stalingrado, i 900 giorni dell’assedio della città sul Baltico furono in realtà determinanti per fermare, fin dai primi mesi dell’Operazione Barbarossa, l’avanzata tedesca verso oriente.

Iniziato l’8 settembre 1941 e terminato il 18 gennaio 1944, anche se la celebrazione della sua conclusione si è sempre tenuta il 27 gennaio, l’assedio vide cadere come vittime dei combattimenti, della fame e del freddo un milione e 250.000 dei suoi difensori, tra cittadini e militari sovietici. Nel corso di questi avvenimenti, quattordici ricercatori dell’Istituto preferirono morire di fame piuttosto che cibarsi delle sementi affidate alla loro custodia. Fedeli alla volontà di Vavilov che non potè essere presente a causa del suo arresto, operato dalla NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) nel 1940.

A causa delle 64 spedizioni di ricerca ed indagine che aveva condotto in tutto il mondo egli non solo era venuto a conoscenza delle infinite varietà delle piante coltivate, principalmente cerealicole o a stelo, di cui si era da sempre occupato, ma era entrato in contatto con la malaria in Siria, con il tifo e i banditi in Etiopia, con una frana sulle montagne del Caucaso e con un incidente aereo nel deserto del Sahara.

La prima volta che viaggiò all’estero esclusivamente per raccogliere delle piante fu in Iran, nel 1916. Mentre si trovava là fu derubato, aggredito e quindi abbandonato dalle sue guide. Al suo ritorno in Russia, con i testi in tedesco e le note in inglese, fu immediatamente arrestato al confine come spia. Tre giorni più tardi fu rilasciato insieme con i suoi campioni che andarono a costituire la più grande collezione mondiale di semi2

Ma fu durante una spedizione nell’Ucraina Occidentale che la vita di Vavilov subì una drammatica svolta. Il 6 agosto 1940 fu arrestato a Chernovicy, nei pressi del confine rumeno. E successivamente sottoposto a quattrocento interrogatori distribuiti su un arco di settecento ore nel corso di undici mesi al termine dei quali confessò i suoi gravi crimini. Cosa per cui fu processato dal Collegio militare del Tribunale Supremo e, il 9 luglio del 1941, condannato a morte.

Vavilov 1In un processo durato cinque minuti, senza avvocati, ritrattò la propria confessione, ma ciò nonostante fu ritenuto colpevole di «aver ordito una cospirazione di destra, di aver fatto la spia per conto dell’Inghilterra e di aver sabotato l’agricoltura». […]Per due anni aspettò l’esecuzione. Si ritiene che in questo periodo abbia scritto un lungo libro intitolato «Storia dello sviluppo dell’agricoltura», ma il manoscritto no fu mai trovato. Nel frattempo la famiglia e gli amici si diedero da fare per il suo rilascio (parecchi furono uccisi o imprigionati per i loro sforzi), sebbene non avessero mai avuto modo di sapere se fosse ancora vivo. La sua sentenza di morte fu commutata nel 1942, ma non fu mai rilasciato. Il 26 gennaio 1943 morì in un ospedale-gulag a Saratov.3 Nel 1960 un giornalista sovietico autorizzato ad indagare sulla sua morte,4 a quanto pare, trovò i risultati dell’autopsia che indicava come Vavilov fosse morto di fame”.5

La vera colpa di Vavilov, che nel 1939 era stato eletto presidente del VII Congresso internazionale di Genetica, era stata in realtà quella di opporsi al collega Lysenko che, ispirandosi alle teorie neolamarckiste che sviluppavano in botanica una sorta di teoria dell’adattamento delle specie al clima e ai sistemi agricoli, era diventato il pupillo di Stalin avendo promesso un considerevole aumento di produttività dell’agricoltura sovietica attraverso l’applicazione, poi rivelatasi fallimentare nel corso dei successivi piani quinquennali, delle sue teorie. Mentre all’epoca Vavilov era accusato di difendere la genetica classica mendeliana, considerata dagli ideologi del partito una «pseudoscienza borghese».

Nell’inverno del 1985, al Museo Politecnico di Mosca, mentre un pubblico di scienziati assisteva alla prima di un documentario su Vavilov, un altro scienziato, Vladimir Pavlovič Efroimson, nonostante non fosse stato invitato a parlare, affermò: “Il grande studioso. Genio di statura mondiale, orgoglio della scienza patria, l’accademico Nikolaj Ivanovič Vavilov non è morto. E’ crepato. Crepato come un cane in un carcere di Saratov…e bisogna che tutti quelli che si sono qui raccolti lo sappiano e lo ricordino6

Vittima e martire di una lotta che vede ancora oggi contrapporsi le conoscenze scientifiche e le esigenze produttivistiche e del profitto, Nikolaj Vavilov fu e rimane, nonostante alcune sue formulazioni siano da considerarsi superate, importante proprio per aver saputo indicare nella ricchezza di diversità insite nelle razze e nelle specie un modello di sviluppo casuale e naturale allo stesso tempo, in cui la varietà delle origini e delle caratteristiche arricchisce la vita e la sua evoluzione. Anche e soprattutto, forse, per la specie umana.

Vavilov non utilizzò soltanto gli strumenti delle genetica e della botanica ai fini delle sue ricerche, ma li affiancò con i risultati provenienti dalla linguistica, dalla geografia, dalla storia, dall’archeologia e dalla climatologia. Senza tralasciare la ricerca sul campo e l’indagine tra i popoli agricoltori e le loro più antiche memorie. Rivoluzionario nel metodo e nelle intenzioni, collegò la varietà delle piante coltivate alle loro zone d’origine che, spesso, erano anche zone di diversità umana, non solo culturale.

Gli ufficiali dell’NKVD che diedero alle fiamme molti quaderni ove lo scienziato aveva accuratamente annotato i risultati delle sue spedizioni scientifiche, oltre a manoscritti preparatori per libri da pubblicare, danneggiarono quindi non solo le conoscenze botaniche della loro epoca, ma in prospettiva, esattamente come lo stalinismo stava facendo con il movimento operaio e comunista e nei confronti della concezione dei compiti che la lotta di classe avrebbe dovuto avere, anche il futuro della specie e delle sue conoscenze scientifiche, ritardandone enormemente il progresso.

In particolare Vavilov, nel corso delle sue ricerche e dei suoi studi, aveva individuato nelle zone di montagna, e non nelle pianure, l’origine delle colture e dell’uso delle piante più adatte a sfamare le comunità umane. Proprio per questo, come nel testo sulle origini delle piante coltivate qui presentato, lo scienziato aveva individuato tra le montagne, le loro valli, le loro differenze morfologiche e climatiche dipendenti dalla geografia e dall’altitudine la meravigliosa culla delle società umane e delle loro differenze culturali ed organizzative.

Un esame più approfondito dell’Asia sud-occidentale, dell’Asia minore, dell’Africa settentrionale ha dimostrato negli ultimi anni che tutta la diversità varietale delle piante agrarie e orticole è racchiusa in prevalenza nelle regioni montuose. La concentrazione della diversità varietale e razziale è risultata trovarsi nelle regioni montuose perciò guardare alle valli dei grandi fiumi come al centro dell’origine delle colture vegetali è radicalmente sbagliato“.7

In un processo che vede sempre l’uomo interagire con le altre specie e con l’ambiente, in pagine che, come in quelle dedicate al sopravvento di piante considerate infestanti, come nel caso di alcuni tipi di avena o di canapa, su altre piante coltivate in particolari climi o a particolari altitudini, diventano di pura poesia. Rivelando l’amore disinteressato dello scienziato per l’oggetto del suo studio e per tutte le specie che concorrono al manifestarsi e alla riproduzione della vita e dell’evoluzione su scala planetaria.

Nel fare questo l’autore, però, non dimentica che “il ruolo decisivo nell’elezione dell’una o dell’altra regione montuosa quale centro di formazione l’hanno avuto i motivi storici e non solo la diversità dell’ambiente“,8 anche se la storia della coltivazione e della contemporanea evoluzione delle società deve essere a suo avviso spostata molto più indietro dei circa diecimila anni cui ci ha abituato la storiografia ufficiale. Nelle zone montuose infatti non occorrevano tutte quelle opere di contenimento e controllo delle acque che avrebbero dato poi il via alle grandi civiltà storiche. “Il controllo dell’acqua per l’irrigazione non richiede qui grandi sforzi. Il flusso gravitazionale dei torrenti montani può essere facilmente deviato verso i campi. Le regioni di alta montagna spesso si prestano alla coltura non irrigua grazie alla maggiore quantità di precipitazioni nelle zone elevate“.9

vavilov 3Un libro non sempre facile, a tratti destinato ad un pubblico di specialisti come avverte la sua bravissima traduttrice e curatrice Caterina Maria Fiannacca, ma che può essere letto anche da tutti coloro che interessandosi alla storia della rivoluzione sovietica non intendono accontentarsi di una narrazione mitica e retorica, per trovare invece nel passato le radici del nostro futuro. Obiettivo che, in fin dei conti, era anche quello di Vavilov che, proprio per questo, ci è ancora così vicino.

E se questo non bastasse non si dimentichi il possibile lettore che sotto i suoi occhi scorreranno storie di cui sono protagonisti segale, avena, frumento, miglio, canapa, cimici rosse, steccati abbandonati, popoli nomadi e popoli stanziali, valli e altopiani, paesi e aree geografiche il cui nome (Afghanistan, Bukhara, Pamir, Khiva, Samara solo per citarne alcuni) oggi sembra dimenticato o ridotto a cronaca di guerra mentre, insieme a tanti altri, potrebbero ancora riservarci immense e preziose sorprese.


  1. Cary Fowler – Pat Mooney, Biodiversità e futuro dell’alimentazione, Red Edizioni 1993  

  2. C.Fowler – P.Mooney, op. cit. pag.54  

  3. Dove la sua famiglia era stata costretta a trasferirsi di imperio, senza mai essere informata che in quella stessa città era detenuto lo stesso Nikolaj  

  4. Dopo la morte di Stalin, Vavilov era stato riabilitato dalla Corte suprema sovietica nel 1955  

  5. C.Fowler – P.Mooney, op. cit pag.55  

  6. Caterina Maria Fiannacca, Andremo al rogo, appendice a Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate, Pentàgora 2016, pag. 216  

  7. Vavilov, pag.150  

  8. pag.151  

  9. Vavilov, pag.152  

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La perseveranza come virtù: Leon Trotsky https://www.carmillaonline.com/2017/03/02/la-perseveranza-virtu-leon-trotsky/ Wed, 01 Mar 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36697 di Sandro Moiso

la vita è bellaLeon Trotsky, La vita è bella, Chiarelettere 2015, pp. 74, € 7,90

Nella sua elegante e sintetica Premessa alla raccolta di testi di Leon Trotsky pubblicata da Chiarelettere, David Bidussa afferma che la perseveranza può essere definita come una virtù quando riguarda coloro che non cedono alla sconfitta e che non si adeguano al dettato dei vincitori. Mentre il contrario di tale perseveranza non può essere altro che l’indifferenza.

Nel leggere i testi riproposti nell’antologia, che coprono l’arco di una vita dal 1901 al 1940, ci si accorge che il leader bolscevico, fatto assassinare da [...]]]> di Sandro Moiso

la vita è bellaLeon Trotsky, La vita è bella, Chiarelettere 2015, pp. 74, € 7,90

Nella sua elegante e sintetica Premessa alla raccolta di testi di Leon Trotsky pubblicata da Chiarelettere, David Bidussa afferma che la perseveranza può essere definita come una virtù quando riguarda coloro che non cedono alla sconfitta e che non si adeguano al dettato dei vincitori. Mentre il contrario di tale perseveranza non può essere altro che l’indifferenza.

Nel leggere i testi riproposti nell’antologia, che coprono l’arco di una vita dal 1901 al 1940, ci si accorge che il leader bolscevico, fatto assassinare da Stalin nel 1940, perseverò sempre nel suo ideale di giustizia e nella speranza che un giorno l’umanità intera uscisse dallo stato di barbarie in cui i rapporti di produzione di stampo capitalistico e la tirannia tanto dello zar che del capitale (prima) e del partito stalinizzato e burocratizzato (dopo) sembravano relegarla quasi senza soluzione di continuità.

Ma era ferma convinzione di Trotsky che, per giungere a ciò, non sarebbe bastata soltanto una rivoluzione politica che coinvolgesse principalmente soltanto le sovrastrutture amministrative e di governo. Occorreva una rivoluzione profonda delle coscienze, dello stile di vita e della cultura. Dei singoli individui e della società nel suo insieme. Non ci si deve quindi stupire se all’interno dell’opera di Trotsky si possono individuare tanto testi riguardanti l’azione militare della rivoluzione quanto altri che si occupano dello stretto legame che intercorre tra arte, linguaggio e società.

Nel caso della presente antologia i testi spaziano dai consigli utili a raggiungere una maggiore dignità e a mantenerla attraverso l’osservanza di norme utili a tenere pulite le persone, gli oggetti e l’ambiente circostante (Attenzione alle inezie) a quelli che si occupano dei corretti rapporti tra le strutture amministrative del nuovo stato sovietico e i cittadini (Educazione e cortesia) o, più direttamente, di arte e letteratura (Per un’arte libera, scritto con André Breton nel luglio del 1938, oppure Il suicidio di Majakovskij, del 1930, o la lettera scritta alla figlia di Jack London nell’ottobre del 1937).

Proprio dal Marx più giovane viene tratta una citazione utilizzata nel testo scritto con Breton: “Lo scrittore deve certamente lavorare per poter esistere e scrivere, ma non deve scrivere per poter lavorare […] Lo scrittore non considera affatto i suoi lavori come mezzi […] Essi sono fini a se stessi, ma non per lui e per gli altri, tanto che egli sacrificherebbe alla loro la propria esistenza, se fosse necessario […]. La prima libertà della stampa consiste nel non essere un mestiere” .1

trotsky Una citazione che da sola basterebbe a riassumere la perseveranza di Trotsky, che caratterizzò tutta la sua vita, nel suo lavoro per una rivoluzione che fosse autenticamente socialista ed internazionale; sia quando sia era trovato in esilio a causa delle persecuzioni zariste sia durante gli anni gloriosi della lotta per l’affermazione rivoluzionaria nella guerra civile scatenata dalle armate bianche e dai paesi imperialisti contro la neonata Repubblica dei Soviet, sia ancora negli anni (i più duri) del suo esilio e della sua persecuzione voluti dal suo avversario ed ideatore della menzogna del Socialismo in un solo paese: Stalin.

Persecuzione che arriverà fino al suo assassinio, tentato più volte e concretizzatosi soltanto nell’agosto del 1940 in Messico, dove aveva trovato rifugio, ad opera di Ramón Mercader, un sicario ingaggiato ed addestrato dall’NKVD.
Ed è proprio pochi mesi prima della morte, nel febbraio di 1940, il testamento del grande rivoluzionario, nato nel 1879, da cui è stato tratto il titolo del libro qui recensito.

Respingendo ancora una volta le accuse infamanti e false con cui Stalin e i suoi servizi segreti avevano perseguitato ed eliminato gli oppositori del regime definiti come trotskisti, l’ex-artefice insieme a Lenin della Rivoluzione d’Ottobre afferma: “Per qurantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda”.2

Sopravvissuto a tutti i suoi quattro figli (di cui due assassinati da Stalin, una morta di tubercolosi e un’altra suicida), nello stesso testo ricorda l’amore e i quarant’anni di vita in comune con la sua compagna Natalia Ivanovna Sedova; così mentre scrive il testamento egli può chiudere con la seguente annotazione: “Natascia si è appena avvicinata alla finestra che dà sul cortile e l’ha aperta in modo che l’aria entri più liberamente nella mia stanza. Posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro, e sole dappertutto.
La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore
”.3

Si sintetizza in queste ultime, commoventi parole tutta la perseveranza di un rivoluzionario che ancora adesso le giovani generazioni dovrebbero conoscere di più. Benissimo hanno quindi fatto le edizioni Chiarelettere a ricordarlo con i dodici testi contenuti in questa breve, ma intensissima antologia.


  1. pp. 38-39, la citazione è tratta da Karl Marx, Dibattito sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta, 19 maggio 1842, in K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi 1950  

  2. pag. 6  

  3. pag. 6 

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Il pensiero di Gramsci: un’eredità controversa https://www.carmillaonline.com/2014/07/15/pensiero-gramsci-uneredita-controversa/ Mon, 14 Jul 2014 22:10:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16082 di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata [...]]]> di Sandro Moiso gramsci

Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00

A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.

Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra1 .

Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.

Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Bologna, si occupa di Gramsci ormai da molti anni. Gli ha dedicato opere e articoli che da soli basterebbero già a riempire una biblioteca sull’argomento e, forse proprio per questo, con quest’ultima opera ha voluto realizzare una corposa ed importante sintesi del pensiero politico di quell’uomo dagli occhi chiari “da sognatore” che sempre avevano colpito quello che è stato considerato, spesso a torto, uno dei suoi grandi avversari all’interno del Partito Comunista delle origini: Amadeo Bordiga.

Diviso in diciotto capitoli, di cui circa la metà costituiti da rielaborazioni di articoli precedenti, il libro affronta tutte le maggiori questioni politiche e filosofiche poste dal pensiero gramsciano, sia durante il periodo di militanza “libera”, prima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista di cui fu uno dei fondatori, sia nel periodo della detenzione, attraverso i Quaderni dal carcere e, in misura minore, le lettere.

La teoria o le teorie di Gramsci sono qui ordinatamente suddivise in due tempi, prima e durante il carcere, e per temi.
Così, nella prima parte i temi principali finiscono con l’essere quelli della coscienza di classe e del suo manifestarsi nel soggetto, della sua rappresentanza politica attraverso la democrazia e/o la rivoluzione e, in fine, quello della anticipazione e previsione dei tempi . Temi che è impossibile vedere separati da quella che fu la riflessione sulla crisi e sui compiti del Partito Socialista, portata avanti sulle pagine, soprattutto, de L’Ordine Nuovo (fondato nel 1919) e attraverso l’esperienza delle lotte operaie che accompagnarono la prima Guerra Mondiale e poi, successivamente alla stessa, l’occupazione delle fabbriche e il Biennio Rosso.

Temi che, però, accompagneranno ancora la sua riflessione all’interno del Partito Comunista e durante la sua brevissima permanenza effettiva ai vertici dello stesso dopo il congresso di Lione, tra il gennaio del 1926 e il novembre dello stesso anno quando fu arrestato e condannato a vent’anni di galera dai tribunali del regime.
Argomenti, comunque presenti, in maniera nemmeno troppo sotterranea, anche in tutta la sua elaborazione successiva, che costituisce non solo la “seconda parte” del libro, ma quella decisamente più cospicua (12 capitoli su 18) del testo.

Qui entrano in gioco le categorie “gramsciane” più note: la società civile, la “quistione dell’egemonia”, le rivoluzioni passive, il cesarismo, la transizione, l’americanismo e il fordismo oltre che l’analisi del fascismo come “razionalizzazione regressiva”, quella del Risorgimento e del pensiero di Machiavelli applicato alla storia d’Italia e della sua lotta tra le classi. Dove si rivela, come afferma fin dalla prima riga Burgio, tutta l‘inattualità di Gramsci.

Inattuale perché lontano dai discorsi politici, mediatici e filosofici odierni. Tutti così superficiali e privi di rigore. Improntati al facile consumo parolaio, a differenza del discorso gramsciano spesso intricato nella ricerca di un rigore oggi non più di moda. Discorso spesso sviluppato in solitudine quasi assoluta. Lontano dal Partito e, spesso, dalle sue scelte, sempre più indirizzate dal formalismo e dall’autoritarismo dell’Internazionale stalinizzata. Un discorso che spesso, soprattutto nella prima parte, è lontano da Marx e più vicino alla tradizione idealistica del Croce.

Ma inattuale, forse, anche per la canonizzazione imposta, come si è già detto prima, a partire da Togliatti che volle, in qualche maniera, potersi presentare al suo ritorno in Italia, a capo del Partito Comunista (diventato) Italiano, come legittimo erede del suo pensiero e che ha fatto sì che si sviluppasse, a partire dal 1950, uno dei più importanti istituti di ricerca politica legati alla sinistra istituzionale: la Fondazione Antonio Gramsci, divenuta poi Istituto Gramsci nel 1954. Istituto che dal 1994 conserva l’intero Archivio storico del Partito Comunista Italiano, dall’anno della sua costituzione (1921) all’anno del suo scioglimento (1991).

Insomma una autentica rifondazione delle stesse origini del Partito Comunista Italiano che, rimuovendo le scomode figure di Amadeo Bordiga e Brunio Fortichiari ( solo per citare due nomi desaparecidos per un lungo periodo dalla storiografia piccista), faceva del comunista sardo il “vero” fondatore del partito stesso, trasformandolo in una sorta di santo protettore della sua linea e delle sue scelte . Ciò, naturalmente, poco toglie alla figura di Gramsci, ma molto è servita ad alimentare una lettura del suo pensiero che è andata dalla convenienza politica più sfacciata, per giustificare ad esempio la “svolta” del compromesso storico fino a recenti, e ancor più forzate letture, in chiave liberale. Complicando quindi, e di molto, la questione dell’effettiva valenza del suo pensiero.

Eppure come si fa a non cogliere, oggi, tutta l’attualità di una riflessione su una borghesia pavida: “Prodotta secoli addietro «dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale»” (pag. 374) oppure sul fatto che “Sul piano politico-storico, l’alto prezzo pagato dal paese all’attitudine antipopolare di gran parte della sua borghesia ( i Quaderni parlano di un «egoismo gretto, angusto, antinazionale») è nientemeno che la mancata formazione di quella volontà collettiva senza la quale è impossibile, secondo Gramsci, dare vita ad uno Stato moderno forte e dotato di adeguate potenzialità di sviluppo” (pag. 375).

Per Gramsci “ogni rivoluzione passiva risulta da un rapporto di forze che permette al dominante di dirigere (volgendole a proprio vantaggio) trasformazioni divenute inevitabili” così che “la rivoluzione passiva è il «documento storico reale» della debolezza dei subalterni. Dell’insufficiente forza d’urto delle classi sociali subordinate e, in primo luogo, dell’inadeguatezza delle loro élites politico-intellettuali, incapaci di ordinare, potenziare e finalizzare quella forza, dando alle domande di mutamento uno sbocco pienamente rivoluzionario” (pp. 370 – 371). E anche se l’analisi riguarda soprattutto le élites risorgimentali è chiaro che la riflessione di Gramsci , qui sintetizzata da Burgio, non poteva non riferirsi ai compiti posti all’organizzazione di classe nell’ora del dominio fascista.

I Quaderni inquadrano il fascismo nel contesto analitico relativo alla rivoluzione passiva. Al pari del «nuovo industrialismo» americano – ma con un sovrappiù di brutalità e violenza militare tipico del bonapartismo – il fascismo rappresenta un paradigma della forma novecentesca di rivoluzione passiva, cioè un intervento restaurativo privo di valore progressivo. Concepito e realizzato al solo scopo di arginare gli effetti distruttivi della crisi e di prolungare le sopravvivenza della forma sociale capitalistica (la sua «durata»)” (pag. 393).

Il fascismo, come il fordismo e l’americanismo, doveva rispondere ad impellenti esigenze di programmazione e pianificazione della produzione, ma esattamente come le altre due forme ancora doveva svolgere la sua funzione di mantenimento dell’ordine economico-sociale borghese e dello sfruttamento di una classe su un’altra. In questo contesto, all’interno della produzione industriale moderna, taylorizzata, Gramsci individuava però le condizioni di quella che potrebbe essere la moderna autonomia operaia ovvero la capacità dei lavoratori di esercitare la loro egemonia sulla società attraverso forme di controllo della produzione e di autogoverno dei produttori.

Una posizione parzialmente proto-consigliarista, che già in passato si era scontrata, questa sì davvero, con le posizioni bordighiane. Nel febbraio del 1920, “commentando le manifestazioni di massa («movimenti spontanei e incoercibili») e le lotte del lavoro in corso nel paese, Gramsci scrive che esse «hanno, per i comunisti, valore reale in quanto rivelano che il processo di sviluppo della grande produzione industriale ha creato le condizioni in cui la classe operaia acquista coscienza della propria autonomia storica, acquista coscienza della possibilità di costruire, con l’ordinato e disciplinato lavoro, un nuovo sistema di rapporti economici e giuridici che sia basato sulla specifica funzione che la classe operaia svolge nella vita del mondo». Non si tratta di concessioni alla retorica rivoluzionaria, ma di un ragionamento da prendersi alla lettera. Nel senso che l’idea di un sovvertimento generale della gerarchia dei poteri a partire dalle trasformazioni dei processi industriali è sottesa all’intera analisi di quello che i Quaderni chiameranno «nuovo industrialismo»” (pp. 332 – 333).

Il testo di Burgio solleva quindi tante questioni quante effettivamente ne deve sollevare una attenta lettura dell’opera di Gramsci, di cui rappresenta un ottimo compendio, ma per non tediare oltre il lettore occorre fermarsi a questo primo, superficiale approccio propositivo.
Uno degli appunti che si possono fare al lavoro sul “sistema gramsciano” è forse quello di una accettazione un po’ troppo passiva della vulgata togliattiana della distanza tra Gramsci e Bordiga (tra i quali rimase sempre una grande e reciproca stima ed amicizia a differenza di quanto avvenne tra il primo e Togliatti con cui i rapporti si erano chiusi molto presto) che servì, prima, durante e dopo il fascismo a giustificare le giravolta del Partito Comunista e del Comintern e del Cominform, pubblicando sia la corrispondenza che gli stessi Quaderni dal carcere in modo da far corrispondere una continuità di intenti tra il pensiero gramsciano e le scelte politiche del Migliore2.

Qualche nota di carattere storico in più e qualche ulteriore riferimento a qualche opera recente sui reali rapporti tra Gramsci e Togliatti3 non avrebbero guastato e avrebbero contribuito a liberare una volta di più Gramsci dalle catene interpretative che gli sono state imposte, non solo dal fascismo, a partire dal 19264 .
Catene che ne hanno spesso fatto una sorta di monolito, appianandone le contraddizioni (ad esempio il suo prolungato idealismo di stampo crociano così evidente, anche se negato, nella prima parte del libro di Burgio) e banalizzandone anche gli aspetti più contraddittori ma gravidi di spunti di riflessione.

Però negli ultimi due capitoli del testo in questione l’autore apre due significative parentesi sui legami tra il pensiero di Gramsci e quello di Antonio Labriola e di Benedetto Croce fornendoci ulteriori dati per comprendere una figura in eterno bilico tra determinismo e idealismo che, più che attraverso Marx, era giunto ad una più definita dialettica materialistica non solo attraverso gli spunti forniti da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche attraverso il confronto, talvolta anche duro ma mai scorretto, con un rivoluzionario più vicino al determinismo marxista come Bordiga. Citato, purtroppo, nel testo solo e sempre in chiave negativa così come la tradizione del PCI togliattiano ci voluto tramandare fin dagli anni del Comintern.

Il testo di Alberto Burgio ha sicuramente il pregio di riordinare sistematicamente un pensiero magmatico, a tratti onnivoro e difficile da seguire attraverso la ragnatela di rimandi filosofici, economici, storici e culturali che derivavano spesso, soprattutto nei Quaderni, dalla solitaria lettura impostagli dalla condizione di carcerato; ma, talvolta, lo fa con una eccessiva determinazione nel volerne garantire l’intima coerenza, perdendo così l’occasione, ed è questo l’altro appunto che gli si può fare, di renderlo più vitale e attuale sottolineandone le contraddizioni e tutte le differenti influenze a cui fu sottoposto nella sua evoluzione storica reale, liberandolo dalle incrostazioni dovute ad una lettura, troppo spesso, a senso unico e di carattere quasi agiografico.


  1. Basti pensare che solo a partire dal 1975 furono pubblicati, a cura di Valentino Gerratana, i Quaderni nel loro effettivo ordine cronologico. Mentre per un’edizione quasi integrale delle Lettere dal carcere è occorso ancora più tempo. Infatti la prima edizione del 1947 ne conteneva 218, mentre altre 77 inedite furono pubblicate nel 1964 e ancora 119 l’anno successivo. L’ultima edizione, uscita nel 1995 ne comprende 494 in tutto.  

  2. Ad esempio, nella prima edizione delle Lettere dal carcere qualsiasi riferimento a Bordiga era stato espunto sistematicamente  

  3. si veda ad esempio: Chiara Daniele, a cura di, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi1999  

  4. In quell’anno Bordiga, il 22 febbraio, aveva presenziato al VI Plenum allargato dell’Internazionale Comunista e aveva chiesto conto della situazione venutasi a creare all’interno del partito russo ai danni dell’opposizione e della società nel suo insieme. Il 14 ottobre di quello stesso anno l’Ufficio Politico del PC d’I, capeggiato da Gramsci, aveva scritto al Comitato centrale del partito comunista russo più o meno sugli stessi temi. Ventiquattro giorni dopo Gramsci veniva arrestato in Italia e nel 1929 Bordiga veniva definitivamente espulso come deviazionista trotzkista dal partito di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Il nome di Togliatti non compare né tra quelli che si riunirono nel 1920 come frazione astensionista e comunista, né tanto meno tra i fondatori del partito Comunista a Livorno nel 1921  

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