Rivoluzione bolscevica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 03 May 2024 18:39:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Genealogia dello Stato e del moderno potere politico https://www.carmillaonline.com/2024/02/28/genealogia-dello-stato-moderno-e-del-suo-concreto-agire-politico/ Wed, 28 Feb 2024 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81195 di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione [...]]]> di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione dei meccanismi del Potere e dello Stato moderno nei loro elementi essenziali.

Inviso alla Chiesa il primo, le cui opere sono state per lunghissimo messe all’Indice, e al pensiero liberale e di sinistra il secondo, hanno avuto entrambi la capacità di mettere “scientificamente”, per quanto possa essere considerata scienza quella politica, a nudo gli snodi e le caratteristiche autentiche della gestione politica delle società organizzate intorno al modello statale.

Per Machiavelli, soprattutto nel Principe, l’elemento fondativo del poter, dello stato e della loro conquista e gestione è da ritrovarsi nella Forza ovvero nell’uso della violenza organizzata in funzione di tali fini. Per il secondo, a distanza di poco meno di cinquecento anni e dopo le rivoluzioni borghesi che hanno modificato l’assetto dinastico degli Stati moderni, si tratta, di definire gli stessi per mezzo delle categorie dell’eccezione e della decisione. O, per meglio dire ancora, dello stato di eccezione e della autorità basata sulla possibilità/necessità di decidere sullo e dello stato di eccezione. Così, nello svolgimento del discorso, chi scrive cercherà di cogliere il filo rosso che lega il ragionamento novecentesco di Schmitt a quello del cinquecentesco pensiero del teorico politico fiorentino.

Carl Schmitt (1888-1985) insegnò in varie università tedesche, prima di diventare professore all’Università di Berlino nel 1933, incarico che fu costretto ad abbandonare nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale a causa dei suoi discussi rapporti con il regime nazista. Ritiratosi a vita privata, dopo essere stato rilasciato nel 1946 alla fine di un periodo di internamento da parte degli alleati, continuò a lavorare e a pubblicare nel campo del diritto internazionale ed è ancora oggi considerato uno dei massimi filosofi del diritto e dello stato.

L’autore tedesco ha sempre ritenuto che La Dittatura fosse da considerare tra le sue opere migliori, se non tra i suoi capolavori, insieme alla Dottrina della Costituzione (Verfassungslehre-1927) e al Nomos della terra (Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum – 1950)1. In questo testo, pubblicato nel 1921, Carl Schmitt mette a punto l’aspetto decisionistico del suo pensiero affrontando il nesso fra politica e diritto, fra eccezione e norma.

La dittatura è infatti un istituto giuridico che mostra apertamente la sua origine politica, tanto come dittatura commissaria, in cui il dittatore ha come obiettivo la difesa extralegale di un ordinamento minacciato, quanto come dittatura sovrana, in cui il dittatore costruisce un ordine nuovo sulle macerie di un ordine distrutto. In questa seconda accezione, che equivale al potere costituente, si rivela il cuore del decisionismo. Muovendo dall’analisi della prassi dei commissari governativi fino al Settecento e della dittatura di Cromwell e del giacobinismo, Schmitt giunge in fine a prendere in esame la rivoluzione russa guidata da Lenin come una dittatura sovrana.

Le quattro prefazioni che ne accompagnano l’attuale edizione, rispettivamente del 1921, 1928, 1964 e 1978 confermano come tale opera sia da considerarsi centrale nell’evoluzione del suo pensiero, anche se, come ci ricorda Carlo Galli nella Presentazione della stessa « il libro non ha avuto particolare fortuna fra storici e politologi che, portati ad associare la dittatura al totalitarismo e all’antidemocrazia, lo hanno considerato di volta in volta “inaccettabile” (Neumann), “poco più che un libello” (Duverger), “insidioso” (Sartori) e “troppo tedesco” (Cobban) »2. Ciò che rende esecrabile il testo per alcuni suoi interpreti qui appena, e superficialmente, citati può essere, però, considerato proprio come l’aspetto originale che lo rende ancora utile e interessante per il lettore poco ammagliato o abbagliato dal pensiero liberal-democratico. Come afferma infatti ancora il curatore:

Lo scopo di Schmitt non è definire le caratteristiche tipologiche della dittatura, individuare i criteri per classificarla come forma di potere politico, determinarla come genere (distinguendola da tirannide, assolutismo, dispotismo) e come specie (romana, cesaristica, bonapartistica, rivoluzionaria, plebiscitaria, pedagogica, ecc.); né spiegarla contrapponendola a una qualche “normalità” – libertà, democrazia, Stato di diritto, costituzionalismo. In questo libro – che sarebbe stato destinato, secondo il ricordo incerto di uno Schmitt vecchio e ormai lontano dai fatti di cui parlava ad avere rapida fortuna in Italia, grazie a una traduzione in area socialista (anche se probabilmente si era trattato di una recensione) i cui piombi sarebbero scomparsi nell’agosto del 1922 tra le fiamme dell’«Avanti!» devastato dai fascisti3 – l’autore sviluppa la tematica [della realizzazione del diritto] non tanto per giungere a una teoria generale della dittatura come forma di governo quanto per fare della dittatura il nucleo della comprensione dell’origine della forma politica moderna dello Stato4.

La dittatura deve essere quindi considerata come un passaggio decisivo nello sviluppo del pensiero e nella riflessione sistematica del giurista tedesco sull’origine e la funzione dello Stato moderno, cosicché al suo interno

si percepisce lo sforzo di condurre un innovativo discorso scientifico davanti a una contingenza scandalosamente nuova, la rivoluzione russa, e al contempo, mentre argomenta dall’interno di una crisi, l’intento di ricostruire attraverso il nesso di crisi, dittatura, rivoluzione, la storia politica moderna, di trovarne il filo conduttore nell’arco che va dal giacobinismo al bolscevismo, da Sieyès a Lenin, e di individuare nella dittatura il nodo decisivo della politica, lo stare insieme – non neutralizzato – di contingenza e di necessità, di anomia e coazione ordinativa, di eccezione e di forma5.

Discorso che, nel 1922, nella Teologia politica (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität)6, porterà l’autore a quella definitiva individuazione dell’”eccezione” come concetto cardine del diritto pubblico e della sovranità come “decisione sullo stato d’eccezione” non come attributi apicali dello Stato, ma come intima e fondamentale essenza dello stesso e del suo agire7.

Come sottolinea ancora il curatore, Schmitt « ha l’occhio alla dittatura moderna » e per questo può, e deve nel suo ragionamento, ignorare i modelli di dittatura antica, come quella romana del I secolo a. C., poiché i tratti fondamentali di quella che più gli interessa gli appaiono costituiti dal “razionalismo” e dalla “tecnicità” e da « un agire che si impone immediatamente, senza discussioni né resistenze legali e la interpreta come dipendente dalla contingenza, da una concreta situazione di fatto che deve essere risolta, portata all’ordine […] Una teoria congegnata in modo che è l’eccezione a spiegare la normalità »8.

Occorre qui introdurre ancora un altro discorso sull’opera generale di Schmitt e cioè quello sul fatto, in sé antitetico, che pur nella ricerca di un ordine stabile l’autore tedesco non rinuncia mai alla razionale analisi dello stesso, non potendo far altro che notare e sottolineare come, in realtà, nessun ordine dato possa esserlo “per sempre” e come, per tale motivo, sia, per intrinseche contraddizioni interne o manchevolezze di ordine politico e sociale, destinato ad essere superato e destituito.

Nel suo lavoro sulla Costituzione come fondamento dello Stato moderno9, capace di dare a questo la sua identità non soltanto giuridica, ha sempre sostenuto che, se da un lato, proprio per questo fatto la Costituzione data risulta “immodificabile”, dall’altro, ad ogni nuovo cambiamento o rovesciamento dell’ordine politico statale e sociale dato deve corrispondere una nuova ed “altra” Costituzione. In questo senso uno dei più autorevoli rappresentanti di quella che fu definita “rivoluzione conservatrice” finisce col fornire strumenti validissimi per la messa in discussione di un ordine, ad esempio quello liberal-borghese, che come tutti quelli precedenti, succedutisi nel tempo, si pretenderebbe invece stabile e continuo.

Da questo punto di vista Schmitt si avvicina, senza citarlo e probabilmente senza apprezzarlo, a quanto Marx afferma, fin dal Manifesto del Partito Comunista del 1848, sulla capacità e necessità della borghesia non soltanto di rovesciare e sostituire l’ordine politico, sociale ed economico che l’ha preceduta, ma anche di continuare a rompere tutti i limiti (economici, sociali, giuridici, tecnologici, politici) che si frappongono all’espansione del modo di produzione di cui, in sostanza, è soltanto l’agente.

Infatti Schmitt, nel rivolgere la sua attenzione alla frattura avvenuta in età moderna tra la forma politica dello Stato basata sulla rigida divisione tra gli ordini sociali previsto dal regime monarchico assolutista e quella inaugurata dalla Rivoluzione francese, ancor più che da quella inglese di Cromwell ancora in larga parte fondata sul pensiero religioso più che su quello razionale inaugurato dal pensiero politico illuminista, individua esplicitamente nel potere del popolo e nelle sue istituzioni rivoluzionarie, soprattutto nella Convenzione, l’origine di ciò che egli chiama dittatura sovrana, per distinguerla da quella commissaria.

Solo in tale senso, Schmitt rivaluta il pensiero controrivoluzionario cattolico, non in quanto tale o per ciò che afferma10, ma per il fatto di aver chiaramente individuato, nel rovesciamento del ruolo del monarca e di quello del popolo, la drammatica novità della rivoluzione. Da ciò deriva ancora per il pensatore tedesco « che il popolo si è posto come titolare di una potenza originaria e illimitata: appunto il potere costituente, che però non è un solido fondamento quanto piuttosto un potere oscuro: il lato nascosto, pur nella sua evidenza, dello Stato moderno »11. A questo punto, chi qui scrive pensa che si sia giunti al centro del problema e della funzione della dittatura, nelle sue due diverse forme possibili. Infatti se a Schmitt non interessa definire la dittatura come eccezione rispetto alla pretesa normalità della democrazia costituzionale, così non gli interessa metterla sullo stesso piano dell’assolutismo della prima modernità e del suo governo per il tramite dei commissari.

Il potere costituente, nella sua onnipotenza, è […] indifferente alla forma che pur deve assumere; la potenza originaria del popolo è infatti soggetta a una altrettanto originaria coazione all’ordine e alla forma: «un minimo di ordine deve sussistere». Così la dittatura sovrana è incondizionata commissione d’azione del potere costituente, non di un potere costituito come è invece la dittatura commissaria: per poter agire il potere costituente del popolo deve essere rappresentato da una dittatura sovrana, ovvero da una istituzione politica temporanea e rivoluzionaria, onnipotente (la Convenzione ne è il modello), che vede tutto il presente come un’eccezione perché ciò che attualmente esiste, il vecchio ordine, è da spazzare via, è un non-ordine, mentre al contempo è rivolta a edificare un ordine nuovo, un nuovo potere costituito […] Il passaggio dalla ragion di Stato allo Stato rivoluzionario è il passaggio dalla dittatura commissaria alla dittatura sovrana.
La differenza tra i due tipi di dittatura è, certo, che l’una crea l’ordine, e l’altra lo difende: la dittatura commissaria è fondata giuridicamente tanto nel proprio inizio (un potere costituito) quanto nel fine (gestire e portare a termine un’emergenza), mentre la dittatura sovrana rappresenta (ma non vi si fonda) un’origine e un’energia illimitata e sempre eccedente, quella del potere costituente del popolo, dalla cui indeterminatezza trae un compito indeterminato: determinare e formare un ordine giuridico nuovo. Ma la co-implicazione fra non-ordine e ordine, fra contingenza e necessità, attraverso la decisione, è la medesima. La sovranità sempre decide sul caso d’eccezione: come potere costituito, con l’affidarne a un dittatore commissario autorizzato la gestione, oppure, come potere costituente del popolo, con la dittatura sovrana che unisce la rappresentanza del popolo con l’azione diretta che decide sull’eccezione e le dà forma12.

La prima considerazione da trarre è che qualsiasi forma stato è sostanzialmente dittatoriale, qualunque siano le motivazioni indotte per giustificarne l’esistenza e le attività di governo delle emergenze e no.

Lo Stato moderno di popolo, lo Stato democratico, ma anche ogni Stato in generale, purché politicamente attivo, ha in sé la logica, e il problema, della dittatura […] La dittatura sovrana è l’Ersatz13 moderno dell’autorità tradizionale e del suo ruolo fondativo, ma con un profondo cambiamento: una volta che ha condotto a termine la propria opera, la dittatura sovrana si spegne, mentre al contrario l’autorità è sempre visibile e presente nel monarca: il potere costituente del popolo non è nemmeno nominabile in una Costituzione formale14, che attribuisce la sovranità a questo o quello soggetto istituzionale, limitandola con leggi. Ma ciò non significa che quel potere costituente, e quella dittatura sovrana, non permangano latenti come inquietanti possibilità. [Così] Se il potere costituente del popolo e la rivoluzione sono il fantasma che sempre si aggira dentro lo Stato, la cultura e le istituzioni liberali devono esorcizzarlo, perché troppo destabilizzante e tale da mettere in discussione quelli che per i liberali sono i fondamenti dell’ordine politico: i diritti individuali. E infatti negli ordini liberali il potere costituente del popolo non è previsto come sempre attivo: si spegne nella costituzione15.

La seconda è che qualsiasi rivoluzione, innanzitutto quella proletaria che nella forma bolscevica aleggia sullo sfondo delle riflessioni di Schmitt, costituisce e deve essere per forza un atto di autorità e decisione, qualsiasi sia la forma giuridica, politica e sociale a cui darà vita. Da qui lo scontro inevitabile tra autoritari e anti-autoritari che già si manifestò all’interno della Prima Internazionale ai tempi di Marx. Engels e Bakunin.

La terza considerazione è che lo stesso ordine liberal-democratico borghese nasce da un atto di forza, la rivoluzione francese, e da un potere costituente, riassumibile come fa Schmitt, in quello generico “del popolo”. Fatti tutti che rivelano come questo, come tutti gli altri, sia di fatto transeunte e tutt’altro che destinato a durare in eterno.

All’origine dello Stato moderno non vi è alcun patto sociale, come quello idealizzato da Rousseau per l’origine della società, ma soltanto un atto di forza, e qui chi scrive si ricollega a quanto detto in apertura, come quello previsto da Machiavelli nella sua opera tutt’altro che antitetica rispetto a quella di Schmitt. Perché è il tema della forza a scorrere, per via niente affatto sotterranea, nell’opera dei due pensatori politici. Uno, Schmitt, con lo sguardo rivolto ad Oriente e alla rivoluzione russa, destinata a sconvolgere gli assetti statali e imperiali, coloniali e nazionali sia in Europa che in Asia; l’altro, Machiavelli, appena uscito dall’esperienza “repubblicana” di Girolamo Savonarola e della cacciata dei Medici da Firenze. Esperienza cui fu politicamente contrario a causa del forte stampo religioso impostole da Savonarola, anche se ne condivise gli ideali democratici e popolari.

In fin dei conti, proprio la nascita delle ancor troppo localistiche signorie italiane aveva già rivelato la base autoritaria degli Stati moderni e l’uso della forza come strumento di superamento di un non-ordine allora costituito da una fasulla democrazie comunale in cui gli opposti interessi di Chiesa, mercanti, aristocrazie terriere, artigiani e nascente proletariato urbano di fatto servirono soltanto a sviluppare l’interesse “particulare” di cui si fece campione il Guicciardini e che, nei fatti concreti, limitò ogni rivoluzione borghese in Italia alla collaborazione con l’aristocrazia ancora guerriera e alle sue bande armate mercenarie, prima, e all’unica monarchia, quella dei Savoia, che avesse a disposizione un forza organizzata in un esercito degno di questo nome.

Un’ultima considerazione, valida ancora e forse soprattutto oggi, viene svolta a latere da Schmitt nel 1928, proprio nella sua Dottrina della costituzione:

Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fato che Stato e pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale, nessuna volonté général, ma solo la somma di tutte le volontà individuali la volonté de tous.

Qui a colpire non è soltanto l’anticipazione di quanto si è realizzato a poco meno di cento anni di distanza con l’uso e l’abuso dei social media, ma anche la chiara indicazione, se si legge tra le righe, che un’opinione o una volontà non si può esprimere che per il tramite di un partito che, però, non può essere predestinato soltanto alla conservazione del presente all’interno di un meccanismo parlamentare già dato. In questo caso la volontà non può esprimersi che per mezzo di un partito rivoluzionario, autentico strumento bellico di rottura definitiva dell’ordine precedente e non di mediazione; grande, e fino ad ora insoddisfatto, quid di qualsiasi politica antagonista a venire.

Per ragioni di spazio occorre qui, obbligatoriamente, chiudere la recensione e la riflessione di e su un testo e un autore che, pur essendo considerato, spesso superficialmente, come appartenente al solo conservatorismo, all’interno di un pensare sempre “eretico” può rivelarsi ancora molto utili per chi voglia opporsi e ribellarsi al miserabile stato di cose presenti. Questo non per riproporre il superamento delle barriere tra destra e sinistra con cui un facile sovranismo sinistrorso vorrebbe risolvere le difficoltà politiche attuali, ma al fine di avere a disposizione validi e razionali strumenti analitici al fine di una più corretta verifica dei rapporti di forza intercorrenti tra Stato, società e movimenti (oggi ancor troppo deboli sia sul piano numerico che teorico e organizzativo). Soprattutto per superare le illusioni liberali e individualistiche ancor troppo radicate in questi ultimi.


  1. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984 e C. Schmitt, Il Nomos della terra. Nel diritto internazionale dello « jus publicum europaeum », Adelphi Edizioni, Milano 1991  

  2. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Società editrice il Mulino, Bologna 2024, p. 9.  

  3. Cfr. la lettera del 1969 di Schmitt a Gianfranco Miglio, su cui C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica in «Materiali per una storia della cultura giuridica», n.1, 1979, pp. 81-160.  

  4. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura, op. cit., p. 10.  

  5. C. Galli, op. cit., p. 12.  

  6. C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Società editrice il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86.  

  7. In proposito si veda qui  

  8. C. Galli,op. cit., p. 13.  

  9. Si vedano in proposito: C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffrè editore, Milano 1984 e C. Schmitt, Il custode della Costituzione (Der Hüter der Verfassung,1931), Giuffrè editore, Milano 1981.  

  10. Si veda: C. Schmitt, Donoso Cortés (Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation – 1950), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1996  

  11. C. Galli, op. cit., p. 16.  

  12. Ivi, pp. 16-17.  

  13. succedaneo, sostituto – NdR  

  14. Si pensi soltanto al dibattito avvenuto in Italia in sede di Assemblea Costituente intorno al diritto all’insorgenza dei cittadini nei confronti di un governo che non dovesse rispettare il patto costituzionale, in cui furono i rappresentanti del cattolicesimo di sinistra (La Pira, Dossetti e altri) a battersi in tal senso contro il fermo divieto imposto all’epoca dalla DC di De Gasperi e dal PCI di Togliatti.  

  15. C. Galli, op.cit., pp. 18-20.  

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Le cronache marxiane di Bogdanov https://www.carmillaonline.com/2021/04/26/le-cronache-marxiane-di-bogdanov/ Sun, 25 Apr 2021 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65999 di Walter Catalano

Aleksadr Bogdanov, Su Marte ! : L’opera narrativa completa, Agenzia Alcatraz, pp. 376, €. 16,00.

Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, detto Bogdanov (1873 –1928), non è certo noto solo come scrittore di fantascienza. Medico, autore ancora in gioventù, del Breve compendio di scienza economica, un manuale economico indirizzato agli operai; successivamente primo traduttore in russo de Il Capitale di Marx, sviluppa, tra il 1903 e il 1906, una revisione del marxismo che definisce empiriomonismo intesa ad applicare alle scienze sociali i principi dell’empiriocriticismo di Ernst [...]]]> di Walter Catalano

Aleksadr Bogdanov, Su Marte ! : L’opera narrativa completa, Agenzia Alcatraz, pp. 376, €. 16,00.

Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij, detto Bogdanov (1873 –1928), non è certo noto solo come scrittore di fantascienza. Medico, autore ancora in gioventù, del Breve compendio di scienza economica, un manuale economico indirizzato agli operai; successivamente primo traduttore in russo de Il Capitale di Marx, sviluppa, tra il 1903 e il 1906, una revisione del marxismo che definisce empiriomonismo intesa ad applicare alle scienze sociali i principi dell’empiriocriticismo di Ernst Mach e Richard Avenarius – e in parte dello studioso del linguaggio Philippe Noirè – che consideravano quanto prescinde dalla percezione umana come non verificabile e quindi estraneo al campo scientifico. Un tentativo di conciliare il marxismo con la fisica e l’epistemologia europea. In sostanza Bogdanov, passando attraverso l’idea della contrapposizione tra cultura borghese e cultura proletaria, cerca di elaborare un sapere di tipo monistico, che riassuma in sé l’esperienza organizzativa dell’umanità, sistematizzandola in modo scientifico. Non è sufficiente quindi trasferire i mezzi di produzione nelle mani della classe operaia: si deve prima investire sulla formazione intellettuale dei lavoratori.

Nel 1904 Bogdanov è in Svizzera, dove incontra per la prima volta Lenin e si schiera con lui contro i menscevichi avviando il primo organo di stampa bolscevico, che esce il 4 gennaio 1905 con il titolo “Vperëd” (L’Avanti) -pubblicato a Genova con finanziamento offerto da Maksim Gor’kij – a cui segue più tardi “Proletarij” (Il Proletario).

Al III congresso del Partito, che si tiene a Londra dal 25 aprile al 10 maggio 1905, Bogdanov viene eletto membro del Comitato Centrale e nominato responsabile principale del settore letterario in Russia. Nel 1905 per la polizia zarista Bogdanov e Lenin sono i due rivoluzionari russi più pericolosi: uno dalla Russia e l’altro dalla Svizzera, guidano la neonata frazione dei bolscevichi durante la rivoluzione del 1905. Bogdanov sarà rappresentante del primo Soviet dei deputati e degli operai a San Pietroburgo e, con Leonid Krasin, organizzerà i primi gruppi tecnico-militari del Partito.

Dal 1907 però entrerà in forte conflitto con Lenin. Le loro divergenze, dal punto di vista dell’azione politica, prendono origine dal diverso atteggiamento assunto verso la partecipazione alle elezioni per la III Duma. Lenin, ora in accordo con i menscevichi, sosteneva l’utilità della presenza dei deputati socialdemocratici, Bogdanov invece, con l’appoggio di Lunačarskij e Aleksinskij, riteneva necessaria la continuazione dell’attività rivoluzionaria boicottando le elezioni. A suo avviso la Duma rappresentava l’espressione di un regime pseudocostituzionale che avrebbe bloccato ogni possibilità di sviluppo dell’azione rivoluzionaria. Bogdanov all’epoca, era molto più conosciuto di Lenin tra gli operai, avendo partecipato direttamente alla rivoluzione del 1905 mentre Lenin era rientrato in Russia solo nel novembre di quell’anno: le sue posizioni trovano quindi un più vasto seguito tra gli operai che si astengono in massa dalle elezioni.

I seguaci di Bogdanov costituiscono l’ala sinistra della frazione bolscevica, sostenendo una concezione del marxismo diversa da quella di Lenin e ‘antiautoritaria‘, ad esempio nella diversa concezione del ruolo guida degli intellettuali. Lenin propone una struttura di partito fortemente centralizzata nella quale ammettere solo rivoluzionari di professione, un’avanguardia intellettuale capace di organizzare e guidare il movimento operaio opposta allo spontaneismo della base proletaria; Bogdanov, al contrario, partendo dall’analisi delle cause che hanno portato al fallimento della rivoluzione e della incapacità delle organizzazioni locali di strutturarsi autonomamente, ritiene che il proletariato debba creare una propria intelligencija, reclutata tra gli stessi operai. Gli intellettuali di origine borghese dovranno fare da ponte tra la vecchia cultura e la nuova: in questo senso l’autoritarismo dei capi resta una caratteristica borghese che deve essere eliminata. Per una reale emancipazione della classe operaia si deve sviluppare una cultura autonoma del proletariato attraverso l’apertura di scuole di partito.

Nell’aprile 1908 Bogdanov, Lunačarskij, Bazarov e Pokrovskij, si riuniscono a Capri su invito di Gor’kij, che organizza un incontro con Lenin per tentare di riconciliarlo con i bolscevichi di sinistra evitando il pericolo una nuova scissione. Le posizioni dei due gruppi si mostrano, però, inconciliabili e il terreno di scontro si sposta, a partire da quel momento, dal piano pratico-tattico a quello filosofico-teorico. Le tesi di Bogdanov saranno confutate da Lenin nel suo pamphlet Materialismo ed empiriocriticismo. Osservazioni critiche su una filosofia reazionaria del 1909 in cui Lenin accusa l’avversario di eresia, definendola “bogdanovismo” e sostenendo la superiorità del progetto rivoluzionario rispetto a qualsiasi altro: l’edificazione di una nuova cultura proletaria è dunque un punto di arrivo e non un presupposto ex ante come nella visione di Bogdanov. L’empiriomonismo, che Lenin considera estraneo alla concezione marxista, viene equiparato alla “costruzione di Dio” (bogostrojtel’stvo), condivisa da Gor’kij e Lunačarskij, che vedono nel socialismo una sorta di religione laica, dottrina in realtà profondamente criticata da Bogdanov che partiva invece da un’idea del socialismo coerentemente razionalistica e che non intendeva allontanarsi dal marxismo, pur dandone un’interpretazione diversa da quella di Plechanov e di Lenin, soprattutto dal punto di vista della prassi rivoluzionaria.

L’attualità del loro dibattito in senso filosofico è confermata dal fatto che recentemente anche Carlo Rovelli nel suo ultimo libro Helgoland (Adelphi, 2020), dedichi tutto il capitolo 5 alla disputa tra Lenin e Bogdanov, vista come dialettica fra idealismo e materialismo: la sua simpatia va a Bogdanov le cui idee, secondo il fisico, anticipano approcci e intuizioni della teoria della relatività di Einstein e della fisica dei quanti. Così Rovelli: “Se esistono solo «sensazioni», argomenta Lenin, allora non esiste una realtà esterna, vivo in un mondo solipsistico dove ci sono solo io con le mie sensazioni. Assumo me stesso, il soggetto, come unica realtà. L’idealismo è per Lenin la manifestazione ideologica della borghesia, il nemico. All’idealismo Lenin oppone un materialismo che vede l’essere umano, la sua coscienza, lo spirito, come aspetti di un mondo concreto, oggettivo, conoscibile, fatto soltanto di materia in moto nello spazio.” […] Bogdanov rimprovera Lenin di fare della «materia» una categoria assoluta e astorica, «metafisica» nel senso di Mach. Gli rimprovera soprattutto di dimenticare la lezione di Engels e Marx: la storia è processo, la conoscenza è processo. La conoscenza scientifica cresce, scrive Bogdanov, e la nozione di materia propria della scienza del nostro tempo potrebbe rivelarsi solo una tappa intermedia nel cammino della conoscenza. La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo materialismo della fisica settecentesca. Parole profetiche: pochi anni dopo Werner Heisenberg apre le porte al livello quantistico della realtà” (Carlo Rovelli – Helgoland).

Alla fine però vince Lenin: il 18 dicembre 1909 l’esperienza della “Scuola di Capri” promossa da Bogdanov, Gor’kij e Lunačarskij, e che vide sull’isola l’intelligencija bolscevica al lavoro con operai rivoluzionari provenienti dalla Russia, si chiude definitivamente. Bogdanov viene espulso dalla corrente bolscevica, ma continuerà a sviluppare le sue idee all’interno del Proletkult, organismo indipendente dal partito bolscevico fondato nel 1917 e promotore di corsi e seminari nei quali i lavoratori avranno la possibilità di ricevere gratuitamente lezioni di oratoria, politica e scrittura. È proprio in questo periodo che Bogdanov diventa uno dei primi autori di fantascienza.

Scritto all’indomani della rivoluzione del 1905, La stella rossa racconta l’esperienza come ambasciatore terrestre su Marte di Leonid, un giovane rivoluzionario pietroburghese. Leonid è stato selezionato tra migliaia di possibili candidati, perché dotato della predisposizione mentale che gli avrebbe permesso di passare indenne dalla società terrestre, segnata da instabilità e conflitti e dall’individualismo, a quella marziana, organizzata su base rigorosamente collettivistica. Su Marte, infatti, la rivoluzione è avvenuta duecento anni prima e il socialismo è realtà consolidata. Secondo la linea empiriomonistica di Bogdanov, però, e non secondo quella leninista: le differenze di classe non sono state abbattute con la violenza, ma con l’istruzione delle masse, nell’arco di un processo di graduale formazione del proletariato.

Dopo due mesi di viaggio durante i quali studia la lingua marziana Leonid, su una nave interplanetaria che si sposta grazie alla scoperta della negamateria in grado di vincere la gravità in virtù di un principio di repulsione, sbarca sul Pianeta rosso. Accompagnato dai suoi anfitrioni marziani, fra i quali si distingue l’ingegner Menni, l’inviato terrestre inizia l’esplorazione della civiltà aliena.

Leonid visita fabbriche perfette, perché “Il lavoro è una necessità naturale di un uomo socialista evoluto, e qualsivoglia costrizione nascosta o palese per noi è del tutto superflua”. Apprende che i marziani lavorano in media due ore al giorno, senza retribuzione, e hanno diritto di spostarsi da un settore produttivo all’altro a piacimento, dato che il consumo dei prodotti non è limitato in alcun modo e ognuno prende ciò di cui ha bisogno nella quantità che desidera, mentre l’Istituto di Statistica calcola in maniera esatta cosa e quanto sia necessario produrre in un determinato periodo e quante ore di lavoro servano per farlo. Viene accolto nella “Casa dei bambini”, dove i piccoli marziani vengono cresciuti tutti insieme e i genitori possono scegliere se, quando e per quanto tempo stare con i loro figli vivendo in appositi residence separati. Si informa sull’arte marziana nei musei e sulla medicina nelle case di cura, dove si pratica l’eutanasia libera per chi la richieda e ci si mantiene giovani tramite la scambievole pratica della trasfusione sanguigna. Scopre, tra l’altro, che le differenze tra maschi e femmine marziani sono quasi irrilevanti, al punto da accorgersi solo dopo mesi che due dei suoi compagni di viaggio dalla Terra, l’astronoma Enno e il medico Netti, sono donne. Nonostante l’indifferenza marziana per i generi sessuali, fin nella loro lingua – “Nelle vostre lingue, nominando un oggetto, vi date un gran daffare a stabilire se questo sia maschile o femminile, il che, in sostanza, non è fondamentale, e per gli oggetti inanimati è addirittura strano… Per voi ‘casa’ è maschile e ‘barca’ è femminile, per i francesi è il contrario, e questo non cambia proprio nulla” – si innamora prima dell’una e, dopo la partenza di lei per una missione su Venere, dell’altra.

Fin qui il romanzo ha tutte le caratteristiche dell’utopia classica, ma Bogdanov non è un propagandista banale e la sua analisi è molto più sottile: tutto il finale dell’opera – che non svelo per non rovinare al lettore il piacere della sorpresa, essendo l’opera invecchiata decisamente bene anche sul piano letterario – accentuerà gli aspetti critici e negativi con un vero e proprio colpo di scena. In sostanza il problema – il tema protoecologistico è molto sentito dall’autore – è quello dell’equilibrio tra sopravvivenza del sistema e della natura da esso sfruttata: la longevità degli abitanti – raggiunta anche grazie alle trasfusioni sanguigne oltre che alle condizioni ottimali della società – ha prodotto un sovrappopolamento insostenibile, l’enorme quantità di risorse che l’industria rigidamente pianificata consuma quotidianamente ha portato al disboscamento di intere foreste, l’agricoltura impoverisce i campi e logora le scorte idriche e, secondo le stime dell’Istituto di Statistica, nell’arco di vent’anni il pianeta si troverà ad affrontare una crisi irreversibile: i rimedi prospettati dall’astronomo Sterni, ex marito di Netti, saranno altrettanto drastici (ma qui taccio…). L’attenzione riservata da Bogdanov alla questione ambientale, tradisce un marcato scetticismo nei confronti del socialismo di stato e di quella pianificazione che sarà la costante della società sovietica nei successivi 80 anni. Un esempio ulteriore della modernità di Stella rossa.

Anche Antonio Gramsci si interessò a Stella rossa. Pare che sia esistito il manoscritto di una sua traduzione del romanzo, ma non ne restano purtroppo tracce. Bene ha fatto comunque la sempre puntualissima Agenzia Alcatraz Editore a riproporre in un unico volume, nella bella collana Solaris dedicata alla fantascienza sovietica, non solo il titolo più famoso, del quale già esisteva una vecchia edizione pubblicata da Sellerio nel 1989, ma l’opera letteraria completa del tutto inedita in Italia. La traduzione è a cura del Kollectiv Ulyanov e la prefazione di Wu Ming (che al Proletkult di Bogdanov aveva già dedicato un romanzo) e oltre a Stella rossa vi compaiono il seguito (in realtà un prequel) pubblicato nel 1912, Ingegner Menni, anch’esso ambientato su Marte, e dove si descrive il passaggio dalla società vecchia alla nuova basata su una scienza alternativa accessibile alla classe operaia ed espressione diretta dei suoi bisogni; il racconto La festa dell’immortalità, sul problema della morte – come dice Bogdanov, “la più grande nemica del comunismo”; e un poemetto del 1920, Un marziano abbandonato sulla terra. Una breve nota autobiografica del 1925 chiude il volume.

Come accenna proprio nelle poche pagine di questo testo, Bogdanov tornerà in Russia nel 1913 e allo scoppio della Prima guerra mondiale sarà inviato per un anno al fronte come medico, dove si ammala e viene ricoverato in una clinica neurologica. Una volta guarito si immerge nella scrittura di una delle sue opere maggiori Tektologija (La Tettologia, o Scienza generale dell’organizzazione), che pubblica a sue spese. Dopo la rivoluzione del 1917 contribuisce all’apertura dell’Accademia Socialista, del cui Presidium resta membro fino alla morte e collabora attivamente alla creazione del Proletkul’t, da cui si allontanerà invece nel 1922, quando il movimento inizierà ad essere controllato sempre più direttamente dal Partito. Nel 1923 è arrestato con l’accusa immotivata di essere complice di un piano cospirativo contro lo Stato sovietico. Liberato, avendo dimostrato l’infondatezza delle accuse, si ritira totalmente da ogni attività politica e torna ad occuparsi esclusivamente della sua professione di medico.

Seguendo le intuizioni già delineate in Stella rossa, si dedicherà agli studi ematologici fondando nel 1926 il primo istituto russo per le trasfusioni del sangue che dirigerà fino alla morte, avvenuta nel 1928 in seguito ad un esperimento praticato su stesso, pare tentando uno scambio di sangue con uno studente ammalato di malaria e di tubercolosi. Molti parlarono di suicidio.

 

 

 

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Amadeo Bordiga e la passione del comunismo https://www.carmillaonline.com/2021/04/07/amadeo-bordiga-e-la-passione-del-comunismo/ Wed, 07 Apr 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65638 di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

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di Sandro Moiso

Pietro Basso, Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, pp. 158, 18 euro

Al contrario di quanto buona parte della cosiddetta Sinistra Comunista ha sperato per molto tempo, la catastrofe del socialismo reale e il declino e successiva scomparsa, inevitabili poiché collegati alla prima, dei partiti ex-stalinizzati del ‘900 non ha affatto contribuito a sollevare il velo di menzogne e distorsioni storico-politiche che ha ricoperto l’esperienza comunista, nei decenni intercorsi tra il 1926 e il 1989, grazie alla narrazione dei partiti e delle istituzioni che pensavano di essersi liberati di ogni serio avversario a “sinistra”.

Per questo motivo la figura di Amadeo Bordiga ha pagato due volte la sua irriducibile opposizione sia al capitalismo trionfante successivo alla seconda guerra imperialista e mondiale che al “marxismo” deviato e corrotto, spacciato come teoria della classe operaia, prodotto dagli stalinisti e dai loro successivi epigoni. Una figura, quella del primo segretario del Partito Comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921, rimossa per lunghi anni dalla storia dello stesso partito e mal riproposta, allo stesso tempo, dai suoi seguaci della seconda metà del ‘900 che alternativamente si sono dedicati alla riproposizione acritica, se non mitica, delle sue scelte e idee politiche oppure, in tempi più recenti, ad un autentico tiro al piccione nei suoi confronti, in una sorta di rivolta contro un padre con cui, troppo spesso, non si son fatti davvero i conti storicizzandone ruolo e personalità.

Motivo per cui giunge gradita, per chiunque non voglia vivere soltanto di miti e foscoliane illusioni oppure di menzogne, la presentazione di Bordiga proposta da Pietro Basso per le Edizioni Punto Rosso. Certo le 150 pagine e i dieci succinti capitoli in cui l’autore riassume gli aspetti principali dell’azione e della riflessione politica del comunista italiano costituiscono uno spazio ristretto per racchiudere un’esperienza che ha spaziato dal Partito Socialista, incrostato di opportunismo e massoneria, della Seconda Internazionale, alla Rivoluzione russa e alla nascita della Terza Internazionale e dei partiti comunisti, fino alla degenerazione staliniana di tutto ciò e alla necessità di riflettere su un modo diverso di intendere l’organizzazione e la teoria comunista, ma si può comunque dire che è un buon inizio.

Basta infatti dare una rapida scorsa alle pagine dedicate alla bibliografia su Amadeo Bordiga, poste alla fine del volume, per comprendere quanto siano state poche le opere a lui dedicate, soprattutto se si pensa al gran numero di quelle dedicate a Gramsci o, ancor peggio, a Togliatti e ai dirigenti del partito stalinizzato. Ma si sa, la pubblicità è l’anima del commercio e anche la corporazione degli storici, a parte alcune rarissime occasioni, si è adeguata, sia per intrinseca convinzione ideologica che per opportunistica necessità di vendita del proprio prodotto, favorendo una leggenda gramsciana che è servita, in realtà, troppo spesso a giustificare la storia di un partito che, dopo aver espulso a sua insaputa Bordiga nel 1929, ha congelato la memoria del comunista sardo relegandola ad un’esperienza carceraria sulla quale, in realtà, ci sarebbe ancora molto da dire e scrivere1.

Pietro Basso ha pubblicato saggi e libri sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobia, le lotte del proletariato, tradotti in molte lingue. Nel 2020 ha curato per l’editore Brill la prima antologia di scritti di Bordiga in lingua inglese, The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), e scritto la voce Bordiga nel Routledge Handbook of Marxism and Post-marxism (2021). Collabora inoltre alla rivista «Il cuneo rosso» e al blog «Il pungolo rosso».

Proprio dall’introduzione al testo contenente la traduzione in inglese degli scritti del comunista napoletano è tratto il testo appena pubblicato in Italia, che si caratterizza per l’obiettività con cui è presentata l’opera (teorico-politica) dello stesso.
Come afferma lo stesso Basso nell’introduzione:

Questo scritto è una presentazione molto sintetica di Amadeo Bordiga. Del militante, organizzatore e propagandista politico di primissimo rango, quale fu nella prima fase della sua battaglia comunista (1912-1926); e del “restauratore” di alcuni aspetti della teoria marxista in contrapposizione al capitalismo e allo stalinismo trionfanti, quale fu in una seconda fase del suo impegno (1945-1966). Si tratta di due periodi storici pressoché agli antipodi. In quanto il primo vide esplodere, per entro la “grande guerra”, il più ardito assalto al cielo mai compiuto dal proletariato, mentre il secondo ha celebrato il pieno rilancio del capitalismo, dopo un trentennio di catastrofi, attraverso l’inaudita espansione mondiale dei rapporti sociali mercantili e monetari e dei connaturati valori culturali.
[…] Come si vedrà questa non è un’apologia bordighista di Bordiga. Perché il bilancio di questa grande esperienza è, necessariamente, in chiaroscuro2.

Il tentativo di Basso è quello di sottolineare come Bordiga abbia sempre operato in quanto militante più che come intellettuale, stravolgendo già in questo modo quella concezione tipicamente borghese dell’”intellettuale impegnato” oppure quella gramsciana dell’intellettuale “organico”.
Circolo Carlo Marx di Napoli, Federazione giovanile socialista, frazione intransigente rivoluzionaria, frazione comunista astensionista, Pcd’I-sezione italiana della Terza Internazionale, Partito comunista internazionalista e, infine, Partito comunista internazionale-Programma Comunista, sono stati i momenti che hanno segnato il suo percorso politico, organizzativo e teorico.

Bordiga, militante delle rivoluzioni a venire verrebbe da dire, non ha mai rinunciato all’integrità politica in nome del successo o dell’affermazione personale, anche se questo ha portato con sé due aspetti antitetici di cui Basso sa tenere conto.
L’ostinata difesa della radicalità della Rivoluzione e dell’azione e della teoria che devono per forza di cose accompagnarla gli ha permesso, anche nei periodi di quasi totale isolamento, di rinnovare, ancor più che restaurare soltanto come vorrebbero gli epigoni, il pensiero del movimento di classe rivoluzionario, trasmettendo ai posteri alcuni insegnamenti che nel ritorno della Grande Crisi, economica e pandemica e certamente portatrice di enormi disastri e guerre, odierna potrebbero rivelarsi estremamente utili se non addirittura dirimenti per i movimenti attuali di contestazione e negazione dell’ordinamento socio-politico attuale.
Cosa che ha fatto sì che la sua damnatio memoriae non cessasse mai di operare.

Per i narratori di stato il dato storico effettivo è irrilevante […] la sola aspirazione razionale che può nutrire la classe lavoratrice è quella di moderare un po’ gli effetti più estremi del meccanismo capitalistico. Altro non può. E se osa andare oltre? […] il contraccolpo sarà durissimo. Non solo per gli audaci. Lo sarà per tutti i proletari e perfino per l’intera società. Perché – parla Mauro3 per i suoi simili – «la fascinazione febbrile di un pensiero continuamente teso a ricostruire il mondo» non può che metter capo a «modellistica politica» tanto grandiosa quanto «ingenua, che proietterà nel futuro la tentazione tragica della comunità perfetta». Niente fascinazioni. Niente pensieri grandiosi. Niente modelli utopistici. Niente sogni di comunità perfette – salvo quelli da incubo, dell’industria 4.0 e del transumanesimo robotico […] Al lavoro, disciplinati! E vi passeranno i grilli per la testa. « La sinistra, o è riformista o perde». Solo questo è possibile4.

Ma le questioni poste da Bordiga non sono di dettaglio e non si possono facilmente rimuovere così come alcuni avrebbero voluto: «la sua battaglia contro le illusioni seminate dal riformismo, il suo anti-militarismo rigorosamente disfattista verso la “patria” borghese, la sua denuncia del cretinismo parlamentare» insieme alla sua capacità di «estrarre e mettere in luce la dimensione anti-produttivistica ed ecologica del marxismo […] che ne esalta l’antagonismo col capitalismo stramaturo che, nella sua folle ricerca di nuove fonti di produzione del plusvalore, si caratterizza più che mai per una feroce fame di catastrofe e di rovina»5.

Certo, a fronte di questa riscoperta del radicalismo ed attualità della proposta bordighiana rimangono le ombre. Ombre legate ad una concezione tattica semplificata fino all’osso e ad una concezione organizzativa di tipo partitico che spesso, e soprattutto nell’interpretazione ed applicazione di troppi epigoni, porta a rigide derive settaristiche. Costringendo il discorso in un alveo talvolta ermetico ed autoreferenziale (soprattutto nelle infinite polemiche e diatribe che hanno caratterizzato le separazioni, divisioni e scontri tra le differenti correnti “bordighiste”, già ben prima della sua morte avvenuta nel 1970).

Uomo d’altri tempi, per formazione, cultura ed esperienza Bordiga non comprese assolutamente la novità costituita dai movimenti del ’68, cui dedicò l’ultimo suo scritto pubblicato in vita sul «Programma Comunista». D’altra parte non avendo compreso la grande trasformazione sociale avvenuta con l’avvento della riforma della scuola media unica, Bordiga poteva rammentare soltanto le mobilitazioni a favore del primo conflitto mondiale portato avanti, all’epoca, da uno studentame che costituiva una sorta di jeunesse dorée borghese, mentre i figli dei proletari dovevano accontentarsi di seguire le orme dei padri (e delle madri) in fabbrica.

Certe estremizzazioni poi del suo pensiero, dopo il secondo conflitto mondiale, furono anche il prodotto di due altri fattori. In primo luogo una salutare reazione all’impostazione marxista-leninista che da lì a poco si sarebbe trasferita anche in tanti gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”. E che si sarebbe trasferito ben presto (probabilmente con Bordiga ancora vivente) anche nella Sinistra Comunista sotto forma di culto del capo. Un culto della personalità cui il vecchio e irriducibile comunista si era da sempre opposto, fin dalla morte di Lenin e dall’avvento dello stalinismo, e che avrebbe osteggiato in ogni modo fino a quella rivendicazione di un totale anonimato autoriale, che invece avrebbe permesso, in seguito, ai vari manipoli di seguaci di fregiarsi degli stessi meriti, spesso senza avere davvero fatte proprie le sue posizioni.

L’altro fattore è da attribuire alla solitudine in cui Bordiga operò per lunghi periodi della sua vita e anche alla sfiducia che lo stesso nutrì nella formazione di uno strumento “partito” di cui non vedeva ancora le necessarie condizioni di sviluppo. Trascinatovi quasi per i capelli, finì col definire rigide norme destinate ad una sorta di “autodifesa” da quella sovracrescita di militanti poco preparati e dalle poche e confuse idee che aveva finito col caratterizzare i “partiti di massa” di origine stalinista, fascista o democratica.

Era ben chiaro a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nella testa del nostro (e un po’ tutta la sua opera di quegli anni lo dimostra) il disastro storico, politico, ideologico ed umano rappresentato dallo stalinismo come vero distruttore del movimento di classe internazionale. Oggi affermare ciò può essere scontato, ma credo che fosse cosa ben diversa vivere sulla propria pelle, in diretta per così dire, e nella propria testa il fallimento rappresentato dallo stalinismo per il movimento di classe e per gli uomini che avevano legato il proprio destino a quello della rivoluzione bolscevica e ai suoi strascichi nei primi trent’anni del secolo. Sicuramente, al confronto, fascismo e nazismo avevano costituito un problema minore, una conseguenza di quel fallimento, non certo una causa.

Per tutti questi motivi Bordiga, con il suo modo di pensare, operare e interpretare il marxismo, proprio come suggerisce Pietro Basso, va inquadrato sul piano storico e, quindi, anche umano ovvero soggettivo. Bordiga uomo storico intanto e non vate, gigante, maestro di misteri o condottiero rivoluzionario. E’ accademico ricordare tutto ciò ? No, soprattutto se questo ci può aiutare a capire alcuni “svarioni” ed alcune salutari anticipazioni egualmente espresse dal suo pensiero.

A settanta e più anni, nelle riunioni sulla conoscenza e la filosofia6, riprese la polemica anti-culturalista che lo aveva già caratterizzato in gioventù e lo fece con foga e passione, perché sapeva bene che proprio i deliri della “cultura proletaria” erano stati una delle armi retoriche dello stalinismo in patria e fuori.
Così pure la freddezza della ragione così vicina al calcolo politico (padre di ogni opportunismo) e l’esaltazione positivistica e trionfalistica della scienza (madre di ogni tradimento della teoria rivoluzionaria) lo spinsero ad allontanarsi da due capisaldi del pensiero borghese otto e novecentesco che si erano inseriti come un tarlo nella teoria comunista fino a stravolgerla, in nome, appunto, di nuove fasulle conquiste (la polemica sulla corsa allo spazio era prima di tutto, ancora una volta, una polemica antistalinista) sia nel campo della conoscenza e del rapporto uomo-natura che in quello dei rapporti di classe.

Bordiga restituiva l’intuizione, la religione e l’arte alle categorie della conoscenza; recuperando così anche la possessione7 ovvero la manifestazione negli uomini, sia presi individualmente che collettivamente, di forze e potenze che li trascinano, li dominano e li soggiogano ancor prima che essi possano pienamente comprenderle.

Ad esempio il comunismo, che a sua volta è figlio di necessità storiche, di potenze materiali che agiscono sulla società e sui singoli provocando di volta in volta una metamorfosi del sociale e delle forme della conoscenza (oltre che delle forme di lotta e di organizzazione). Solo dopo un impatto violento sugli uomini e sulle classi queste forze possono essere “formalizzate”, ridotte a teoria. Motivo per cui anche in Marx si parla del demone del comunismo ed è interessante constatare come per gli antichi greci (ovvero prima dell’età classica e della sistemazione dei canoni), in Omero per esempio, la parola daímones servisse indifferentemente a parlare degli dei come dei demoni.

L’intuizione, così vicina all’istinto, deve spesso guidare il rivoluzionario anticipandone le sistemazioni teoriche che seguiranno: l’esempio degli scritti giovanili di Marx (di cui non a caso Bordiga si stava occupando al tempo delle riunioni in questione) che anticipano gli scritti della maturità potrebbero costituire un esempio di ciò. Ma anche la spontanea sollevazione o ribellione delle classi formate o in formazione (ancora non a caso vengono recuperati i luddisti nel corso delle stesse riunioni) anticipa la teoria e le teorie che spiegano e accompagnano la lotta di classe.

L’arte segue un po’ lo stesso percorso poiché l’artista esprime più di quello che lui stesso vorrebbe, sia perché il suo prodotto non è mai individuale e soggettivo, sia perché spesso tende ad anticipare ciò che già è nell’aria (in questo caso anticipare sta anche per annunciare e si può annunciare solo ciò che già è deciso ovvero che già esiste anche se la moltitudine sembra ancora non esserne a conoscenza). D’altra parte il termine avanguardia, tra ‘800 e ‘900 non si è prestato forse all’uso sia politico che artistico? Nell’accezione bordighiana dell’arte (colta sempre nel momento in cui accompagna le grandi trasformazioni della società) quest’ultima non è forse sempre precorritrice di ciò che sta per avvenire?

Infine la religione: prima forma di conoscenza “teorica” del mondo e al contempo anticipatrice delle leggi destinate a governare le prime società di classe. Manifestazione dell’umano che si dà un proprio divenire, collegandolo a cicli più grandi della stessa forma sociale che l’ha prodotta. Manifestazione essa stessa di quelle potenze, di quelle forze che l’uomo subisce e allo stesso tempo cerca di spiegare e dominare. Perché insistere, come fa Bordiga, su questo aspetto della conoscenza umana, se non per rivoltarla contro gli stessi “atei” borghesi che hanno fatto del capitale, dello sviluppo e del progresso tecnico la propria nuova e disumana religione?

La domande da porsi quindi riguardano non tanto dove, quando, come e perché comincia la deriva bordighista, ma piuttosto, come il provocatorio e nuovo discorso bordighiano abbia fallito nell’incontrare quei movimenti che da lì a pochi anni, Bordiga ancora vivente, avrebbero cominciato a porsi problemi analoghi e come, allo stesso tempo, quelle affermazioni si siano trasformate nella caricatura di sé stesse nella spesso inconcludente e settaria pratica bordighista.

Ma, come al solito nel testo bordighiano, ci sono “intuizioni” che travalicano la miseria del momento (riunioni in cui bisognava chiedere insistentemente ai compagni presenti di non allontanarsi in massa e ridurre i macigni in salsicce) e degli epigoni.
Intanto la modestia dell’uomo: ne sono prova non solo gli scherzosi richiami ai disattenti, ma, soprattutto, il diniego di fronte a quei lavori “futuri” che si ritenevano importantissimi (sulla scienza e la conoscenza, sulla società futura, etc.), ma che allo stesso tempo si ritenevano al di sopra delle proprie forze intellettuali sia individuali che collettive. Per Bordiga nulla poteva esser dato per scontato a livello di conoscenza: tutto era, almeno fino all’affermarsi di una società comunista, in divenire. E spesso non vi erano nemmeno giganti sulle cui spalle poter salire. Tutto rimaneva nella dimensione degli uomini, per grandi che questi potessero essere, poiché gli “dei” si manifestano soltanto come forze dominanti e gli eroi esistono per quanto durano i cicli rivoluzionari. La polemica sul battilocchi ne è l’esempio più concreto e saldo.

Nel vecchio Bordiga, comunque, trionfava sempre la preoccupazione anti-staliniana e così sarebbe stato destinato a fermarsi sull’orlo di una nuova fase della lotta di classe, incapace di mettere pienamente a fuoco quegli elementi di novità compresi nel ruolo dei popoli non occidentali nella ripresa della stessa e allo stesso tempo quelli non “operaistici” già presenti nel corpo principale dei testi della Sinistra. Così, mentre all’inizio del secolo un certo spontaneismo aveva permesso al gruppo dei giovani socialisti, e poi del Soviet, di emanciparsi dai dettami della socialdemocrazia legata alla Seconda Internazionale, sul finire degli anni sessanta Bordiga preferisce chiudersi all’interno di una ferrea (e dannosa quando non ridicola) disciplina di partito che finirà con lo scimmiottare il bolscevismo più deleterio di marca stalinista. Quasi come se a forza di fissare o di lottare con il mostro avesse finito con l’assorbirne le caratteristiche peggiori.

Finiva così col perdere quell’attenzione per la metamorfosi necessaria del mondo e delle forme di lotta e di organizzazione (quindi delle tattiche e delle parole d’ordine) che avevano caratterizzato la parte più viva del suo discorso.
Per i fessi e i settari rimasero gli invarianti, il dogmatismo, la ferrea “rosa delle eventualità tattiche”, i sacri testi, ma non il metodo, quello stesso che aveva permesso a Marx di riconoscere la grandezza della Comune nonostante la direzione anarchica e populista della stessa, a Lenin di superare con un gigantesco colpo d’ala i pantani della Seconda Internazionale e a Bordiga di riconoscere il carattere capitalistico della Russia Sovietica e il carattere rivoluzionario delle lotte dei popoli colorati e ancora l’importanza della religione, dell’intuizione e dell’arte ovvero della passione nei processi cognitivi umani.

Sono personalmente convinto che da quel metodo i rivoluzionari debbano continuamente ripartire, in una sorta di fatica di Sisifo cui soltanto la fine dell’odiato sistema di classe potrà metter fine. Ogni scorciatoia, ogni certezza definitiva, ogni imbecille speranza nella forza del dogma o di un partito che per ora non c’è, ci è definitivamente preclusa, mentre la lettura proposta da Basso può costituire un primo e significativo passo in direzione di questa riscoperta della parte più vivace e attuale del pensiero del vecchio comunista; tralasciando quelle incongrue polemiche in cui i suoi seguaci od ex continuano a razzolare nel tentativo di spiegarne, sminuirne o ingigantirne le responsabilità, vere o presunte, nei confronti delle sconfitte subite dalla rivoluzione8. Incapaci anche di comprendere la sostanza delle sue Lezioni delle controrivoluzioni e, forse, ancor meno quanto affermò Rosa Luxemburg, all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista di Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»9.


  1. Sull’argomento si vedano, almeno: Chiara Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999 e qui  

  2. P. Basso, Lezioni per l’oggi in Amadeo Bordiga, una presentazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2021, p. 7  

  3. Il riferimento è a Ezio Mauro e alla sua ricostruzione della nascita del Pcd’I, La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, Milano 2021 – N.d. R.  

  4. P. Basso, op. cit., pp. 5-6  

  5. ibidem, pp. 9-10  

  6. Si veda in proposito: Critica della filosofia. Cinque testi inediti di Amadeo Bordiga, «N+1», n° 15-16, giugno-settembre 2004  

  7. «Quando si parla di possessione, il primo passo falso è quello di credere che si tratti di un fenomeno estremo, esotico e comunque torbido.[…] Per i Greci, la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano.[…] Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei – questa mirabile costruzione che solo l’ingenuità dei moderni ha potuto giudicare rudimentale -, è attraversata da un capo all’altro dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo.[…] E ogni metamorfosi era [è] un’acquisizione di conoscenza. Certo, non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo.» in Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, 2005, pp.26 –28  

  8. Un po’ come se oggi si continuasse a discutere del fatto che nel 1917, poco prima dell’esplodere della rivoluzione russa, Lenin, all’epoca in esilio, si soffermasse di più sul Partito socialdemocratico svedese e le sue vicende piuttosto che su quanto stava per avvenire in Russia. Si veda la lettera di Lenin ad Alessandra Kollontaj del 5 marzo 1917 cit. in Michael Voslensky, Nomenklatura. La classe dominante in Unione Sovietica, Longanesi & C., Milano 1980, p. 94  

  9. Rosa Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi , Torino 1975, p.680  

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Un autentico capolavoro del ‘900 https://www.carmillaonline.com/2020/01/15/un-autentico-capolavoro-del-900/ Wed, 15 Jan 2020 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57294 di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue [...]]]> di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue opere maggiori: Manhattan Transfer (1925) e la trilogia americana, ora riproposta integralmente da Mondadori in un unico volume, formata dai tre romanzi Il 42° parallelo (1930), Millenovecentodiciannove (1932) e Un mucchio di quattrini (1936).

Nato casualmente in un albergo di Chicago, come figlio illegittimo, dal rapporto tra John Randolph, avvocato di successo di origine portoghese, e Lucy Madison, figlia di una ricca famiglia del Maryland; segnato dalla partecipazione, come volontario, al primo conflitto mondiale, da cui trasse l’ispirazione per il suo primo romanzo Iniziazione di un uomo (1917), scritto a caldo immediatamente dopo il rientro in patria, e il successivo Tre Soldati (1921) che rimane, insieme ad Addio alle armi (1929) di Hemingway e Fuoco! (1933) di William March, una delle testimonianze più importanti della letteratura nordamericana sui traumi e le sofferenze causate dal primo macello interimperialista, Dos Passos si andò radicalizzando sempre più avvicinandosi al Partito Comunista statunitense.

Sono di questo periodo più radicale, sia dal punto di vista politico e che letterario, le sue opere maggiori e il suo appassionato libello dedicato alle vicende destinate a portare nel 1927 alla sedia elettrica i militanti anarchici di origine italiana Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: Davanti alla sedia elettrica (Facing The Chair. Story of the Americanization of Two Foreign Workers, 1927).
Ed è proprio delle diverse forme dell’americanizzazione ovvero della formazione della società americana a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, e dei destini singoli e collettivi che ne conseguono che si occupa la trama, strutturalmente complessa, della Trilogia USA.

Storie di donne e di uomini, di illusioni e delusioni, di vittorie parziali e sconfitte totali, che vedono coinvolti personaggi tratti sia dalla fantasia che dalla realtà storica contemporanea dell’autore, da John Reed a Henry Ford. Storie che si incrociano in tempi diversi nei tre romanzi oppure che corrono su binari lontani senza mai incontrarsi, ma tutte destinate a dare un ritratto veritiero e profondo, soprattutto sul piano psicologico e dell’immaginario, di quel melting pot culturale e di classe da cui sarebbe nata l’immagine moderna degli Stati Uniti e dell’American Way of Life.

Un ritratto spietato, a tratti disperato, che non lascia spazio a molte speranze, anche se soprattutto nel terzo ed ultimo romanzo della trilogia si affaccia qualche bagliore di luce alla fine del tunnel.
Ma è la scelta stilistica a colpire, ancor prima della trama, o delle trame: un montaggio narrativo ispirato sia alle avanguardie europee dei primi anni venti, che Dos Passos aveva frequentato più o meno direttamente, attraverso la frequentazione dell’abitazione di Gertrude Stein, durante il suo soggiorno parigino di quegli anni, e al montaggio cinematografico ideato dal regista sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che l’autore avrebbe conosciuto frequentando la libreria “Shakespeare & Company” di Sylvia Beach situata sulla Rive gauche parigina.
Proprio nella stessa libreria l’autore americano aveva acquistato l’Ulysses di James Joyce che lo avrebbe ispirato per la struttura espositiva sia di Manhattan Transfer che dei tre successivi romanzi.

Tra i fondatori della rivista culturale di estrema sinistra “The New Masses”, Dos Passos entrò presto in conflitto con la progressiva stalinizzazione della sinistra americana e proprio a partire dalla guerra civile spagnola1, durante la quale lo stalinismo fece eliminare il suo traduttore e amico spagnolo José Robles Pazos2 , inizio ad allontanarsi dalla Sinistra tout court e avvicinandosi, nel corso dei decenni successivi a posizioni sempre più conservatrici.

Cessava in questo modo la fase più importante e creativa dello scrittore statunitense che, proprio per i motivi appena addotti, iniziò a subire quasi da subito gli attacchi di Ernest Hemingway e di certa critica leftist con l’intento, poi riuscito, di cancellarlo o quasi dalla storia della letteratura americana.
Atteggiamento certamente stupido e ideologicamente sovradeterminato che riuscì per parecchi anni a rimuovere l’importanza dello scrittore dal panorama letterario. Simile a quello usato, ma per motivi formalmente più fondati, nel secondo dopoguerra nei confronti di un altro gigante della letteratura mondiale: Louis-Ferdinand Céline.

I romanzi della trilogia furono publicati per la prima volta in Italia nella collana “I grandi narratori di ogni paese” della mondadoriana Medusa nel 1936 (The Forthy Second Parallel, nella traduzione di Cesare Pavese), nel 1938 (The Big Money sempre nella traduzione di Pavese) e nel 1951 ( Nineteen-Nineteen nella traduzione di Glauco Cambon), mentre per molti anni è rimasto disponibile nelle librerie, prima di scomparire per un lungo periodo di tempo, soltanto Il 42° parallelo.

Sinceramente, dopo aver conservato per anni i tre testi nelle edizioni original, non avrei mai creduto di vederli ricomparire tutti insieme in una così bella e curata edizione, in cui l’Introduzione di Cinzia Scarpino e la Nota alla traduzione di Sara Sullam rendono giustizia sia alla grandezza della scrittura di Dos Passos che all’importanza dell’opera di Cesare Pavese in quanto traduttore e rinnovatore della soffocante cultura letteraria italiana della sua epoca. Per tutti questi motivi c’è da essere veramente grati alla collana “Oscar moderni – Baobab” di Mondadori per la riscoperta e riproposizione di un autentico classico della letteratura moderna.

Proprio Cesare Pavese ebbe a dire:

La poesia di Dos Passos sta in questo modo asciutto di percepire e rendere le cose. «Joe non riuscì a guardare il film»; e questo è il punto più introspettivo di una narrazione tutta fatti esterni, inesauribilmente e nitidamente esposti, con un distacco che è giudizio morale. Attraverso questo suo orrore di tracciar svolazzi psicologici in una vita dove basta guardare e accumulare le mille parvenze per giudicare, Dos Passos si è fatto uno stile, nella sua umile oggettività ricchissimo di sfumature: sono mezzi gesti, mezze parole, oppure colori odori suoni, pieni di significato, gioiosi nella loro energia espressiva; una novità nella poesia americana, se non si risalga fino a certe pagine d’impressioni, ai jottings (appunti) disseminati nelle prose e versi di quell’altro enfant terrible di questa cultura, che è Walt Whitman.3

Una scrittura cinematografica come poche altre, dove lo scavo psicologico non si trasforma in dozzinale psicologismo, ma in cui sono gli atti, ancor prima delle parole o dei pensieri, a rendere visibile il carattere e l’etica dei personaggi. Una scrittura cinematografica che proprio nei sintetici Cine-giornali, distribuiti lungo tutto l’arco dei romanzi e realizzati con un autentica ed efficacissima tecnica di cut up di notizie e titoli di giornali, riesce a dare al lettore l’idea e la ricostruzione di un’intera epoca.

Un capolavoro del ‘900, non solo americano, che tutti gli amanti della grande letteratura dovrebbero leggere oppure riscoprire.


  1. Dos Passos dedicò alla stessa, alla rivoluzione messicana e a quella bolscevica una serie di scritti contenuti poi in J.Dos Passos, Introduzione alla guerra civile (Journeys Between Wars), pubblicato in Italia nel 1947 nella collana “Arianna” ancora una volta dalla casa editrice Mondadori  

  2. Si veda in proposito Ignacio Martínez De Pisón, Morte di un traduttore, Ugo Guanda Editore, Parma 2006  

  3. C. Pavese, John Dos Passos e il romanzo americano, saggio pubblicato su “La Cultura”, gennaio-marzo 1933, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, quinta edizione 1962, pag. 120  

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Guerra alla guerra https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/ Wed, 19 Nov 2014 23:01:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18852 di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di [...]]]> di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di distanza dalla prima grande strage del XX secolo. Infatti, soltanto due settimane fa le massime autorità dello stato celebravano la giornata delle forze armate e della “vittoria” nella prima carneficina mondiale, con parole inneggianti all’uso dell’esercito anche nei confronti del pericolo interno costituito dall’antagonismo sociale.

Pochi giorni prima il solerte TG News 24 non si era lasciato sfuggire l’occasione di tornare a celebrare i fasti di Enrico Toti, che già aveva segnato d’orrore i libri di testo di storia della mia infanzia e gioventù con l’immagine del mutilato che si immolava davanti alle trincee nemiche lanciando verso di esse le proprie stampelle. Eppure da decenni la storiografia e l’opposizione di classe hanno dimostrato la falsità di quel discorso e della narrazione, sostanzialmente fascista, che ne era derivata negli anni successivi al conflitto.

Ben venga quindi la pubblicazione del testo di Marco Rossi, ad opera della solita meritoria Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che rispolvera ed illumina la feroce e determinata opposizione che si sviluppò nei confronti della Prima guerra mondiale sia tra la popolazione civile che tra i militari impegnati al fronte, in Italia e nel resto d’Europa e del mondo. Opposizione che, occorre dirlo fin da subito, fu la causa principale della fine del conflitto quando giunse a creare le basi per un possibile rivolgimento sociale, basato sul modello russo dei consigli degli operai, dei soldati e dei marinai, nella stessa Germania imperiale.

Pochi ricordano, infatti, come due soli siano stati i conflitti internazionali terminati, nel corso del XX secolo, sia per le difficoltà militari che per i pericoli di una rivolta sociale incontenibile negli eserciti e all’interno di uno o più dei paesi belligeranti: il primo conflitto mondiale1 e la guerra del Viet Nam.

A dimostrazione però che tale opposizione non fu soltanto di carattere pacifista ma, soprattutto nel primo caso, di carattere politico e rivoluzionario con il rivolgimento delle armi verso i comandi militari e i profittatori di guerra e il capitale, il libro di Rossi ripercorre l’opposizione alla guerra e l’ antimilitarismo di stampo anarchico, socialista, comunista e popolare fin dai tempi della guerra di Libia del 1911 e degli anni successivi.

Marco Rossi è da tempo impegnato nella ricerca riguardante le vicende dei movimenti e dei conflitti di classe prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, con particolare attenzione ai fenomeni di resistenza armata allo Stato e al primo fascismo che accompagnarono gli anni compresi tra il 1919 e il 1922. Suoi sono infatti due testi importanti sulla storia degli arditi del popolo, pubblicati sempre dalle edizioni BFS.2

Quello che nel presente testo salta subito agli occhi è la diffusione, a livello sociale, di un’opposizione durissima al militarismo e alla guerra nei primi anni del secolo. Opposizione che affondava le sue radici nel ricordo del disastro di Adua e dei lunghi periodi di leva obbligatoria contro cui erano già insorte le plebi meridionali nel decennio successivo all’unificazione del Regno d’Italia. Opposizione cui lo stato, dai governi della Destra storica a Bava Beccaris fino a Giolitti, aveva saputo rispondere soltanto con la repressione, le cannonate, le compagnie di disciplina e il carcere militare.

L’odio per il militarismo e la guerra si erano per tanto incistati nella maggioranza degli Italiani appartenenti alle classi sociali meno agiate, fomentando un odio per gli ufficiali, i borghesi, i governanti ed il Re che ancora difficilmente i libri di storia riescono, o vogliono, rendere.
Alla vigilia dell’intervento, i rapporti concordanti dei prefetti, da nord a sud, riferivano dell’estensione di questo stato d’animo; tra essi, merita d’essere citato quello del prefetto di Teramo riguardante quella parte prevalente della popolazione locale, composta di lavoratori della terra e pastori, che concepiva «la guerra non altrimenti che un malanno a somiglianza della siccità, della carestia, della peste»” (pag.40)

Fu proprio a livello popolare che tale opposizione alla guerra si manifestò fin dalla guerra italo-turca del 1911-12 e contro le misure disciplinari che erano state prese contro i soldati insubordinati che erano giunti, talvolta, a sparare sui propri ufficiali superiori. Tanto che, proprio le proteste contro le Compagnie disciplinari e i tribunali militari, furono anche alla base dello scoppio del movimento insurrezionale della Settimana rossa del 1914 che dilagò rapidamente dalle Marche alla Romagna fino ai più importanti centri urbani (Roma, Milano, Torino ed altri).

Mentre il mondo della cultura ( da Verga alla Serao e da Capuana a Pascoli) si era dimostrato favorevole all’interventismo in Libia e, allo stesso tempo, frange consistenti del sindacalismo rivoluzionario e del Socialismo italiano avevano potuto credere in un conflitto che servisse a raddrizzare i torti tra nazioni imperialiste e “proletarie”, le condizioni effettive del conflitto e la memoria storica del proletariato avevano contribuito a rigettare la guerra, facilitando la propaganda di coloro che le si erano opposti fin dall’inizio (la Federazione giovanile socialista guidata da Amadeo Bordiga e alcuni gruppi anarchici).

Fu proprio questo anti-militarismo di massa a preoccupare i governanti e gli apparati repressivi dello Stato che, spesso, fecero ricadere la responsabilità del rifiuto della guerra esclusivamente sulle spalle della propaganda dei giovani socialisti e degli anarchici, mentre il numero delle rivolte e delle sommosse sociali e militari che ebbero luogo, soprattutto durante la prima carneficina imperialista, dimostrano che fu il diffondersi della rivolta sociale e militare a favorire la propaganda sovversiva piuttosto che il contrario.

Ciò che valeva per l’Italia valse anche a livello internazionale, tanto da far pensare che le due, seppur importanti, conferenze di Kiental e di Zimmerwald in cui si erano incontrati i socialisti europei contrari alla guerra imperialista non avrebbero potuto avere successivamente lo stesso peso politico se i soldati non avessero spontaneamente abbandonato le trincee nel 1917, dal fronte orientale a Caporetto. A dimostrazione del fatto che le rivoluzioni non si “fanno” ma, tutto al più, si dirigono…se ci sono gli uomini e le donne oppure le organizzazioni politiche in grado di farlo.

Ciò che viene posto in risalto dal testo di Rossi è che in Italia non occorse giungere al fatidico 1917 per mettere in atto, da parte proletaria, quelle che furono le azioni che avrebbero poi caratterizzato la rivoluzione russa.
Il 23 maggio 1915, il giorno antecedente l’entrata nel conflitto dello Stato italiano, il governo emenava il Regio decreto n. 674/1915 dando incarico «ai prefetti di vietare le riunioni pubbliche e gli assembramenti in un luogo pubblico», presumibilmente allarmato dai gravi disordini avvenuti a Torino il 17 maggio, a seguito dello sciopero generale contro la guerra, quando migliaia di dimostranti si erano scontrati per 48 ore con le forze dell’ordine” (pag. 61)

Ma se le rivolte e le proteste, sia al fronte che nella società, aumentarono anno dopo anno fino all’esplosione del 1917, molte altre furono anche le forme di lotta e resistenza individuale alla guerra soprattutto sotto forma di autolesionismo (tra i militari di linea) e diserzione (tra coloro che venivano chiamati alle armi oppure che già si trovavano al fronte). In ogni caso la risposta da parte dello stato fu sempre durissima e i tribunali militari comminarono pene severissime che andavano dai numerosi anni di galera alla fucilazione.

Sia sotto Cadorna che sotto Diaz (entrambi capi di stato maggiore) lo Stato italiano raggiunse così il triste primato di essere stato quello ad aver comminato il maggior numero di condanne a morte durante il conflitto,3 senza contare le numerosissime esecuzioni “sul posto” di militari ed ufficiali, che si rifiutavano di eseguire ordini suicidi, messe in atto da altri ufficiali e dai carabinieri. Questi ultimi odiatissimi poiché svolgevano la funzione di polizia militare4 e di spie infiltrate nei reparti per individuare i possibili sovversivi e sobillatori.

In tutte le occasioni di rivolta, sia per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, sia per proteggere i disertori e i renitenti alla leva, sia in quelle contro “la guerra” tout court, le donne furono sempre molto attive e in primo piano. Cosa spesso non compresa , se non addirittura osteggiata, dagli stessi dirigenti del Partito Socialista che, come Turati, vedevano in questo un “intrigo della chiesa”. E basterebbe forse questa sola cecità a dimostrare la distanza che si era ormai creata tra il Partito Socialista e le masse che avrebbe dovuto saper rappresentare e dirigere.

Gli operai scoprivano di essere militarizzati e spesso erano sottoposti essi stessi al regime giuridico militare mentre i soldati scoprivano, a loro volta, di non essere altro che operai delle trincee sacrificabili ai ferrei ingranaggi del macello imperialista e delle leggi del capitale e della finanza.
Tutto era diventato più chiaro nella coscienza popolare, come Rossi ci dimostra in pagine dense di fatti e ricche di avvenimenti.

Ma a differenza della frazione bolscevica del Partito Socialdemocratico Operaio Russo, nessuna frazione politica riuscì ad imporsi, sia all’interno che all’esterno del PSI, con parole d’ordine decisive e semplici come la “fine della guerra ad ogni costo”. E il successivo biennio rosso avrebbe costituito soltanto un pallido tentativo di realizzare ciò che, con altro spirito ed altra determinazione, avrebbe potuto essere colto durante il conflitto, così che anche la creazione del PCd’I (come lo stesso Bordiga aveva ben chiaro) giunse ormai in ritardo.

Un ultimo pregio del testo è dato dalla riscoperta di un Giacomo Matteotti finalmente liberato dal martiriologio e restituito in tutta la sua combattività di militante socialista: “Nella componente riformista, l’unica eccezione fu quella rappresentata dal deputato polesano Giacomo Matteotti che, dopo aver avversato la guerra di Libia, dal 1914 al maggio del ’15 si espresse decisamente contro l’attendismo turatiano (“mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in guera contro l’Austria. Ma tira il vento di piccole viltà anche nel mio partito“) assumendo accenti, radicalmente antimilitaristi, che rivelano un Matteotti favorevole al ricorso alla violenza, assai diverso dall’icona che poi è stata accreditata da certa storiografia” (pag.66)

Sono, pertanto, pagine da leggere e meditare quelle del bel libro di Rossi e non soltanto per la storia passata.


  1. Si veda a questo proposito la recente pubblicazione di una conferenza tenuta ad Oxford nel 1929 dallo storico francese Elie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, Dellaporta Editori, Pisa-Cagliari 2014, pp.120, € 9,00 (Evidentemente la coscienza liberale dell’epoca ricordava ancora bene sia i motivi del successo della Rivoluzione bolscevica sia il pericolo che le potenze belligeranti avevano corso, tutte, sul finire del conflitto)  

  2. Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! Dall’arditismo di guerra agli arditi del popolo, BFS 1997 e 2011 e, ancora, Livorno ribelle e sovversiva, BFS 2013  

  3. Il numero esatto dei morti per diserzione nella Grande Guerra non è conosciuto. Sulla base della documentazione disponibile, l’Italia detiene il primo posto: su 4 milioni e 200 mila soldati al fronte, ne furono “giustiziati” circa 1000. Fra questi, anche i cosiddetti “decimati”, soldati estratti a sorte da reparti ritenuti “vigliacchi” e passati per le armi “per dare l’esempio”. L’esercito francese che iniziò la guerra un anno prima, nel 1914, ebbe al fronte 6 milioni di soldati, 700 i fucilati. Nell’esercito inglese furono 350, in quello tedesco una cinquantina.
    Un po’ di chiarezza sulle dimensioni e le ragioni della diserzione viene dal saggio del 2001 I disobbedienti nell’esercito italiano durante la Grande Guerra di Bruna Bianchi, docente all’Università Cà Foscari di Venezia e grande studiosa del primo conflitto modiale (reperibile sul sito della Fondazione Basso, ndr). Il reato di diserzione, scrive Bianchi, fu la forma di disobbedienza più diffusa durante il conflitto, con un “aumento progressivo del reato ben esemplificato dal numero delle condanne: da 10.272 nel primo anno di guerra si passò a 27.817 nel secondo e a 55.034 nel terzo”. Per arginare il fenomeno, si estese progressivamente la possibilità di comminare la pena di morte, fino a prevedere anche ritorsioni nei confronti dei famigliari, come la confisca dei beni e la privazione del sussidio per effetto della sola denuncia
    “, tratto da Paolo Gallori, Grande Guerra, l’Ordinario militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, La Repubblica, 6 novembre 2014  

  4. Come ricorda bene anche Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi, proprio nelle pagine dedicate al crollo di Caporetto  

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