rigassificatori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Indipendenza energetica ed altre panzane/3 https://www.carmillaonline.com/2022/09/12/indipendenza-energetica-ed-altre-panzane-3/ Mon, 12 Sep 2022 06:10:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74004 di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti. Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento [...]]]> di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti.
Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento nel mondo e (…) ci dà delle carte migliori per perseguire e per raggiungere i nostri obiettivi di sicurezza internazionale”.1

Il primo paese a fare le spese della rinnovata produzione energetica statunitense e dei suoi corollari in termini di “sicurezza internazionale” fu l’Iran.
Fino al 2011 le sanzioni delle amministrazioni USA contro Teheran, imposte formalmente per fermare lo sviluppo del nucleare iraniano, si erano concentrate principalmente sul settore nucleare e militare.
Nel 1995 l’amministrazione Clinton aveva vietato alle società americane ogni transazione che riguardasse il petrolio iraniano, ma è con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca e di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato che si venne a determinare un salto di qualità, spostando l’asse principale delle misure punitive sugli idrocarburi e sulle banche (in particolare quelle utilizzate per i pagamenti delle esportazioni petrolifere iraniane), ed estendendo le sanzioni contro l’Iran a tutto il mondo.

Un salto di qualità che sarebbe stato più difficile se gli USA non avessero potuto contare su una produzione interna di gas e petrolio di scisto, tale da ammortizzare gli effetti di una contrazione dell’offerta sui mercati internazionali.
Nel dicembre 2011 gli Stati Uniti imposero l’embargo internazionale sulle esportazioni di greggio iraniano2, seguiti pedissequamente dagli europei che decretarono un mese dopo il blocco totale dell’import di petrolio e gas da Teheran3.
L’embargo venne assicurato anche grazie alle sanzioni secondarie, quelle che colpiscono i soggetti non statunitensi che intrattengono relazioni economiche e commerciali con il paese bersaglio, e che possono venir puniti con l’imposizione di multe pesanti o con l’esclusione dal mercato degli USA4.
E’ in questo modo, infatti, che gli Stati Uniti declinano il concetto di “indipendenza energetica” applicabile al resto del mondo.

Le esportazioni di petrolio iraniano in due anni vennero dimezzate a causa delle sanzioni, con conseguenze sulla popolazione del paese colpito, sul prezzo internazionale del petrolio e sulle economie importatrici5. Conseguenze che in parte toccarono anche agli Stati Uniti, dove l’aumento della produzione ancora non riusciva a soddisfare completamente il consumo interno.
Ma ormai questa forma di aggressione era stata sdoganata, e andava solamente messa a punto dalle amministrazioni successive, che dimostrarono in maniera bipartisan una straordinaria continuità in merito allo sviluppo della produzione interna di idrocarburi ed al suo uso come “energy weapon”.

Donald Trump spinse ulteriormente avanti le trivelle, abrogando normative di protezione ambientale e tutelando il fracking a colpi di ordini esecutivi6. Sotto la sua amministrazione gli USA diventarono esportatori netti di idrocarburi, superando l’Arabia Saudita sui mercati internazionali del petrolio7
Nel 2018 Trump scatenò contro l’Iran la politica della “massima pressione”, una nuova campagna punitiva che fece seguito al ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano, rendendo esplicito come il vero obiettivo di Washington non fosse la minaccia nucleare ma la caduta del regime degli ayatollah8.
Le nuove sanzioni petrolifere, ancora più pesanti delle vecchie, contribuirono a un’altra impennata del prezzo del petrolio di cui però, questa volta, gli Stati Uniti poterono avvantaggiarsi, grazie alla loro nuova condizione di esportatori netti9.
Gli USA scoprivano di poter guadagnare dalla guerra dell’energia, ed è per questo che da allora la prospettiva di scatenarla non gli fa più paura.

Rileggendone la storia a distanza di qualche anno, le sanzioni contro l’Iran assumono le forme di una prova generale, di una sperimentazione, da parte degli Stati Uniti, di nuove inedite potenzialità offensive.
Una prova generale che prelude all’uso dell’arma dell’energia nel contesto di un livello più alto dello scontro, che oggi vediamo dispiegarsi.

Uno dei vari elementi di continuità che unisce trasversalmente le amministrazioni USA, repubblicane o democratiche che siano, è la tensione a dare profittevole sbocco sui mercati internazionali alla produzione degli Stati Uniti di gas naturale.
Abbiamo già visto come Donald Trump abbia sfoderato tutte le sue innate capacità di persuasione affinché gli europei scegliessero volontariamente e liberamente fra l’alternativa di subire i suoi dazi e quella di comprare il suo gas naturale liquefatto (GNL).
Ma per creare un mercato del gas naturale liquefatto  non basta la “persuasione”: ci vogliono, fra l’altro, infrastrutture e  i capitali per costruirle. E i capitali si muovono in base a prospettive di profitto che non sempre il contesto garantisce.

Durante l’amministrazione Trump si sono moltiplicate le richieste di autorizzazione per la costruzione di nuovi terminal per l’export del GNL.
Fra queste, ventuno – ereditate da Biden – riguardano progetti ancora fermi, non solo perché in attesa della fine della procedura autorizzativa, ma perché in attesa di finanziatori10.
La scarsa propensione ad investire su questi impianti veniva motivata citando la volatilità del mercato del GNL (che mette in forse la remunerazione del capitale investito sul lungo termine); gli accordi internazionali sul clima; l’opposizione delle comunità locali; le forti oscillazioni dei prezzi sui mercati spot, capaci di vertiginosi crolli durante la pandemia e vertiginosi aumenti con la ripresa.
O almeno, queste erano le problematiche prima della guerra in Ucraina.

Per gli stessi motivi nella vecchia Europa erano in forse diversi progetti per la costruzione di terminal per la ricezione del GNL.
Per esempio, nel settembre 2021, il progetto del Rostock LNG Terminal era stato annullato per “condizioni di mercato sfavorevoli”11
Nel novembre 2020, una società commerciale tedesca, citando la mancanza di interesse da parte degli acquirenti, aveva annunciato che stava rivalutando i suoi piani per costruire un nuovo terminal di importazione di GNL a Wilhelmshaven12.
Nel gennaio 2022 i tre terminali di importazione di GNL proposti dalla Germania, finalizzati alla ricezione del gas di scisto degli Stati Uniti, si trovavano ad affrontare ritardi a causa delle forti oscillazioni dei prezzi e, in generale, della continua incertezza sul futuro dei combustibili fossili13.
Non che il mercato internazionale del GNL fosse in crisi, ma la ripresa asiatica attirava le metaniere da quella parte del mondo, con una tendenza che le previsioni davano di lungo periodo.

Dalla fine di febbraio la costruzione di questi impianti in Europa è tornata all’ordine del giorno.
RePower EU, il piano della Commissione europea per eliminare le importazioni di idrocarburi dalla Federazione Russa, ha aggiunto nuovi terminal GNL ai Progetti di priorità europea.
La Germania ha appena programmato l’ormeggio di sei rigassificatori galleggianti14, che si aggiungono ai progetti per due Floating Storage and Regasification Units (FSRU) greche, per il Paldiski FSRU Terminal in Estonia, e per due rigassificatori olandesi (Gate LNG Terminal e Eemshaven FSRU). In Irlanda il terminal GNL di Shannon è in costruzione, mentre in Polonia viene allargato quello di Świnoujście. In Italia incombono nove progetti di cui le FSRU di Piombino e Ravenna sembrerebbero i più imminenti.

Ci è voluta la guerra per sollevare le sorti del GNL americano in Europa, e per spazzare via dal tavolo ogni obiezione sulla pericolosità dei rigassificatori, sull’inquinamento che generano, sulla follia di continuare a costruire nuove dipendenze da combustibili fossili nonostante la crisi climatica.
Sulla follia di continuare a costruire, in particolare, nuove infrastrutture del metano, ben sapendo che:

Il metano è  un potente gas serra. In un periodo di 20 anni è 80 volte più potente dell’anidride carbonica in termini di riscaldamento globale.
Il metano ha rappresentato circa il 30 per cento del riscaldamento globale dall’epoca preindustriale e sta proliferando più velocemente che in qualsiasi altro momento dall’inizio della registrazione negli anni ’80. Infatti, secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti, anche se le emissioni di anidride carbonica sono diminuite durante i blocchi legati alla pandemia del 2020, il metano atmosferico è aumentato vertiginosamente.
L’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C non può essere raggiunto senza ridurre le emissioni di metano del 40-45% entro il 2030. Una riduzione di questa entità eviterebbe quasi 0,3°C del riscaldamento entro il 2045 e integrerebbe gli sforzi di mitigazione del cambiamento climatico a lungo termine
15

Questa dichiarazione del United Nations Environment Programme si riferisce al metano incombusto, che ha fra le sue varie fonti le emissioni dei processi di estrazione, trasformazione, trasporto e distribuzione del gas naturale.
Quegli stessi processi su cui si è deciso di investire, anche grazie alla decisione della Commissione Europea di inserire il gas naturale (assieme al nucleare !) nella tassonomia degli investimenti “sostenibili”, “come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle energie rinnovabili”. 
Una evidente fake, funzionale a convogliare sulle infrastrutture del gas (GNL compreso) fiumi di denaro pubblico e privato. (Continua)

Immagini:

DSC_1203.jpg, di Paulann_Egelhoff . Licenza: CC BY-ND 2.0.
President Trump Visits Cameron LNG Export Terminal. Fonte: The White House. Foto di pubblico dominio.
Mappa europea delle infrastrutture per il gas – Progetti di priorità europea e progetti aggiuntivi identificati attraverso REPowerEU. Fonte: Commissione Europea
Molecola di metano. Fonte UNEP.


  1. In: Michael Klare, Washington, game master Le Monde Diplomatique, giugno 2022, p.11. 

  2. Con poche eccezioni. Venne permesso solo a Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Turchia di acquistare petrolio iraniano a un livello fisso. 

  3. Harvard Kennedy School, Belfer Center for Science and International Affairs, Sanctions Against Iran: A Guide to Targets, Terms, and Timetable, 2015, pp.60. 

  4. Marco Valsania, Sanzioni Usa a chi compra dall’Iran, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2012. 

  5. Il petrolio supera i 100 dollari al barile. Greggio alle stelle per le tensionicon l’Iran nel Golfo Persico, La Stampa, 03 Gennaio 2012. 

  6. Nadja Popovich, Livia Albeck-Ripka, Kendra Pierre-Louis, The Trump Administration Rolled Back More Than 100 Environmental Rules. Here’s the Full List, The New York Times, 20 gennaio 2021. Trump ha firmato un ordine esecutivo per tutelare il fracking in Pennsylvania, AGI, 31/10/20. 

  7. Riccardo Barlaam, Gli Usa di Trump superano i sauditi: primi al mondo per l’export di petrolio, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2019. 

  8. Pompeo outlines ‘maximum pressure’ plan for Iran, Al Monitor, 21 maggio 2018. Annalisa Perteghella, Iran: tornano in vigore le prime sanzioni USA, Ispionline, 05 Agosto 2018 

  9. Gli impatti del barile in rialzo per le sanzioni Usa all’Iran, Quale Energia, 24 aprile 2019. 

  10. Global Energy Monitor, Gas Run Aground, marzo 2022, pp.35. 

  11. Global Energy Monitor, Europe Gas Tracker Report 2022, aprile 2022, pp.23. 

  12. Uniper to Reconsider Plans for LNG Terminal in Germany, Hydrocarbons Technology, November 9, 2020. 

  13. Vanessa Dezem and Anna Shiryaevskaya, German Natural Gas Import Terminal Delayed by Market Volatility, BNN Bloomberg, January 13, 2022. 

  14. Germania, arriva il sesto rigassificatore, Focus Energia, 2 settembre 2022. 

  15. Da: United Nations Environment Programme

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Indipendenza energetica ed altre panzane https://www.carmillaonline.com/2022/08/09/indipendenza-energetica-ed-altre-panzane/ Tue, 09 Aug 2022 05:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73403 di Alexik

Le coste del Bel Paese stanno per circondarsi di nuovi rigassificatori, che si aggiungeranno a quelli già esistenti a Panigaglia, Livorno e Porto Viro. Nuovi progetti infrastrutturali per la ricezione del Gas Naturale Liquefatto (GNL) incombono sui territori terrestri e marini di Piombino, Ravenna, Porto Empedocle, Porto Vesme, Porto Torres, Oristano, Brindisi, Falconara e Gioia Tauro. Un coro di governanti o aspiranti tali, di industriali e pennivendoli esorta queste nuove “zone di sacrificio” dell’economia fossile ad immolarsi con gioia in nome della sicurezza nazionale e dell’indipendenza energetica della [...]]]> di Alexik

Le coste del Bel Paese stanno per circondarsi di nuovi rigassificatori, che si aggiungeranno a quelli già esistenti a Panigaglia, Livorno e Porto Viro.
Nuovi progetti infrastrutturali per la ricezione del Gas Naturale Liquefatto (GNL) incombono sui territori terrestri e marini di Piombino, Ravenna, Porto Empedocle, Porto Vesme, Porto Torres, Oristano, Brindisi, Falconara e Gioia Tauro.
Un coro di governanti o aspiranti tali, di industriali e pennivendoli esorta queste nuove “zone di sacrificio” dell’economia fossile ad immolarsi con gioia in nome della sicurezza nazionale e dell’indipendenza energetica della patria.

Oh, l’indipendenza energetica !!!
Al solo nominarla il cuore trepida di fiero orgoglio!
Del resto, mai nella storia della Repubblica le nostre politiche energetiche si sono dimostrate così indipendenti, così libere da ogni condizionamento, così immuni da ogni pressione come in questi ultimi mesi. Talmente libere che sembra di essere tornati ai tempi della “caduta accidentale” dell’aereo di Enrico Mattei (con la differenza che oggi di Mattei nessuno aspira ad emulare la statura, forse per evitare spiacevoli infortuni).

La proliferazione di nuovi impianti per la ricezione del GNL interessa non solo le coste italiane ma quelle dell’intera Unione Europea, ed è un processo in atto da alcuni anni sotto la spinta di due dinamiche simultanee, interconnesse e convergenti.
La prima – promossa dai vertici dell’Unione Europea – è la dinamica di costruzione di un “mercato europeo del gas” in chiave neoliberista.
La seconda è figlia delle strategie adottate dagli U.S.A. per frenare il declino della propria egemonia.
Ci soffermeremo su entrambi gli aspetti, prima di approfondire gli impatti climatici, ambientali, sulla salute e sulla sicurezza che il ciclo del GNL comporta.

Neoliberismo energetico

La creazione di un mercato europeo dell’energia e di un mercato europeo del gas nel segno della libera concorrenza affonda le sue radici negli anni ’90 del secolo scorso, nel contesto del processo di liberalizzazione dei mercati energetici che ha rappresentato il naturale proseguo della distruzione dei monopoli pubblici dell’energia, imposta dal Trattato di Maastricht1.
E’ con il nuovo millennio che si assiste però ad una accelerazione.
Nel 2007 la Commissione Europea delinea nel documento “An energy policy for Europe2 la strategia per la costruzione di un effettivo Mercato Interno dell’Energia. Negli anni successivi ne seguiranno altri3, tutti imperniati sugli stessi assiomi:

– L’assioma che identifica la competitività del mercato come strada maestra per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e la sostenibilità climatica.
– L’assioma secondo cui la sicurezza degli approvvigionamenti energetici verrebbe assicurata tramite la proliferazione di nuovi impianti, reti, hub, creati dagli operatori sotto la spinta del profitto. Profitto che gli Stati non devono permettersi di moderare tramite tariffe regolamentate dell’energia, perché tale intervento costituirebbe un freno agli investimenti in nuove infrastrutture (sarà in nome di questo assioma se ancor oggi i vertici europei evitano accuratamente di porre un tetto al prezzo del gas ?).
– L’assioma secondo cui un mercato del gas concorrenziale contribuirebbe a mantenere basso il prezzo delle importazioni.
– L’assioma che attribuisce la volatilità dei prezzi dell’energia e le tendenze al rialzo alla “progressiva concentrazione delle riserve di idrocarburi in poche mani”,  e che identifica la soluzione nella diversificazione delle forniture, da ottenere attraverso la creazione di nuovi hub del gas, nuovi gasdotti, nuovi stoccaggi e nuovi terminali di gas naturale liquefatto.

La proliferazione di nuovi terminal per il GNL viene definita strategica per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento “fondamentale sia per la sicurezza energetica che per la competitività4.
E di conseguenza, le infrastrutture per il gas naturale liquefatto da allora proliferano: dal 2013 ad oggi l’Unione Europea ha finanziato, sostenuto, o inserito nei Progetti di Interesse Comune la costruzione di nuovi terminal  in Italia (FSRU OLT Oshore LNG Toscana), Lituania (FSRU Independence), Francia (Dunkerque LNG Terminal), Polonia (Swinoujscie LNG Terminal), Malta (Delimara LNG terminal), Grecia (Revithoussa LNG Terminal, Alexandroupolis LNG Terminal), Croazia (Krk LNG terminal), Spagna (LNG terminal a Tenerife e Gran Canaria), Cipro (Cyprus LNG terminal), Svezia (Gothenburg LNG terminal), Irlanda (Shannon LNG Terminal).
Oggi è sotto gli occhi di tutti come tutta questa proliferazione di impianti non abbia affatto “ridotto la volatilità dei prezzi e dell’aumento dei prezzi sui mercati internazionali dell’energia”, forse perché i prezzi del gas seguono tutt’altre dinamiche.

Come ci spiegava ReCommon nove anni fa, in Europa convivono due modelli diversi di mercato del gas :
“A un estremo vi è quello “finanziarizzato” inglese, dove per permettere nuovi meccanismi di mercato per la definizione del prezzo del gas e la creazione di una borsa del gas naturale si è adottato un principio che si basa sul suo transito attraverso diversi hub, o nodi della rete, e in ciascuno di questi il prezzo viene definito quasi istantaneamente dalle transazioni di vendita e acquisto.
Conseguentemente, si è potuto sviluppare un mercato dei prodotti finanziari collegati al gas, inclusi i prodotti derivati, così come succede a livello mondiale per il greggio. Tale approccio è seguito anche da Olanda e Belgio.
All’altro estremo troviamo l’Italia, dove il mercato del gas è fortemente pianificato e su cui operano ancora pochi operatori, solamente energetici. Il prezzo del gas è deciso principalmente tramite gli accordi di import siglati bilateralmente dalle società con i vari paesi esportatori (per esempio l’Eni con la Gazprom russa). Inoltre, gli impianti di stoccaggio sono utilizzati solamente per esigenze fisiche e strategiche della rete e non per altre finalità speculative.
In questo modo non è possibile creare una borsa del gas naturale che definisca in ogni istante il suo prezzo variabile e questo di conseguenza sottostà agli accordi internazionali e al ruolo giocato dall’Authority per l’energia elettrica e il gas (AEEG) per quel che riguarda il prezzo finale al consumatore
5.

L’eliminazione progressiva delle forniture dalla Russia – erogate prevalentemente via gasdotto e regolate tramite accordi bilaterali di lungo periodo – che rappresentavano quasi la metà (il 45% nel 2021) delle importazioni di gas dell’Unione Europea, lascia un enorme spazio per l’espansione del modello finanziarizzato del mercato del gas.
Un modello che da mesi sta producendo i suoi frutti avvelenati, descritti da Mario D’Acunto in una intervista del 14 marzo a Radio Onda d’Urto6:

In questo momento la speculazione evidente sul prezzo dei combustibili fossili nasce dal gioco che stanno facendo sia le grandi banche sia i grandi operatori – le grandi industrie che trattano gas e petrolio – e soprattutto gli hedge fund. Sono loro che stanno gonfiando il prezzo dei carburanti, dei combustibili fossili perché la finanza innesca un meccanismo che difficilmente può essere controllato.
Questo perché in questo momento il costo del gas e del petrolio è estremamente volatile.
Nel momento in cui c’è la volatilità di una commodity come i combustibili fossili i grandi fondi di investimento hanno gioco facile.
Se pensiamo che il costo del gas durante la pandemia, quando stavamo tutti a casa, era 6 o 7 euro per MWh, oggi c’è una oscillazione nell’arco di una sola giornata di 100 euro per MWh.

Questo perché fondamentalmente i soggetti commerciali che trattano gas, petrolio e carbone sono costretti a vendere molto spesso nell’arco della giornata sotto la forza delle oscillazioni di queste commodities.
I grandi fondi di investimento sono quelli che in qualche modo decidono poi il prezzo che possono applicare.
Per esempio una cosa incredibile, su cui Cingolani è intervenuto, è che il prezzo del gas aumenta sia per i soggetti che comprano mesi prima, in previsione dell’utilizzo, sia negli hub di compravendita giornaliera, come l’hub di Amsterdam, che è fatto da circa 200 soggetti, di cui una metà sono commerciali, che sono quelli che vivono comprando e vendendo gas e petrolio, e gli altri sono soggetti speculatori, che in questo modo definiscono il prezzo di queste commodities sul mercato.

Quindi è questa estrema volatilità dovuta alla guerra e dovuta alla post pandemia, che in qualche modo permette una speculazione finanziaria accesa, senza controllo, del prezzo del gas e del petrolio”.

Speculazione che determina il prezzo del gas al consumatore finale a prescindere da quello di acquisto da parte dei vari operatori, generando extraprofitti stratosferici per le compagnie dei combustibili fossili.

In pratica, tornando al tema dell’indipendenza energetica, per non dipendere da Putin siamo finiti in balìa dei mercati finanziari.

L’enfasi sullo sviluppo del mercato del GNL è funzionale a questo tipo di scenario.
Le navi metaniere viaggiano prevalentemente sulla base di contratti spot, a brevissimo termine, soprattutto da quando gli Stati Uniti sono diventati il maggior esportatore mondiale di gas naturale liquefatto.
Sono l’emblema del libero mercato. A differenza dei gasdotti che hanno la strada segnata, le metaniere seguono il denaro, cioè la rotta del prezzo più alto, a volte invertendola ignorando gli impegni contrattuali, se conviene. E’ il caso della British Listener, “partita dal terminale Freeport LNG, vicino a Houston, il 21 marzo e diretta in Asia attraverso il canale di Panama, prima di tornare indietro il 1° aprile attraversando le chiuse in direzione opposta per dirigersi verso l’Europa e i suoi prezzi più elevati7.
Checché ne dica la Commissione Europea, gli investimenti sul GNL sono l’antitesi dell’affidabilità e continuità  dell’approvvigionamento energetico, a meno che – come sta succedendo –  gli importatori non si rendano disponibili a garantire remunerazioni più alte, innescando una concorrenza al massacro fra i vari mercati e rafforzando la spirale al rialzo dei prezzi.

E’ in nome della speculazione, dunque, che si sta chiedendo alle città prescelte come sedi  dei nuovi rigassificatori di accettare impianti devastanti per il clima, per l’ambiente, la salute, la sicurezza e le attività umane. (Continua)

Immagini:
1) LNG Carrier Alto Acrux Departing Darwin February 2010, di kenhodge13. Licenza CC BY 2.0.
2) Another floating gas bottle (LNG tanker) leaves Darwin Harbour for Yokohama, Japan, di Geoff Whalan. Licenza CC BY-NC-ND 2.0.
3) Prezzi del gas. Fonte: Il Messaggero, 26 maggio 2022.


  1. Sulla vicenda delle privatizzazioni degli anni ’90 in Italia e sul ruolo del Trattato di Maastricht si rimanda alla sintetica ed utile ricostruzione di Simona Tarzia (Svenduta. Il lungo “Black Friday” delle privatizzazioni in Italia, su fivedabliu.it, 19/02/19), che ci rammenta il ruolo di vari personaggi ancora in giro: Mario Draghi, Giuliano Amato, Romano Prodi, Massimo D’Alema. Enrico Letta lo ritroviamo invece nella seconda fase della svendita all’incanto: Privatizzazioni, Letta annuncia piano da 12 miliardi. Sul mercato Eni e Fincantieri, Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2013. 

  2. Communication from the Commission to the European Council and the European Parliament, An energy policy for Europe, 2007, pp.28. 

  3. Fra questi: European Commission, Diversification of gas supply sources and routes. European Commission, Liquefied Natural Gas and gas storage will boost EU’s energy security, 16 febbraio 2016. Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni relativa a una strategia dell’UE in materia di gas naturale liquefatto e stoccaggio del gas, 16 febbraio 2016. European Commission, Commission staff working document, 16 febbraio 2016. 

  4. European Commission, Liquefied Natural Gas and gas storage will boost EU’s energy security, 16 febbraio 2016. 

  5. ReCommon, In gas we trust. Perché la finanza pubblica crede nei rigassificatori, 2013, p.4. 

  6. Di crisi energetica e speculazione economica, l’approfondimento con Mario D’Acunto, Radio Onda d’Urto, 14 marzo 2022 (testo tratto da Ecor.Network). Mario D’Acunto è autore di Capitalismo, finanza, riscaldamento globale. Transizione ecologica o transizione al socialismo?, marzo 2022. 

  7. Mathias Reymond, Pierre Rimbert, Chi sta vincendo la guerra dell’energia ?, in “Le Monde Diplomatique”, giugno 2022, p. 15. 

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Il nuovo disordine mondiale / 10: il biglietto che è esploso https://www.carmillaonline.com/2022/03/30/il-nuovo-disordine-mondiale-10-il-biglietto-che-e-esploso/ Wed, 30 Mar 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71203 di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 ) “Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022) “E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere. Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo [...]]]> di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale; dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio della guerra in Ucraina, poi.

Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.

La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione.
In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.

Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.

La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:

Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.

Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.

Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. E’ infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.

All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica mondiale dei produttori ed esportatori di armi.

Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per il montaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.

Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.

Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
E’ proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un fallimento, diplomatico ed economico.

Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.

E’ anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.

Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.

Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:

quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui ).

Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.

Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.

Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4

Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5 e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso la Russia e che ha fino ad ora impedito sul suo territorio il passaggio di armi occidentali destinate agli ucraini.

A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata, potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come un’autentica manovra economica di guerra. «E’ un budget di guerra in tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale 2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono destinati al Pentagono»6.

Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.

La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi- andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.

Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e, allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.

Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9 su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.

Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.

Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancor affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.

Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.

Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.

(10 – continua)


  1. Su questi ultimi si veda qui  

  2. Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217  

  3. Mediterraneo, Baltico e Mar Nero  

  4. Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23  

  5. Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria  

  6. Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022  

  7. A. Simoni, cit.  

  8. Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022  

  9. Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche  

  10. Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022  

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