Richard Hofstadter – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 04:55:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 USA: dissenso pseudo-conservatore e mito dell’allegro possidente terriero https://www.carmillaonline.com/2024/12/08/usa-dissenso-pseudo-conservatore-e-mito-dellallegro-possidente-terriero/ Sun, 08 Dec 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85506 di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi [...]]]> di Gioacchino Toni

A proposito della raccolta di saggi di Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi (Luiss University Press, 2024), di cui ci si è occupati relativamente alla diffusione della violenza e delle armi negli Stati Uniti su “Carmilla”, vale la pena soffermarsi anche sui testi più datati presenti nel volume. Per quanto le riflessioni espresse dallo storico americano contenute in La rivolta pseudo-conservatrice vadano contestualizzate al momento in cui le scrive, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, non mancano di essere di una qualche utilità ancora oggi al fine di comprendere meglio le radici che hanno condotto ad un immaginario politico americano in cui l’universo liberal sembra aver totalmente perso la sua spinta al cambiamento.

Se negli anni Trenta «la forza dinamica della politica americana era il dissenso liberal», che si proponeva di «riformare le ingiustizie del nostro sistema sociale ed economico e cambiare il modo di fare le cose», negli anni Cinquanta «la vita politica non trae più il suo dinamismo dai liberal […] che hanno inconsapevolmente assunto la psicologia di chi li ha preceduti»; molti dei soggetti marginali a cui si rivolgeva il New Deal hanno nel frattempo trovato una collocazione stabile nella società tanto da indurli ad un certo “conservatorismo”. «I vecchi liberal», negli anni Cinquanta, scrive Hofstadter, «non auspicano certo qualche nuovo ambizioso programma, ma si limitano a difendere quanto possibile i traguardi già raggiunti e la libertà di espressione» (p. 62).

Secondo lo storico, le nuove forme di dissenso non solo non possono dirsi radicali, ma nemmeno del tutto conservatrici: a differenza del passato, queste presentano una richiesta continua di conformismo, tanto che si potrebbe parlare di «pseudo-conservatorismo». A palesarsi è infatti una forma di evidente «insoddisfazione per la vita americana, le sue tradizioni e le sue istituzioni»; sono lontane dal moderatismo incline al compromesso del conservatorismo classico esprimendo infatti «un odio profondo, seppure inconsapevole, per la nostra società e le sue dinamiche» (p. 63).

«Lo pseudo-conservatore», scrive Hofstadter, «crede di vivere in un mondo dove qualcuno lo spia, sta tramando contro di lui, lo sta tradendo e lo porterà alla rovina, crede che le sue libertà siano state invase in modo arbitrario e intollerabile. È contrario a quasi tutte le novità degli ultimi vent’anni di politica americana» (p. 65). Questa figura non sopporta la burocrazia così come la partecipazione del proprio Paese ad organismi sovranazionali, come l’Onu, detesta avere a che fare con altre nazioni e soprattutto rifiuta di doverle aiutare economicamente e militarmente, percepisce la debolezza degli Stati Uniti, che vede in balia di azioni eversive provenienti da ogni dove, ed imputa ogni fallimento internazionale ad un tradimento. «L’ostilità latente e diffusa verso le istituzioni americane prende la forma di una valanga di proposte per stravolgere i corpus delle nostre leggi fondamentali» (p. 66).

Secondo lo storico si è di fronte a qualcosa di profondamente diverso dal vecchio ultra-conservatorismo isolazionista; questo fenomeno di pseudo-conservatorismo deriverebbe direttamente dalla «vita americana, eterogenea e senza radici, e soprattutto [dal] modo caratteristico con il quale gli americani da sempre ambiscono a uno status e a un’identità stabile» (p. 71). Un universo, quello americano, che negli anni Sessanta fa sempre più fatica a rapportarsi con quel melting pot celebrato dallo storytelling ufficiale, che non vede più funzionare la mobilità sociale e occupazionale, ormai ridotte a ricordi del passato.

Oltre ad essere un’arena in cui si confrontano interessi materiali contrastanti dei diversi gruppi sociali, la politica è anche luogo in cui vengono proiettate «le aspirazioni e le frustrazioni relative allo status; luogo in cui si intersecano temi politici, di interessi, e problemi individuali, di status, in cui questi ultimi tendono ad avere la meglio. Se nei momenti di depressione e malcontento economico il dissenso tende ad incanalarsi in richieste di riforme concrete, nei momenti di maggior prosperità, quando sono le questioni di status ad avere il sopravvento, il dissenso assume la forma della lamentela priva di proposta concreta, di rivalsa, rancore e ricerca di capri espiatori. «Le preoccupazioni di status accomunano paradossalmente due tipi di persone che giungono da direzioni opposte. Il primo tipo è quello degli anglosassoni di antica tradizione, protestanti, il secondo quello delle famiglie d’immigrati, soprattutto di discendenza tedesca e irlandese, spesso cattoliche» (pp. 74-75). I primi guardano allo pseudo-conservatorismo nel momento in cui sentono di perdere privilegi di casta, i secondi quando li guadagnano. Se molti liberal tendono a vedere nel dissenso pseudo-conservatore una minaccia alle libertà in direzione totalitaria, Hofstadter si dice restio a bollarlo come puramente fascista o totalitario.

Con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum dei primi anni Sessanta, lo storico americano torna su quanto scritto a metà del decennio precedente soprattutto per apportare alcune modifiche a proposito del concetto di politica di status.

Alla metà degli anni Cinquanta appartiene lo scritto Il mito dell’allegro possidente dedicato alla trasformazione del piccolo agricoltore proprietario della terra che lavora in imprenditore. Hofstadter ricostruisce le discrepanze tra la figura del reale piccolo proprietario terriero al lavoro nei campi e la narrazione che di esso è stata a lungo fatta negli Stati Uniti, che ha continuato a presentarlo come esempio di lavoratore industrioso, indipendente, autosufficiente e dotato di spirito egalitario anche quando, ormai, questo si era trasformato in imprenditore commerciale. Paradossalmente, spiega lo studioso, più lo yeoman ai allontanava da un’attività incline all’autosufficienza in favore di un’agricoltura imprenditoriale, più cresceva una narrazione incline alla nostalgia per il passato rurale, probabilmente in ossequio alla presunta innocenza delle origini.

Lo yeoman, proprietario di una piccola fattoria conduzione famigliare, incarnava la «persona semplice, onesta, sana, indipendente e felice [che] viveva in comunione con una natura benevola» (p. 99), vera e propria base di una società virtuosa, figura secolare e al tempo stesso religiosa, in quanto espressione del lavoro della terra creata da Dio. Un mito, quello agreste, non nato in seno al popolo, bensì come concetto letterario ideato dalle classi più agiate che lo avevano derivato dalla cultura inglese dalla seconda metà del Settecento, che a partire dal secolo successivo si sarebbe diffuso nell’immaginario popolare statunitense. La Rivoluzione americana avrebbe poi contribuito a fare dello yeoman una sorta di simbolo della nuova nazione. Nel guardare alla città, questa figura vi scorgeva una sorta di alieno ed ostile «coacervo di strozzini, dandy, damerini e aristocratici pieni di idee europee» (p. 105) che lo trattava da bifolco.

Se nel corso del periodo coloniale, fino all’Ottocento inoltrato, ancora era ravvisabile una certa corrispondenza tra lo yeoman reale e la narrazione che di esso veniva fatta, con lo spostamento verso le praterie e la possibilità di introdurre macchinari nel lavoro nei campi, il contadino inizia ad abbandonare forme di autosufficienza per occuparsi della “coltura da reddito” modificando non solo la vita quotidiana ma anche l’immaginario.

Si sviluppò così una società agricola che a differenza di quella dello yeoman non si sentiva legata alla terra, ma al valore della terra. Il vero frutto della società rurale americana, sviluppatasi su praterie e pianure, non era lo yeoman o il tranquillo abitante del villaggio, ma uno stressato piccolo affarista di campagna che lavorava sodo, si trasferiva fin troppo spesso, giocava d’azzardo con la propria terra, e si faceva strada con le sue forze. […] Divenne un uomo d’affari molto prima di cominciare a considerarsi tale (p. 111).

Con la fine dell’Ottocento questa figura, per quanto ancora attiva direttamente sui suoi possedimenti terrieri, iniziò a guardare ai propri dipendenti, aumentati decisamente di numero, con il medesimo sospetto con cui guardava ai lavoratori di città, soprattutto se sindacalizzati, come un tempo guardava ai “damerini e aristocratici”. A spazzare definitivamente via il vecchio yeoman saranno però soprattutto i mezzi di comunicazione novecenteschi – dai trasporti ai mass media radiofonici, cinematografici e televisivi – con il loro affievolire sempre più le differenze tra il mondo rurale e quello cittadino.

]]>
In rifle we trust. Individualismo, violenza ed armi nella storia statunitense https://www.carmillaonline.com/2024/12/01/in-rifle-we-trust-individualismo-violenza-ed-armi-nella-storia-statunitense/ Sun, 01 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85500 di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard [...]]]> di Gioacchino Toni

Richard Hofstadter, La repubblica dei fucili. L’America come cultura delle armi e altri saggi, Traduzione di Paolo Bassotti, Saggio introduttivo di Emanuele Bevilacqua, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 192, € 17,00

Per capire qualcosa di più degli Stati Uniti contemporanei, più che ai resoconti confezionati dai commentatori dei media nostrani, spesso derivati dai grandi network statunitensi con l’aggiunta di qualche nota di colore, ed alle analisi che anche a sinistra sembrano spesso più inclini a soddisfare desideri che non a confrontarsi con la realtà statunitense, potrebbe essere di qualche aiuto ricorrere a qualche vecchio scritto di Richard Hofstadter che, da storico che si confronta con le scienze sociali, ha incentrato i suoi studi sulla politica e sulla mentalità statunitensi, soprattutto sugli aspetti populisti, mettendo al centro del dibattito questioni fino ad allora trascurate. Per quanto si tratti di studi datati ed in parte superati da ricerche più recenti e per quanto siano nel frattempo cambiati l’universo sociale ed il panorama politico, risultano ancora di una certa utilità al fine di comprendere un po’ meglio un universo come quello statunitense che in Europa si conosce e comprende forse meno di quel che si pensa.

Dopo essersi occupato nel corso degli anni Quaranta degli aspetti ferocemente competitivi del capitalismo americano del periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo – Social Darwinism in American Thought, 1860-1915 (1944) e The American Political Tradition and the Men Who Made It (1948, tr. it. Il Mulino 1960) –, nei due decenni successivi Hofstadter ha concentrato la sua attenzione sul populismo che ha caratterizzano la storia politica americana sin dall’Ottocento – The Age of Reform (1955) – indagando in particolare gli aspetti “paranoici” che si ritrovano in essa, questione al centro di The Paranoid Style in American Politics (1964), testo recentemente pubblicato da Adelphi1.

L’insistito ricorso all’appello al popolo e le visioni paranoiche e complottiste che caratterizzano gli Stati Uniti di Trump hanno dunque una storia radicata in America a cui si ricollega anche la diffusa quanto viscerale ostilità nei confronti di tutto ciò che “odora di intellettuale” e che viene percepito come parte integrante di quella élite che imbriglia la vita dei “veri e genuini americani”, che Hofstadter indaga nel volume Anti-Intellectualism in American Life (1963; tr. it. Einaudi 1967), testo che sarà a breve riproposto da Luiss University Press2.

Venendo a La repubblica dei fucili, il volume raccoglie alcuni testi scritti da Hofstadter a metà degli anni Cinquanta – La rivolta pseudo-conservatrice (1955), sui cui torna all’inizio del decennio successivo con Pseudo-conservatorismo revisited. Un post-scriptum (1962), ed Il mito dell’allegro possidente (1956) – ed un paio di scritti del 1970, anno in cui scompare: L’America come cultura delle armi (1970) e Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti (1970). Ad introdurre il volume è un saggio di Emanuele Bevilacqua che proietta nell’attuale universo digitale alcune riflessioni di Hofstadter circa la violenza ed il culto delle armi negli Stati Uniti.

Secondo lo storico americano, la violenza negli Stati Uniti deriverebbe in maniera considerevole da alcune condizioni culturali specifiche che si sono evolute nel tempo: la cultura della frontiera ed il mito del pioniere armato; il diritto costituzionale a possedere armi, sancito dal Secondo emendamento, vissuto come baluardo della libertà individuale al fine di proteggersi da ogni forma di oppressione; la normalizzazione della violenza a cui avrebbero concorso gli strumenti di intrattenimento popolare come il cinema e la televisione.

Tutte le culture di massa hanno i loro eroi stereotipati, e nessuno è del tutto privo di violenza, ma niente è paragonabile all’insolita passione degli Stati Uniti per figure solitarie e individualiste come il detective, lo sceriffo o il cattivo della situazione. Nelle narrazioni drammatiche americane rispetto a quelle inglesi, per esempio, è molto più difficile che un conflitto venga risolto con l’intelligenza o secondo un ordine morale piuttosto che con un atto di violenza audace e improvviso (p. 50).

Per quanto il ruolo della frontiera sia stato importante nello strutturarsi della cultura delle armi tra gli americani, secondo lo studioso forse ancora di più ha influito la radicata avversione nei confronti dell’esercito organizzato, derivata dai Whig radicali inglesi, da cui è desunta l’idea della creazione di milizie di cittadini armati al fine di difendersi da eventuali forme di autoritarismo statale. Il possesso delle armi è al centro della

tradizione antimilitarista dei Whig radicali inglesi, ripresa e intensificata dall’America coloniale, soprattutto dalla generazione che precedette la Rivoluzione americana, per poi divenire parte integrante della tradizione politica americana. […] Gli americani si convinsero che l’unica soluzione possibile al perenne conflitto tra militarismo e libertà fosse la loro proposta alternativa: un popolo armato (pp. 52-53).

Tale preferenza per la milizia popolare ha esercitato un ruolo importante nella stesura del Secondo emendamento della Costituzione. «Il diritto di possedere armi era un diritto collettivo e non individuale, strettamente correlato all’esigenza civile (soprattutto in mancanza di un esercito nazionale adeguato) di una “ben organizzata milizia”; con esso, il Congresso si impegnava a non impedire agli Stati di fare il necessario per il mantenimento di milizie ben regolate» (p. 55).

Storicamente, l’idea del diritto ad essere armati non è un convincimento esclusivo dei fanatici cultori di pistole e fucili; per molti americani l’accesso diffuso alle armi è visto come contrappeso fondamentale e necessario ad una possibile tirannia. Tale convincimento è «sopravvissuto in tutta la sua gloria e la sua ingenuità anche nell’era tecnologica moderna, venendo ripreso, ad esempio dai giovani neri, soprattutto dalle Panthers, che hanno fatto incetta di armi in modo più letale per loro che per chiunque altro» (p. 57). Così scrive Hofstadter nel saggio L’America come cultura delle armi, pubblicato in apertura degli anni Settanta, palesando una presa di distanza dalle lotte afroamericane che non hanno disdegnato il ricorso ad armi da fuoco. Mentre in altre società la presenza di piccoli gruppi armati non autorizzati viene vista come un pericolo da eliminare a partire dal contrasto all’accesso alle armi, gli Stati Uniti, sostiene lo storico, preferiscono contrastare il pericolo di tali gruppi armandosi maggiormente a loro volta.

Facendo riferimento al periodo in cui scrive, Hofstadter motiva l’accentuata devozione alle armi del Sud e del Sud-Ovest degli Stati Uniti non solo con le radici rurali che contraddistinguono quelle zone, ma anche ricordando che le armi al Sud sono a lungo state prerogativa riservata ai bianchi per esercitare un maggior controllo sugli schiavi, dunque il possesso di armi è nel tempo divenuto un simbolo di status del maschio bianco per poi venir fatto proprio dagli stessi maschi afroamericani.

Per quanto gli Stati Uniti fossero urbanizzati e industrializzati, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i parlamenti, tanto a livello locale che nazionale, erano composti in buona parte da uomini di una certa età provenienti dalla provincia rurale. È su tali basi che si sarebbe strutturata la convinzione della legittimità del ricorso alla violenza armata come modalità attraverso cui difendere i diritti individuali. Lo studioso sottolinea anche come tra gli americani sia riscontrabile una tendenza alla rimozione degli effetti negativi della violenza; un’amnesia che minimizza episodi e cause sistemiche e si rivela utile al mantenimento di un’immagine idealizzata della storia nazionale.

In Riflessioni sulla violenza negli Stati Uniti, altro scritto datato 1970, dopo aver sottolineato come gli storici americani abbiano sempre evitato di soffermarsi su quanto la violenza sia ricorrente nella storia del loro Paese e come, nonostante ciò, gli statunitensi tendano a pretendersi una nazione virtuosa come nessun’altra, Hofstadter evidenzia come, a differenza di ciò che accade in altri Paesi, la violenza negli Stati Uniti tenda a dispiegarsi più facilmente tra cittadini piuttosto che tra questi e lo Stato: in America «la violenza non nasce dal desiderio di sovvertire lo Stato, e per questo non danneggia mai la legittimità dell’autorità» (p. 127) e così è sempre stato, con la non irrilevante eccezione della Guerra civile, scrive lo studioso in questo testo del 1970.

Che una mole di violenza come quella che si è dispiegata negli Stati Uniti nel corso della sua storia non abbia preso le mosse dall’intenzione di sovvertire l’autorità statale, induce Hofstadter a passare in rassegna alcune tra le principali forme di violenza che hanno caratterizzato la vita del Paese ponendo l’accento su come in tutte queste sia in qualche modo presente la componente razziale.

Nella storia americana, in conflitto di classe è stato messo nettamente in secondo piano dal conflitto etnico-religioso e razziale. Gli scontri tra gruppi hanno sostituito la lotta di classe, o si sono posti come possibile alternativa. Gli episodi di lotta di classe effettivamente avvenuti raramente si sono svolti “in purezza”, scevri da antagonismi etnico-razziali e dalla nostra complessiva gerarchia d status fondata su caratteristiche religiose, etniche e razziali (p. 132).

Secondo Hofstadter, la violenza legata al mondo dell’industria ha avuto la sua fase più significativa ai tempi delle società segrete Molly Maguires nelle città ove si estraeva l’antracite, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento ed i primi del secolo successivo. L’imponente sciopero delle ferrovie del 1877 coinvolse una dozzina di città provocando scontri che condussero a quasi un centinaio di morti. «Per la prima volta, si paventò lo spettro di una forza rivoluzionaria nazionale impossibile da gestire (per quanto l’idea neanche sfiorasse gli scioperanti), cosa che portò al rafforzamento della Guardia nazionale e alla creazione di una catena di armerie nelle città più importanti» (p. 140). Lo stesso grande sciopero delle ferrovie del 1886 si rivelò particolarmente violento così come molti altri scoppiati in apertura di Novecento soprattutto ove erano radicati la Western Federation of Miners e l’Industrial Workers of the World (IWW).

Se la conflittualità di classe negli Stati Uniti, pur rifacendosi meno che in altri Paesi a motivazioni ideologiche, ha dato luogo ad esplosioni di violenza che non trovano forse paragoni altrove, secondo lo storico ciò è da ricercarsi più nell’ethos dei capitalisti americani che non in quello dei lavoratori.

Alcune considerazioni Hofstadter le dedica a come anche la sinistra americana si sia fatta affascinare dall’esercizio della violenza nel corso degli anni Sessanta. In tali riflessioni lo storico statunitense, che in età giovanile aveva per qualche tempo militato nel Partito comunista americano, salvo poi uscirsene in dissenso con la deriva stalinista dei paesi socialisti e dei partiti comunisti occidentali, manifesta più volte il suo distacco dalle frange più radicali delle proteste statunitensi sia del mondo del lavoro che dei movimenti studenteschi ed afroamericani.


Ai saggi stesi da Hofstadter negli anni Cinquanta e Sessanta, presenti in La repubblica dei fucili, sarà dedicato un nuovo scritto su “Carmilla online”.

 


  1. Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, tr. it. di Francesco Pacifico, Adelphi, Milano 2021. Si veda a tal proposito Sandro Moiso, Il “grande complotto” nella tradizione politica americana (e altrove), in “Carmilla online”, 28 Giugno 2021. 

  2. Del meccanismo di eroicizzazione dell’individuo qualunque che, come un novello David, trova la forza ed il coraggio di opporsi al Sistema ed alla sua grande cospirazione, che caratterizza la cultura, soprattutto audiovisiva, americana si è recentemente occupato, tra gli altri, Tom Nichols (The Death of Expertise (2017); id., La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, tr. it. di Chiara Veltri, Luiss University Press, Roma 2023. 

]]>
Il “grande complotto” nella tradizione politica americana (e altrove) https://www.carmillaonline.com/2021/06/28/il-grande-complotto-nella-tradizione-politica-americana-e-altrove/ Mon, 28 Jun 2021 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66868 di Sandro Moiso

Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 91, euro 5,00

Richard Hofstadter (1916-1974) è stato docente di Storia americana presso la Columbia University di New York e ha vinto due volte il premio Pulitzer, nel 1956 e nel 1964. Dal 1934 al 1939 fu attivo in movimenti di sinistra, e tra il 1938 e il 1939 fu iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America da cui in seguito si allontanò, entrando poi in contatto con sociologi di idee radicali come Charles Wright Mills. La [...]]]> di Sandro Moiso

Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 91, euro 5,00

Richard Hofstadter (1916-1974) è stato docente di Storia americana presso la Columbia University di New York e ha vinto due volte il premio Pulitzer, nel 1956 e nel 1964. Dal 1934 al 1939 fu attivo in movimenti di sinistra, e tra il 1938 e il 1939 fu iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America da cui in seguito si allontanò, entrando poi in contatto con sociologi di idee radicali come Charles Wright Mills. La sua attenzione è stata principalmente rivolta all’esplorazione del pensiero politico americano fin dai tempi in cui i primi tredici stati americani erano ancora soltanto una colonia dell’impero britannico.

Proprio per questa sua approfondita conoscenza di tale pensiero nelle sue diverse articolazioni, vale la pena oggi di leggere il testo proposto per la prima volta in Italia da Adelphi, nella collana Microgrammi. Il fatto che la prima edizione americana del testo risalga al 1952 (per poi essere aggiornato nel 1954, 1964 e 1965) non toglie nulla alla sua attualità ed utilità.
Involontario e indiretto plaidoyer per Trump e il suo elettorato, il testo riporta il dibattito sul complottismo, e le sue teorie espresse spesso dalla destra americana, togliendolo dalle mani di chi vorrebbe farne una caratteristica tipica degli ultimi anni o decenni e, in particolare, dell’epoca della presidenza di The Donald.

In realtà, si capisce subito, scorrendo l’agile saggio, il complottismo ha costituito una costante del dibattito politico pubblico americano, fin dagli anni successivi alla indipendenza degli Stati Uniti. Un cancro, se così vogliamo definirlo, dalle origini antiche e profonde, tipico di una nazione che del suo stile di vita ha voluto fare un modello unico sia in patria che fuori nel corso della sua crescita prima e della sua espansione imperialista poi.

Dai timori della fine del XVIII secolo per i complotti degli Illuminati di Baviera per rovesciare l’ordinamento politico e religioso del mondo fin dalla Rivoluzione francese a quelli per il complotto cattolico destinato, secondo coloro che lo denunciavano nella prima metà dell’Ottocento, a rovesciare l’impostazione progressista e repubblicana del governo statunitense e a sfruttare l’”ignoranza” dei nuovi immigrati per finalità simili alle precedenti (ma con un evidente afflato razzista e identitario), i movimenti di denuncia di complotti possibili o del tutto privi di fondamento hanno caratterizzato una concezione politica che ha fatto propria, fin dalle origini, l’idea dell’insuperabilità del modello americano di rapporti sociali.

In questi movimenti furono attivi personaggi dai nomi celebri ancora oggi, anche se per altri motivi, come ad esempio l’inventore del telegrafo S.F. B. Morse, impegnato nella lotta contro il “complotto cattolico” nella prima metà dell’Ottocento così come suo padre, Jedidiah Morse, lo era stato contro quello degli Illuminati di Baviera. Oppure Lyman Beecher, padre di Harriet Beecher Stowe, autrice di La capanna dello zio Tom, che aveva furiosamente inveito contro la corruzione dei costumi portata negli Stati Uniti ancora dal complotto cattolico, affermando a proposito della battaglia da condurre nell’Ovest del paese, nel suo A Plea for the West (1835), che:

Lì il protestantesimo è impegnato in una lotta per la vita contro il cattolicesimo. Il tempo è già agli sgoccioli. «Qualunque cosa faremo, dobbiamo farla in fretta…». Una vasta marea di immigrazione, ostile alle istituzioni libere, stava attraversando il paese, sovvenzionato e incoraggiato dai «potentati d’Europa», moltiplicando tumulti e violenza, riempiendo le carceri, affollando di poveri gli ospizi, quadruplicando la tassazione, inviando un numero sempre maggiore di elettori a «posare le loro mani inesperte sul timone del nostro potere». Possiamo ben credere, sostiene Beecher, che Metternich1 sia al corrente del fatto che verrà un partito negli Stati Uniti che accelererà la naturalizzazione e la concessione del voto a queste moltitudini e ai loro demagoghi, un partito che «venderà il paese condannandolo a imperitura prigionia»2.

E’ evidente come in affermazioni di questo genere si fondessero insieme, fin dagli albori dell’espansionismo statunitense, le motivazioni del predominio WASP (White Anglo-Saxon Protestant) con quelle della “necessaria” conquista del West e l’ostilità nei confronti di un’Europa da cui i coloni e i loro discendenti si erano distaccati attraverso la prima rivoluzione anti-coloniale del mondo moderno.

Come accadde ancora in seguito, ognuna di queste campagne brandì testimonianze dirette di pentiti della parte avversa, sia che si trattasse di Massoni che di rappresentanti del clero cattolico, tese a sottolineare la perversione e le malevolenze insite nei complotti che venivano denunciati e, in questo modo, smascherati.

L’anticattolicesimo è sempre stata la pornografia dei puritani. Se gli antimassoni si erano immaginati ubriacature selvagge e si erano dilettati con fantasie sull’adempimento forzato di disgustosi giuramenti massonici, gli anticattolici svilupparono un’immensa raccolta di storie di preti libertini, di confessionali come luoghi di seduzione, di conventi e monasteri licenziosi e via dicendo. Il libro probabilmente più letto negli Stati Uniti in quel periodo, prima dell’arrivo della Capanna dello zio Tom (1852), è un’opera scritta, a quanto risulta, da tale Maria Monk con il titolo di Awful Disclosures (Terribili rivelazioni), e pubblicata nel 1836. L’autrice, che afferma di essere scappata dal convento dell’Hôtel-Dieu di Montreal dopo aver risieduto lì per cinque anni come novizia prima e monaca dopo, riporta con abbondanza di dettagli la sua vita in convento. Ricorda di essersi sentita dire dalla madre superiora che doveva «obbedire ai preti in tutto e per tutto»; con suo «assoluto sbigottimento e orrore» scopre in breve tempo quale sia la natura di tale obbedienza. Bambini nati da relazioni interne al convento vengono battezzati e quindi uccisi, racconta, per poter salire subito in cielo. Uno dei momenti più forti di Awful Disclosures è la testimonianza di Maria Monk dello strangolamento di due neonati3.

A parte l’indubbio debito nei confronti della precedente letteratura gotica, cui fu debitore lo stesso Manzoni per la sua narrazione delle vicende di Gertrude la monaca di Monza, è evidente come proprio in tale esposizione dei fatti, che pur conteneva parziali elementi di verità come le cronache attuali e le ricostruzioni storiche ancora ci confermano, si disvela la tecnica tipica della narrazione paranoide.

La procedura tipica della migliore pubblicistica paranoide è cominciare da assunti difendibili e da un accorto accumulo di fatti, o per lo meno di ciò che può sembrare un fatto, e poi guidare questi fatti verso una «prova» schiacciante della specifica cospirazione da dimostrare. E’ assolutamente coerente: anzi la mentalità paranoide è molto più coerente del mondo reale, visto che non lascia spazio agli errori, ai fallimenti o alle ambiguità […] Nella tecnica, è squisitamente «accademica». Le novantasei pagine del pamphlet di McCarthy intitolato McCarthysm contengono addirittura trecentotredici note a piè di pagina4.

Un ultimo aspetto dello stile paranoide è collegato a quella pedanteria cui ho già accennato. Uno dei tratti impressionanti della letteratura paranoide, che compare immancabilmente, è proprio la complicata preoccupazione di trovare prove. Non ci si lasci distrarre dalle conclusioni fantasiose, tanto caratteristiche di questo stile politico, al punto da farsi l’idea che i suoi ragionamenti non siano, per così dire, di natura fattuale. Lo stesso carattere incredibilmente fantasioso delle sue conclusioni porta a grandiose ricerche della «prova» che dimostrerebbe che ciò che è incredibile è la sola cosa degna di essere creduta5.

Riassumendo gli elementi basilari dello stile paranoide si può cogliere come l’elemento centrale sia costituito dall’idea che la Storia non sia nient’altro

che una cospirazione vasta e sinistra, un congegno di influenza gigantesco eppure sottile messo in moto per indebolire e distruggere un dato stile di vita. Si potrebbe obiettare che siano in effetti esistiti atti cospiratori nel corso della storia, e non c’è niente di paranoide nel prestarci attenzione. Questo è vero […] A distinguere lo stile paranoide non è il fatto che i suoi esponenti vedano cospirazioni o complotti qua e là nel corso della storia, ma che ritengano che una «vasta» o «gigantesca» cospirazione sia la forza motrice degli eventi storici.
[…] Il nemico non è mai colto alla mercé del vasto meccanismo della storia, vittima anche lui, come tutti, del suo passato, dei suoi desideri, dei suoi limiti. E’ un attore libero, intraprendente, demoniaco. Pone in essere da sé, addirittura costruisce, il meccanismo della storia, oppure devia in maniera malvagia il normale corso della storia […] L’interpretazione della storia che fa il paranoico è in questo senso distintamente personale: gli eventi decisivi non sono considerati parte del flusso della storia, ma conseguenze della volontà di qualcuno6.

Fermiamoci qui e cogliamo come lo stile paranoide si sia ormai affermato anche in quelle narrazioni mediatiche ufficiali che demoliscono le fake news per mezzo di altre, in cui gli individui e le volontà, sovversive, terroristiche, folli o altre, mettono in discussione e in pericolo il modo di produzione e lo stile di vita dominante che, di per sé, potrebbe funzionare perfettamente.
Richard Hofstadter non mancava infatti di sottolineare come tale stile non costituisse, di fatto una peculiarità della psicologia e della politica statunitense.

Ma il fenomeno non è limitato all’esperienza americana, così come non lo è all’epoca contemporanea […] Basti pensare alla reazione europea all’assassinio del presidente Kennedy per ricordarci che gli americani non detengono il monopolio del dono per l’improvvisazione paranoide. Anzi, si può affermare che in tutta la storia moderna il maggior trionfo dello stile paranoide non sia occorso negli Stati Uniti, ma in Germania. E’ un ingrediente tipico del fascismo, e dei nazionalismi frustrati, sebbene attiri tanti non fascisti e lo si ritrovi spesso anche nella stampa di sinistra. I famosi processi di Stalin, le purghe, hanno rappresentato, in una forma all’apparenza giuridica, un esercizio devastante di stile paranoide e uno scatenato lavoro di fantasia7.

Naturalmente la disamina di Hofstadter non si limita soltanto ai fenomeni paranoidi del XVIII e XIX secolo americano, ma si spinge fino al Maccartismo, alla John Birch Society (già presa in giro da Bob Dylan in una sua nota canzone) e ai loro timori per il diffondersi del comunismo e dei suoi agenti corrotti (anche ai massimi gradi del governo), tutti tesi a minare i valori e le libertà americane sul territorio stesso degli Stati Uniti. Così come il timore del diffondersi di una tassazione progressiva come limitazione delle libertà individuali e del diritto di arricchirsi, come Frank Chodoroy affermava nel 1954, nel suo The Income Tax: Root of All Evil (La tassazione sul reddito origine di ogni male), a proposito della ratifica nel 1913 dell’emendamento costituzionale sulla tassa sul reddito. Osservando ancora che, se si passa ad osservare la destra contemporanea, il fatto più significativo è che:

troviamo alcune differenze piuttosto importanti rispetto ai movimenti dell’Ottocento. I rappresentanti di quei primi movimenti sentivano di difendere cause e tipi umani ancora in pieno possesso del paese: stavano respingendo le minacce a uno stile di vita ancora predominante, nel quale ritenevano di giocare un ruolo di rilievo. La destra moderna, invece, come ha scritto Daniel Bell8, si sente espropriata: l’America le è stata largamente sottratta, ma è determinata a riprendersela e a impedire il conclusivo ed esiziale atto eversivo […] I loro predecessori scoprirono cospirazioni straniere; secondo la destra radicale moderna, nella cospirazione oggi sono coinvolti anche molti americani […] Il teatro d’azione oggi è il mondo intero, e si può fare ricorso non solo agli eventi della seconda guerra mondiale, ma anche a quelli della Guerra di Corea e della Guerra Fredda. Qualunque studioso di storia militare sa che la sua disciplina è in buona parte una comedy of errors e un museo dell’incompetenza; ma se a ogni errore e a ogni atto di incompetenza sostituiamo un atto di tradimento, riusciremo a vedere quanti punti di affascinante interpretazione si aprono all’immaginazione paranoide: il tradimento dei luoghi di potere lo si trova ad ogni svolta della storia – e alla fine il vero mistero, per chi legga le opere principali del sapere paranoide, non è come gli Stati Uniti siano finiti nella pericolosa posizione attuale, ma proprio come siano riusciti a sopravvivere9.

Aggiungiamoci le guerre in Vietnam, Iraq e Afghanistan, insieme alle Torri Gemelle e al motto Make America Great Again oppure, d’altro lato, le accuse a Trump di aver permesso l’ingerenza di Putin nelle elezioni presidenziali americane, e vedremo come sia stato possibile delineare con sessant’anni di anticipo il quadro odierno, fino all’assalto a Capitol Hill. Ma, al termine del più che utile e attuale libello, Hofstadter spinge lo sguardo ancora più indietro, fino a quel Medioevo in cui i movimenti ereticali e la loro persecuzione suggeriscono l’idea che

i movimenti che adoperano lo stile paranoide non siano costanti, ma si presentino in ondate episodiche consecutive, suggeriscono che la disposizione paranoide venga mobilitata prevalentemente da conflitti sociali che chiamano in causa i sistemi di valori assoluti e che portano nell’azione politica paure e odi fondamentali […] la paura della catastrofe è l’elemento che verosimilmente può scatenare la sindrome della retorica paranoide10.

Nei suoi studi sulle sette millenaristiche europee tra l’XI e il XVI secolo per il suo bellissimo libro The Pursuit of the Millennium11, Norman Cohn individua la costante di un complesso psicologico che assomiglia molto a quello che ho esaminato in queste pagine, uno stile fatto di alcune preoccupazioni e fantasie molto definite: «la visione megalomaniaca di se stessi come Eletti, interamente buoni, vittime di persecuzioni abominevoli ma sicuri del trionfo finale; l’attribuzione di poteri giganteschi e demoniaci all’avversario; il rifiuto di accettare i limiti e le imperfezioni ineluttabili dell’esistenza umana, come la transitorietà, il disaccordo, il conflitto, la fallibilità intellettuale e morale; l’ossessione per profezie infallibili…gli errori sistematici di interpretazione, sempre marchiani e spesso grotteschi…la spietatezza indirizzata ad uno scopo che per sua stessa natura non si può realizzare, indirizzata a una soluzione definitiva e assoluta che non potrà mai avere luogo in nessun momento concreto e in nessuna situazione concreta, ma solo nel regno eterno e autistico della fantasia»12.

Ecco allora che l’attualità del saggio di Hofstadter, che supera i limiti di tempo delle ricerche più recenti sul fenomeno complottistico americano, ci obbliga anche a confrontarci con il problema delle origini dell’atteggiamento paranoide all’interno delle religioni rivelate13, oltre che con quello della diffusione dello stesso nell’ambito di un’ideologia che, nel volersi radicale ad ogni costo, finisce con l’abbandonare l’analisi concreta del mondo e dell’immaginario, per rifugiarsi invece in facili teorie cospirazioniste e altrettanto facili slogan, destinati soltanto ad avvicinarla a quel pericoloso confine lungo il quale la distinzione tra ‘destra’ e ‘sinistra’ diventa fin troppo esile.

Chi scrive si spinge così a sperare che qualche editore italiano, magari la stessa Adelphi, voglia riproporre in futuro le opere dello storico americano da tempo mancanti sul mercato librario, sicuramente datate dal punto di vista cronologico ma non da quello dei contenuti, oppure quel Social Darwinism in American Thought 1860-1915 che costituì la sua prima ricerca e che non è ancora mai stata tradotta in Italia.


  1. Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein ( 1773 – 1859), è stato un diplomatico e politico austriaco, dal 1821 al 1848 cancelliere di Stato e il simbolo stesso della reazione e autentico perno della Restaurazione per convinzione fermissima  

  2. Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021, pp. 41-42  

  3. R. Hofstadter, op. cit., pp. 43-44  

  4. Op. cit., pp. 67-68  

  5. Ivi, p. 66  

  6. Ivi, pp. 55-59  

  7. Ivi, p. 17  

  8. In The Dispossessed, in Radical Right a cura dello stesso Bell, pp.1-38,1963  

  9. R. Hofstadter, op.cit., pp. 46-48  

  10. Ivi, op.cit., pp. 72-73  

  11. In Italia tradotto come I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965  

  12. R. Hofstadter, pp. 71-72  

  13. Oltre che del saggio di Norman Cohn già citato, sull’argomento si suggerisce qui la consultazione di Jan Assmann, La distinzione mosaica (ovvero il prezzo del monoteismo), Adelphi, Milano 2011 e, sempre dello stesso Jan Assmann, Non avrai altro dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, il Mulino, Bologna 2007  

]]>