Rete No Global – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Genova 2001. Una storia del presente / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/03/genova-2001-una-storia-del-presente-1/ Fri, 03 Mar 2023 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76098 di Emilio Quadrelli

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Futuro anteriore

Uno, due, tre viva Pinochet Quattro, cinque, sei a morte gli ebrei Sette, otto, nove il negretto non commuove!

Questo il ritornello intonato a squarcia gola dalle forze dell’ordine mentre lasciavano Genova pochi giorni dopo aver “normalizzato” la città e aver garantito il buon esito e funzionamento del vertice dei grandi. [...]]]> di Emilio Quadrelli

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Futuro anteriore

Uno, due, tre viva Pinochet
Quattro, cinque, sei a morte gli ebrei
Sette, otto, nove il negretto non commuove!

Questo il ritornello intonato a squarcia gola dalle forze dell’ordine mentre lasciavano Genova pochi giorni dopo aver “normalizzato” la città e aver garantito il buon esito e funzionamento del vertice dei grandi. Su quanto accadute in quelle giornate esiste una pubblicistica corposa e sembra pertanto inutile tornarvi sopra per l’ennesima volta. Ciò su cui vale invece la pena di focalizzare l’attenzione sono alcuni aspetti rispetto ai quali, per lo più, le narrazioni costruite intorno agli eventi di “Genova 2001” si sono mostrate per lo meno lacunose e fortemente addomesticate. In primis l’attribuzione delle reali responsabilità di quanto accaduto. Come tutti ricorderanno il Governo in carica nel luglio 2001 era un Governo di centro – destra a guida Berlusconi che si era insediato da poco tempo avendo vinto le elezioni il 13 maggio entrando in carica l’11 giugno. Al momento dei fatti la destra governava da 38 giorni senza, nel frattempo, aver modificato di una sola virgola gli assetti burocratici e militari ereditati dal governo di centro – sinistra. In altre parole l’intera catena di comando politico – militare addetta alla gestione del Vertice era per intero legata al governo precedente. A conti fatti, nonostante il maccheronico decisionismo di cui Berlusconi ama ammantarsi, la decisione della quale il premier in carica e il suo Governo riuscirono a farsi interamente carico non andò oltre il posizionamento di un certo numero di fioriere al fine di rendere esteticamente più piacevoli alcune piazze della città destinate al passeggio dei “grandi della terra”, oltre all’imperativo decreto che vietava agli abitanti delle zone interessate agli eventi dei “grandi” di stendere i panni alle finestre. Infine, dato un breve sguardo ai palazzi della città, constatato che alcuni di questi si presentavano in maniera malconcia e poco decorosa Berlusconi ordinava, sicuramente con piglio ducesco, di recuperare in fretta e furia un certo numero di “teloni artistici” con i quali ricoprire le meste mura dei palazzi. Con ciò il centro storico di Genova non sarebbe diventata proprio il remake di Versailles ma per un paio di giorni il gioco, come in effetti accadde, avrebbe potuto funzionare. Questo, a conti fatti, ciò di cui si occupò concretamente il Governo di destra mentre l’intera macchina poliziesca e la pianificazione della gestione del Vertice è stata per intero farina del sacco fuoriuscito dal Governo della sinistra. Vale forse la pena di ricordare, al proposito, che il la al G8 genovese è stato dato dal Governo di D’Alema il quale, in non poche occasioni, tendeva a pavoneggiarsi mostrando il suo non secondario feeling con Condoleezza Rice feeling che, attraverso il gioco del detto e non detto, il nostro faceva intendere essere non solo di natura diplomatica e politica.

Gossip a parte resta il fatto che la macchina del G8 ha preso le mosse sin dal 1999 e dal quel momento è stata puntigliosamente oliata e perfezionata. Del resto di quanto gli “eventi genovesi” avessero ben poco di sorprendente e inaspettato è facilmente constatabile con quanto andato in scena poco tempo prima nel corso delle giornate napoletane1, con ancora il governo di centro–sinistra in carica, le quali, col senno di poi, possono considerarsi come una sorta di prova generale di Genova 2001. Detto ciò, onde evitare equivoci di sorta, occorre fare una fondamentale precisazione. Qua non si tratta, infatti, di addossare le colpe della “macelleria messicana” andata in scena a Genova al governo di centro–sinistra piuttosto che a quello di centro – destra ma di evidenziare, piuttosto, il carattere unitario del comando internazionale del capitale. Focalizzare lo sguardo su D’Alema piuttosto che su Berlusconi, o viceversa, significherebbe perimetrare gli “eventi genovesi” in un’ottica localista dimenticando che, ormai dai tempo, i governi nazionali non sono altro che semplici propaggini e appendici, con poteri decisionali sempre più limitati, di poteri sovranazionali espressioni dirette delle varie componenti del comando internazionale del capitale2. Un comando che se, nelle diverse sue articolazioni, mostra di essere tutt’altro che prono a un unico disegno, tanto che il conflitto armato interimperialistico può essere tranquillamente assunto come la cifra del presente, nel rapporto con le masse subalterne conosce una “linea di condotta” sostanzialmente unitaria. Il G8 genovese, di ciò, ne è stato l’esatta fotografia. È all’interno di questo scenario obiettivo che, allora, diventa persino semplice comprendere il senso di quelle giornate e tutto ciò che si sono portate appresso, in primis la pratica della tortura.

Un aspetto sul quale appare importante soffermarsi poiché l’utilizzo della tortura è qualcosa che va ben oltre la brutalità ma è indice di un passaggio politico a tutto tondo. Anche su questa esiste una non secondaria documentazione alla quale non si può far altro che rimandare evitando, in tal modo, di ripetere cose arcinote3. Più importante invece soffermarsi sui significati politici centrali che il passaggio alla tortura comporta poiché, il non farlo, potrebbe portare a un insieme di malintesi che finirebbero per diluire la tortura in una delle tante forme di sopraffazione poliziesca delle quali il mondo è tanto ricco quanto rigoglioso o, come nel caso genovese è stato più volte ventilato, all’iniziativa autonoma di quote di forze dell’ordine particolarmente reazionarie e prone alla violenza tanto che, commentatori tanto ingenui quanto sprovveduti, nei “fatti di Genova” hanno voluto intravedere un tentativo di golpe ordito dalle componenti filo fasciste del governo di centro – destra. Ovviamente di detto golpe non vi è stato alcun sentore così come nessuna modifica di una qualche rilevanza è andata a intaccare il quadro istituzionale. Certo il G8 genovese ha sancito un radicale passaggio nella “costituzione materiale” degli assetti del comando ma questo è un altro discorso, discorso che ben poco ha a che vedere con gli eterei mondi della politica e delle costituzioni formali ma affonda le sue ben più solide radici negli inferi della produzione4. Chiarito ciò proseguiamo.

Quello che va evidenziato, a differenza di quanto comunemente fatto dai testi e dai resoconti coevi agli eventi genovesi, il cui sguardo si è focalizzato sulla violenza e la brutalità poliziesca5, è soffermarsi su cosa racchiude in sé il passaggio alla tortura, i suoi fini e i suoi obiettivi. Il passaggio alla tortura non rappresenta il tratto sadico e in fondo irrazionale del potere politico semmai un atto estremamente lucido e consapevole frutto del più cristallino decisionismo politico. Sicuramente non sono rari i casi in cui singoli gruppi polizieschi finiscono “fuori controllo” e vanno ben oltre il loro mandato ma questo non avviene mai nel caso della tortura. La tortura non è un eccesso dettato da un particolare contesto nel quale qualcuno “perde la testa” bensì un “programma politico” che soggiace per intero a una intenzionalità fredda, priva di emotività e del tutto razionale e che, a conti fatti e in maniera lucida e sintetica, racconta come il potere politico, senza distinzioni di sorta, si relaziona alle masse subalterne o, come accaduto in passato in Italia e Germania, un modo per neutralizzare le organizzazioni rivoluzionarie e i settori operai e proletari a queste affini6.

Per comprenderlo cominciamo, intanto, con il dire che la tortura è altra cosa da quel passage à tabac espressione con la quale il milieu7 è abituato a indicare l’interrogatorio di polizia. In questo caso tabac non ha nulla a che fare con il tabacco poiché, in argot, tabac significa battere o più precisamente picchiare. Con questa espressione il milieu indica ciò che pressoché abitualmente comporta l’interrogatorio di polizia. Nonostante, da tempo, una serie inesauribile di fiction come per esempio Il Commissario Montalbano o Il maresciallo Rocca abbiano propagandato un’immagine assolutamente prona alla correttezza formale e a un trattamento scevro da qualunque brutalità da parte delle forze dell’ordine, il prosaico realismo consegnatoci dall’espressione cara al milieu rimane il permanente sfondo dell’interrogatorio di polizia. Al proposito vale sicuramente la pena di ricordare che è abitudine, tra coloro i quali corrono il rischio di incappare in un fermo o un arresto di girare con una lametta a portata di mano, solitamente nella bocca, in modo da potersi procurare all’occorrenza una certa quantità di lesioni in modo tale da interrompere l’interrogatorio e accedere al ricovero ospedaliero. In altre circostanze, invece, chi non ha lamette a disposizione cerca di tagliarsi, o procurarsi vistose lesioni, buttandosi contro una finestra e, attraverso questa via estrema, porre fine all’interrogatorio e trovare rifugio in un Pronto soccorso8. Tutto ciò per dire che la violenza da parte delle forze dell’ordine non è certo una eccezione ma una costante se non proprio certa, assai probabile. Tuttavia siamo ben distanti dal poter considerare tutto questo alla stregua di tortura anche perché, notoriamente, per i torturati l’escamotage dell’autolesionismo e conseguente ricovero ospedaliero non è certo una carta giocabile. Il fatto stesso che la polizia, di fronte a lesioni e ferite, si fermi indica come, per quanto brutale e violento, al passage à tabac non è consentito varcare una certa soglia. Perché vi sia tortura, per prima cosa e anche indipendentemente dal livello di violenza esercitata, occorre che vi sia una decisione politica ovvero che la violenza non sia il frutto della libera iniziativa di questo o quel funzionario ma che la decisione della violenza e delle sue forme appartenga per intero allo Stato. Non si tratta di una sottigliezza ma di un passaggio nodale.

Nel caso della violenza, che in certi casi può assumere anche gli aspetti propri della tortura, frutto dell’abitudine costume poliziesco non vi è una regia centralizzata e un obiettivo politico da raggiungere mentre, quando la violenza è il frutto di una decisione politicamente centralizzata, il tutto ruota intorno al raggiungimento di precisi obiettivi politici. La tortura, e ne è un aspetto sicuramente non secondario, è finalizzata a far parlare il soggetto/oggetto inquisito ma non solo e anzi, come il G8 genovese ha ampiamente testimoniato, l’obiettivo perseguito non ha nulla a che vedere con il reperimento di informazioni. Scopo principale della tortura è spezzare e annullare l’identità politica e sociale del torturato, annichilirlo e terrorizzarlo e per questo il suo livello di violenza, a trecentosessanta gradi, è incommensurabile al più noto passage à tabac.

Per i mondi illegali e per le stesse forze di polizia, a conti fatti, il passage à tabac rappresenta una prova e un rito di passaggio. Attraverso di questo si pesa il soggetto con il quale si ha a che fare, lo si classifica. Chi passa la prova dal milieu sarà considerato un “bravo ragazzo”, uno del quale ci si può fidare mentre, da parte poliziesca, sarà archiviato come uno che non parla e con il quale non è il caso di perdere troppo tempo. Certo tutto ciò non fornisce la certezza di non dover più passare attraverso quell’esperienza ma sicuramente un po’ l’allontana. In ogni caso il passage à tabac ha come sola e unica finalità la confessione e la delazione nei confronti dei possibili complici, la tortura va di gran lunga oltre. Per quanto il reperimento di informazioni rimanga un suo obiettivo si può arrivare a dire che, per certi versi, questo è ciò che sta in superficie ma il vero scopo della tortura è distruggere e piegare l’anima del prigioniero. L’uso del terrore mira esattamente a ciò. Quanto andato in scena a Genova ne rappresenta non solo una eccellente esemplificazione ma un vero e proprio paradigma. Banalmente ai prigionieri non doveva essere estorta alcuna informazione, nulla doveva essere scoperto, nessun ipotetico complice doveva essere identificato, alcun piano sventato tanto che i prigionieri non sono stati sottoposti a interrogatorio ma “semplicemente” brutalizzati e terrorizzati. Se, in qualche modo, erano entrati nelle caserme pensando che un altro mondo è possibile, dovevano uscirne non solo sapendo che nessun altro mondo era possibile ma talmente piegati e terrorizzati da non poter neppur pensare a qualcosa di diverso. Ogni forma di resistenza alla globalizzazione del capitale doveva essere tanto rimossa quanto annichilita. Questo, in estrema sintesi, l’obiettivo politico perseguito dal potere politico attraverso l’uso sistematico della tortura. Del resto il fatto che oggetti della tortura fossero gli stessi gruppi pacifisti e di ispirazione religiosa qualcosa ha ben voluto dire9. Ciò che doveva essere estirpato era qualunque forma di “pensiero critico” nei confronti della globalizzazione del capitale e del pensiero unico che questa si porta appresso.

L’abito fa il monaco

Ma questo scenario era così imprevedibile? Di quanto andato in scena, nelle giornate immediatamente a ridosso del Vertice, era così impossibile averne un qualche sentore oppure, al contrario, non pochi indizi potevano far presupporre che le giornate del Vertice sarebbero state tutto tranne che un pranzo di gala? Ciò che si stava verificando in città mentre le date del Vertice si avvicinavano non dava alcun segnale di ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto? Il clima che si respirava in città, e in particolare nella zona centrale che di lì a poco sarebbe diventata addirittura non transitabili e gli stessi residenti, se non muniti di uno speciale lasciapassare, costretti a rimanervi segregati, era cosi sereno? Perché, a conti fatti, come autentici dilettanti allo sbaraglio gli organizzatori ufficiali del Contro Vertice, ovvero tutte quelle organizzazioni confluite nel Genoa Social Forum 10, hanno obiettivamente mandato al macello centinaia di migliaia di persone? Di quale malinteso, a conti fatti, la tragicità delle giornate genovesi è stato l’effetto? Fatale, in tutto ciò, è la cornice teorico – politica che ha fatto da sfondo all’organizzazione del Contro Vertice la quale, proprio in quelle giornate, ha conosciuto, insieme alla sua più radicale smentita, il suo inevitabile declino11. Prima di affrontare i guasti di detta ipotesi politica caliamoci un attimo nel mondo empirico partendo con la descrizione del fenomeno, il quale notoriamente è più ricco della legge, per passare poi a una sintetica disamina delle fatidiche giornate. Un piccolo resoconto etnografico può già fornire l’idea di che cosa stesse bollendo in pentola. Si tratta di un episodio, persino divertente, che mi ha visto coinvolto in prima persona e del quale ho un ricordo più che nitido, episodio avvenuto quattro giorni prima che le giornate del Contro Vertice prendessero le mosse, parliamo quindi del quindici luglio.

A fine giugno avevo partecipato al Campionato europeo di powerlifting tenutosi a Londra. Campionato che, anche un po’ fortunosamente, avevo vinto. Avevo gareggiato nella categoria dei novanta chili rientrandovi con una qualche fatica per cui due settimane dopo ero sicuramente più pesante di almeno tre o quattro chili ma in buona forma. Diciamo che per strada non era proprio facile passare inosservati. A questa massa non proprio rientrante nella norma va aggiunto un abbigliamento altrettanto poco convenzionale, ovvero il tipico look da palestra insieme agli inevitabili capelli rasati. Così combinato,insieme a un cucciolo che a dieci mesi pesava già quaranta chili e sembrava avere il classico argento vivo addosso, entro nel labirinto dei vicoli del Centro storico cittadino per fare la spesa. Imboccata via san Luca12 incrocio un gruppo di ragazze e ragazzi con un cucciolo di labrador. I due cani iniziano a giocare dando vita alla classica situazione nella quale cuccioli particolarmente giocosi si incontrano e finiscono con l’attirare l’attenzione dei passanti. Il gruppo è formato da due ragazze e tre ragazzi con una età che, a occhio, poteva andare tra i diciotto e i venti anni. Dall’aspetto, ossia taglio dei capelli, vestiario e zainetti incarnano il modello idealtipico del no global radicale ma non troppo. Non hanno facce da strada e non sembrano neppure appartenere a quei settori giovanili di “classe operaia dura” abitualmente presente tra i vicoli dell’angiporto. I loro modi sono gentili ed educati e assai consoni a chi può vantare più una lunga militanza tra i boy scout e le associazioni di volontariato che tra le file di un qualche gruppo duro, radicale e pronto allo scontro di piazza. La loro aria ha ben poco di coatto o sgamato piuttosto quella dello sprovveduto che attraversa luoghi a lui sostanzialmente estranei come del resto, ancora nel 2001, il Centro storico poteva presentarsi. Se nel look, in qualche modo, possono vantare anche una vaga affinità con i punk-bestia questa è la medesima che poteva avvicinare i lettori di “Noi giovani”13 con la beat generation!. Finita questa sintetica descrizione riprendiamo il racconto.

Mentre i cani giocano con l’inevitabile intreccio dei guinzagli e via dicendo veniamo letteralmente circondati da una decina di poliziotti che in maniera decisamente brusca ci chiedono i documenti. I tipi sono decisamente esagitati e sopra le righe come se tra noi avessero individuato Matteo Messina Denaro o qualcuno di calibro affine. L’attenzione si concentra immediatamente sui ragazzini, mentre io vengo tenuto in disparte, i quali vengono attaccati al muro e perquisiti, ragazze comprese anche se, di norma, avrebbero dovute essere perquisite da un agente donna ma evidentemente i nostri, anche se a modo loro, erano già post gender. Ovviamente, nei confronti delle ragazze, non mancano una serie di apprezzamenti sessisti mentre i ragazzini vengono apostrofati, con battute come frocetti e via dicendo. La perquisizione corporale ovviamente non porta a nulla e quindi l’attenzione passa agli zainetti il cui contenuto viene rovesciato con sfregio in mezzo a via san Luca. Da un paio di questi fuoriescono dei libri alla vista dei quali delle 44 Magnum o delle P38 avrebbero suscitato una reazione decisamente più composta. Iniziano così una serie di tiritere sugli studenti e gli intellettuali sulle quali non è il caso di soffermarsi poiché sono l’esatta fotocopia delle tradizionali retoriche plebee rivolte al ceto intellettuale14.

La cosa dura una buona mezz’ora poi, tenendoli sempre attaccati al muro, passano al controllo dei documenti via centrale. In mezzo a tutto ciò vi sono una serie di dichiarazioni che, senza che la fantasia debba intervenire, fanno ben capire cosa si sta profilando all’orizzonte. Alla fine li mollano dicendogli: Tanto il culo ve lo spacchiamo tra qualche giorno. A quel punto rimango solo io e già sto immaginando che sarò fermato, portato in Questura e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto sono preoccupato per il cane e sto pensando di lasciarlo alla mia parrucchiera di fiducia che fortunatamente è nelle immediate vicinanze . Faccio per mettere mano al portafoglio per mostrare i documenti e, con non poca sorpresa ma anche molto sollevato, incontro lo sguardo amicale del poliziotto che mi dice: Ma figurati, tu non sei come quelli là. Ringrazio e, con molta calma e ricambiando il sorriso, mi dirigo verso un negozio vicino per completare la spesa. Tutto ciò non deve stupire perché, come ha evidenziato la ricerca sociologica, l’aspetto di una persona influisce notevolmente sui comportamenti delle forze dell’ordine15. Nell’azione della polizia vi è sempre uno sfondo antropologico originato da un insieme di pregiudizi proprio delle retoriche di senso comune16 come, del resto, è ogni giorno facilmente constatabile osservando i comportamenti polizieschi nei confronti della popolazione immigrata17.

Questo episodio, è bene sottolinearlo, è stato tutto tranne che un caso isolato. La caccia al no global era palesemente dichiarata e che la caccia avrebbe preso le sembianze della guerra qualcosa di più di una semplice ipotesi di scuola. Di ciò se ne è avuta una corposa conferma nelle giornate successive, soprattutto in quella del 21. Sull’andamento differenziato delle giornate occorre soffermarsi poiché sono in grado di raccontare qualcosa di non convenzionale che la narrazione ufficiale intorno al G8 ha per lo più eluso. Come noto, in realtà, le giornate sono state tre e non due anche se, quella del 19 luglio incentrata principalmente sulla “questione immigrazione”, è stata una manifestazione più ufficiosa che ufficiale. Questa giornata, con tantissima partecipazione anche se una parte consistente dei manifestanti era ancora in viaggio verso Genova, si è svolta senza incidenti e, almeno, in merito al discorso che stiamo facendo non vi un granché da dire. Spiccava, certamente, il numero impressionante di forze dell’ordine disseminate lungo il percorso del corteo, il loro fare piuttosto aggressivo il che, solo con il senno del poi, poteva interpretarsi come una avvisaglia, ancora sul piano del simbolico, di ciò che i giorni successivi portavano in grembo. Il 19, in ogni caso, fila liscia e si conclude il Piazzale Kennedy18 con un comizio di alcuni esponenti del Genoa Social Forum e il concerto dell’icona no global del momento, Manu Chao. Nel corso della serata si svolge anche una riunione “informale” dei responsabili organizzativi delle varie componenti del Genoa Social Forum ed è una riunione interessante perché mostra la totale incomprensione di questi nei confronti della realtà e delle dinamiche che di lì a qualche ora i manifestanti si troveranno a affrontare. Per farla breve nessuno ipotizza la possibilità di un attacco di una qualche consistenza da parte delle forze dell’ordine e l’unico problema che viene posto è il controllo dei gruppi che stanno fuori dal perimetro del Genoa Social Forum. Nessuna organizzazione dispone di una struttura “militante” anche perché tra le tante perle teoriche elaborate comunemente dalle componenti del Genoa Social Forum vi è proprio la critica, il rifiuto e la condanna di tutte quelle pratiche “novecentesche” sulle quali il Movimento dei Movimenti è stato in grado di porre, senza rimpianti di sorta, la parola fine. Questo il frame analitico con il quale gli organizzatori si apprestano a affrontare le giornate successive.

(Fine prima parte – continua)


  1. Al proposito si veda: Rete no global, Zona rossa. Le “quattro giornate di Napoli” contro il global forum, Derive Approdi, Roma 2002  

  2. Per una discussione a trecentosessanta gradi su questo aspetto si possono vedere: Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editore Laterza, Roma – Bari 2001; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999; D. Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993; A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna 2000; R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999.  

  3. Ho provato a discutere la “questione tortura” in E. Quadrelli, Algeria 1962 – 2012: una storia del presente, La Casa Usher, Firenze 2012.  

  4. In fondo, come di sovente accade, occorre tornare a Marx per comprendere ciò che accade nel mondo reale e non farsi irretire dalle parvenze celestiali proprie delle retoriche politiche. Paradigmatico, al proposito, rimane il noto capitolo ventiquattresimo , “La cosiddetta accumulazione originaria” de Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1989.  

  5. Si veda, per esempio, M. Calandri, Bolzaneto. La mattanza della democrazia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  6. Su questo aspetto si veda soprattutto Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, Roma 1998.  

  7. Si tratta del termine gergale utilizzato in Francia per indicare gli appartenenti ai mondi illegali. Ancorché in chiave romanzata un buon testo in grado di rendere in maniera assai realistica il mondo del milieu rimane, G. Carlo Fusco, Duri a Marsiglia, Einaudi, Torino 2005.  

  8. Cfr., E. Quadrelli, Andare ai resti, Derive Approdi, Roma 2004.  

  9. Questo il trattamento riservato a tutte quelle realtà pacifiste e religiose che avevano dato vita alla Rete Lilliput, cfr. “Polizia carica manifestanti a mani alzate”, in web.peacelink.it  

  10. Cfr. P. Ceri, La democrazia dei movimenti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (Cz) 2003; A. Ginori (a cura di), Le parole di Genova, Fandango Editore, Roma 2002.  

  11. L’egemonia teorica e culturale all’interno del Genoa Social Forum è stata esercitata dal discorso post-operaista e da un testo, M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, uscito in francese nel 2001 e ampiamente diffuso, almeno nelle sue linee essenziali, sia nei circuiti legati direttamente ai mondi del post-operaismo sia all’interno dell’area politica e sociale influenzata da Rifondazione comunista e i Giovani comunisti. Sotto il profilo organizzativo a Genova l’area post-operaista si caratterizzò attraverso l’esperienza delle “Tute bianche”, cfr., A. Fumagalli, M. Lazzarato, Tute bianche. Disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, Derive Approdi, Roma 2002. Il G8 significò l’obiettivo declino di questa ipotesi la quale, da quel momento in poi, perse gran parte della sua dimensione di massa per farsi sempre più appannaggio di ristretti cenacoli accademici. 

  12. Una via situata proprio nel cuore del centro storico genovese e oggi molto frequentata dai turisti in quanto prossima alla zona Acquario, Casa di Mazzini e i vicoli del “Ghetto” che Fabrizio De Andrè ha reso noti al mondo.  

  13. Rivista patinata degli anni Sessanta che occhieggiava, in un ottica assolutamente perbenista, agli aspetti più frivoli e indolori della contro – cultura propria della beat generation. Non è casuale che il loro modello di riferimento fossero i Beatles mentre i Rolling Stones venissero praticamente ignorati.  

  14. Su questo aspetto rimane fondamentale, G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Editore Laterza, Roma – Bari 1988.  

  15. Su questo aspetto rimane centrale il saggio di, H. Sacks, Come la polizia valuta la moralità delle persone basandosi sul loro aspetto, in P.P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, il Mulino 1983.  

  16. Cfr., C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1973.  

  17. Cfr. E. Quadrelli, Stranieri in carcere: una ricerca etnografica, in, adir.unifi.it L’altro diritto, Firenze 1999.  

  18. Piazzale antistante alla “zona fiera” nota soprattutto perché ospita annualmente il salone della nautica.  

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Da Seattle a Genova https://www.carmillaonline.com/2021/08/18/da-seattle-a-genova/ Wed, 18 Aug 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67653 di Giovanni Iozzoli

Daniele Maffione (a cura di), Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global, DeriveApprodi, Roma, 2021, pp. 320, € 20,00

La raccolta di interventi e interviste curata da Daniele Maffione, sui fatti del G8 napoletano del marzo 2001, rappresenta uno strumento utilissimo di riflessione sulla nostra storia recente e sul vero “male italiano” – la maledetta continuità repressiva che fatalmente, epoca dopo epoca, gli apparati di Stato riversano sulle piazze critiche e i movimenti sociali. Nel ventennale di Genova, molte lacrime di coccodrillo sono state spese, sui media. Sorprendentemente, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Daniele Maffione (a cura di), Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global, DeriveApprodi, Roma, 2021, pp. 320, € 20,00

La raccolta di interventi e interviste curata da Daniele Maffione, sui fatti del G8 napoletano del marzo 2001, rappresenta uno strumento utilissimo di riflessione sulla nostra storia recente e sul vero “male italiano” – la maledetta continuità repressiva che fatalmente, epoca dopo epoca, gli apparati di Stato riversano sulle piazze critiche e i movimenti sociali. Nel ventennale di Genova, molte lacrime di coccodrillo sono state spese, sui media. Sorprendentemente, questa ricorrenza ha avuto una visibilità mediatica notevole – quasi come se collocando il movimento nella dimensione commemorativa, se ne volesse esorcizzare definitivamente il ricordo, magari anche con qualche “onore delle armi” assai postumo e sospetto. Alle lusinghe pelose e beffarde dei media, si sono aggiunti i piagnistei di taluni protagonisti dell’epoca – quanto avevamo ragione!-, come se il movimento antiglobalista fosse destinato tuttalpiù a recitare nella storia un ruolo di Cassandra triste e inascoltata.

Ma il libro di Maffione riporta alla luce un contesto – assolutamente poco indagato – che ha fatto da preludio e prova generale, rispetto ai fatti di Genova. La mattanza del 17 marzo 2001 in Piazza Municipio, in occasione della contestazione al Global Forum Ocse, con il suo seguito di sequestri, torture e arresti, costituì un impianto e un metodo che ritroveremo pari pari nel capoluogo ligure pochi mesi dopo. E’ per quello che ricostruire i fatti che si dipanarono intorno al G8 napoletano, è essenziale anche per capire Genova. Niente nasce in modo improvviso, quando si parla dello Stato; tutto è il prodotto di sedimenti e metodo: le istituzioni hanno una memoria storica più efficace dei movimenti.

A vent’anni di distanza da quegli eventi, che sfociarono nella contestazione del G8 di Genova, si è fatta largo un’esigenza. Col presente lavoro s’intende contribuire a colmare un vuoto di conoscenza su quella stagione di lotta, che è stata raccontata in modo distorto dalla parte dei cosiddetti vincitori. I vinti sono stati descritti come “black block”, terroristi e sfascia vetrine. E’ vero che sono state prodotte numerose memorie o testimonianze, individuali o collettive, sull’argomento, che hanno tentato di dimostrare il portato politico-sociale del movimento no global. Ma, viste nell’insieme, queste opere appaiono datate, episodiche e risultano essere lontane da una ricostruzione precisa della cornice storica in cui avvennero i fatti. Questa dispersività non ha aiutato la comprensione di ciò che avvenne, né ha favorito un adeguato bilancio politico dell’esperienza no global in Italia. Non sono state prese in esame circostanze reali, istanze soggettive, peculiarità che hanno portato ad una partecipazione di massa inedita nella contestazione al neoliberismo. Così come non sono state indagate a fondo le esperienze di azione diretta, né è stata compiuta una doverosa analisi della ragioni che portarono alla sconfitta di quel movimento. Di fatto, questa vacatio non ha tramandato alle nuove generazioni una consapevolezza critica di quella esperienza di lotta. (pagg. 11/12)

A Napoli, dicono alcuni dei protagonisti intervistati, solo per un caso fortuito non ci scappò il morto. Migliaia di giovanissimi – come Carlo Giuliani – subirono per ore le cariche selvagge e i caroselli dei blindati nella tonnara di piazza Municipio, una trappola senza vie di fuga. Ricorda Francesco Amodio, compianto leader dei Cobas scuola, il clima cileno che piombò all’improvviso su quella piazza:

Ho il racconto di alcuni compagni e colleghi, che dovettero mettersi in ginocchio con le mani alzate con tutti gli studenti per evitare di essere massacrati. C’erano questi giardinetti in piazza Municipio, pieni di studenti e professori in ginocchio con le mani in alto; è accaduto a noi, c’era una professoressa che ora è in pensione e raccontava che stava davanti agli studenti con le mani alzate, in ginocchio. Mi raccontò: guarda Francesco, il terrore dentro è una cosa terribile, tu lo fai perchè ti rendi conto che non c’è altro da fare, in realtà vorresti urlare e scappare, ma se lo fai questo è peggio, perchè hai rotto la situazione ed è terribile. (pag. 160)

Le torture e gli arresti abusivi nella caserma Raniero furono il preludio tragico di Bolzaneto. Al governo, all’epoca dei fatti napoletani, c’era il centrosinistra – città, regione ed esecutivo nazionale. Il passaggio di testimone ai berlusconiani, pochi mesi dopo, fu molto naturale: cambiano i governi ma i movimenti anticapitalistici vanno considerati nemici da annientare – almeno se superano le soglie del minoritarismo testimoniale e si candidano a diventare vettori di rappresentanza sociale.

Maffione è abile nell’evitare le trappole della memorialistica. Il No-Global day (i napoletani rivendicano il copyright del logo “no global”) viene declinato al presente, con ritmo, intensità, testimonianze dirette. Quasi metà del volume è riservato ad un racconto romanzato scritto da Francesco Festa e dedicato al pathos di quei giorni – molti ragazzi di vent’anni fa potranno riconoscersi in quei ritratti sincopati: attraverso la forma narrativa la ricostruzione dei contesti diventa più efficace e ricca di sfumature – come a DeriveApprodi sanno bene. Nell’altra metà del volume si alternano le voci di alcuni militanti storici della piazza napoletana e di figure – come quella di don Vitaliano della Sala – che attraversarono il movimento e conquistarono all’epoca notevole visibilità mediatica (senza lasciarsene però intrappolare).

Il grande evento napoletano giunse al culmine di un crescendo di mobilitazioni internazionali, da Seattle in avanti. In campo non c’era ancora l’ombra oscura della Grande Crisi, il ritorno della povertà di massa nella metropoli, la crisi pericolosa dei ceti medi e l’ennesimo arretramento operaio – tema e sfondo del decennio successivo. I tempi sono ancora pieni di speranza, segnati da una visione, da un’apertura su un futuro altro che si sente ancora possibile. Si contesta l’iniquità distruttiva dell’oligarchia finanziaria che globalizza i mercati e disegna gerarchie feroci fra territori e classi; si ragiona sulle grandi campagne contro il debito e la fame; lo zapatismo, la Chiesa di base, il movimento campesino nelle campagne del mondo, il rifiuto dei modelli agro-alimentari imposti dagli Usa, tutta una fusion di suggestioni belle e potenti. Il risultato di questa polifonia è una partecipazione davvero di massa. Ricorda Alfonso De Vito:

In qualche modo , il movimento no global canalizzò energie sociali troppo più larghe del collo di bottiglia delle forme della politica in cui ancora si muoveva. Sperimentammo sul campo il tema del conflitto e del consenso. Anche le strutture più moderate sentivano la spinta propulsiva e ne recepivano, almeno in parte, gli stimoli. Tanta era la partecipazione, che non sapevamo neppure dove tenere le assemblee. (pag. 175)

Visto oggi, il movimento no global lascia intravedere le sue ingenuità e i suoi limiti – con i suoi boy scout, le incursioni fiduciose su un web che doveva apparire una libera prateria da contendere, l’idea che si potesse dichiarare guerra a un nemico spietato, senza essere minimamente attrezzati a reggere il gioco. Ma sarebbe un giudizio ingeneroso: tutti i temi di allora suonano come funeste anticipazioni del presente. Un movimento così vivace e umanamente ricco, forse oggi non potrebbe nemmeno esistere: nel presente prevalgono ovunque i toni cupi, quasi apocalittici, di un mondo in disgregazione. Allora si pensava che i movimenti potessero in qualche modo piegare la governance capitalistica; oggi ci si misura non con la supposta onnipotenza di tale governance, ma con la sua incapacità di gestione delle proprie crisi; e più che l’idea di contestare la cricca dei cattivi globalisti che gestiscono il mondo, si fa i conti con la difesa disperata davanti alla guerra tra bande criminal-finanziarie, sempre più arroccate in un ritorno alla dimensione dello Stato nazionale (altro che Impero…). Un cambio d’epoca, di paradigma, di aspettative, che rende bene il segno dei tempi moderni.

Napoli fu anche la dimostrazione scientifica di come l’impunità di Stato sia essenzialmente criminogena. Alcuni degli imputati per le violenze della caserma Raniero, li ritroveremo a scorrazzare, palmare e manganello in mano, lungo le impervie vie di Genova – inquisiti anche in quel contesto, prescritti anche per quei fatti. Se fossero stati fermati prima, non avrebbero letto le lungaggini della giustizia italiana, come un sostanziale via libera alla tortura e alla violenza indiscriminata sulle piazze. La strada che conduce dalla Caserma Raniero alla Diaz fu breve e diretta: se l’abbiamo fatto là, con un ministro di centrosinistra (la macchietta tragica di Bianco), perché non dovremmo rifarlo ora, sotto l’egida di un Gianfranco Fini, ancora impiastricciato di nostalgie missine? E quanto è lunga la strada che porta da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere – per rimanere ancorati al nostro drammatico presente?

Di libri così c’è sempre bisogno. Perché una storia che non viene raccontata, in qualche modo non è mai esistita. In controluce, quasi in ogni intervento, risuona la domanda più difficile: che cosa è andato storto, in quella stagione così intensa? Servirebbe un altro volume dedicato alle occasioni mancate, ai patrimoni dilapidati, alla dispersione militante, che non possono essere imputati solo alla repressione. Una riflessione necessaria che dovrebbe passare attraverso alcuni snodi importanti, tutti ancora da indagare: le dinamiche dello sfilacciamento del movimento no global, l’impotenza di quello contro la guerra, l’incapacità di cogliere la sfida di Marchionne che apre una frattura reale nel mondo del lavoro e nella società italiana, per chiudere simbolicamente un ciclo politico, con la giornata di lotta anticapitalistica dell’ottobre 2011 (che finisce in vacca, a conferma e suggello di una immaturità complessiva dei movimenti nel lanciare una proposta alla società italiana).

Quanto a Napoli, è l’unico territorio italiano in cui quel decennio non chiude ma rilancia una stagione nuova di protagonismo sociale, piena di ambivalenze ma fondata su un radicamento reale nel tessuto della metropoli. Nella speranza che i bilanci e le lacerazioni post-De Magistris non lascino troppe cicatrici sui movimenti, in una città stremata, vitale e ribelle.

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