repressione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 06 Dec 2025 21:23:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La Sinistra Negata 06 https://www.carmillaonline.com/2025/11/27/la-sinistra-negata-06/ Thu, 27 Nov 2025 22:54:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91644 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario. La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)

2. I FATTORI SOGGETTIVI.

Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario.
La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha conosciuto momenti di repressione più dura (anche se non sotto il profilo della mistificazione ideologica, oggi acuta quanto mai in passato) senza che ciò comportasse un vero e proprio salto generazionale, né il formarsi di un drammatico vuoto di memoria.
È nostro avviso che, se ciò è avvenuto, la causa vada ricercata anche in debolezze interne, che hanno dettato reazioni sbagliate e confuse a quanto stava accadendo. Cercheremo di esaminare brevemente alcuni dei comportamenti dannosi e autolesivi che hanno consentito alla repressione di colpire tanto in profondità.

Durante l’emergenza.
Alla fine degli anni Settanta la sinistra rivoluzionaria coltiva un senso di potenza rasentante l’illusione dell’invincibilità. Non vi è scuola, non vi è quartiere, non vi è grande fabbrica, nelle maggiori città italiane, in cui non si respiri aria di insubordinazione. Inoltre il ’77 ha instaurato forme di socialità e
di aggregazione in gran parte sconosciute al ’68. È possibile vivere assieme, come una grande tribù, riducendo al minimo i contatti con la società “esterna”. Per molti resta indimenticabile l’enorme corteo che alla fine del 1977 si è mosso attraverso Bologna, a conclusione del convegno sulla repressione, e la sensazione respirata nei giorni precedenti di potersi quasi impadronire di una intera città.

In realtà, il potere non è stato nemmeno scalfito in nessuna delle sue strutture, per quanto terreno abbia perso nel controllo delle culture e del comportamenti. Di ciò ci si rende conto solo dopo il “caso Moro”, allorché ha inizio la repressione sistematica ed indiscriminata. La reazione di molti è la sorpresa, cui segue lo sbandamento, e anche le iniziative di autodifesa frettolosamente approntate sono del tutto inadeguate all’ampiezza dell’attacco avversario. Eppure la sopravvalutazione delle proprie forze, e la sottovalutazione delle forze altrui – primo degli errori che ci preme segnalare – continuano ad operare per alcuni anni ancora. Lo si vede allorché, nel 1980-81, inizia il grande “dibattito”  (se cosi si può chiamare) sull’amnistia.

Alcuni compagni (in particolare quelli che fanno capo alla rivista romana Assemblea, e molti di coloro che hanno trovato rifugio all’estero) vedono l’amnistia generalizzata, frutto di una campagna indirizzata in tal senso, quale soluzione del problema di quell’enorme fetta di movimento che da un paio d’anni popola le carceri italiane. Altri la giudicano invece uno sbocco di tipo riformistico, equivalente a un cedimento, e propongono una via d’uscita intermedia: una mobilitazione collettiva perché ai detenuti politici vengano concessi gli arresti domiciliari, quale premessa per una liberazione non patteggiata. Vi è infine chi ritiene riformistiche e perciò negative entrambe le soluzioni precedenti e, pur non appoggiando l’area delle formazioni armate, sostiene che la liberazione dei detenuti politici potrà risultare solo da un’azione di forza. Giudicate oggi, simili discussioni appaiono francamente demenziali, perché ispirate a una premessa demenziale: quella che il potere fosse tanto debole da concedere amnistie, arresti domiciliari o da tollerare soluzioni di forza, e la sinistra rivoluzionaria ancora tanto possente da poter imporre l’una o l’altra delle alternative.

L’esperienza degli anni successivi ha poi dimostrato che il potere é disposto ad attenuare l’emergenza e a concedere qualche brandello delle libertà sospese solo quando è ben certo di avere ridotto all’impotenza i propri antagonisti; ma l’eccessiva fiducia in se stessa che la sinistra di classe manteneva nei primi anni Ottanta la induceva a ignorare questa verità lapalissiana, dividendosi sull’opportunità di concessioni date per già acquisite, ma che nessuno era in realtà disposto ad accordare a titolo di pura elargizione.

Simile distorsione percettiva è in parte riconducibile ad un secondo errore in cui la sinistra di classe incorre negli anni bui, anche se non del tutto volontariamente. Gli arresti in massa e la presenza di tanti militanti in carcere fanno si che la tematica carceraria assorba quasi totalmente l’attenzione del compagni, rimasti in libertà, a scapito di ogni altro terreno d’intervento. Ciò è largamente comprensibile e dettato da uno stato di obiettiva necessità; questo non toglie che, sfogliando oggi le riviste di allora, si rimanga perplessi notando che il problema carcerario sovrasta praticamente tutti gli altri, che appaiono semplici appendici di quello.

L’errore di prospettiva consiste nel fatto che la situazione dei militanti incarcerati sarebbe stata di gran lunga migliore (e lo sarebbe ancor oggi) se il movimento si fosse mosso con decisione nella società, continuando la propria crescita e comunque mantenendo le posizioni già acquisite; invece la sinistra rivoluzionaria rimane immobile e con lo sguardo fisso sulle pareti delle prigioni, dove sono sì rinchiusi i compagni migliori, ma dove le possibilità di espansione sono pressoché inesistenti. Ciò fa sì che i detenuti, nel volgere di pochi anni, sentano provenire dall’esterno solo un silenzio via via più compatto, mentre chi è rimasto fuori paga le conseguenze dell’aver assunto una posizione meramente difensiva.

Ma l’indebolimento delle forze ancora libere di agire discende anche dall’incomprensione della nuova configurazione che la società sta assumendo. La sinistra rivoluzionaria, e in primo luogo quella di matrice operaista aveva a suo tempo dato scacco alla sinistra istituzionale analizzando e anticipando con enorme lucidità i processi di trasformazione che si stavano avviando: ristrutturazione industriale, diffusione a macchia d’olio del precariato, emergenza di un nuovo proletariato territoriale, e così via. Un’occhiata a riviste come Classe quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia, Primo Maggio, Metropoli, Quaderni del Territorio, Magazzino, ecc. può confermarlo. Quando però quei processi assumono ritmi vertiginosi e si impongono all’attenzione di tutti, se l’analisi resta abbastanza lucida, la capacità di muoversi con disinvoltura nel nuovo contesto viene progressivamente meno.

Vi è chi dà per liquidata la classe operaia e si rivolge in via esclusiva ai “nuovi soggetti sociali”, senza tener conto che questi ultimi hanno per forza di cose un grado più attenuato di autoconsapevolezza e non sono facilmente mobilitabili come un corpo unico; vi è, di converso, chi si aggrappa ad una centralità operaia che le cronache si incaricano quotidianamente di smentire, parlando linguaggi che già negli anni Sessanta cominciavano ad essere obsoleti; vi è chi continua a ripetere che “precario è bello”, quando il precariato che ha sotto gli occhi è frutto non di una scelta, ma di un’imposizione padronale; vi è chi parla ancora di “rifiuto del lavoro” senza preoccuparsi di precisare il significato dell’espressione, urtando nell’incomprensione di chi vede che è il padrone che gli rifiuta il lavoro.

Errori generosi e ampiamente giustificabili, che tuttavia denunciano un progressivo scollamento dal reale e un venir meno della capacità di rappresentarlo. Il terzo errore capitale della sinistra rivoluzionaria, negli anni in cui la repressione è ancora al culmine, è dunque quello di smarrire una visione lucida della propria matrice sociale, liquidando vecchi soggetti senza trovarne di nuovi, o abbarbicandosi a referenti che da tempo hanno smarrito ogni ruolo protagonistico. Il tutto nel contesto di azioni di lotta di breve respiro (micro-agitazioni studentesche, occupazioni di case, ecc.) che nella loro frammentarietà e sporadicità rivelano l’assenza di una benché minima proiezione progettuale, e che non hanno risonanza alcuna al di fuori dello spazio limitatissimo (scuola, quartiere) in cui hanno luogo.

La microconflittualità costituisce, infatti il quarto errore fondamentale della sinistra rivoluzionaria. Si inseguono momenti di scontro prescindendo totalmente dal loro valore strategico, dal loro potenziale di continuità, dalla loro capacità di contagio. L’occupazione di un vecchio immobile, indifferente a tutti salvo che al proprietario, viene spacciata come trionfo della lotta di classe; l’incendio di un cassonetto della spazzatura assurge al rango di guerriglia urbana; un modesta autoriduzione in una mensa universitaria diviene momento esaltante di illegalità di massa.

Col tempo, anche queste pallide caricature degli espropri e delle ronde proletarie degli anni Settanta finiscono col rarefarsi e con lo scomparire quasi del tutto; sia per le repressioni che innescano, sproporzionate al pretesto, sia perché senza disegno politico forte che le sorregga tutte le forme di azione diretta non sono che materia per trafiletti nella cronaca locale. Ma chi si preoccupa più di manifestare una progettualità politica, quando si oscilla tra l’iperattivismo insensato e l’inazione, mentre la riflessione approfondita è delegata ai compagni in carcere o investe quasi esclusivamente il carcere?

E qui subentra il quinto errore capitale, vale a dire la scarsa cura per la propria immagine. Cortei sempre più striminziti lanciano slogan sempre più truculenti, nella speranza che facciano vibrare d’entusiasmo le masse derelitte e affamate. Si stenta a comprendere che parole d’ordine efficaci pochi anni prima risultano incomprensibili nel nuovo contesto socio- culturale, e servono solo ad isolare e ad annebbiare l’identità reale di chi continua a ritenerle veicolo per dimostrare di essere più a sinistra di chiunque altro.

Assai giustamente, negli anni di più dura repressione il movimento ha rifiutato di prendere le distanze dai partiti armati, ritenendoli comunque più vicini a se stesso dell’avversario di classe. Ma rifiutare di denigrare l’identità altrui, per quanto pericoloso e letale sia questo rifiuto dettato da coerenza politica ed umana, non può voler dire rinunciare ad affermare l’identità propria. Invece è questo che si finisce col fare, nell’illusione che una chiarezza predominante al proprio interno sia condivisa dall’intero corpo sociale. Il che significa trascurare il fatto che quest’ultimo è condizionato da forze che hanno tutto l’interesse ad alimentare la confusione e a fare il vuoto attorno agli antagonisti spacciandoli per “fiancheggiatori”.

Nella post-emergenza.
Alcuni degli errori citati vengono corretti man mano che ci si inoltra negli anni Ottanta. Ma il terreno perduto é molto ed è difficilmente riconquistabile, anche perché il potere è nel frattempo passato dalla pura repressione alla colonizzazione delle coscienze.
La sinistra di classe è stata drammaticamente ridimensionata, tanto che è sempre più difficile riferirsi a essa come a un “movimento”; le sue idee circolano poco e male, raggiungendo solo ambiti limitatissimi e per lo più privi di una spiccata fisionomia sociale; il reclutamento di nuovi militanti si è pressoché interrotto, e comunque non è tale da garantire un ricambio.
Dato che è il momento delle realtà frammentarie, isolate le une dalle altre o con contatti solo sporadici (salvo specifici spezzoni coordinati tra loro) non è più possibile individuare errori comuni a tutti. Esistono però comportamenti erronei abbastanza diffusi da poter essere indicati come caratteristici della fase, sebbene non manchi chi si sottrae ad essi e muove verso diverse prospettive.

Bologna, proteste in Piazza Verdi contro la privatizzazione all’interno della mensa universitaria. Foto di Luciano Nadalini

Il primo di questi comportamenti è l’auto-ghettizzazione. Il potere è riuscito a costringere la sinistra rivoluzionaria entro spazi limitatissimi e ben individuati, separandola con un cordone sanitario da buona parte della società circostante. Una tendenza negativa che si manifesta spesso è quella di adattarsi a vivere e a muoversi entro questi perimetri ristretti, non avendo occhi che per ciò che accade al loro interno e perdendo quindi la corretta percezione del reale.
Nascono modi di fare, di esprimersi, di agire indecifrabili per chiunque non sia interno al gruppo, al clan, alla tribù; l’attenzione rivolta al collettivo rivale supera quella dedicata alle forze concrete che agiscono nella società; ci si crogiola nella propria “diversità” senza accorgersi che attorno nessuno la nota.

L’esito peggiore che simile distorsione prospettica può avere è quello di illudersi di mantenere una dimensione politica, mentre si è solo un gruppo di amici o poco più. E come dei topi chiusi in una piccola gabbia finiscono col divorarsi a vicenda, così buona parte della propria aggressività viene rivolta verso chi sta più vicino, e distolta dall’avversario reale. I tentativi di incontro e di confronto della seconda metà degli anni Ottanta finiscono in risse e lacerazioni molto più spesso di quanto avvenisse nel passato decennio, quando la posta in gioco era ben maggiore e i motivi di divisione ben più concreti. Non ci si rende conto che uno sguardo proveniente dall’esterno del ghetto evidenzierebbe le similitudini ed attenuerebbe le differenziazioni. Se accade il contrario è solo perché si è incapaci di guardare oltre le pareti che il potere ha costruito perché il movimento antagonista vi restasse intrappolato.

In genere, anche chi ha ben chiare le dimensioni dell’emorragia subita tende a comportarsi come se nulla fosse stato; e vedendo che un simile atteggiamento non produce risultati, riduce pian piano le dimensioni e le ambizioni della propria militanza, fino a fare di nuclei un tempo combattivi altrettanti CRAL perfettamente adattati all’esistente e a cui manca solo il biliardo per consacrarli regni della noia.

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui, 04 qui e 05  qui

]]>
E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

]]>
La Sinistra Negata 05 https://www.carmillaonline.com/2025/11/07/la-sinistra-negata-05/ Fri, 07 Nov 2025 22:55:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91402 Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. La conclusione della nostra ricostruzione delle vicende della sinistra rivoluzionaria italiana, apparsa nelle due precedenti puntate de La sinistra negata, ci ha lasciato un senso di insoddisfazione. Non tanto per le molte cose che abbiamo trascurato parlando degli anni Sessanta e Settanta, quanto per aver solo sfiorato il problema [...]]]> Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980) a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi.
La conclusione della nostra ricostruzione delle vicende della sinistra rivoluzionaria italiana, apparsa nelle due precedenti puntate de La sinistra negata, ci ha lasciato un senso di insoddisfazione. Non tanto per le molte cose che abbiamo trascurato parlando degli anni Sessanta e Settanta, quanto per aver solo sfiorato il problema cruciale: gli anni Ottanta.

Perché “problema cruciale”? Perché la reale forza, il grado di radicamento, la capacità di mobilitazione della sinistra di classe non sono seriamente valutabili sotto il profilo storico se non si tiene presente che quel movimento ha finito col crollare come un castello di carte, riducendosi a ben poca cosa nel giro di un paio d’anni.
Non fa piacere dirlo, specie per chi, come noi, in quel movimento, nelle sue tensioni e nei suoi valori continua ad identificarsi a fondo. Peggio sarebbe, però, far finta che nulla sia successo, e che la sinistra rivoluzionaria italiana mantenga ancor oggi intatta quella forza che fino a qualche lustro fa sembrava incontenibile. Aggirare i problemi è contrario al nostro metodo, che consiste nel guardare in faccia i nodi essenziali, per quanto sgradevoli possano essere. Cosi come contrario al nostro metodo è limitarci a gettare sguardi asettici sul passato, eludendo il fatto che quel passato sfocia nel nostro presente e ne modella i tratti, e che quindi è da quest’ultimo che occorre necessariamente prendere le mosse.
Abbiamo dunque deciso di continuare la discussione su La sinistra negata partendo dal punto in cui si concludeva, dagli anni Ottanta; prima con un articolo d’insieme, che precisi a volo d’uccello la mappa della nostra ricerca, poi con studi più dettagliati, affidati ai prossimi numeri, su singoli aspetti del problema. Ciò nel tentativo di abbozzare una risposta alla domanda di fondo: la crisi attuale della sinistra rivoluzionaria italiana è irreversibile, o rappresenta solo una sosta in un percorso che continua?

Il fatto che facciamo questa rivista di per sé dimostra che propendiamo per la seconda ipotesi; ma ciò non ci impedirà di vagliare gli elementi che giocano a favore dell’altra, per quanto essa ci appaia assolutamente repellente. In questo articolo iniziale esamineremo dapprima i fattori oggettivi di crisi, vale a dire i fattori esogeni, legati all’azione degli avversari della sinistra di classe, e poi i fattori soggettivi, endogeni, legati a ragioni di intrinseca debolezza.

 

1. I FATTORI OGGETTIVI.

La repressione.
In principio è la repressione. Non si può comprendere la crisi della sinistra rivoluzionaria italiana se non partendo da questo dato, anche se non basta a spiegarne tutti gli aspetti.
Gli anni Settanta si chiudono con migliaia di arresti, decine di migliaia di denunce, sequestri di periodici, incriminazioni di avvocati, giornalisti, docenti universitari, intellettuali. È la grande stagione della caccia al “fiancheggiatore”. In realtà, che nel mirino del potere non vi siano solo i gruppi armati e i loro simpatizzanti, ma l’intera sinistra rivoluzionaria italiana, da cancellare una volta per tutte, è dimostrato dal numero degli incriminati: oltre 40.000, un numero di gran lunga eccedente quello degli appartenenti all’area della lotta armata.
È questo della repressione uno di quei casi in cui l’aneddotica aiuta a comprendere la fase storica meglio di qualsiasi statistica o ricostruzione neutra. Viene arrestato un giovane che, in una pizzeria, ha scarabocchiato una stella a cinque punte su un tovagliolino di carta; negli scrutini elettorali si vagliano gli iscritti alle sezioni in cui le schede sono state annullate con scritte eterodosse, fino ad individuare ed arrestare i presunti colpevoli; a un docente universitario, Enzo Collotti, i carabinieri mettono a soqquadro la casa e sequestrano l’archivio di schede relative alle sue ricerche, riguardanti in prevalenza la storia del nazismo; la partecipazione ai funerali di una compagna caduta in uno scontro a fuoco, magari persa di vista da anni, diventa capo d’accusa e pretesto per alcuni fermi; una vecchietta ottantenne finisce dietro le sbarre per collusione con le BR (morirà subito dopo il rilascio); si sequestra persino il gioco di società “Corteo”, tanto pericoloso che pochi mesi dopo sarà rilevato dalla Mondadori; e così via. Si potrebbe continuare per pagine e pagine ad elencare episodi all’apparenza folli o grotteschi, ma in realtà coerentissimi con il progetto di giungere a una “soluzione finale” del problema dell’esistenza di una sinistra rivoluzionaria in Italia.

Episodio saliente di questa sistematica campagna di eliminazione è il caso “7 aprile”. D’un colpo solo si cerca di decapitare (riuscendovi in gran parte) la sinistra di classe italiana non sotto il profilo organizzativo, col quale gli arrestati hanno poco a che vedere, ma sotto il profilo intellettuale, criminalizzando e togliendo dalla circolazione gli studiosi che più si sono adoperati per la precisazione delle tesi dell’estrema sinistra e per conferire a quest’ultima dignità culturale: e dal momento che non si sa bene di che accusarli (i verbali d’interrogatorio dimostrano con chiarezza che magistrati e testi a carico non riescono a capire né le idee, né il linguaggio degli arrestati) si modifica più volte il capo d’imputazione cercandone uno adeguato, per poi finire col ricorrere ai “pentiti” quale unica via per uscire dal vicolo cieco. Proprio il “caso 7 aprile”, e la pletora di “casi” paralleli che gli fanno ala colpendo centinaia e centinaia di militanti, rivelano l’identità di un inedito co-regista dell’ondata repressiva: il PCI. Nell’area di quel partito si collocano i principali magistrati impegnati nella caccia alle streghe; a quel partito appartengono i testimoni a carico; attorno a quel partito gravitano molti dei docenti impegnati a denunciare i loro stessi colleghi.

La guerra contro l’estrema sinistra, una guerra di sterminio in cui ogni colpo è lecito, viene condotta dai vari Pecchioli e Cossutta (autore a suo tempo del motto «i gruppuscoli sono pidocchi nella criniera di un cavallo di razza») con una spregiudicatezza che varca i confini della denigrazione per approdare a quelli della delazione. Le sezioni del PCI si fanno carico della sorveglianza dei presunti fiancheggiatori, passano liste di nominativi alle forze dell’ordine, distribuiscono questionari formulati come vere e proprie professioni di fede, tali da rendere automaticamente sospetto chi non risponde a tono, o non risponde affatto. L’apparato inquisitorio statale ha così la copertura a sinistra che gli è indispensabile per attuare liberamente il giro di vite.

Non ci dilungheremo sugli aspetti fenomenologici della repressione, premendoci piuttosto vederne gli effetti. Per comprenderli a fondo occorre tenere presente che la sinistra di classe italiana non aveva mai avuto la struttura e la compattezza di un partito, salvo che in specifici spezzoni, ma si era sempre presentata nelle forme di un movimento, con tutti i pregi e i limiti di una tale configurazione. Ciò significa, anzitutto, che ruolo preponderante al suo interno aveva giocato, più che la compagine dei militanti “duri” e convinti, la fascia enorme dei simpatizzanti (chiamati “cani sciolti”) che si accostavano ad essa con un grado variabile di convinzione e con un’adesione che poteva rivolgersi non all’assieme delle sue tematiche, ma a questo o quell’aspetto delle stesse, o anche solo a quel clima – umano, culturale, giovanilistico, ecc. – che si respirava al suo interno o ai suoi margini.

È proprio la fascia dei “cani sciolti” ad essere la più colpita dall’ondata repressiva, che pure materialmente si abbatte in primo luogo sui “militanti”.
D’improvviso attaccare un manifesto può implicare un fermo, distribuire un volantino può significare un arresto, frequentare o aver frequentato certi ambienti può costare anni di prigione; e così collaborare a radio private, partecipare a una manifestazione, scrivere un trafiletto, esprimere un parere nel luogo sbagliato, tenere in casa un’arma giocattolo, avere certi indirizzi in agenda. Cui vanno aggiunte forme repressive apparentemente “minori” come le perquisizioni, divenute prassi costante con precipui fini di deterrenza, che specie per soggetti giovani possono comportare crisi con i familiari, discredito presso i vicini, impossibilità di tenere diari o indirizzari, stati di costante tensione (come, per inciso, avviene ancor oggi).

È logico che il timore si diffonda, che molti preferiscano rifluire nel privato in attesa che l’uragano passi, che la fascia dei “cani sciolti” si assottigli di mese in mese, esponendo chi non cede ad una repressione ancora più acuta; mentre parallelamente prende piede una cultura del sospetto e della diffidenza che è letale per le forme di socialità che il movimento era riuscito ad instaurare, e che costituivano una componente fondamentale del suo potere di attrattiva.
Comportandosi in tal maniera, lo Stato esercita semplicemente il proprio mestiere di macchina repressiva al servizio di una classe: ma molte delle “libertà democratiche” che vengono così ibernate, pur non eccedendo il perimetro di una società borghese, erano state conquistate dal proletariato italiano in decenni di lotte durissime. Accettando la loro svendita e cooperando all’azione repressiva statale, il PCI svende dunque la parte più nobile del proprio patrimonio. Credendo di uccidere la sinistra rivoluzionaria e così legittimarsi agli occhi della classe media, la sinistra istituzionale in realtà uccide anche se stessa, perché è l’idea stessa di “sinistra” ad essere colpita.

La ristrutturazione.
La ristrutturazione economica che fa da sfondo all’isteria repressiva richiederebbe una trattazione non esauribile in poche righe. La complementarietà dei due fenomeni è comunque abbastanza evidente. Anche se alla fine degli anni Settanta la composizione sociale della sinistra di classe si presenta composita, si tratta pur sempre di un movimento che ha avuto le proprie origini nelle fabbriche, e a cui le fabbriche continuano a fornire buona parte dei militanti più decisi e preparati. Ora, l’azione repressiva di tipo poliziesco, se si esercita in ogni campo, risulta più efficace nei confronti dei soggetti radicati prevalentemente nel sociale, e cioè delle componenti studentesche, giovanili e marginali estranee alla produzione, la cui fmoltiplicazione territoriale è assicurata da meccanismi che vanno oltre il rapporto produttivo diretto, investendo un ventaglio di fattori culturali, comportamentali o ambientali. È invece il rapporto produttivo immediato che deve essere incrinato, se si vuole impedire la riproduzione di quei segmenti di classe Qui operaia che assicurano al movimento antagonista, se non il suo profilo globale, la sua continuità.

Gli anni Ottanta vedono affiancarsi al decentramento produttivo interno e al lavoro nero e precario, tipici meccanismi di recupero del profitto del decennio precedente, un intensificato decentramento produttivo internazionale, accompagnato dall’introduzione massiccia di innovazioni tecnologiche tali da ridurre drasticamente non solo l’entità numerica, ma il peso della forza-lavoro. Si diffonde non tanto e non solo la disoccupazione, quanto piuttosto la minaccia della disoccupazione; nel senso che il capitale, cui è come non mai legittimo attribuire un profilo omogeneo, si dota di strumenti tali da far capire agli operai che può in qualsiasi momento prescindere dalla loro presenza attiva nel processo produttivo, sostituibile con l’apporto lavorativo a basso costo dei reparti decentrati al Terzo Mondo, sede delle tecnologie mature tuttora indispensabili, o con la pura e semplice automazione, capace di assorbire le produzioni ad alto tasso tecnologico.
Se il livello d’inflazione è talora termometro indiretto della forza operaia, come taluni non a torto sostenevano in un recente passato, il suo progressivo abbassamento nel corso degli anni Ottanta, indice di una flessione della domanda, segna la drastica emorragia contrattuale della forza-lavoro della grande industria, ricattata dallo spauracchio di un’esclusione dalla produzione e compressa dall’emergere di un esercito di quadri, di tecnici e di figure intermedie di cui una situazione di tecnologia avanzata esalta la funzione.
Tutte le conquiste operaie ottenute a partire dell’autunno caldo vengono vanificate nel giro di pochi anni: nelle fabbriche ritorna la legittimità di licenziare al minimo pretesto, viene reintrodotta la più ampia mobilità, cala una cappa di disciplina militaresca, sono sfrontatamente lesi i più elementari diritti sindacali; infine, a coronamento del quadro, viene prima ridimensionata e poi liquidata la scala mobile, ultima e quasi simbolica barriera alla recuperata onnipotenza padronale.
Ancora una volta, l’operazione di sterminio delle avanguardie può contare su un complice occulto (ma non poi tanto): il sindacato. La rivincita del capitale non avrebbe potuto aver luogo se, con l’adozione della cosiddetta “linea dell’EUR,” il sindacato non si fosse fatto carico di un contenimento della conflittualità entro limiti compatibili con un recupero di forze da parte del padronato, e ciò in cambio di un’illusoria cogestione dell’economia e di una altrettanto illusoria prospettiva di benessere generalizzato in presenza di alti livelli di profitto (la più vecchia e scontata delle bugie del liberalismo).
L’acquiescenza al licenziamento di 61 avanguardie di lotta della FIAT, in anni in cui è ancora possibile contrastare operazioni del genere, è l’inizio di una catena di cedimenti dapprima volontari, e poi sempre più spesso obbligati, via via che il padronato recupera, col consenso sindacale, quella forza che nel corso degli anni Settanta sembrava definitivamente incrinata.
Anche in questo caso la sinistra si suicida, credendo così di acquisire legittimazione e di avere accesso a una porzione di potere. Quando il sindacato si accorge (solo parzialmente) dell’errore commesso è troppo tardi: il padronato ha ripreso completamente il controllo della fabbrica, la classe operaia sta disperdendosi nel settore dei servizi dequalificati e mal retribuiti, lasciando dietro di sé nuclei indeboliti e grati del salario irrisorio che viene loro elargito, e i pensionati sono gli unici soggetti che le organizzazioni sindacali possono ormai mobilitare.
Si scorge in tutto ciò il vecchio errore di fondo della sinistra istituzionale: la convinzione che il capitale sia incapace di pianificazione, e possa superare le proprie crisi solo con l’ausilio del movimento operaio, il quale ultimo è così legittimato ad ottenere in cambio fette di potere. Illusione che l’estrema sinistra aveva sempre contestato sostenendo l’esatto opposto, e cioè che il capitale odierno è anzitutto capacità di previsione e di programmazione, e che compito primario delle forze antagoniste è bloccare questa sua funzione vitale.
Incapace di comprendere questa verità elementare e prigioniero del dogma riformista, il sindacato consegna se stesso e la classe operaia a una ristrutturazione da tempo pianificata per cancellare dalla scena italiana entrambi i soggetti. Mentre la sinistra rivoluzionaria, decimata e braccata, non ha più voce nemmeno per gridare un platonico «ve l’avevamo detto».

Le culture sociali.
Se eliminare fisicamente un protagonista sociale è relativamente facile, meno facile è cancellare persino il ricordo delle sue idee, in modo che non abbiano più a riproporsi. Se il potere ha successo in questa sua operazione, tanto da creare quel salto di generazioni oggi cosi palpabile e quel vuoto di memoria e di cultura che rappresenta la principale caratteristica degli anni Ottanta, lo si deve sia agli effetti collaterali della ristrutturazione avviata in campo economico-sociale, sia ad un progetto preciso e sapiente di riconquista del terreno culturale, sotteso da un voluto e irreversibile travaso dell’ambito sovrastrutturale in quello strutturale.
Gli “effetti collaterali” di una ristrutturazione industriale tesa al risparmio di forza-lavoro sono facilmente intuibili. L’allargamento mostruoso dell’area della disoccupazione e di quella del lavoro mal retribuito, specie nel settore del servizi minori, ha un effetto deterrente che eccede il perimetro della fabbrica per estendersi all’intera società. Se la classe operaia, svenduta dalle sue organizzazioni, è sulla difensiva e si scinde in una miriade di singoli individui disposti ad accettare qualsiasi condizione salariale e normativa pur di preservare un’occupazione decorosa, per segmenti giovanili presto destinati a divenire maggioritari l’obiettivo di un posto ben retribuito, o comunque di un posto, è tale da trasformare l’iter scolastico o l’apprendistato lavorativo in una corsa individuale, le cui regole sono l’adesione acritica ai valori dominanti e la conflittualità esasperata tra i concorrenti. Si incrinano così, fino a crollare, le culture basate sulla solidarietà, sulla cooperazione, sull’idea elementare che ciò che non è alla portata di un singolo può ben essere alla portata di un gruppo; mentre si diffondono a macchia d’olio sottoculture aventi al centro l’idea di supremazia individuale ed il disprezzo anche morale per il perdente, un tempo tipiche del solo mondo anglosassone.

Non è un caso se durante gli anni ’80 il “rambismo” in tutte le sue varianti, emblema di conflittualità interindividuale condotta allo spasimo, assume un posto preminente nell’immaginario collettivo, mentre la croce celtica si afferma come espressione prevalente nella simbologia giovanile, e ciò non tanto per le sue derivazioni ideologiche (l’estrema destra subisce la crisi delle ideologie al pari della sinistra), quanto piuttosto come indice di pura e semplice volontà di sopraffazione e di arrogante qualunquismo.
Va notato, a beneficio di chi persevera nell’illusione di un capitale acefalo, che gli “effetti collaterali” descritti erano stati a suo tempo previsti e teorizzati a grandi linee. Prima gli economisti monetaristi, poi i loro rozzi epigoni fautori della “economia dal lato dell’offerta” (supply siders economists), avevano descritto gli effetti di “stimolo” che una momentanea carenza di possibilità occupazionali avrebbe avuto sulla classe operaia, spezzandone la forza organizzata ed abbassando i costi della forza-lavoro, con effetti di fluidificazione del mercato. Se la ricetta da loro proposta consistente in una drastica riduzione dell’intervento statale e nell’abbandono delle aziende “decotte” – oltre ad azioni restrittive della massa monetaria – trova applicazione integrale solo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, buona parte dell’Occidente ne adotta brandelli o singoli aspetti, riducendo taluni benefici sociali della spesa pubblica e privatizzando quanto è possibile privatizzare.
Un’ideologia reazionaria e restauratrice induce quindi a scompaginare, con una gamma di strumenti che vanno dall’automazione alla privatizzazione selvaggia, le file della classe operaia, e l’erosione di quest’ultima conduce alla diffusione di un’ideologia restauratrice e reazionaria nell’intero corpo sociale, con effetti di progressivo imbarbarimento civile.
Da ciò emerge che buona parte dei tristi connotati degli anni Ottanta in Italia non sono riconducibili alle sole peculiarità nazionali, ma si ricollegano agli inizi e agli sviluppi della cosiddetta “era Reagan”, che segna l’apertura di una fase storica contrassegnata dalla generalizzazione delle culture asociali, utilitaristiche e competitive, sintomo, causa ed effetto dello smembramento delle forze antagoniste.

L’industria culturale.
L’offensiva culturale scatenata dal potere non è però limitata agli esiti indiretti delle scelte di ristrutturazione, e nemmeno affidata al solo propagarsi del reaganismo. Accanto a queste direttrici maggiori, che conferiscono agli anni Ottanta le loro caratteristiche salienti, si hanno forme di intervento diretto nel terreno culturale indirizzate ad una normalizzazione del tutto complementare alla repressione in atto. Che tutto ciò risponda ad un preciso progetto non è considerazione suggerita da elucubrazioni dietrologiche alla Pendolo di Foucault (titolo che citiamo non a caso, ma quale estremo prodotto degli anni del riflusso), bensì constatazione che scaturisce dalla semplice analisi dei fatti.
Sostanzialmente, l’opera di restaurazione culturale agisce secondo sette linee prevalenti, così riassumibili: a) demonizzazione delle culture antagoniste: b) imposizione di un punto di vista ideologico presentato quale anti-ideologia; c) educazione all’accettazione acritica dell’innovazione tecnologica; d) selezione del ceto intellettuale; e) corruzione del ceto intellettuale preesistente; f) demolizione e successiva sussunzione in forme alterate di aspetti della cultura di sinistra: g) censura diretta. Tutte le linee di tendenza citate operano simultaneamente. E’ solo per comodità, e per ragioni di chiarezza, che le esamineremo brevemente una ad una.

a) La prima operazione ad essere attuata dal potere – prima non in ordine cronologico, ma in ordine di priorità – è la demonizzazione delle culture ad esso avverse. Il pretesto è il terrorismo, particolarmente comodo perché permette in qualsiasi momento uno scivolamento dal terreno della discussione alla sfera giudiziaria.
Elevata la lotta al terrorismo a massima emergenza nazionale, si cerca di criminalizzare, agli occhi dell’opinione pubblica, non solo le tesi cui i fautori della lotta armata si ispirano, ma tutti i filoni teorici che, prevedendo un’acuta contrapposizione tra le classi, con quelle tesi presentano una seppur minima attinenza. Prima ad essere colpita, in questo caso senza discussione alcuna, è come si è già visto l’area intellettuale vicina all’autonomia operaia, di cui si ottiene il silenzio arrestandone o costringendone all’esilio i più noti esponenti.
Ma non è che l’inizio. Dopo l’autonomia e i suoi “cattivi maestri”, l’atto di accusa del sistema e dei suoi strumenti di comunicazione si estende a tutte le forme di cultura antagonista degli anni Settanta, presentate come matrici di violenza e di indiscriminati spargimenti di sangue. Sul banco degli imputati, in questo caso metaforico, finiscono non solo gli scontri di piazza del passato decennio, ma persino le battaglie sindacali di quel periodo (definite “estremistiche”) o la politica allora condotta dai partiti di sinistra.

Parallelamente, le esperienze dei paesi a “socialismo reale” (con cui la sinistra rivoluzionaria italiana ha poco a che vedere, essendo sempre stata duramente critica nei loro riguardi), vengono deformate fino a metterne in rilievo i soli aspetti negativi, indicati quale necessario portato di ogni concezione egualitaria. L’operazione viene poi dilatata fino ad includere il concetto stesso di rivoluzione, presentato quale aberrazione storica che, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi latitudine, produce solo oceani di sangue.
Infine è la nozione di “ideologia” (usata contro il marxismo, che pure rifiuta simile definizione) a cadere nelle grinfie degli inquisitori. Chiunque indaghi sotto la superficie delle cose, o cerchi razionalità che non coincidono con l’apparente, viene collocato di peso nel campo di coloro che propugnano il terrorismo, la divisione in classi e il “socialismo reale”, e dunque nel girone degli omicidi potenziali. Non è un caso che alla fine degli anni ’80 il rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco, sia ricorso a reiterati inviti alla questura affinché indagasse su «eventuali basisti delle Brigate Rosse all’interno dei collettivi universitari»; ciò nel tentativo di liberarsi di un movimento studentesco che, attraverso programmi di didattica alternativa e iniziative pubbliche di attacco al progetto di autonomia universitaria, aveva creato in quel periodo una partecipazione studentesca così vasta ed intensa da preoccupare le gerarchie accademiche impegnate nei fasti celebrativi del IX° centenario dell’ateneo.
Una generazione viene così ossessivamente addestrata ad associare sangue e cambiamento, sangue e riflessione, sangue e capacità d’indagine, sangue e ribellione.

b) Si è già detto che la repressione culturale sfocia nella messa sotto accusa del concetto stesso di “ideologia”, intendendo ambiguamente con l’espressione qualsiasi corpo dottrinario o sistema interpretativo non teso a legittimare l’esistente. In cambio viene proposta una presunta anti-ideologia, in realtà più ideologica che mai, che esclude ogni suggestione utopica riconoscendo solo la dimensione del quotidiano, ed identifica il progresso con la soluzione del problemi spiccioli che non escono dal quadro socio-istituzionale dato.
È una sorta di no future padronale, in cui la morale oscilla tra il cinismo e l’innocua carità di matrice cristiana, la politica tra il disimpegno, il partitismo più bieco e l’impegno su temi parziali e circoscritti, la cultura tra la pura evasione e l’attenzione a una forma che non racchiude alcuna sostanza. Il vero intellettuale, il “buon maestro”, in simile contesto, diviene il giornalista più o meno sponsorizzato, detentore della sola chiave interpretativa della realtà ritenuta valida: il “buon senso” dei tempi andati, riproposto quale massima espressione di modernità. Descrivere e non interpretare è la direttiva primaria imposta a chi deve orientare una società chiamata ad accettare e non discutere.

c) Proprio la funzione del giornalista gioca un ruolo cruciale nell’introdurre in maniera indolore innovazioni tecnologiche capaci di produrre contraccolpi sociali dal costo umano altissimo. In nessun paese come in Italia le tecnologie fondate sull’automazione e l’informatizzazione vengono accolte da un tale coro di osanna da far pensare all’avvento di un nuovo Rinascimento. Giornalisti come Giorgio Bocca alternano invettive contro le situazioni di lavoro in cui la classe operaia cerca di difendere conquiste quasi secolari (vedi il porto di Genova) ad entusiastici reportages su fabbriche azionate da un solo operaio, su computers in grado di sostituire interi uffici, su minuscole officine capaci di produrre quasi quanto la FIAT.
È un delirio di felicità, un’infatuazione collettiva, un’esplosione di giubilo che travolge l’obsoleta preoccupazione di chi si chiede che fine possa fare la manodopera sostituita, e come mai un progresso tecnologico che potrebbe operare a beneficio dell’intera collettività incrementi invece i profitti di alcuni e la povertà di molti.

Domande inattuali, banali, vecchiette, in un quadro che vede la cosiddetta “imprenditorialità” assurgere al rango di valore, e il linguaggio Basic, con la logica binaria che lo sottende, a massima espressione di intelligenza, da insegnare anche ai neonati. Nessuno rileva che l’informatica sostituisce solo le operazioni più ripetitive, e che il suo invadere il tempo libero giovanile rappresenta una scuola di stupidità collettiva. Poco importa: per la pseudo-intellettualità italiana il computer è l’uomo dell’anno” (non l’hanno detto anche gli americani?), prototipo meccanico dell’umanità che il capitale predilige.

d) Per modificare la mentalità collettiva non basta però operare a basso livello: occorre selezionare un corpo intellettuale che legittimi ai livelli più alti l’operazione, sostenendola col peso del proprio prestigio ed indicando i futuri campi cui può essere estesa. Tralasciando il già citato settore giornalistico, terreno privilegiato su cui incidere è l’università, sia perché in Italia sembra non darsi cultura fuori dell’università, sia perché proprio in essa, nel corso degli anni Settanta, si erano manifestati alcuni dei fermenti che nel decennio successivo si intende spegnere ad ogni costo.
Trascorsa la fase della repressione brutale e diretta, i cui risultati sono solo parziali, il potere sceglie la via della sottigliezza. Intanto, come ha acutamente rilevato Sergio Bologna, copre di denaro il corpo docente facendone un nucleo di vestali cariche di privilegi cui si accede attraverso concorsi apertamente truccati (e dunque per cooptazione, in modo che l’élite riproduca eternamente se stessa). Inoltre, seguendo un progetto che viene via via precisandosi, si punta a privilegiare una concezione utilitaristica del sapere, ponendo al centro della funzione universitaria le facoltà nelle quali più facile è l’aggancio con l’industria privata (umanistiche o scientifiche che siano) e che dunque possano divenire culla di quella “cultura d’impresa” di cui tutti parlano senza saperne precisare i tratti.
Il progetto, che ha il suo coronamento chiassoso e volgare nella concessione di lauree ad honorem ad industriali e finanzieri colti quanto delle zucche, è analogo a quello che in Francia e altrove ha abbassato il livello degli studi universitari al disastroso standard statunitense; ma mentre in quei paesi non mancano autorevoli voci di protesta, il ben ammaestrato corpo accademico italiano fa a gara per inchinarsi allo strozzino di turno coronato d’alloro, chiamandolo a tenere conferenze e cicli di lezioni e ascoltando devotamente nelle aule magne la parola e le reprimende della Confindustria.
Tutto ciò non è privo di riflessi sul piano strettamente scientifico. Nelle facoltà di Economia e Commercio persino Keynes viene espulso a calci, mentre due terzi delle lezioni riguardano il tran tran quotidiano dell’azienda di papà, altrimenti detto marginalismo; le filosofie della “crisi della ragione” e poi del “pensiero debole” si impongono anche ai non specialisti come il tema del momento; la microstoria e la reazionaria nouvelle histoire muovono dalle cattedre per conquistare anche le pubblicazioni divulgative vendute in edicola (Storia e dossier, Prometeo, Storia Illustrata); e così via. Non c’è praticamente campo del sapere che non venga inquinato dalla furia restauratrice spacciata per anti-ideologia; e il corpo docente viene premiato non solo con le ricompense materiali cui si accennava, ma anche con un accesso ai mezzi di divulgazione un tempo riservato a pochissimi eletti.

e) Oltre a selezionare un corpo intellettuale funzionale alla restaurazione, il potere fa largo uso dell’arma del “pentitismo”, e cioè di una forma di corruzione mascherata. Le pagine dei giornali, gli schermi televisivi, le vetrine delle librerie si affollano di reduci del ’68 e degli anni successivi che si affannano a spiegare quanto ha sbagliato la sinistra, estrema e non, e quanto invece è bello l’attuale stato di cose, che solo un pazzo potrebbe pensare di modificare al di fuori dei limiti consentiti dal sistema stesso. Il tutto spacciato come esempio di grande libertà intellettuale, allorché costituisce solo un adeguamento alla moda e a quanto il padrone richiede.

È una parata indecorosa di squilibrati (come tale Mughini Giampiero, già direttore di un’oscura Giovane Critica e poi di vari partitini m-l, promosso ipso facto presentatore televisivo), di opportunisti, di professionisti dell’abiura, di logorroici, assoldati per essere esposti in vetrina a condannare le generazioni passate e ad ammonire quelle future, cantando le virtù del profitto e condannando tutte le rivoluzioni, da quella francese in poi. In cambio viene concesso loro di uscire dal silenzio (la cosa che più temono) e di diventare titolari di rubriche, editorialisti, docenti, saggisti acclamati, consiglieri politici.
Chi gestisce l’operazione è in primo luogo il PSI, che arruola in massa simili personaggi e finanzia il passaggio da Lotta Continua (quotidiano) a LC, poi divenuto “Reporter”, vero e proprio portavoce ufficiale del riflusso; ma anche radicali e verdi fanno la loro parte.
Caratteristica di questi soggetti è accusare i propri ex compagni, che di sicuro hanno meno responsabilità di loro, infierendo contro di essi proprio nel momento in cui non c’è organo dello Stato che non infierisca a sua volta. Salvo talora, come nel “caso Sofri”, divenire vittime inattuali di settori particolarmente reazionari della magistratura, e allora guardare il padrone con gli occhi del cane che non capisce perché lo si prenda a calci, lui che è tanto buono e ubbidiente.

f) Tipico di un sistema repressivo “intelligente”, e cioè non guidato dalla sola istintualità, è assorbire deformandoli aspetti della cultura che sta distruggendo. Già nel corso degli anni Settanta era avvenuto qualcosa del genere, ad esempio con la distorsione della libertà sessuale rivendicata nel ’68 in pornografia, e cioè in un’antitesi dotata delle forme apparenti dello sviluppo logico. Lo stesso avviene negli anni Ottanta, non tanto e non solo ad opera dello Stato, quanto piuttosto per iniziativa del capitale privato.
Rimandando ad uno dei successivi articoli una disamina più approfondita del tema, ci limitiamo a ricordare come le radio libere (allora così chiamate con cognizione di causa) e gli stessi videotapes iniziassero ad essere diffusi in Italia per iniziativa della sinistra di classe, quali esempi di comunicazione antagonista, precorsi e divulgati da teorici dell’uso alternativo dei media come Roberto Faenza e Pio Baldelli (quest’ultimo poi catalogabile tra i soggetti di cui alla lettera e).
Con gli anni Ottanta non solo Berlusconi e soci si appropriano di quegli strumenti, ma assumono personaggi particolarmente creativi nel decennio precedente, inserendoli nelle proprie reti di comunicazione. L’ironia, l’amore per il paradosso, il peculiare umorismo proprio del movimento nel suo lato “esistenziale”, vengono così travasati in trasmissioni e spettacoli all’insegna del qualunquismo e del disimpegno e trasformati, da veicolo di critica, in strumenti di pura evasione del tutto organici alle forme in cui si stanno rimodellando la società e la mentalità collettiva.

g) Da ultimo (ma non in senso cronologico) si integrano i metodi più complessi di riconquista dello spazio della cultura e della comunicazione con la censura diretta. Mentre tutti i maggiori organi di stampa, con l’avvio degli anni Ottanta, tacciono sistematicamente sulle lotte e le manifestazioni che hanno a protagonista la sinistra rivoluzionaria (salvo che in caso di scontri), vengono boicottati ed emarginati libri e pubblicazioni che ad essa fanno riferimento. È il caso, per fare un esempio, dei romanzi di Nanni Balestrini, che per quante copie vendano non ottengono alcuna recensione. Ma se Balestrini riesce bene o male a farsi pubblicare, altri autori urtano contro il muro di case editrici convertitesi ad una produzione innocua prima ancora che il mercato lo imponesse (Feltrinelli, Mazzotta, ecc.).
L’esempio più clamoroso riguarda però il cinema. Film che disturbano per il loro contenuto antiamericano (come Urla di guerra dal Nicaragua e Walker) vengono acquistati, tradotti e mai distribuiti; il film Stammheim (a dire il vero bruttissimo) viene sì distribuito, ma sottoposto a un assurdo divieto ai minori di 18 anni che oggi si riserva solo alla peggiore pornografia. Di recente, Gli invisibili di Pasquale Squitieri, unica pellicola che tratti onestamente del ’77 e degli anni della repressione, è divenuto a sua volta invisibile, dopo una permanenza in prima visione tanto breve da non consentire alcuna valutazione delle sue possibilità commerciali.
Come si dovrebbe aver compreso, ben pochi dei punti da noi elencati possono essere attribuiti al caso o all’iniziativa di singoli. Si tratta invece di misure adottate in forma coordinata e simultanea in tutti i settori della cultura, di cui per la prima volta il capitale coglie a fondo l’importanza strutturale ai fini della difesa del sistema, e dunque dell’estrazione del profitto.
L’industria culturale si sviluppa enormemente, assorbendo una massa abnorme di operatori e divenendo uno degli assi strategici dell’intero decennio. Il tempo libero accresciuto dall’automazione non ha quindi modo di favorire atteggiamenti “sovversivi” (minaccia per il capitale già adombrata da Marx nei Grundrisse), dal momento che viene completamente invaso dagli strumenti di condizionamento allestiti dal potere.

(Segue nella prossima puntata la Terza Parte, I FATTORI SOGGETTIVI)

Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui e 04 qui

]]>
Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – pt.3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/mutualismo-autodifesa-lavoro-sociale-il-caso-delle-pantere-nere-pt-3/ Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85575 di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente. Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale. L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni [...]]]> di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente.
Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale.
L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni pantera.1
Ma era anche un aspetto facilmente demonizzabile dai media e respingente per la parte più moderata degli afroamericani. I programmi sociali erano fondamentali nell’immediato soprattutto per colmare questa lacuna.
Se nella strategia tali programmi dovevano rappresentare delle infrastrutture di resistenza per affrontare la guerra, nonché dei germi di organizzazione collettivista della società; nella tattica essi erano fondamentali al consenso.
Attraverso le mense e gli ambulatori le pantere non erano solo dei militanti armati che proteggevano dalla polizia e dai razzisti, ma coloro che si caricavano sulle spalle i bisogni concreti della società nera. Che nutrivano i bambini e curavano i malati. Lancia e scudo.
Ogni madre o padre del ghetto poteva riconoscere in loro quelli che al mattino davano la colazione ai figli prima della scuola, che nel pomeriggio gli permettevano di avere davvero un’educazione completa tenendoli fuori dalla strada e alla sera li tenevano al sicuro.
Questa ricerca del consenso, di per sé necessaria ad ogni partito, diventava via via più necessaria man mano che la repressione si stringeva attorno al BPP.

Tanto il partito cresceva, tanto la pressione degli apparati si faceva feroce, più acuta di giorno in giorno.
Da minacce, molestie e arresti arbitrari si passò rapidamente ad una vera e propria offensiva militare coordinata dal FBI: vengono infiltrati decine di provocatori e informatori, i militanti di spicco sono incarcerati in massa, vengono uccisi in scontri a fuoco o in veri e propri omicidi mirati, le sedi sono attaccate, date alle fiamme o distrutte con esplosivi.
Anche i programmi sociali vengono sabotati: poliziotti disturbano le colazioni per bambini, commercianti che forniscono risorse vengono minacciati, le tipografie sequestrate, addirittura si progetta di avvelenare il cibo che le pantere distribuiscono nei quartieri.
È una guerra totale e sporca, condotta fuori da qualsiasi parametro e controllo legale: il famigerato programma controinsurrezionale COINTELPRO di cui nell’immediato non si sa nulla ma che emergerà nel medesimo 1971, quando verranno alla luce una serie di documenti sequestrati in un blitz di cittadini in una base federale della Pennsylvania.

Quando si parla della brevissima stagione delle Pantere e della loro metodologia politica bisogna tenere sempre a mente che tutta la vita del BPP è stata condizionata pesantemente dal dover fare i conti con questa repressione barbara.
Nel sabotarne il cammino, il COINTELPRO ha viziato pesantemente la dialettica interna, spingendo una parte delle Pantere a radicalizzarsi ulteriormente spingendo per una prassi più insurrezionale (coloro che, dopo la scissione, daranno vita al Black Liberation Army), e portando un’altra parte più “moderata” ad arroccarsi sulla via elettoralista e l’incremento dei programmi sociali (questa sarà la parte che avrà la guida del partito, con scarsi risultati fino al suo scioglimento).
Nessuno dei due elementi poteva bastare a sé stesso senza il suo contraltare: venuta meno la loro compresenza, tutta la strategia ha finito per crollare su sé stessa.

È probabile che in ogni caso, anche senza il peso della repressione, le Pantere non sarebbero riuscite a fare il definitivo salto di qualità; ma c’è un episodio significativo, che illumina il senso della vicenda: nel 1969 Fred Hampton, giovanissimo dirigente del BPP di Chicago e plausibile successore di Newton, appena 21 anni, viene ucciso nel sonno durante un raid della polizia nel suo appartamento.

Tralasciando gli inquietanti dettagli sul suo omicidio, non possiamo fare a meno di notare come gli apparati non persero un momento a spezzare la prima vera possibilità di balzo in avanti che si era presentata.
Hampton infatti era il leader di una delle sezioni più forti del partito e soprattutto architetto di una strategia innovativa; non solo era riuscito a tenere in equilibrio il lavoro sociale e le armi, ma aveva superato la tradizionale base di riferimento.
Alleandosi con la League of Black Revolutionary Workers, sindacato degli operai neri, era riuscito a garantirsi una testa di ponte all’interno del settore delle fabbriche, fondamentale nella città, era la prima pantera ad affrontare in modo esplicito, seppure abbozzata, la contraddizione capitale-lavoro ed il ruolo dei sindacati.
Non solo, facendo leva sulla composizione delle bande giovanili, era riuscito a politicizzarne diverse e a portare attraverso queste l’esempio del BPP nelle altre comunità svantaggiate: portoricani, bianchi poveri del sud, messicani. L’agglomerarsi di partiti simili (Young Lords, Young Patriots, Brown Berets ecc.) in una alleanza (la Raimbow Coalition, poi ripresa anni dopo in chiave elettorale dal reverendo Jesse Jackson) faceva di Hampton la possibile guida definitiva del BPP e il detonatore di un’offensiva congiunta dei segmenti di classe finora tenuti separati dalla linea del colore.
Venne ammazzato per prevenire lo stabilirsi di una strategia unica per un fronte allargato con reali possibilità di vittoria.

Per concludere, l’analisi delle pratiche politiche del BPP2 non può esimersi dal partire dagli elementi fondamentali che l’hanno generato e che ne hanno determinato lo sviluppo. Abbiamo qui portato brevemente alla luce i tre nodi determinanti: la strategia (e l’immaginario) politica, la comunità storica d’appartenenza e la contingenza politica.
Più esplicitamente, le forme di lotta ed organizzazione delle pantere possono essere lette solo considerando A) il loro inserirsi in una strategia di lotta anticoloniale novecentesca, la guerra popolare, che prevedeva istituti di sussistenza dell’avanguardia rivoluzionaria e dei suoi territori; B) l’innestarsi all’interno della tradizione nera che, dalla schiavitù in poi, ha sviluppato forme di cooperazione mutualistica per sopperire agli scompensi della segregazione; C) la loro valenza di strumento di propaganda e consenso, tanto più necessario quanto più era forte l’attacco repressivo cui erano sottoposte.

Nota a margine.

Spesso e volentieri nei movimenti occidentali degli ultimi vent’anni3 , una certa dose di entusiasmo si accompagna all’adozione di pratiche politiche, sopperendo spesso a una lacuna di visione strategica, ossia la capacità di vedere lontano e inserire le singole pratiche all’interno di un percorso articolato, mutevole e non lineare.
È così che ciò nasce come tattica finisce per essere strategia, da mezzo a fine; ciò che era secondario assume l’importanza della parola d’ordine.
Allo stesso tempo questo si accompagna ad un innegabile senso orientalista: lotte distanti geograficamente e culturalmente da noi vengono assunte come modello senza considerarle nella loro specificità.

È stato così per le comunità zapatiste, per il Rojava dei kurdi. Lo è anche per le pantere nere ed il BLM.
Spesso non si considera la cultura indigena e la dimensione coloniale del sud del Messico, oppure la turbolenza geopolitica che ha investito il popolo kurdo nel terzo millennio; dei loro contesti dove la civiltà tardocapitalista non ha imposto il controllo né la sussunzione pervasivi assunti in Europa, né la centralità assunta dallo stato sociale qui (anche nel suo smanetellamento); solo in minima parte si guarda a come si siano dati in condizioni di frattura o insufficienza dell’ordine statale sui propri territori.4
Soprattutto non si considera il loro essere dotarsi di strutture organizzative pensate per agire e guardare sul lungo periodo; laddove in Europa si è assistito piuttosto all’esplodere ciclico di mobilitazioni popolari anche importanti, al fiorire di piccoli gruppi ed esperienze, ma solo in minima parte alla costruzione di strutture politiche durevoli e articolate.

In questa adozione quasi spasmodica di linee frammentate il mutualismo è tornato alla ribalta come uno degli ultimi ritrovati, trasmutato da mezzo a fine.
Questo in parte è spiegabile con la lunga presenza di pratiche sociali simili, specialmente nei movimenti di derivazione libertaria e orizzontalista; in parte con la necessità, dopo la fine del movimento operaio storico, di riadattare strumenti per una soggettività orfana.

Ecco che si sono assunte le categorie dei movimenti extraeuropei per colmare un’insufficienza tutta occidentale, con la tendenza molto occidentale di poterle utilizzare a prescindere dalla loro genesi.
E questo è tanto più evidente se si pensa che allo stesso tempo si è andata dimenticando la dimensione europea del mutualismo, altrettanto lunga e profonda.
Se il socialismo è un prodotto della cultura europea dell’800, questo non è nato semplicemente dentro la mente geniale di Marx e Engels.
Quello che è emerso nella prima internazionale e nel Manifesto è il picco di un percorso di lungo periodo che lì trovava compimento e si evolveva in qualcosa di altro.
Un percorso disordinato e contraddittorio dove filantropia, aspirazioni nazionali, rivolte locali e tutti i processi materiali e simbolici innescati dalla resistenza all’estendersi della rivoluzione industriale finivano per agglomerarsi in un’opera di categorizzazione teorico-politica.

Furono non pochi i tentativi di dotare la nascente classe operaia di istituti di sopravvivenza e opere mutualistiche. A volte da parte degli appartenenti alla classe dirigente, animati da spirito filantropico e sentimento cristiano; altre volte da aggregati popolari in autonomia (senza dimenticare che tra Rivoluzione Francese e Manifesto del Partito Comunista corrono appena cinquant’anni).

Questa eredità verrà raccolta dai partiti socialisti e poi da quelli comunisti. Si articolerà in una fioritura di progetti diversissimi tra loro che copriranno praticamente tutto lo spettro delle attività umane. Scuole per i figli degli operai, orti per i loro quartieri, casse di assistenza reciproca, cooperative di lavoro, centri ricreativi.
I partiti presero in carico tutte le esigenze della classe, spesso attraverso articolazioni associative piuttosto che direttamente, ma nel cammino verso “il sol dell’avvenire”, utilizzarono il lavoro sociale per popolare e dare profondità al mondo che incarnavano.
Far parte di un partito socialista significava, per un operaio, essere partecipe di un vero e proprio universo materiale e simbolico.

Il tempo lungo della storia ha disegnato un percorso estremamente ricco e sfaccettato, lo ha portato al suo apice e poi al suo declino.
Durante il suo corso, ha condizionato lo sviluppo delle nazioni innervandole di uno Stato Sociale che altrove è impensabile, nonostante i pesanti attacchi del neoliberismo.
Intanto, svanito il sogno rivoluzionario, quelle classi dirigenti che avrebbero dovuto gestire il mondo socialista, si sono convertite in ceto amministratore della miseria presente.

Tutto ciò non vuole essere in alcun modo una riproposizione nostalgica di una tradizione ormai bell’e morta; né tantomeno si cerca di svilire le esperienze rivoluzionarie extraoccidentali, che anzi hanno rappresentato il maggior terreno di innovazione e sperimentazione degli ultimi sessant’anni.
Piuttosto vogliamo qui spingere verso un metodo di analisi, di interpretazione della realtà che, con qualche approssimazione, possiamo definire come “storicizzare i processi politici” per orientarne la prassi.
Se non consideriamo l’onda lunga da cui proveniamo non possiamo interpretare la realtà, ogni innesto che verrà tentato si svilupperà su un terreno arido e sarà quindi sterile, incapace di mettere radici.

Parte 1 qui
Parte 2 qui


  1. Ribadiamo la specificità dell’uso delle armi nel programma del BPP, mai utilizzate in una pratica offensiva ma come elemento anzitutto simbolico di propaganda e in secondo luogo come strumento di difesa in caso di attacchi di polizia e suprematisti. 

  2. Ma analogamente vale per l’analisi di qualsiasi fenomeno politico. 

  3. nello specifico possiamo parlare di quelli italiani ma crediamo che qualcosa di simile sia vero per la restante parte del mondo in cui siamo inseriti 

  4. guerra civile siriana, narcoguerre e debolezza endogena dello Stato messicano alla sua periferia. 

]]>
Lavorare crepando https://www.carmillaonline.com/2023/04/10/lavorare-crepando/ Mon, 10 Apr 2023 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76644 di Giovanni Iozzoli

È uscito da poco l’e-book “Lavora e crepa”, a cura dell’Osservatorio Repressione. Si tratta di un corposo quaderno di riflessione politica e teorica che raccoglie contributi diversi sul tema lavoro/repressione. L’obiettivo, con le parole dei curatori è: “porre l’attenzione sui meccanismi e i dispositivi che reprimono le resistenze nei luoghi di lavoro e creano quell’umanità a perdere necessaria ad alimentare questo sistema. Una produzione continua di vite di scarto o scarti di vite, con impatti individuali e sociali disastrosi”.

Il nesso sfruttamento-repressione è ben sintetizzato dal frammento in esergo: “siamo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

È uscito da poco l’e-book “Lavora e crepa”, a cura dell’Osservatorio Repressione. Si tratta di un corposo quaderno di riflessione politica e teorica che raccoglie contributi diversi sul tema lavoro/repressione. L’obiettivo, con le parole dei curatori è: “porre l’attenzione sui meccanismi e i dispositivi che reprimono le resistenze nei luoghi di lavoro e creano quell’umanità a perdere necessaria ad alimentare questo sistema. Una produzione continua di vite di scarto o scarti di vite, con impatti individuali e sociali disastrosi”.

Il nesso sfruttamento-repressione è ben sintetizzato dal frammento in esergo: “siamo in un inferno neo-liberista che ha reso ben visibili i tratti di un domani già scritto dentro processi autoritari e securitari. Alla paura e all’incertezza di futuro la risposta è più sicurezza, più controllo, più repressione.” Il libro inquadra le tematiche securitarie – gli investimenti crescenti sull’ordine pubblico, l’espandersi della sfera penale, il moltiplicarsi di istituzioni repressive di ogni genere -, mettendole in relazione con la fase di crisi che il capitalismo occidentale sta attraversando. Le promesse di benessere e opportunità per tutti si rivelano sempre più vuote; il malessere sociale cresce, insieme a nuove forme di ri-polarizzazione; e in questo contesto il principale investimento sistemico, in mancanza di altre strategie, è quello in “sicurezza”: cioè, organizzazione “scientifica” dei dispositivi di mantenimento dell’ordine sociale capitalista.

È questa una dinamica che riguarda le nostre società sviluppate, ma è chiaramente visibile nei paesi che un tempo si definivano “terzo mondo”: in occasione delle rivolte di piazza per la giustizia sociale, i governi di quei paesi, solitamente privi delle risorse minime necessarie a creare sistemi sanitari e scolastici decenti, esibiscono forze di polizia super attrezzate di armi e mezzi costosi e modernissimi, totalmente incongrui rispetto al panorama sociale circostante. Quegli strumenti rappresentano la prima fornitura che viene elargita ai governi che si sottomettono alle politiche del FMI. Come a dire: accettando le nostre ricette economiche le rivolte ci saranno, ma tranquilli – vi mettiamo in condizione di reprimerle.

In questo primo quaderno si discute del “caso Piacenza”, epicentro del tentativo di criminalizzazione del sindacalismo di classe; di forme di controllo e coazione insite dentro il rapporto capitalistico, nelle moderne fabbriche automatizzate; del modello educativo di formazione e addomesticamento della forza lavoro, tra alternanza e stage gratuiti; della dialettica tra lavoro “garantito” e nuovo precariato di massa; delle bugie dell’ “economia green” nel suo rapporto con il lavoro reale; della drammatica emergenza degli infortuni, delle morti e delle malattie professionali.

In questo ricco quadro di analisi i curatori manifestano un obiettivo: “senza la presunzione di trovare risposte confortanti, questo è un tentativo di innescare reti di relazione, spunti di riflessione condivisi, per non lasciare nell’isolamento tutte quelle voci che quotidianamente ricercano e desiderano una vita più che degna. Per far ciò, occorre calarsi nei luoghi e negli scarti di vite, o per dirla con Foucault: forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire cosa siamo, ma piuttosto rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare.”

L’Osservatorio Repressione è un’associazione di promozione sociale nata nel 2007. Si prefigge di promuovere e coordinare studi, ricerche, dibattiti e seminari, sui temi della repressione, della legislazione speciale, della situazione carceraria, nonchè la raccolta di documenti inerenti la propria attività. L’Osservatorio cura la pubblicazione di materiali ed esiti delle proprie ricerche, promuove progetti indipendenti o coordinati con altre associazioni e movimenti che operano nello stesso ambito. Produci e crepa è il primo dei Quaderni 2023, altri seguiranno su carcere, migrazioni, militarizzazione dei saperi.

L’e-book è scaricabile dal sito osservatoriorepressione.info, insieme alle altre pubblicazioni già prodotte dall’associazione.

]]>
Uno scrittore è uno scrittore, alla faccia di ogni repressione https://www.carmillaonline.com/2023/04/06/uno-scrittore-e-uno-scrittore-alla-faccia-di-ogni-repressione/ Thu, 06 Apr 2023 21:55:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76806 di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e [...]]]> di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e parti politiche di destra ignorino da sempre i più elementari diritti della persona in un luogo di restrizione della libertà come il carcere non mi stupisce. Ma parimenti non mi stupisce neanche la posizione della cosiddetta sinistra, sempre pronta a blaterare di diritti umani quando conviene, ma latitante se non connivente con la repressione e il clima di emergenza nei confronti dei protagonisti della sinistra antagonista degli anni ’70. 

Destra e “sinistra” così come sono sulla stessa lunghezza d’onda riguardo la guerra e l’invio di armi ai nazisti di Kiev, anche sulla repressione non si distinguono l’una dall’altra. E se non ho mai creduto al carcere come strumento di riabilitazione, ritenendolo solo un dispositivo di punizione fino all’annientamento della personalità attraverso la compressione dei diritti, fino ai più elementari, credo ancor meno in specifico a questo sistema discriminatorio e repressivo come quello carcerario italiano. 

Ci credo meno che meno quando un ministro esibisce il prigioniero come una belva in gabbia e quando da sempre alla restrizione tra quattro mura si aggiunge il libero arbitrio dell’intimidazione e della violenza sui detenuti. Soprattutto quando esiste il 41bis, prosecuzione della legislazione emergenziale (do you remember l’art.90?), già giudicato tortura dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (vedi qui) e ancora più spudoratamente dispositivo politico di annientamento su detenuti antagonisti che nulla ha a che vedere con lo scopo (o pretesto?) che politici e legislatori si erano dati per istituirlo: troncare i legami dei capi mafia detenuti con l’esterno. Vedi la lotta dell’anarchico Cospito, in sciopero della fame a oltranza.

La storia del nostro paese e delle sue lotte popolari è fatta anche delle condizioni di vita dei prigionieri, di quella molteplicità di soggetti, politici o meno, la cui presenza  e modalità di trattamento nelle carceri servono in fin dei conti, al di là dei reati veri o presunti, a legittimare un regime borghese e classista, un insieme di valori e narrazioni dominanti, che sono quelle dei gruppi più forti ed egemoni in questa società.

In questo contesto, dunque, ritengo importante proseguire l’impegno del nostro Valerio Evangelisti, dando spazio alla scrittura di Battisti, che carcere o meno è e resta uno scrittore e oggi anche un editor che dà spazio e stimolo ai tanti detenuti che scrivono. Battisti è uno scrittore alla faccia delle riscritture utili al regime (vedi il recente programma sulla RAI) perché un’opera d’arte, così come il suo autore, sono tali in quanto considerati così dai fruitori dell’opera stessa e dall’opinione che questi hanno degli artisti. La censura può solo colpire chi produce cultura e informazione critica, gli scrittori, i giornalisti che non si sono venduti, ma non può alterare ciò che sono, o che sono stati, il loro percorso culturale e artistico durante e dopo la loro opera. 

Alla presentazione dell’ultimo romanzo di Battisti, “l’Ultima duna”, che ho recensito su Carmilla tre mesi fa, c’era un folto pubblico presso la libreria Ubik di Bologna. È ho già detto tutto.

Per il resto, ecco un altro racconto di Cesare. E ne seguiranno ancora.

———

L’albero delle storie

di Cesare Battisti

 Le apparenze ingannano, ma sono ancora ciò che abbiamo di più solido. Lo sa anche Vlady che ha solo dieci anni. Un’età in cui è ancora possibile cogliere gli istanti che passano nell’aria che respira e percepire che il presente gli è interdetto. Lui sa che la guerra non è fatta solo di bombe che cadono dal cielo, di fughe, di pianti, i corpi dilaniati. Sta negli sguardi vuoti dei sopravvissuti, nel silenzio afflitto del rifugio sotterraneo. La guerra sta nei gesti gravi dei grandi, nel loro inconfessabile terrore.

Ogni volta che sguscia allo scoperto, Vlady guarda le macerie tutt’intorno e sente quanto poco vale realmente la su vita. Sa che non dovrebbe esporsi tanto, farà stare in pensiero i suoi. Al rifugio tutti credono che fuori non sia rimasto niente, non sanno però dell’Albero e delle fughe che lui fa per andarlo ad ascoltare. Vlady è guardingo, ma non sa chi siano i nemici, di essi conosce solo il fagore degli spari. E una paura senza volto è troppo vaga per disanimare.

La guerra lui la sente sotto i piedi quanfo stringe i denti e corre incontro all’Albero delle storie. L’insidia è il palpito del sangue assorbito dalla terra, sta nell’alito pesante della quiete. Vlady corre a perdifiato al calar del sole, pregustando il suono di magiche parole. Il suo non è un albero speciale, offre ombra a tutti quelli che lo vogliono ascoltare. Racconta storie di mondi vecchi e nuovi, di (…) che rincorrono la pace. La sua è una lingua universale, dice di giochi, di sogni e di prestigiatori, di angeli erranti senza ali. 

Sotto le sue fronde la guerra regredisce, dalle rovine rinascono le case, la mamma stende ancora i panni sul balcone, mentre nel cortile della scuola è un gran vociare. l’Albero racconta che così è sempre stato, che volerlo differente è solo un’illusione, un abbaglio di inventori che non sanno amare.

La storia l’ha sentita tante volte, Vlady la ripete tutto il giorno sotto terra, eppure ogni volta sembra nuova. l’Albero sa quel che dice, ha radici più grandi della guerra e la sua voce è solo melodia; combina le parole con la musica dei fiori e ogni adagio ha un profumo differente.

Resta poco del giorno, ma Vlady non è sazio di ascoltare, vuole il cuore debordante di vita per inondare di speranza il rifugio sotto terra. Vuole portare con sé il canto degli uccelli, la filastrocca degli insetti a primavera, la vita che fisorge dalla cenere. E la sorpresa dei signori della guerra, il tornare docilmente al posto loro, come bravi nani da giardino.

Si fa notte, sul rifugio è spuntata una stella. l’Albero delle storie lo saluta con una lieve inclinazione della chioma, come per sigillare un accordo su qualcosa che Vlady ancora ignora.

 

Illustrazione di Nico Maccentelli

]]>
La contro-idea abolizionista https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/la-contro-idea-abolizionista/ Sun, 01 Jan 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75292 di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, [...]]]> di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, perennemente in preda a beceri istinti forcaioli, nonostante la cortina di silenzio  eretta attorno a tale incredibile vicenda abbia di fatto negato ai più anche semplicemente di conoscere sufficientemente gli eventi, nonostnte tutto le espressioni di solidarietà nei confonti del detenuto non mancano.

Soffermarsi sulla palese sproporzione tra i reati di cui si parla e la pena a cui è sottoposto Cospito può e deve essere un punto di partenza non solo per denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti e quanto siano disumane le modalità di dentezione e la condanna senza fine pena che toccano lui come altri reclusi, ma anche per aprire una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei.

A tal proposito può essere di qualche utilità riportare una recensione pubblicata su “Carmilla” ormai una decina di anni fa (06/01/2012) relativa al volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011).

***

Il testo passa in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni. L’autore non si limita a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma affronta la questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo.

Il pensiero abolizionista emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena. Una coraggiosa, radicale e controcorrente riflessione su tali questioni può essere salutata come una boccata di ossigeno per un cervello che, ultimamente, pare davvero, in questo paese, essersi accontentato di un’ora d’aria al giorno.

Il saggio inizia con l’analizzare il pensiero abolizionista a partire dal rigetto della netta distinzione tra bene e male. L’abolizionismo non resta, però, insensibile a tale distinzione ma evita di ordinare gerarchicamente i valori in quanto ciò richiederebbe una parità di vantaggi da parte di chi li adotta; gli atti illegittimi non risultano per forza di cose ingiusti se non sono derivati da una libera scelta. Sviluppando la riflessione amorale di Spinoza, in cui bene e male sono da intendersi come concetti relativi, l’abolizionismo sostiene che la probabilità che le azioni compiute vengano classificate o meno come criminali dipende dalle opportunità sociali.

Il sistema della giustizia criminale tende a sottrarre i conflitti alle parti direttamente coinvolte e a separare l’individuo dal contesto ove il fatto si è dato. L’intervento istituzionale nelle situazioni problematiche tende a cancellare un’etica di responsabilità condivisa in favore di una responsabilità individuale, determinando così una sorta di monopolio istituzionale circa il potere di punire o meno.

La legislazione criminale si presenta come espressione di un conflitto e, in un contesto in cui vige una sostanziale ineguaglianza, sono le componenti dotate di maggior potere a criminalizzare le condotte di chi ne detiene meno. I detentori del potere delegano l’applicazione della legge criminale a organizzazioni professionali che finiscono con l’incidere profondamente sulla percezione del crimine e sulle forme da attuare per combatterlo. La legislazione criminale determina una costruzione di realtà: il soggetto in causa viene separato dal contesto in cui ha agito e viene a forza inserito all’interno di una gamma di eventi e condotte limitata.

A proposito della questione carceraria vengono passati in rassegna dall’autore le riflessioni di diversi studiosi. In Kant la punizione è un imperativo categorico; i crimini rendono gli autori proprietà dello Stato e la detenzione non è intesa come strumento riabilitativo. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è invece il reo ad avere il diritto di essere punito e la punizione non deve per forza avere utilità ma deve essere intesa come affermazione della giustizia, come annullamento del male. La punizione rende onore ai rei considerandoli esseri razionali.

Marx, diversamente, intende la pena come uno strumento a cui ricorre la società per difendersi da chi mette a repentaglio le condizioni stesse che ne tramandano l’esistenza.

Durkheim ritiene che un atto umano non provoca sgomento nella società perché è criminale, ma viene inteso criminale proprio perché provoca sgomento. Visto che in Durkheim la pena vale come messaggio rivolto all’intera società, Ruggiero sottolinea come in tale approccio essa finisca per rafforzare il senso di superiorità etica di chi la infligge, rispondendo ad un bisogno di vendetta retributiva. Il progressivo declino del principio di responsabilità collettiva, base delle società antiche, ha determinato la centralità del carcere nel sistema penale contemporaneo.

La logica conseguenzialista si presenta in forme diverse difficilmente distinguibili: misura comunicativa simbolica (espressione di disapprovazione), misura deterrente, misura di incapacitazione (rendere innocui i rei), misura riabilitativa (mira al miglioramento morale e materiale delle vite dei rei).

Con riferimento alla funzione del carcere è possibile confrontare gli approcci istituzionali e quelli materiali. I primi enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo. La punizione si rifà ad un’idea di vendetta o retribuzione. I corpi devono essere distrutti. Negli approcci materiali, invece, si enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. La punizione è intesa come strumento regolativo: i corpi devono produrre.

Secondo le analisi di Rusche e Kirchheimer i sistemi penali tendono ad adeguarsi ai rapporti produttivi del momento: durante i periodi di crisi economica si abbassano i salari e peggiorano le condizioni della popolazione carceraria in quanto parte della forza lavoro eccedente, mentre nei periodi di espansione economica, ove vi è carenza di forza lavoro, le condizioni della popolazione carceraria migliorano.

In Foucault il carcere è l’emblema della società disciplinare moderna, egli vede nella pena un dispositivo disciplinare che tocca ogni aspetto dell’individualità ma nei periodi emergenza il regime carcerario si fa distruttivo per annientare i sui nemici. Occorre però considerare i rapporti tra punizione e sfera economica tenendo conto del controllo penale e sociale fuori dal carcere. Tenendo presente che la forma più incisiva di controllo sociale si esprime attraverso il rapporto salariale, Ruggiero indica nelle “zone carcerarie sociali” quelle aree ove le attività illegali si intrecciano con quelle marginali e con il lavoro precario. Tali zone subiscono una gradualità di forme di controllo e di punizione,

le funzioni di deterrenza individuale e generale della pena non sono dirette esclusivamente verso i recidivi o i criminali irriformabili, ma in generale contro la popolazione esclusa (…) occorre enfatizzare che la funzione materiale o educativa della pena, in queste aree, non smette di operare. I marginali, i lavoratori occasionali, i piccoli extra-legali e gli sconfitti in genere, che si muovono tra legalità ed illegalità, vengono “educati” a rimanere e sopravvivere nelle loro aree di esclusione, come nei secoli scorsi i loro omologhi venivano educati alla disciplina industriale. La disciplina imposta attraverso la pena mira ad abbassare le loro aspettative sociali (…) ai reclusi verrà riconosciuta completa riabilitazione quando accetteranno di rimanere nel loro specifico settore della forza lavoro e quando, implicitamente, rifiuteranno di evadere dalle zone carcerarie sociali loro assegnate. La forza lavoro “criminale” e la adiacente forza lavoro precaria costituiscono il deposito della popolazione carceraria, la riserva umana dalla quale attingere (pp. 98-99).

Diversi studiosi smontano l’idea del carcere riabilitativo visto che gli effetti carcerari in termini di prevenzione della recidiva risultano davvero trascurabili. La detenzione pare, piuttosto, peggiorare la condotta visto che i detenuti hanno la tendenza ad interiorizzare quei valori e quelle regole che regolano la vita di un ambiente violento come il carcere; da qua discende l’idea del carcere come scuola del crimine. La stessa convinzione che il valore deterrente della detenzione sia rivolto alla popolazione nel suo complesso appare davvero traballante, visto che il valore deterrente pare agire soltanto su chi non ne ha bisogno. Inoltre, in tale logica, l’obiettivo dissuasivo nei confronti dell’intera popolazione verrebbe paradossalmente raggiunto anche nel caso di condanna di innocenti; anche punendo individui a caso, prescindendo dalle loro responsabilità penali, l’intera comunità potrebbe venire dissuasa dal commettere reati.

La presunzione contemporanea che ci si sia indirizzati verso un pena umanizzata, più mite, dovrebbe fondarsi sulla misurazione della differenza tra la condizione di “normalità” dell’esistenza e quella indotta dal sistema coercitivo. Da questo punto di vista il sistema carcerario tendenzialmente interviene sugli strati più svantaggiati della popolazione ed ammesso vi sia stato un miglioramento delle condizioni di vita anche dei livelli più bassi di esistenza a livello europeo, le condizioni carcerarie non sembrerebbero essere affatto progredite di pari passo.

I criminologi critici tendono poi a svalutare la teoria retributiva:

in una società che incoraggia all’individualismo, all’egoismo e all’ingordigia, la teoria retributiva invoca la punizione di chi appare autonomo anche se, in realtà, è perdente, in quanto, vista la sua condizione sociale, è spesso vittima dell’ingordigia degli altri (…) Chi viola le norme si presenta come un concorrente sleale, che si avvantaggia degli svantaggi degli altri, e questo rende la punizione moralmente accettabile (…) Ma come può una società radicalmente ineguale affermare che lo status quo crea benefici per tutti? (pp. 110-111).

Appare evidente come abitualmente si sia dato un fenomeno di pendolarismo tra “zona carceraria sociale” e carcere. A tale proposito sarebbe auspicabile un drastico cambiamento in cui allo svilupparsi di forme di “economia associativa” alternative al mercato del lavoro ufficiale possano funzionare forme di giustizia partecipativa.

Nella trattazione di Ruggiero vengono approfonditi gli approcci di Louk Hulsman, Thomas Mathiesen e Nils Christie, che rappresentano alcune tra le figure più importanti del pensiero abolizionista. L’olandese Hulsman, a partire dalle esperienze personali, deriva dalla dottrina cristiana alcuni dei tratti fondamentali che, intrecciati soprattutto con aspetti della teologia della liberazione, formano il suo pensiero anti-criminologico. In particolare lo studioso rifiuta il sistema della giustizia criminale che riduce i problemi sociali in colpevolezza individuale. Il giudizio individuale nega gli aspetti comunitari del crimine così come, nell’ambito religioso, la confessione privata nega gli aspetti comunitari del peccato.

Il norvegese Mathiesen fonda buona parte della sua analisi sullo studio dei rapporti di forza in continua evoluzione all’interno della società e sulle forme di contropotere dal basso che si scontrano incessantemente con il potere. Nonostante l’eterogeneità delle fonti da cui trae spunto, l’intera analisi dello studioso si fonda su una nozione di conflitto che conduce all’azione, conflitto inteso però «non come espressione di rapporti sociali inalterabili, ma come manifestazione di energie per il mutamento» (p. 179). Una convinzione importante sviluppata da Mathiesen riguarda la critica alle metodologie di ricerca sociologica definite “neutrali” od “oggettive”. Nel rifiuto di una netta distinzione tra ricercatori e soggetti esaminati «L’azione è implicita nel metodo adottato, e gli “oggetti” della ricerca sono i soggetti principali non solo della ricerca medesima che li riguarda, ma anche dell’azione. La critica radicale di Mathiesen (…) traduce costantemente conoscenza sul conflitto in prassi collettiva per coloro che lo producono» (pp. 179-180).

Lo studioso norvegese Christie ha evidenti punti di contatto in particolare con le argomentazioni del libertario russo di Pietr Kropotkin; in entrambi i casi si ritiene che la proliferazione delle leggi finisca per ridurre la possibilità di controllo collettivo producendo una sorta di circolo vizioso in cui le leggi finiscono col creare ansia ed insicurezza a cui poi si finisce col risponde con nuove leggi. Inoltre, la proliferazione delle leggi avrebbe nell’ignoranza diffusa un fattore di moltiplicazione. Nel pensiero anarchico la legge viene percepita come una vera e propria forma di rapina perpetuante la dominazione dei potenti sul resto della comunità e la punizione finisce col creare la propria immagine nelle persone alle quali viene inflitta creando così essa stessa la criminalità.

Una parte del saggio di Ruggiero viene dedicata al dibattito sulla giustizia ripartiva. Nell’approccio abolizionista si rifiuta l’idea che sia un’organizzazione statale ad avere il monopolio della definizione delle condotte criminali. Per gli abolizionisti il crimine dovrebbe essere intesto come una “disputa partecipativa” ove tutti gli attori implicate negli eventi, rei compresi, dovrebbero farsi carico direttamente della discussione finalizzata a risolvere in qualche modo il contenzioso che ha sue specificità e non può essere analizzato applicandovi meccanicamente formule preconfezionate dettate da qualche, supposta, analogia.

Il metodo partecipativo permette di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche che si intendono affrontare. È sull’onda di tali ragionamenti che lo studioso Herman Bianchi ha sviluppato il concetto di “giurisdizione partecipativa” ove il reo viene inteso come debitore tenuto ad assumersi la responsabilità umana dei propri atti partecipando attivamente alla ricerca di una riparazione; debito e responsabilità sostituirebbero così i concetti di colpa e colpevolezza. Nell’idea di Bianchi, però, le pratiche di restituzione e riparazione non mirano, come in Durkheim, a ristabilire le condizioni precedenti l’atto ma, piuttosto, hanno come finalità quella di promuovere rapporti solidali tra gli individui, dunque, a modificare le condizioni ante-crimine. Il contenzioso, in altre parole, diventerebbe un’occasione per costruire dialogo e rapporti più profondi tra i membri di una comunità.

Concludendo, in un periodo in cui si invoca il carcere per i potenti ma le celle scoppiano di poveri cristi, il tintinnare delle manette pare essere un suono gradito a tanti ed il buttar via la chiave della cella torna, ancora una volta, a essere uno slogan con cui conquistare consenso, il pensiero abolizionista getta una nuova luce sul delitto, sulla legge e sulla pena, questioni su cui da troppo si evita di riflettere.

Recensione pubblicata originariamente su“Carmilla” il 6 gennaio 2012


Libri di Vincenzo Ruggiero di cui ci si è occupati su “Carmilla”:

Scritti di Vincenzo Ruggiero su “Carmilla”:

]]>
No all’emergenza perenne contro le lotte e i movimenti https://www.carmillaonline.com/2022/10/08/la-memoria-del-presente/ Sat, 08 Oct 2022 21:56:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74338 [Riceviamo e pubblichiamo questo testo di denuncia degli attacchi forcaioli ai quali viene sottoposto Cesare Battisti da parte di esponenti del mondo politico per puri fini propagandistici e per mantenere un clima di emergenza soprattutto riguardo le lotte e i movimenti sociali. A piè di articolo il link per tutti coloro che volessero aderire.]

La memoria del presente

In queste settimane, la notizia del declassamento del regime di carcerazione a cui è sottoposto Cesare Battisti, da “alta sicurezza” a “media”, ha scatenato la solita canea reazionaria e forcaiola, [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo questo testo di denuncia degli attacchi forcaioli ai quali viene sottoposto Cesare Battisti da parte di esponenti del mondo politico per puri fini propagandistici e per mantenere un clima di emergenza soprattutto riguardo le lotte e i movimenti sociali. A piè di articolo il link per tutti coloro che volessero aderire.]

La memoria del presente

In queste settimane, la notizia del declassamento del regime di carcerazione a cui è sottoposto Cesare Battisti, da “alta sicurezza” a “media”, ha scatenato la solita canea reazionaria e forcaiola, che da sempre si accompagna alle vicende di Battisti. Inutile dire che tale provvedimento non costituisce un elemento di clemenza: il Dap ha precisato che si tratta di un atto dovuto, tutto interno alle procedure vigenti, che non “normalizza” la condizione del detenuto Battisti né influisce sull’esecuzione della pena

L’accanimento con cui si pretenderebbe la sepoltura civile di Battisti, va al di là della sua biografia o della sua fedina penale – considerando che l’ultimo reato di cui è accusato risale a 43 anni fa e l’organizzazione in cui militò si sciolse nel 1980!  Aver trasformato in questi anni Battisti in un simbolo di criminalità politica, averlo braccato ed esibito come una preda, pretendere un aggravio punitivo del suo ergastolo, rivela due elementi ormai cronici del nostro presente:

1) la memoria irrisolta del conflitto sociale degli anni 70 – soprattutto nella sua componente armata – è ancora una ferita aperta con cui l’Italia non ha saputo fare i conti;

2) la sanzione penale, soprattutto davanti alla violazione dell’ordine costituito, continua ad essere la risposta prevalente, dentro un paese livido, invecchiato, che vede un imbarbarimento del diritto, del sistema giudiziario, del carcere (fresco di stragi), e soprattutto dei rapporti sociali e degli spazi di democrazia e conflitto.

Tali elementi sono propri di un regime che, al di là di ogni ritegno, ci costringe ad uno stato permanente di emergenza, di legislazione eccezionale, di repressione politico-sindacale, colpendo i lavoratori che lottano (emblematico il caso di Modena o e Piacenza, dove si cerca nei tribunali di derubricare a reato il diritto di sciopero), imponendoci la guerra e l’economia di guerra, aprendo la strada all’impoverimento di massa.

Il fatto che gli attacchi alla memoria degli anni ’70 giungano dagli eredi della fiamma missina rende più paradossale e triste la parabola di questo paese. Siamo sicuri che piddini, forcaioli vari e garantisti a corrente alternata, condividano l’indignazione missina.

Per tutte queste ragioni, contrastare la campagna di accanimento contro Cesare Battisti, significa battersi contro la deriva antioperaia, guerrafondaia e autoritaria in cui ci stanno conducendo: appoggiare la resistenza sociale di oggi contro il riarmo, il carovita, la devastazione dei territori, dal No Muos alla Val di Susa, per un nuovo sindacalismo conflittuale.

Allo stesso modo dobbiamo riprendere la battaglia politica e culturale sulla memoria antagonista – che è il nostro retaggio, la nostra eredità; un patrimonio da rivendicare per intero, sul quale troppo spesso la sinistra di classe ha mostrato reticenze o oblii. Se non ricordiamo e raccontiamo noi, la nostra storia, saranno altri a farlo al posto nostro: contro le nostre ragioni e contro ogni opzione di trasformazione dell’esistente.

Tiziano Loreti – Nico Maccentelli – Giovanni Iozzoli

Per adesioni vai qui: https://chng.it/TcjmCSY2

]]> Fronte dell’Interporto https://www.carmillaonline.com/2022/07/22/fronte-dellinterporto/ Fri, 22 Jul 2022 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73064 di Giovanni Iozzoli

Sarà curioso leggere un po’ più approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli, relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni, provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica. Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle dichiarazioni dei magistrati è davvero [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sarà curioso leggere un po’ più approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli, relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni, provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica. Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle dichiarazioni dei magistrati è davvero disarmante. Viene da chiedersi se certe figure siano davvero consapevoli della gravità del loro agire – una retata di sindacalisti nel 2022! -, se siano in grado di valutare la sproporzione tra i loro provvedimenti e gli “episodi contestati”; se si rendano conto che una iniziativa come quella del 19 luglio va ad interferire pesantemente con l’interpretazione e l’applicazione di alcuni fondamentali diritti costituzionali.

La lettura politica di queste inchiesta, apre il giudizio a diverse opzioni: la piccola Procura di Piacenza si è ritrovata dentro una specie di delirio di onnipotenza, convincendosi di essere un organo di garanzia del buon ordine sociale; e quindi, come candidamente ammesso in alcuni stralci dell’ordinanza, ritiene suo preciso dovere “tutelare aziende e multinazionali (sic) che sono una ricchezza del territorio”? In questo caso la Procura, nel vuoto della politica, assumerebbe un ruolo di riequilibrio del rapporto di forze, in un comparto che nell’ultimo decennio ha visto l’insediamento di un sindacalismo, forse a volte caotico e litigioso, ma comunque conflittuale e classista. Oppure stanno arrivando ai magistrati input e segnali dall’alto, circa la necessità di irrigidire le maglie del controllo e della sanzione, in vista di un autunno che si presenta come uno dei più drammatici della storia italiana?

Difficile sbrigliare il nodo dei moventi che possono reggere un’inchiesta così strampalata, indubitabilmente destinata a morire prematura. Come si fa a contestare un’associazione a delinquere sulla base di episodi come la tinteggiatura dell’appartamento di un dirigente del Si Cobas da parte di un iscritto (traffico di influenze)? O il “differenziale” di buonuscita per un delegato licenziato (sì, lo confermiamo ai magistrati: liberarsi di un delegato rompicoglioni costa di più alle aziende, per una elementare legge di mercato). Oppure l’uso dei soldi delle tessere e delle percentuali sulle conciliazioni per gestire i quadri e le strutture sindacali (i Pm di cosa pensano campino gli altri sindacati? Magari hanno i bilanci certificati, ma la sostanza è quella).

La Gip nella sua ordinanza pare ossessionata dall’idea della lobby tentacolare costituita da questi sindacalisti rampanti ai danni delle aziende; ed è surreale pensare che nel paese delle lobbies – spesso occulte e criminali –, i magistrati vadano a caccia di “lobby operaie” dentro i magazzini della logistica. Del resto, la vittimizzazione dell’impresa è uno degli elementi che ricorre più spesso nell’impianto accusatorio: nel mondo alla rovescia dei magistrati, non è il sistema dei sub appalti ad avvelenare le relazioni industriali e la concorrenza; sono piuttosto i lavoratori a vessare i grandi gruppi della logistica con richieste incongrue. Ed è anche comprensibile, tale visione, perché i magistrati sono sottoposti come tutti noi alle medesime narrazioni tossiche: l’imprenditore “chiagn’ e fotte” è ormai una figura onnipervadente del nostro immaginario.

Pm e Gip hanno più volte negato, con scrupolo peloso, che la loro possa essere interpretata come un’inchiesta contro il sindacalismo di base (no: e quando mai?). Si tratterebbe piuttosto di un’azione contro “due specifiche associazioni a delinquere costituitesi all’interno delle sigle sindacali in questione”. Tra l’altro il Gip si occupa, incredibilmente, anche di valutare e censurare le politiche sindacali delle due organizzazioni – Si Cobas e USB – che competerebbero sfacciatamente tra loro per mere ragioni di potere, invece di pensare all’interesse generale dei lavoratori. Magistrati decisamente a tutto campo.

Insomma, se quello che si è letto in questi giorni, è il “meglio” che il menu della casa può servire, l’inchiesta è destinata agli archivi meno nobili della triste storia giudiziaria italiana. Per quanto giuridicamente effimera, l’azione della magistratura piacentina produce però altra repressione, altra sofferenza, mandando segnali intimidatori a tutto un mondo conflittuale e ribadendo esplicitamente che le eccessive richieste economiche contro “le multinazionali” sono un’estorsione e che la contrattazione può diventare un reato.

Bisogna schierarsi esplicitamente dalla parte del sindacalismo di base (come correttamente hanno fatto anche le minoranze in CGIL e tutta la sinistra di classe) e alzare la soglia della mobilitazione tutte le volte che la violenza di Stato si scaglia sulle organizzazioni popolari. Inutili i distinguo e gli attendismi: queste iniziative repressive meritano una lettura e una risposta politica complessiva. E la società e l’opinione pubblica, vanno assolutamente coinvolte: non si può assistere all’indignazione a reti unificate dei nostri TG mentre arrestano gli oppositori a Mosca, e permettere loro di girare la testa dall’altra parte a Piacenza.

Quanto alle Procure, anche senza grandi dibattiti sulla divisione delle carriere, se si stabilisse una norma per cui i Pm sono economicamente responsabili delle spese di certe inchieste farlocche – ingentissime, immaginiamo: 5 anni di indagini, centinaia di ore di intercettazioni, schedature di massa, forze di polizia, interpreti e consulenti all’opera – , certi magistrati, dicevo, smetterebbero di occuparsi della tinteggiatura di interni e comincerebbero a pensare di più alle infiltrazioni mafiose – quelle reali – dentro al “tessuto economico” che vorrebbero preservare dalle orde sindacalizzate.

Il vecchio vizio di certi segmenti di magistratura è sempre lo stesso: pesca a strascico dentro un ambiente o un contesto, protratta per anni, con ogni mezzo di indagine possibile; e poi, su questa mole caotica di carte, l’edificazione di un teorema, solitamente debole o fantasioso. Perché il paradosso italiano, negli inferni della logistica, è sempre lo stesso: sono i rivoluzionari “associati a delinquere”, quelli che, in ultima analisi, difendono la legalità e aiutano lo Stato a recuperare enormi introiti facendo emergere il nero e il grigio delle elusioni fiscali e contributive; mentre la buona borghesia della provincia padana ha assistito in compiaciuto silenzio per un quarto di secolo al proliferare di ogni abuso, truffa e illegalità.

L’inchiesta indugia morbosamente sulle faccende di soldi e contabilità, insinuando il sospetto che tutte le lotte non siano altro che il paravento dei modestissimi introiti di cui vivono i sindacalisti (attività defatigante, in certi ambienti anche pericolosa). Nell’ottica del perbenismo piccolo borghese parlare di soldi è peccaminoso o improprio e suscita immediata diffidenza. In tal modo i magistrati, lisciano il pelo al comune sentire “anti-politico”, al qualunquismo passivizzante: sembrano dire all’opinione pubblica: non vi fidate, sono tutti ladri, non seguite certe bandiere, state a casa che è meglio. Quello che vi serve vi arriverà dall’alto, senza bisogno di agitarvi troppo. I lavoratori – quelli che in questi giorni stanno scioperando e manifestando contro gli arresti – sono raffigurati come bambini ingenui, raggirati da dirigenti marpioni che hanno usurpato la loro fiducia.

Ovviamente non è la vil moneta, al centro dell’attenzione dei magistrati: lo scandalo vero sono i picchetti, le agitazioni senza preavviso, il blocco delle merci, le vertenze aziendali per rinforzare una contrattazione nazionale esangue. La Procura ventila il reato di “sabotaggio” (tipico di un contesto di guerra), e in effetti queste migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno rappresentato in questi anni un’efficace avanguardia di sabotatori: hanno sabotato il modello emiliano fondato sulle finte cooperative e il semischiavismo, hanno sabotato le complicità sindacali e il comparaggio politico, hanno sabotato il conformismo omertoso che aveva regnato in certi territori della ricca Padania peggio che in Aspromonte. Altro che i quattro soldi delle conciliazioni: al centro dell’azione della Procura c’è lo scandalo di proletari che si organizzano, che rovesciano le filiere etniche dello sfruttamento in forza operaia, che mettono i piedi nel piatto dell’organizzazione del lavoro, della prestazione, degli orari, della dignità. I “delinquenti associati” di Piacenza sono quelli che in questi anni, dentro ai cancelli degli stabilimenti, hanno paradossalmente soltanto difeso la Costituzione repubblicana – uno dei lavori che gli italiani non vogliono fare più.

Aldo Milani e Arafat sono già al secondo arresto. Abdel Salam Al Nanf, ammazzato a Piacenza nel 2016 nel corso di un picchetto “criminale”, aspetta ancora giustizia. La modifica dell’art. 1677 del codice civile per eliminare la responsabilità in solido del committente negli appalti, è l’ultimo regalo di Draghi ad Assologistica e Confindustria, un attimo prima di cadere. Il Pm Pradella ha subito dichiarato che le manifestazioni non autorizzate di questi giorni saranno oggetto di provvedimenti specifici. Cartoline italiane da Piacenza.

]]>
Che le parole diventino pietre https://www.carmillaonline.com/2022/06/30/che-le-parole-diventino-pietre/ Wed, 29 Jun 2022 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72623 di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in [...]]]> di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in cui ogni pagina investe fisicamente il lettore e la lettrice: a volte come una lancia trafigge lo stomaco, altre, come un balsamo, provoca sollievo.

Si tratta del diario di Nicoletta Dosio, insegnante pensionata di greco e latino, militante No Tav, condannata per una manifestazione pacifica al casello autostradale di Avigliana nel 2012 e finita in prigione alla fine del 2019 per aver rifiutato di «fare atto di sudditanza con la firma quotidiana» ritenendo di non aver nulla di cui rispondere.
È un libro dal quale non si esce indenni. È costruito con frasi brevi, semplici, prive di enfasi, anche a fronte degli episodi più mortificanti. La prosa è una diga di dignità che trattiene una rabbia temibile, un sentimento cresciuto in trent’anni di lotte nella Val di Susa, non solo contro opere dannose e inutili, ma contro un intero sistema sociale basato sull’ingiustizia e sullo sfruttamento. Non è casuale che leggendo queste pagine mi siano tornate in mente quelle famose e asciuttissime di Banditi (Einaudi, 1975) di Pietro Chiodi: anche lui in un’epoca diversa, durante la Resistenza, insegnò e combatté in Piemonte.

Insieme alla rabbia troviamo la nostalgia per le vecchie vigne ormai sradicate, i boschi della Clarea, gli affetti, la casa e le sue creature domestiche. Poi c’è la speranza: «che le parole diventino pietre, materia vivente per la barricata della primavera che dovrà venire.» Sono le pagine più poetiche. Parlano della luna oltre le sbarre, di un ciliegio fiorito, del volo di una coccinella, di uno scarafaggio salvato dallo scarpone di una secondina, di un concerto No Tav vicino al carcere che rafforza il morale delle detenute, del grido di un gabbiano: «sa di avventura e di malinconia» e ricorda il mare, da qualche parte, al di là delle mura.

«Da quest’esperienza una cosa l’ho imparata» conclude Dosio: «che il fine esplicito e istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza cieca». Si tratta di «un’istituzione totale fondata su principi non certo di giustizia, ma di repressione e di vendetta, controproducente per qualsiasi volontà di riscatto.» E infatti vi troviamo rinchiusi immigrati, rom, sinti, italiani di origini umilissime e si fa di tutto per spedirci quanti più No Tav possibili, tra le migliaia di indagati. Di certo non vi soggiornano i potenti, nonostante le frequenti infrazioni delle norme da loro stessi concepite.

Infine, in un giorno di primavera, nel periodo più drammatico della pandemia, l’autrice esce: «Mentre percorro il corridoio, parte la battitura di saluto. Le trovo tutte, queste mie sorelle, affacciate ai blindi. Battono le sbarre, mi gridano saluti, mi chiedono di non dimenticarle, di raccontare di loro quando sarò fuori». Potrebbe accadere anche a voi, che, terminato il libro, vi sorprendiate a picchiare il pugno sul tavolo.

]]>